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Enrico Crippa vince il Grand Prix de l'Art de la Cuisine. Miglior chef del mondo per l'Academie Internationale de la Gastronomie

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Lo chef di Alba, dove dirige la cucina di Piazza Duomo, riceve l'ambito riconoscimento dall'Assemblea internazionale riunita a Parigi, che ogni anno, dal 1990, assegna il Grand Prix agli chef più significativi della cucina contemporanea. 

Il Grand Prix della cucina

Ancora un trionfo in terra francese per l'Italia dell'alta cucina. Stavolta però Parigi – che qualche mese fa aveva eletto Giovanni Passerini come miglior chef della città, con i riconoscimenti assegnati da Le Fooding – fa solo da cornice all'incoronazione di Enrico Crippa come miglior cuoco del mondo per l'Academie Internationale de la Gastronomie, che qualche ora fa gli ha assegnato all'unanimità il Gran Prix de l'Art de la Cuisine. Prima di lui, nel 2010, un altro italiano eccellente della cucina, Massimo Bottura, era riuscito ad aggiudicarsi il premio (ma negli annali si contano anche Alfonso Iaccarino nel 2000, Nadia Santini nel 1998, Giorgio Pinchiorri e Annie Feolde nel 1993), che tra gli addetti ai lavori è considerato alla stregua di un Nobel. L'Accademia di stanza a Parigi, infatti, riunisce delegazioni nazionali da tutto il mondo gastronomico che insieme si spendono per la salvaguardia e lo sviluppo dei patrimoni gastronomici regionali e nazionali e favoriscono allo scopo iniziative a carattere culturale, educativo, nutrizionale e turistico. Oltre alla ricerca scientifica di settore. Nell'ambito delle sue attività, ogni anno l'Assemblea Generale Ordinaria attribuisce quattro Grand Prix, per la Cucina, la Cultura Gastronomica, la Scienza dell'Alimentazione, il Servizio di sala.

 

Enrico Crippa è il miglior cuoco del mondo

Il primo, che su proposta del Vice presidente Paolo Petroni spetta per il 2017 allo chef di Piazza Duomo, è stato istituito nel 1990 e ha premiato in oltre 25 tanti talenti della cucina d'autore internazionale, da Juan Mari Arzak ad Alain Ducasse, da Heston Blumenthal a Michel Bras, da Grant Achatz a Daniel Boulud, al compianto Benoit Violier poco prima che si togliesse la vita. Il primo a riceverlo, nel '90, fu Joel Robuchon; l'ultimo, nel 2016, un altro francese sempre più solido al vertice della cucina nazionale, Yannick Allenò, che ha recentemente bissato le Tre Stelle a Courchevel. Intercettato da Alessandra Meldolesi per Reporter Gourmet, Enrico Crippa si è detto molto soddisfatto del riconoscimento, in attesa di scoprire data e luogo della cerimonia che sancirà il premio. “Per chi fa il cuoco, un premio che ha una simile denominazione in francese ha tutto un altro sapore. A maggior ragione se ha formato gran parte della sua cucina oltre confine” racconta Crippa a Reporter Gourmet. Poi rivela che “Gualtiero Marchesi mi ha chiamato per farmi i complimenti, un gesto che mi ha emozionato”. E dedica il premio alla famiglia Ceretto e alla sua brigata. Oltre che alla sua famiglia e a mamma Adriana.


Food, Wine and Music alla Città del gusto di Roma. Il calendario degli appuntamenti

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Dal 16 marzo, fino alla fine dell'estate, la Città del gusto di Roma ospiterà ogni mese un appuntamento all'insegna del buon cibo, vino e musica, per fare festa insieme agli ospiti della Gambero Rosso Academy. Il calendario degli eventi e come partecipare. 

Food, Wine and Music col Gambero Rosso

L'esordio di un anno fa, poco prima dell'inizio dell'estate, ha aperto per la prima volta al pubblico le porte della Città del gusto di Roma, nella sede a pochi passi da Villa Pamphili, che dopo il trasloco di un paio d'anni fa riunisce attività formative ed editoriali del Gambero Rosso. E con l'arrivo della primavera c'è ancora voglia di fare festa, insieme a tutti gli amanti del buon cibo e della convivialità. Così giovedì 16 marzo sarà l'appuntamento con la grande degustazione di Anteprima Fiere Vino a tenere a battesimo il calendario delle iniziative Food, Wine and Music in programma per i prossimi mesi. La manifestazione ideata dalla Gambero Rosso Academy animerà la Città del gusto di Roma a cadenza mensile per tutta l'estate, proponendo al pubblico capitolino appuntamenti che uniscono due diverse facce dell'intrattenimento: l'enogastronomia e la musica. Accanto alle preparazioni, alle degustazioni di portate a tema e a buoni calici di vino ci saranno Dj set, concerti unplugged, performance e altre forme di spettacolo classiche o dallo stile contemporaneo, con la possibilità di partecipare a lezioni di cucina durante la festa, ogni terzo giovedì del mese, da marzo a settembre. A partire dalla degustazione delle migliori etichette d'Italia selezionate dalla guida Vini d'Italia 2017, in compagnia delle cantine premiate con i Tre Bicchieri, presenti dalle 19 alle 23 nella corte della Città del gusto, per una sera allestita con banchi d'assaggio, con accompagnamento musicale dal vivo.

 

Il calendario degli appuntamenti

Il 20 aprile si prosegue con Food, Wine, Music... &Beer: in degustazione diverse tipologie di birra, in abbinamento con specialità gastronomiche preparate nelle cucine dell'Academy. E musica rock a suggellare la festa. Giugno (giovedì 15) sarà il mese della frutta, con Food, Wine, Music e Fruit, con cocktail a base di frutta, vini selezionati, finger a tema e musica caraibica dal vivo; mentre a luglio, il 20 del mese, le porte della Città del gusto si apriranno ai Segreti dell'Asia, con specialità della cucina cinese, giapponese e thai in abbinamento a vini selezionati. E immancabile musica d'accompagnamento. Chiude il calendario, il 21 settembre, l'appuntamento con lo Street food e i food truck in arrivo dalle strade della città. Da bere birra e vino, musica urban a movimentare la festa. Tutti gli eventi possono essere acquistati sullo store online del Gambero Rosso, al costo di 20 euro a persona, che comprende di volta in volta l'accesso alle consumazioni base. I posti sono limitati, affrettatevi a prenotare!

 

Qui il programma completo della manifestazione e le modalità di prenotazione www.gamberorosso.it/it/food-wine-and-music

Parabere Forum 2017 a Barcellona. Protagoniste le donne del cibo, da Ana Roš ad Antonia Klugmann

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Due giorni di incontri con chef, agronome, attiviste, giornaliste in arrivo da tutto il mondo a Barcellona. Parabere Forum 2017 si concentra sulla sostenibilità nel settore alimentare e del vino. Appuntamento all'Università di Barcellona il 5 e 6 marzo.  

Parabere Forum

È il primo forum al femminile dedicato all'enogastronomia, una sorta di provocazione fortemente voluta dalla giornalista e critica gastronomica Maria Canabal, ideatrice dell'omonima piattaforma internazionale no profit, di cui è presidente, che prende il nome dalla Marchesa di Parabere, pseudonimo di María Mestayer de Echagüe, autrice di storia e gastronomia, che ha contribuito alla codificazione di ricette della cucina spagnola. Canabal è partita da un dato: le donne sono solo solo il 10% dei conferenzieri e degli ospiti che presenziano ai più importanti eventi gastronomici mondiali. Di contro, nel mondo, il 98% dei prodotti alimentari è coltivato dalle donne. Partendo da questo assunto la giornalista spagnola ha indetto nel 2015 il primo momento di incontro e scambio, che ha riunito a Bilbao le donne di talento capaci di rappresentare un punto di vista fondamentale per migliorare la società attraverso il cibo. Che fossero imprenditrici, opinion leader, chef o ambasciatrici di valori importanti. Dopo i Paesi Baschi è stata la volta dell'Italia, precisamente a Bari. E quest'anno si torna in Spagna: tocca a Barcellona.

La terza edizione a Barcellona

L'edizione 2017, ospitata nella capitale catalana, ha come tema principale la sostenibilità, sia a livello ambientale che lavorativo. Due giornate, il 6 e 7 marzo, fondamentali per accendere i riflettori su tutte quelle professioniste che lavorano nel mondo della gastronomia. Due le italiane che interverranno sul palco: Antonia Klugmann, che parla della sua esperienza all'Argine a Vencò, al confine con la Slovenia, con focus sull'agricoltura sostenibile, e Cristina Franchini, portavoce alle Nazioni Unite che analizzerà le connessioni fra sviluppo, sostenibilità e migrazioni internazionali. Tra le relatrici anche Ana Roš, nominata migliore cuoca donna del mondo da The World’s 50 Best Restaurants 2017, che partecipa al dibattito “Alla ricerca delle donne chef” insieme alla giornalista Vérane Frédiani, alla brasiliana Roberta Sudbrack, a Fina Puigdevall del ristorante Les Cols a Olot, a Dominique Crenn di Atelier Crenn a San Francisco e Mehmet Gurs, chef e socio di 19 locali tra cui Mikla di Istanbul. Tra le presenze maschili sul palco anche un ambasciatore della cucina spagnola che gioca in casa, Joan Roca, al quale è stata affidata la conclusione del congresso con la relazione “Cucinare con consapevolezza”.

 

Parabere Forum | Barcellona | Università di Barcellona, Gran Via de les Corts Catalanes, 585 | 5 e 6 marzo 2017 | dalle 9.00 alle 18.00 | http://parabereforum.com

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

Voci dal Master. Il Mercato Centrale di Roma e i suoi problemi a 5 mesi dall'inaugurazione

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A cinque mesi dalla sua apertura abbiamo indagato le problematiche del Mercato Centrale di Termini, tra segnaletica insufficiente, spazi non sempre adeguati e critiche ai prezzi. Il progetto va benissimo, intendiamoci, ma abbiamo chiesto ai nostri studenti del Master inGiornalismo e Comunicazione d’impresa dell’enogastronomia di cercare i peli nell'uovo che, come naturale che sia, non mancano mai.

Un condominio: il direttore del Mercato Centrale Domenico Montano, figlio dell'ideatore del progetto Umberto, definisce proprio così la grande macchina che gestisce. Un condominio giovane, eppure già in evoluzione e molto affiatato. Basti pensare che il Mercato Centrale di Roma, inaugurato lo scorso 5 ottobre negli spazi dell’ex dopolavoro ferroviario della stazione Termini e fratello minore della sede fiorentina nel quartiere di San Lorenzo, ha già visto alcune modifiche. Da Gazometro 38 in zona Ostiense è arrivato un mese fa il pizzaiolo Pier Daniele Seu, e sono stati aggiunti il banco del sushi e quello del vino al bicchiere firmata da Luca Boccoli.

 

Gli spazi non sono sempre sufficienti

Al Mercato Centrale la cosa che salta più agli occhi è l’ampio spazio dedicato al cibo. Ma questo non è tutto, perché non sempre è agevole muoversi tra i banchi degli artigiani, specie nei giorni di grande affollamento in cui trovare un tavolo libero diventa complicato. A questo proposito è interessante ascoltare la voce di chi tra quei tavoli ci lavora, come la cameriera Tina Scafuto: “Lavorare in questo ambiente è molto stimolante, si ha l’opportunità di interagire con persone diverse ogni giorno e questo è senz’altro interessante. La difficoltà può crearsi nei weekend o festivi in cui si genera una maggiore affluenza e muoversi tra i tavoli non è agevole, correndo anche il rischio di dare fastidio ai clienti a causa della difficoltà nei movimenti. Sarebbe opportuno uno spazio leggermente più ampio così da muoversi con più agilità dando un servizio più veloce”.

 

Mercato centrale Roma

 

Troppo grande o troppo piccolo?

Mai avrei pensato di trovare un posto migliore della mia Campo de’ Fiori”, racconta Alessandro Conti, titolare di una bottega di ortofrutta nella celebre piazza della Capitale, “e invece qui mi sento a casa,è un posto in cui quando mi alzo la mattina vado volentieri, mi piace stare in mezzo alla gente, e anche dal punto di vista economico ho visto crescere enormemente la mia attività”. Ma ci sono alcune caratteristiche da perfezionare, perché a lui e a Gabriele La Rocca, con cui condivide il banco dedicato a funghi e carciofi, è toccato però l’ultimo degli spazi disponibili e le sue dimensioni sono piuttosto ridotte. “Il problema per me è lo spazio”, ci spiega Conti, “siamo arrivati per ultimi e ci hanno ricavato un banco che si è subito rivelato troppo piccolo, per la mia attività non è una problematica enorme ma avrei bisogno di una cella frigorifera e di poter mettere i rifiuti senza dover attraversare il mercato con i carrelli pieni di scarti ingombranti”. Anche solo trasportare le casse di verdura e trasportare gli scarti fuori, non avendo grande spazio di manovra, implica una perdita di tempo non indifferente “ quindi ho dovuto assumere un ragazzo addetto solo a questo lavoro, un costo supplementare di cui se potessi farei a meno”.

Per fortuna il banco accanto, quello di Beppe Giovale e i suoi formaggi, non utilizza tutto il suo spazio e ospita spesso Conti. La problematica inversa, invece, ce l’hanno i fratelli Edoardo Massimiliano Galluzzi:“il nostro banco del pesce è troppo grande”, commenta Edoardo,“abbiamo due vetrine e riempirle del tutto è complicato”. Ma non è l'unico problema per i Galluzzi.

 

Mercato centrale Roma

Non è facile per tutti raggiungere gli obiettivi prefissati

In un contesto molto vario come offerta non tutti gli artigiani hanno la stessa attrattiva. È un aspetto specifico legato ai vari tipi di offerta. Un esempio è proprio la pescheria di Eduardo Galluzzi,che traccia un bilancio dei primi mesi all'interno di un format così eclettico: “Avere la possibilità di aprire la mia pescheria qui dentro è certamente un vantaggio quanto a immagine. Questa per me è una vetrina nella quale rafforzare la mia azienda, già molto conosciuta a Roma”. Ma c'è un ma. “Il problema è relativo alla vendita diretta di pesce fresco. In un luogo del genere di solito il cliente viene per mangiare, e spesso solo di passaggio, quindi la vendita di pesce fresco può essere complicata. Sui nostri preparati invece le cose funzionano meglio, anche se i numeri non sono ancora quelli sperati. Insomma l’esperienza è positiva sotto molti punti di vista, sicuramente è ancora lento il ritorno economico se pensiamo specialmente al potenziale della struttura”.

 

L’esempio fiorentino

Un’altra complicazione riscontrata a Termini, e già superata a Firenze, è quella del rapporto tra gli artigiani e la clientela. Molti di loro non sono mai stati ristoratori e, con l’apertura del Mercato, hanno iniziato per la prima volta a fare somministrazione. Anche per queste ragioni la direzione ha deciso di creare una sinergia tra il guru della carne Roberto Liberati (banco n. 2 nella sede romana) e la famiglia Savigni, che ai visitatori del Mercato Centrale di Firenze propone bovino, pollame e salumi di qualità. “Liberati è un ottimo selezionatore di carne”, precisa Montano, “e dal confronto con Savigni non potrà che migliorare in tutto ciò che riguarda la vendita”.

 

 

La segnaletica

Tra le difficoltà del Mercato Centrale non c’è la rivalità o l’antagonismo degli artigiani, che anzi collaborano e apprezzano l’enorme potenzialità di questa vetrina. Una vetrina per artigiani, prodotti e produttori, ma anche per una zona di Roma critica e spesso evitata dai cittadini. “Stiamo portando i romani a Termini anche la sera e per noi è una vittoria”, sottolinea il direttore Montano, “abbiamo creato un Info Point a cui tutti possono rivolgersi per richiedere informazioni sulle 17 botteghe, sul ristorante che si trova al secondo piano e sulle attività che organizziamo”.

A confermarci questo aspetto c’è Pier Daniele Seu: “da poche settimane sono alla guida della pizzeria e non posso lamentarmi perché trovo tutto molto efficiente e ben organizzato. La scarsa attrattiva di Termini è un problema che il Mercato sta iniziando a risolvere”, precisa il pizzaiolo, “anche se c’è ancora un aspetto da migliorare: questo spazio è segnalato troppo poco all’interno della stazione e così capita che le persone non sappiano dove sia il Mercato.Bisognerebbe migliorare questo per rendere il posto praticamente una macchina perfetta”. Infatti chiunque sia appassionato di cucina nella capitale sicuramente saprà arrivare al Mercato Centrale. Non vale lo stesso però per i meno informati o i turisti a cui si potrebbe indicare in modo più evidente il Mercato. Anche la stessa dirigenza lamenta un problema di sinergia con la Grandi Stazioni Rail SPA, titolare dello spazio nella stazione Termini. L'obiettivo è di riuscire finalmente a trovare una collaborazione adeguata per far sì che venga installata una segnaletica che permetta a chiunque di potersi incuriosire e fare un passaggio all’interno del Marcato Centrale.

 

Mercato centrale Roma

 

Tra cibo e arte

Con la sua brigata Seu sforna tra le 400 e le 500 pizze al giorno, a volte ritenute troppo care: “all’inizio in molti trovano i prezzi alti”, spiega Seu, “poi percepiscono la qualità e le lamentele finiscono”. Questa problematica è constata anche dalla direzione: “le recensioni negative sul Mercato Centrale riguardano quasi tutte i prezzi”, ribadisce Montano. Tra una margherita a 8 euro e i trapizzini di Stefano Callegari a 4, il Mercato riceve le stesse critiche che tre anni fa colpirono la sede fiorentina. Lì però la soluzione fu trovata mettendo a disposizione del pubblico una serie di servizi aggiuntivi gratuiti. “Abbiamo organizzato numerosi progetti collaterali, garantito il wifi gratis e portato all’interno del Mercato opere di artisti come Pistoletto e Ai Weiwei” racconta “in questo modo abbiamo mitigato la percezione sul prezzo e reso il Mercato un luogo in cui non solo mangiare, ma dove poter usufruire di molto altro”. A Roma tutto questo sta iniziando a prendere vita, ma serve ancora del tempo per costruire stabili legami con il territorio e le istituzioni.

 

Mercato Centrale | Cappa Mazzoniana | Roma | via G. Giolitti, 36-38 | www.mercatocentrale.it 

 

a cura di Agnese Fioretti ed Enzo Di Giambattista

 

prova del Master in Giornalismo e Comunicazione d’impresa dell’enogastronomia del Gambero Rosso

Growroom. La sfera giardino di Ikea e Space 10 per coltivare in casa

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Ikea e Space 10, un laboratorio di design danese, un anno fa hanno lanciato Growroom, un pezzo di arredamento che è anche una sfera in cui far crescere piante e verdure. Ora le istruzioni per costruirla sono disponibili online.  

La Growroom

Pensata per ospitare erbe aromatiche, ortaggi, fiori e piante, l'innovativa struttura di compensato è stata progettata da due giovani architetti danesi, Mads Ulrik Husum e Sine Lindholm, per lanciare un'agricoltura urbana facile da replicare. I due, che lavorano in Space 10, un laboratorio di ricerca e spazio espositivo a Copenhagen lanciato da Ikea nel 2015, l'hanno ideata con la speranza di veder proliferare le sfere green in ogni città, quartiere, condominio del mondo. Ecco spiegate le dimensioni (quasi) ridotte: siamo nell'ordine di 2,8 x 2,5 metri. Sul sito di Space 10 si legge: “Il cibo locale rappresenta una seria alternativa al modello di cibo globale a cui siamo abituati. Riduce l'impatto ambientale ed educa i bambini a capire la provenienza di quello che mangiamo. Il risultato sul tavolo da pranzo è altrettanto affascinante: con la Growroom potremmo produrre alimenti con un sapore migliore, biologici e sani. Lanciamo dunque la sfida all'agricoltura tradizionale che tra l'altro soffre la mancanza di spazio, soprattutto in ambienti urbani”.

Mads Ulrik Husum e Sine LindholmMads Ulrik Husum e Sine Lindholm

Come funziona

La Growroom, pensata per essere collocata in ogni contesto e in qualsiasi circostanza, è caratterizzata da ripiani sovrapposti di compensato checonsentono l'ingresso della giusta quantità di luce e un'adeguata distribuzione dell'acqua. Tutto mirato a creare un ambiente in cui i vegetali possano crescere e in cui gli esseri umani possano entrare e trovare riparo, da pioggia o sole.

Il primo modello di Growroom è stato costruito lo scorso anno ed è stato esposto alla Chart Art Fair di Copenhagen. Inizialmente fu distribuito in giro per il mondo, ma per essere in linea con la filosofia del Km 0, Space 10 ha bloccato le distribuzioni. Attualmente non è in vendita nei negozi Ikea e si può costruire grazie alle istruzioni e ai file di taglio CNC pubblicati nel sito di Space 10. L'occorrente? 17 fogli di compensato, 500 viti, una sega o una macchina per il taglio laser, cacciavite, martelli e tanta pazienza. Poi seguite i 17 step delle istruzioni e il gioco è fatto. Ancora una volta Ikea, con la sua filosofia del fai da te, non si smentisce. Buona fortuna.

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

La Calabria in 10 biscotti tradizionali e la ricetta delle straccette della pasticceria Scutellà

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Petrali, cuddhuraci, marzelletti, ‘ncinetti. Sono i biscotti calabresi, specialità dalle forme inusuali, spesso fantasiosamente decorati. Per la rubrica sui biscotti regionali vi raccontiamo 10 dolci tipici e la ricetta delle straccette della pasticceria Scutellà, Due Torte nell’edizione 2017 della guida Pasticceri&Pasticcerie.

Anche in Calabria i biscotti hanno tradizioni secolari, tramandati di generazione in generazione, frutto di un territorio ricco di risorse ma anche complesso, che alterna profili dolci a linee più aspre. La grande varietà di questi dolci è legata sia alle tradizioni religiose, con le specialità che venivano - e vengono tuttora - portate ai santi patroni come offerte rituali, sia al mondo contadino, come si nota dalle forme che riproducono cavalli, capre, pesci e altri animali, simboli del legame dell’uomo con il suo territorio. Questa volta vi portiamo in Calabria, con 10 tipi di biscotti e la ricetta delle straccette della pasticceria Scutellà, Due Torte nell’edizione 2017 della guida Pasticceri&Pasticcerie.

 

Cuddhuraci

Iniziamo da tipici biscotti pasquali dalle origini molto antiche. Secondo la tradizione orale una versione salata di questa pietanza sarebbe stata portata dagli ebrei durante la fuga dall’Egitto. Nel corso della storia la ricetta si è man mano modificata, ma gli ingredienti di base sono sempre gli stessi: farina, acqua e zucchero. Una volta creati i dolcetti - la cui forma è solitamente tondeggiante ma può variare secondo le funzioni del dolce - al centro si inserisce un uovo sodo. Ricordo dell’antico pane ebraico, con l’uovo a simboleggiare la prosperità futura di coloro che consumano il biscotto. Nella tradizione locale, sono lezite, le fidanzate, a preparare questi dolci per i promessi sposi, nel giorno di Pasqua: saranno poi consumati durante la scampagnata di Pasquetta, chiamata dai calabresi Pascuni. Da non confondere con i cuddrurieddri, che sono invece ciambelline a base di farina e patate lesse, che vengono fritte e consumate sempre nel periodo pasquale. Dolci simili ai cuddhuraci si trovano anche in Sicilia, Puglia e Basilicata.

 

CuddhuraciCuddhuraci

 

Cuzzùpa o 'nguti

Questi biscotti, diffusi in provincia di Crotone, sono chiamati con nomi diversi secondo la zona di produzione (oltre a quelli citati anche vutao, anguta esguti). Si tratta di un tipico dolce pasquale con l’uovo sodo al centro, molto simile ai cuddhuraci La differenza sta nella consistenza e nelle dimensioni: la cuzzùpa ha una pasta più dura e forme più simili a quelle dei biscotti, malgrado mantenga il nome al singolare; i cuddhuraci, invece, somigliano più a un pan brioches, sia per le sembianze che per la morbidezza.

La cuzzùpa può avere varie forme, solitamente lettere dell’alfabeto o animali come galline, pesci e capre. A fine cottura si cosparge con un naspro fatto con zucchero, bianco d'uovo e succo di limone.

Si tratta di un dolce legato alle relazioni amorose:la tradizione crotonese vuole che sia la suocera a preparare un dolce a forma di cuore, per regalarlo poi ai futuri sposi. In questo caso, spesso si trovano diverse uova al centro, a simboleggiare la prosperità futura della coppia.

 

CuzzupaCuzzupa

 

Marzelletti di Soriano Calabro

Biscotti tipici di Soriano Calabro, piccolo borgo in provincia di Vibo Valentia, insieme ai mostaccioli, sono dolcetti dalle origini molto antiche: si narra che siano giunti a Soriano grazie a un monaco misterioso, che li avrebbe regalati alla popolazione, per poi sparire nel nulla. Gli abitanti di Soriano sarebbero riusciti a fare i biscotti, riproducendo esattamente la ricetta sconosciuta. Fonti molto più certe dicono invece che furono i monaci certosini, e poi anche i domenicani, a insegnare l’arte della pasticceria ad alcuni abitanti di Soriano, che crearono poi questa specialità. Per prepararli a casa servono farina 00, miele - di acacia per dare un tocco più delicato, di castagno per una nota più decisa - mandorle tostate, uova, zucchero, vino cotto, scorza di limone, chiodi di garofano e cannella a piacere.

 

Marzelletti di Soriano CalabroMarzelletti di Soriano Calabro

 

Mostaccioli calabresi

La versione dei mostaccioli di Soriano Calabro è abbastanza differente da quelle campana e pugliese: qui i mostaccioli sono biscotti duri e compatti, di varie forme, decorati da intagli e pezzettini carta stagnola colorata, da staccare prima di consumarli: delle opere d’arte in miniatura.

Per prepararli servono farina 00, miele, meglio se di fichi, acqua e mosto d’uva. Una volta setacciata la farina, si aggiunge l’acqua tiepida, il miele sciolto a bagnomaria e il mosto caldo. Si amalgama il tutto fino a ottenere un composto abbastanza omogeneo e si suddivide la massa in piccoli panetti, per creare le sembianze desiderate: gli abitanti di Soriano gli danno la forma di pesce, capra, cavallo, donna, paniere, cuore, ma anche di sagome più fantasiose, o “a goccia”. Naturalmente, a casa è difficile riprodurre le decorazioni, ottenute a intaglio dai maestri mostazzolari e rifinite con l’aggiunta di piccoli pezzi di carta stagnola di varie tonalità: ma nulla vieta di provare a creare degli abbellimenti incidendo la pasta con un coltellino a punta, senza affondare troppo la lama nella massa.

Una volta formati, i mostaccioli devono cuocere in forno per mezz’ora, o fino a doratura completa, a 180 gradi circa. Una volta cotti hanno bisogno di qualche giorno per assumere la consistenza ideale.

 

Mostaccioli calabresi e marzellettiMostaccioli calabresi e marzelletti

 

'Ncinetti

Biscotti provenienti da Vibo Valentia, tipici dei banchetti nuziali ma preparati anche per la Domenica delle Palme. Simili a taralli dolci, la loro origine si è persa nel tempo, ma pare fossero diffusi nel territorio cittadino già dal 1200 circa. Non è ben chiaro il significato del nome: potrebbe derivare dalla parola uncinetti, l’antica forma dei biscotti oggi diventati ciambelline, oppure potrebbe essere un riferimento alla glassa all’anice con cui sono ricoperti.

Realizzarli è semplice, basta mischiare la farina 00 con le uova, l’olio extravergine d’oliva, lo zucchero, il lievito per dolci e un pizzico di sale. Una volta formate le ciambelline si mettono in forno finché non diventano leggermente dorate. Quando sono cotte si ricoprono di una glassa aromatizzata all’anice, ma oggi si trovano anche delle varianti con una copertura al limone.

 

'Ncinetti'Ncinetti

 

Pastette o savoiardi calabresi

Sono i tipici biscotti da inzuppo, diffusi un po’ in tutta la regione con varianti sia nella ricetta che nel nome. Si preparano con farina 00, zucchero, uova, latte usato sia nell’impasto che per spennellare i biscotti, lievito per dolci, olio d’oliva, scorza di limone. Sul tavolo di lavoro già infarinato si uniscono gli ingredienti formando una sfoglia alta 4 centimetri, da cui si ricavano dei biscotti stretti e lunghi, più o meno di 12-15 centimetri. A questo punto si rigano con un coltello o una rotellina per biscotti, si spennellano con il latte e si ricoprono di zucchero semolato. Resteranno in forno alla massima temperatura per 10-15 minuti circa, finché non assumeranno il tipico colore dorato tendente al bruno. I calabresi li mangiano a colazione o merenda, inzuppandoli nel tè, nel caffellatte o nella cioccolata calda.

 

PastettePastette

 

Petrali

Ci spostiamo sulla costa tirrenica per approdare a Reggio Calabria, dove per Natale si realizzano queste specialità di pasta frolla, a metà fra biscotti e dolci. L'origine è incerta, ma secondo la tradizione locale sarebbero stati creati da un prete e dalla sua perpetua.

La tipica forma a mezzaluna nasconde un ripieno goloso e zuccherino fatto con fichi secchi tritati lasciati macerare per diversi giorni nel vin cotto e poi mescolati al miele, pezzettini di cedro, mandorle, noci, uva passa, scorze di agrumi: in pratica i rimasugli della dispensa dei dolci. Nelle versioni moderne il ripieno è un po’ semplificato e spesso non si trova più il cedro, ma vengono aggiunti cacao o caffè per dare un gusto più deciso.

La pasta si fa con farina 00, strutto (spesso sostituito dal burro nelle versioni moderne), zucchero, lievito, vino liquoroso e scorza di limone, di arancia o di mandarino. Una volta preparate massa e farcia, si stende l’impasto e si ricavano dei cerchi dal diametro di circa 10 centimetri. Si mette un cucchiaino colmo di ripieno su ogni tondino e si richiudono a mo’ di mezze lune. A fine cottura si ricoprono con una glassa bianca o al cioccolato e, quando la glassa è ancora calda, si cospargono di confettini di zucchero colorati, che i calabresi chiamano diavulicchi.

PetraliPetrali

San Martine

Le san martine (o san martini) sono biscotti tipici del periodo natalizio, in origine preparati per la festa di San Martino, come si evince dal nome, quando si apriva il vino novello. Sono dolcetti di pasta frolla all’olio extravergine, farciti in diverso modo secondo le ricette locali. Per fare la pasta servono farina, uova, zucchero, olio d’oliva, lievito per dolci e un pizzico di sale. Una volta creata la massa si tagliano dei dischetti dal diametro di circa 10 centimetri e se ne pizzicano i lati, in modo da formare dei cestini.

Il ripieno va invece preparato il giorno precedente, in modo che rassodi e perda l’acqua in eccesso. Due le varianti principali: una farcia scura, fatta con fichi secchi, noci, nocciole, mandorle e vino cotto; l’altra più chiara, con mandorle tritate, zucchero semolato e liquore all’anice. Riempiti i cestini con la farcia si cuociono nel forno a legna, anche se oggi non di rado si usa il forno elettrico.

 

San MartineSan Martine

 

Stomatico

Lo stomatico è dolce di grandi dimensioni simile al panpepato diffuso su tutta la costa tirrenica. Si taglia in pezzettini che, in alcuni paesi della provincia di Reggio Calabria, vengono chiamati pipareddhi, peperoncini, ma in genere se ne parla al singolare, indicato dal termine stomatico. È considerato un “dolce digestivo”, come testimonia il suo nome, che deriva dalla parola “stomaco”, e si mangia a fine pasto, accompagnato da un buon bicchiere di liquore.

Gli ingredienti sono semplici (farina, zucchero, acqua, olio d’oliva, lievito, uova, cannella e chiodi di garofano a piacere, mandorle per guarnire) ma la ricetta è un po’ complicata, perché è fondamentale caramellare bene una parte dello zucchero evitando di farlo imbrunire troppo. Preparato il caramello, vi si aggiunge l’acqua bollente, continuando a mescolare. Si lascia raffreddare qualche minuto e, a parte, si impastano la farina, il resto dello zucchero, l’olio d’oliva, il lievito, i chiodi di garofano e la cannella. Solo alla fine si aggiunge il caramello freddo.

A questo punto si stende il composto su una teglia, livellandolo bene e spennellando la superficie con l’uovo sbattuto. Si inforna a 180 gradi circa, per 40-45 minuti: per capire se è cotto basta inserire uno stuzzicadenti, che dovrà poi risultare asciutto. Si sforna, si lascia raffreddare per una decina di minuti e si taglia in piccoli rettangoli da far biscottare a 60 gradi per altri 10 minuti.

 

StomaticoStomatico

 

Straccette

Di questi biscotti ne esistono diverse varianti, caratterizzate da una consistenza diversa secondo la specifica zona di produzione: diffusi sulla costa tirrenica, sono morbidi e friabili a Reggio Calabria, più croccanti e compatti a Scilla. Gli ingredienti sono gli stessi: a cambiare è la proporzione fra ingredienti secchi e liquidi. Si preparano con farina 00, zucchero, burro, mandorle tritate, lievito, uova e pezzettini di arancia candita. Che si chiamino straccette o straccetti, come si usa in alcuni paesi della zona intorno a Reggio Calabria, sono biscotti da inzuppo e si mangiano per la prima colazione. Ma non è raro trovarli sulle tavole calabresi a fine pasto, insieme a un bicchiere di vino dolce. È proprio questa la ricetta che ci siamo fatti regalare dalla pasticceria Scutellà di Delianuova, in provincia di Reggio Calabria.

 

Ricetta delle straccette della pasticceria Scutellà di Delianuova (RC)

 

Ingredienti per 2,5 kg di biscotti

900 g di farina

750 g di zucchero

550 g di mandorle

250 ml di acqua

15 g di ammoniaca

essenza di anice a piacere

confettini di zucchero a piacere

 

Procedimento

Sciogliere lo zucchero nell’acqua tiepida, aggiungendo l’essenza di anice stellato e le mandorle intere. Aggiungere la farina e amalgamare il composto. Dalla massa ottenere dei rettangoli di 4 centimetri per 4 circa e appiattirli un po’, creando i biscotti in maniera irregolare. Decorare a piacere con i confetti infornare a 190 gradi per 60 minuti. Fare raffreddare i biscotti e servire.

Scutellà | Delianuova (RC) | via Roma, 19 | tel. 0966 963280 | www.pasticceriascutella.it

 

 

a cura di Francesca Fiore

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Dall'assaggio al Paesaggio, l'evento che celebra l'olio e il territorio pugliese

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Prima edizione del nuovo evento pugliese che si impegna a promuovere l'olio extravergine di oliva di qualità e la terra da cui prende vita. Il 6 marzo a Bari si celebra il gusto dell'oro verde con una giornata dedicata all'olivicoltura.

L'evento

Questo progetto è un percorso di economia circolare che comprende i produttori che hanno scelto di fare un esperimento di crescita collettiva, gli assaggiatori, che possono sperimentare la didattica con i bimbi e le amministrazioni locali”, spiega Elisabetta De Blasi, presidente di Passione Extravergine. Un'iniziativa nata dapprima come luogo d'incontro virtuale fra produttori, tecnici ed esperti, sommelier dell'olio e tutti gli appassionati dell'oro verde, e diventata poi associazione a tutti gli effetti. Gli obiettivi? Promuovere la cultura dell'extravergine di qualità, avvicinare i consumatori all'olio buono, creare una comunità di persone coinvolte nel settore ma aperta a tutti, anche al pubblico più curioso e agli amanti della buona tavola, per restituire valore all'olivicoltura e a uno dei prodotti più rappresentativi della dieta mediterranea. Un tesoro di antiche origini, l'olio extravergine di oliva, così come l'ulivo, pianta che ha scandito nei secoli il tempo dell'uomo, ricca di significati simbolici e protagonista di miti e leggende antiche. Ed è proprio l'ulivo, con tutto il territorio circostante, il punto di partenza dell'ultimo progetto di Passione Extravergine. Si chiama Dall'assaggio al Paesaggio e – come si intuisce dal nome – si tratta di una degustazione guidata di oli di una determinata terra, nel caso specifico la Puglia, che si propone di promuovere le aziende locali. E il paesaggio circostante, risorsa e scenario imprescindibile del prodotto olio. Un'iniziativa partita mesi fa che ha coinvolto diverse scuole elementari: attenzione rivolta principalmente ai bambini e alla loro educazione alimentare e soprattutto sensoriale, con percorsi studiati su misura e tanti assaggi guidati.

Il programma

Vogliamo ragionare su un patrimonio decisamente, solamente, assolutamente nostro e di nessun altro”: questo l'obiettivo della manifestazione. “Sessanta milioni di ulivi sono i primi abitanti della Puglia, che hanno visto la storia e che la contengono. Questo è ciò che abbiamo voluto raccontare ai bambini”, ma non finisce qui: “Li vogliamo emozionare con un'esperienza sensoriale articolata che permetta loro di riflettere su un ingrediente quotidiano e su una visuale solita, con occhi nuovi e soprattutto con emozione”. Al via quindi una serie di dibattiti, seminari, racconti e laboratori dedicati ai più piccoli ma non solo. Si comincia con una relazione di Maria Lisa Clodoveo, docente in Scienze e Tecnologie Alimentari all'Università degli Studi di Bari, che parlerà del rapporto fra olio e natura, e si prosegue poi con il seminario di Elisabetta De Blasi, un percorso educativo tra l'analisi sensoriale dell'olio e il paesaggio pugliese, e poi un incontro per i bambini sulla storia dell'ulivo. Gabriella Falcicchio, docente in Pedagogia Interculturale e della Comunicazione all'Università di Bari, spiegherà ai più piccoli il valore delle piante, della natura e dell'educazione ambientale. Spazio anche ai Carabinieri Forestali, figure che tutto l'anno si impegnano a tutelare il paesaggio, e anche al concetto di identità territoriale, che verrà approfondito da uno dei maggiori esperti del settore, Alberto Grimelli, direttore del sito specializzato Teatro Naturale. Ma non è la prima volta che un evento dedicato all'olio extravergine di oliva celebra anche la terra da cui prende vita: fra gli ospiti della manifestazione, sarà presente infatti anche Francesco Travaglini, proprietario dell'azienda olivicola Tratturello, che racconterà la sua esperienza a Extrascape, il festival del Molise che valorizza gli oli con il loro territorio. E poi ancora assaggi e degustazioni all'insegna del gusto ma anche della condivisione, perché “il paesaggio è un patrimonio collettivo, e nel caso dell'olivo anche comunitario”. E perché “se non apprezziamo prima di tutti noi questo patrimonio ambientale, creando una comunità sensibile e consapevole, non saremo mai in grado di valorizzarlo anche attraverso un prodotto”.

Dall'Assaggio al Paesaggio | Bari | piazza Cesare Battisti, 1 | 6 marzo 2017, dalle ore 9.30 | www.facebook.com/events/398713930487577/

a cura di Michela Becchi

Identità Golose 2017 report. Prima Giornata: Lopriore, Klugmann, Apreda, Assenza

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Prima giornata dedicata ai temi del dessert e del gelato, del formaggio e della natura. A indagare potenziali scenari di una ricerca gastronomica, che si scopre sempre più radicata nell'oggi. A partire dall'omaggio alla regione ospite, la Lombardia. 

Si parte dal locale, dalla tradizione e dalla propria storia; da un territorio vasto e eterogeneo; e si declina in molti modi diversi nell'omaggio che apre la prima giornata, quello alla Lombardia. Che non è e non deve essere identificata con la sola Milano, pur riconoscendone il ruolo di traino, come capoluogo del gusto e dell'effervescenza ristorativa. Ma con il complesso di paesaggi, prodotti, storie con cui si aprono i lavori nella sala centrale di questo congresso che celebra il viaggio. E lo fa nella sua accezione più ampia: dentro e fuori i territori, attraverso il passato, tra idee e suggestioni, di andata e di ritorno o, ancor più semplicemente, inteso come apertura all'altro, libera da muri e confini.

Omaggio alla Lombardia

Viaggi di ritorno

Si parla di storia familiare con Giovanni Santini, figlio di Antonio e Nadia, che denuncia la progressiva contrazione delle materie prime disponibili che, per questione di cambiamenti di gusti e di abitudini o di poca redditività di certi prodotti, stanno gradualmente perdendosi. Come certe zucche fondamentali nella Lombardia dei tortelli di zucca, ancora oggi preparati espressi Al Pescatore (Canneto sull'Oglio) a ogni comanda “un lavoro che riconcilia con se stessi”, per via di quella operatività manuale che affianca il lavoro più creativo. E che per questo non annoia. Così come non stanca il continuare su una strada già avviata “siamo riconosciuti per uno stile e non posso ignorare quello che è stato fatto prima, sarei imbecille, ci sono cose che vanno al di là di noi stessi”: si chiama, per l'appunto, storia. E lo sintetizza nel piatto: Il richiamo della Campagna che porta in primo piano il calore dell'agricoltura e della vita contadina con la sua armonia: con foglie, piccole verdure di stagione, chips e petali a creare un carosello cromatico e gustativo intorno al branzino marinato. A sintetizzare la possibilità di costruire nel mondo contemporaneo preservando il senso di quanto accaduto prima.

Ancora storia personale e un viaggio di ritorno verso il mondo agricolo, per Franco Aliberti, campano figlio di contadini, da circa un anno a La Fiorida di Mantello con Gianni Tarabini. Ancora la stessa idea di attualità del passato sintetizzato nella formula “oggi, ieri e domani”, con ieri come elemento centrale tra presente e futuro, necessario per sviluppare un nuovo pensiero. Che non può fare a meno della campagna, in quella Valtellina in cui lavorano, producono, cucinano a distanza ravvicinata - solo poche decine di metri - in un'azienda che è un organismo complesso che impiega quasi 100 persone. E ilfinto tartufo è una sintesi di tecnica e gusto, un piatto confortante che riunisce storie e sapori in un solo boccone, e conclude il trittico di assaggi che include due versioni di taroz alle patate, classico e rivisitato.

Sincerità e ricerca nella tradizione

I piatti sono una scusa per esprimere i nostri concetti” dice Cesare Battisti (Ratanà di Milano). E i suoi concetti parlano chiaro: rispetto, ricerca, territorio, ma soprattutto qualità dei prodotti e umiltà: “serve meno vanità e più sincerità” dice. E lo dimostra con un piatto a tutto sapore, il Risotto con cime di rape e salsiccia di Bra. Semplice, chiaro, diretto come il suo invito a non mettere “nel piatto l'ego del cuoco”.

C'è voluto qualche mese  a Davide Oldani per abituarsi al nuovo D'O. Ma ora è pronto e va a tutta birra nel portare verso il domani la tradizione. Su cui ragiona senza freni. Parte dalla cassoeula, il piatto tipico lombardo, corposo e robusto, ma trae spunto anche dal civet (o sivé) e dal sanguinaccio per buttare lì un lavoro sul sangue che lascia a bocca aperta. Rivisitazione della Cassoeula e sangue alla milanese. Divide il sangue di vitello in siero e massa grazie a una centrifuga da laboratorio. Il siero, ricco di albumina, può montare e diventare una meringa, la parte densa, con piastrine globuli bianchi e rossi, è la base del classico civet. “Sono per il sangue e non per gli insetti” dice provocatoriamente. E torna pop con il gesto infantile del leccare il piatto, ma ci mette su una ceramica lunga che copre pudicamente il viso mentre lo si fa. E aggiunge guanciale, puntina, la verza (quella che ormai si fatica a trovare, per tornare al discorso di Santini) a ricomporre una cassouela molto più moderna nel gusto, separata nelle sue componenti e disposta in ceramiche diverse (tutte disegnate da Oldani), che mette sullo stesso piano tradizione, ricerca e design. “I viaggi ti riportano a vedere, capire, osare oltre le regole”. La stessa che fa osare armonie e contasti vertiginosi nella cialda di siero di sangue e zucchero, ganache al cioccolato e caviale. O nell'altra cialda, quella preparata a partire dal liquido di cottura delle cartilagini dello stinco, che dà origine a una sfoglia croccante dal sapore neutro, base di un dolce completato da una mousse bianca di caffè (realizzata con i chicchi in infusione nel latte).

Identità Naturali

La naturalità del mestiere del cuoco

La giornata a Identità Naturali comincia con il tiramisù crudista vegano di Daniela Cicioni. Dove sono utilizzati ingredienti principalmente asiatici. Ma al di là dei piatti presentati (Enrico Bartolini è arrivato a 7) è il pensiero condiviso che interessa. Ovvero che il cuoco deve ritornare a essere cuoco. Punto. Niente esibizionismi o puri e semplici esercizi di stile, via gli orpelli e le mansioni estranee al mestiere del cuoco. È quel che dicono tutti. È quel che afferma Paolo Lopriore (Il Portico). Della sua rivoluzione vi abbiamo parlato qui e qui. La nuova concezione ristorativa di Lopriore torna al concetto di convivialità, con una cucina volta alla naturalità del prodotto, che prende le distanze dall'ingabbiamento del piatto grazie alle creazioni dell'artista e designer Andrea Salvetti. Sul palco di Identità Naturali porta un suo affumicatore fatto di tanti ripiani per lavorare più ingredienti contemporaneamente. Un oggetto funzionale, di design, che abbellisce la tavola e attiva il commensale, finalmente attore protagonista del convivio. Che oltre a decidere con quale ordine mangiare, decide anche quanto mangiare e quali condimenti inserire nella sua composizione personale. “Anche perché spesso l'ospite ha il palato più riposato del mio e quindi la mia misura del condire è più alta rispetto alle sue esigenze. Ognuno deve cercare di condurre il proprio viaggio”. I piatti presentati sono una scusa per parlare proprio di questo. Il primo è a base di patate (Patate, sciatt, bietole, noci, nocino e olio di noci da attingere, mixare, condire in totale libertà), il secondo ha come protagonista la pera cotta in 4 modi diversi: “Cruda per capire la vera sugosità della pera, rosolata nel burro salato, in tempura e bollita. Della pera ho utilizzato tutte le parti, da quella centrale (in tempura) alle bucce (bollite)”. Le quattro parti della pera le ha poi affumicate in questa torretta/affumicatore. In queste preparazioni, a pensarci, c'è dell'altro, un cambio di prospettiva: nessuno spreco, l'evidente risparmio di tempo del cuoco che non deve più impiattare (perché l'affumicatore viene portato direttamente al tavolo), l'educazione del commensale che impara a conoscere gli ingredienti senza alcun filtro e senza l'imposizione delle scelte del cuoco. L'atto finale della cottura avviene in tavola, e quella magia prima diritto esclusivo del cuoco ora è passata nelle mani del clienti. In tutto questo ragionamento un ruolo fondamentale ce l'hanno anche (oltre ai commensali) i fornitori: “Devono essere responsabilizzati, loro sono i veri conservatori del cibo. Per esempio è il macellaio che mi chiama per dirmi quali tagli posso cucinare perché è il suo mestiere. Noi cuochi ritorniamo a fare i cuochi”.

Il ruolo dei collaboratori

E ritornare a fare il cuoco significa anche mettere da parte l'ego e lasciare spazio ai propri collaboratori. Sono sentiti e quasi emozionanti i ringraziamenti che fa al suo team Simone Salvini, che sul palco ha presentato Il seitan che non c’era (wafer di pasta fresca fritta con hummus di fagioli, piselli sbollentati e sbucciati, burro fatto con pinoli, anacardi e olio di noci pecan e acqua affumicata, pomodorini confit, spuma di latte di mandorla, salicornia, sfere gelificate di lamponi). Sono sempre i collaboratori che hanno ispirato la pizza Bangladesh di Matteo Aloe di Berberè, o che consentono a Valeria Margherita Mosca di portare avanti il progetto Thinking like a forest, “un'azienda agricola sperimentale, in collaborazione con Legambiente e Regione Lombardia, con l'obiettivo di dare vita agli alpeggi in stato di abbandono o semi abbandono”. L'abbandono crea danni: impoverisce i territori, il tessuto socio economico e il bagaglio culturale della popolazione.

E sempre rimanendo in tema di collaboratori, è l'intervento di Antonia Klugmann (L’Argine) a colpirci di più. “Oggi viviamo in un mondo dove le persone arrivano da noi. Bisogna saper mettere in relazione le nostre radici profonde con dei nuovi rami, dei nuovi innesti che portano nuovi frutti. Un modo per far questo lo si trova sempre e la cucina è uno dei primi luoghi dove le influenze creano cose spettacolari. Per esempio in cucina da me c'è un esperto di cocco che viene dal Ghana, un'esperta di fermentazioni ucraina, il sous chef è giapponese, il commis siciliano: questo fa la differenza in un contesto piccolo come quello del Collio”. Sul palco porta la rapa bianca abbinata ai crauti e al tartufo (raccolto proprio vicino all'Argine a Vencò). E un finocchio declinato in diverse preparazioni: bollito, purè, infuso. Ancora una volta (e come per Lopriore) per non buttare via nulla. “Evito gli sprechi, anche dal punto di vista energetico, sia per un fattore etico sia perché oltre a essere cuoca, sono la proprietaria del ristorante”. E il viaggio (il tema di Identità di quest'anno)? Più che questa tematica è emerso il fatto che chi viaggia ha (solitamente) l'apertura mentale per accogliere gli altri. Anche perché la migrazione non è un fatto di oggi, ma è sempre esistita. Lo conferma Mariana Muller (Cassis), parlando nello specifico dell'Argentina, in un discorso universale: “Siamo un popolo di migranti. Persone che portarono in Argentina le loro abitudini, le loro radici, i loro semi, le loro tradizioni, i loro prodotti. Oggi, anche grazie a loro, la nostra è una cucina con un'identità, nonostante sia ricca di prodotti provenienti dal mondo, come la trota o l'agnello che porto oggi sul palco”.

Identità di Formaggio

Si parla di formaggio, nella mattinata di apertura della Sala Blu 2, e il pensiero corre subito alla moltitudine di produzioni che sa offrire la Penisola. Basti pensare, come ricorda l’assessore Giovanni Fava sul palco in qualità di rappresentante della regione ospite (ma tra gli espositori del Mi.Co. si aggira per tutta la mattina anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala), che la Lombardia produce da sola il 44% del latte italiano. E che di grandi soddisfazioni è fatta la tavola di un intenditore di arte casearia che si trovi a viaggiare per l’Italia, come dimostra l’assaggio folgorante nella sua semplicità della Zuppa di ricotta con extravergine, pepe e pane proposta da Giuseppe Zen, che sul palco allestisce una sorta di pop up di Resistenza Casearia (il banco dei formaggi del mercato di piazzale XIV maggio di Milano inaugurato qualche mese fa). A lui, istrione della cucina popolare italiana, è affidato il compito di aprire i giochi: un compito che tra un Risolatte con stracchino e una Cassata monacale assolve alla perfezione, scaldando la platea con la sua visione etica e goduriosa del cibo: “Noi cuciniamo perché ci piace da morire mangiare. Per questo perseguiamo il buono e il sano”, chiosa. E poi non risparmia un appello alla concretezza, quella dei sapori, da ricercare di fronte alle derive di un sistema alimentare che rischia di farci smarrire. Il suo, insomma, è un viaggio nel gusto, e nella specificità dei territori regionali. A partire dal formaggio. E di territorio si parla anche quando a prendere la scena è Andrea Ribaldone, chiamato a rappresentare l’universo degli erborinati: “Il ristorante gastronomico dev’essere caposaldo di un territorio: presentare i produttori che lo rappresentano senza forzare la mano a tutti i costi. È così che il prodotto incontra le persone”. Ma poi, visto che la curiosità non conosce confini, anche per un cuoco come lui legato alla sua terra, quella piemontese, l’esperienza nel mondo si rivela proficua.

E dall’Estremo Oriente arrivano le suggestioni che combina nel piatto, pure quando si tratta di sublimare il gusto di un erborinato, presentato su foglia di Indivia fermentata in extravergine e aceto umeboshi, con semi di zucca, gel di pompelmo e avocado.

Ecco che allora la forza della libertà che non conosce limiti geografici esplode nella cucina di Francesco Apreda, che sul palco di Identità porta due viaggi gustativi e concettuali filtrati da esperienze vissute: a Mumbai lo chef dell’Imago all’Hassler (Roma) gestisce il ristorante Vetro dell’Oberai, recentemente riconosciuto migliore tavola italiana nel Sud dell’India. E proprio dal Paese che più l’ha ispirato negli ultimi tempi riporta sentori di cocco, spezie ed erbe aromatiche che incontrano la tradizione italiana. Gli Gnocchi alla romana Asia Express ne sono esempio lampante: panati e fritti in panko e lamelle di riso, incontrano una salsa di latte di cocco e pecorino e si bilanciano con la freschezza delle verdure saltate al wok e il mix Spicy Bombai firmato Apreda. All’amore per il Giappone, invece, fa riferimento una ricetta apparentemente più legata alle latitudini italiane, che fonde amatriciana e pasta al pesto, giocando però su estrazioni, acque di pomodoro, foglie di shiso e ancora un blend di sapori importanti (ma calibrati), dall’alga nori ai semi di coriandolo, dal wasabi allo yuzu, allo shiso.

Cucina d’autore che abbatte i confini anche per Philippe Léveillé, la cui storia professionale già parla chiaro: francese della Normandia, dal 1987 in Italia (dove oggi dirige il Miramonti l’Altro). Sul palco presenta l’inedita accoppiata frutti di mare e formaggio.

Dossier Dessert

Appuntamento fisso da 12 anni, il Dossier Dessert ha attraversato praticamente l’intera storia di Identità Golose. Quest’anno accanto alle presenze di sempre – Corrado Assenza è una certezza – si alternano momenti di omaggio a glorie della pasticceria nazionale e interventi (particolarmente a fuoco) che illustrano alla platea dell’Auditorium il ruolo del pastry chef in alcuni dei più importanti ristoranti del mondo. Iginio Massari riceve l’omaggio del congresso e regala in cambio una breve lectio magistralis fatta di consapevolezza acquisita sul campo – sull’ingegneria del gusto e l’importanza dello studio rigoroso molto ci sarebbe da parlare – e spunti di riflessione che non mancano di provocare: “Tutti i giorni c’è innovazione, e il dolce è il cibo per eccellenza della trasgressione: solo così si produce progresso. Ma attenzione a non esagerare con l’evoluzione: chi fa il cibo che piace a lui senza pensare alle esigenze degli altri è egoista”. Autorialità, dunque, e il maestro della pasticceria italiana può parlarne con cognizione di causa, ma mai fine a se stessa. Chi è d’accordo è Corrado Assenza, che ancora una volta porta a Milano la sua grande umanità, insieme alla competenza e alla dedizione per la materia prima che indirizzano la ricerca del Caffè Sicilia di Noto. Sempre più orientato verso l’abbattimento del confine tra dolce e salato, quest’anno presenta l’accostamento tra carne, miele e salicornia, per poi sorprendere con un gelato al mauro catanese, l’alga tipica (e molto popolare) sulla costa orientale di Sicilia. La sua, ancora una volta, è una lezione che trasuda caparbietà e capacità di sintesi, in laboratorio come sul palco. Non una parola di troppo e splendidi assaggi che si avvicendano davanti agli obiettivi.

Per la giovane guardia convincente il racconto tra “obbedienza e libertà” di Andrea Tortora, in duplice veste di pastry chef del St. Hubertus – e per questo ben abituato alle necessità di una cucina complessa, che precedono l’ego del singolo – e pasticcere alla ricerca di una creatività tutta sua. Con lui il tema del viaggio si muove tra orizzonti spaziali – quelli del territorio altoatesino, con il dolce dedicato all’Enrosadira, che incontra le suggestioni orientali di un canederlo di ricotta che diventa takoyiaki – ed evoluzione personale, che non può prescindere dalla linea del tempo e dalle esperienze maturate in cucina. Perché forse la riflessione più convincente sul viaggio che emerge dal pomeriggio dell’auditorium non ha bisogno di suggerire scenari esotici, e invece attinge all’esperienza più intima del cuoco: “Per un cuoco il viaggio inizia quando entra in cucina” dice Gianluca Fusto “per 15 ore al giorno sei circondato da persone che crescono con te. È lì che si creano i rapporti, lì si evolve”. Pensiero semplice ma centrato per tornare a concentrarsi sul mestiere dello chef.

Identità di Gelato

La ristorazione, la pasticceria. E poi ancora la pizzeria, la miscelazione e la panificazione. In ogni settore della gastronomia si registra una codifica della propria identità, definendo canoni e filoni, costruendo i propri confini e la libertà di superarli. Fanalino di coda, la gelateria, che non riesce ancora a profilare la propria strada per l'eccellenza. Prova ne sia il fatto che a salire sul palco di Identità di Gelato siano stati non solo due gelatieri, ma anche un cuoco e un pastry chef.

Mentre si gira intorno a un disciplinare che, al pari di un Godot del gusto, pare sempre sul punto di arrivare senza mai conquistare il traguardo, si riflette sui problemi di un'attività che subisce fattori contingenti. Primo tra tutti il consumo prettamente stagionale che crea incertezza e fatturati oscillanti, imponendo così alle attività, spesso piccole imprese familiari, di cercare soluzioni alternative per assicurare costanza sui 12 mesi, “la gelateria tradizionale è moribonda” dice Paolo Brunelli da Senigallia, ma lo si riscontra ovunque, nelle chiusure nei mesi invernali, o nell'apertura ad altre categorie merceologiche, si tratti di pasticceria o cioccolateria. “Il problema è che il gelato vive di un consumo di prossimità” dice Simone Bonini di Carapina. Che apre il pomeriggio tornando ai temi che gli sono cari. Primo tra tutti il mancato riconoscimento come prodotto di alta gamma: “si fanno centinaia di chilometri per un ristorante o una pizzeria, ma quando si tratta di gelato si entra nel primo posto che capita” e aggiunge anche che non è neanche al pari di un bar, in cui si va più volte al giorno; che il gelato subisce molti falsi miti, come quello che fa ingrassare (“ma fa ancora più ingrassare un cocktail, magari fatto male”). Serve che al gelato venga riconosciuto un ruolo e un valore, mancanza di cui, forse, i gelatieri sono vittime corresponsabili: “Come pensare che venga riconosciuto come un prodotto di qualità quando ancora si vendono coni pagando un prezzo fisso a prescindere dal gusto? Nessuno pensa a fare prezzi diversi per gusti diversi” come capita, per esempio per la pizza, anche quella al taglio. Fare un prezzo corretto è un modo anche per educare il cliente. In che modo possiamo pensare che si riconosca un valore? Tornando a quel che si faceva un tempo: solo pochi gusti a partire dalla materia prima migliore a disposizione, “non fare un gelato all'acciuga, ma un grande gelato al latte e burro, e completarlo con una acciuga”. Insomma niente giochi di prestigio ma un nuovo approccio al gelato. Il cambio di marcia che Bonini auspica, lo annuncia con una trasformazione radicale del suo locale fiorentino, “faccio un passo indietro” dice “dopo aver aperto delle gelaterie”. E il passo indietro è “un ristorante di gelateria”, aperto a eventi, degustazioni e con una scuola di gelateria, dove gustare il gelato come al ristorante: al piatto, per fare un viaggio nei sapori con elaborazioni gastronomiche. Il gelato come prodotto di altissima gamma, che può stare in locali di altissima gamma, come un grande gin o un altro grande prodotto, “una risorsa per chi vuole mettere me nel piatto” così Bonini si pone “sempre più come un fornitore e un player su tavole che legittimano prodotti così”. Lascia alle spalle la vecchia idea di gelateria per “un viaggio verso altre cose”.

Ragiona da chef, Moreno Cedroni. Lo fa a partire da un macchinario moderno (Principessa di Gaya Gelato) e da una tecnica antica, la fermentazione, che trasforma prodotti familiari “la fermentazione è una magia”. E il risultato più interessante lo ottiene con l'aglio nero, che apre a un ventaglio di sapori di liquirizia, oliva, da declinare sia sul dolce che sul salato, attualmente alla Madonnina del Pescatore in un predessert con granita di caffè fermentato con kombutcha panna, poco cacao. Cedroni sa bene che “per fare avanguardia bisogna far benissimo il tradizionale”, così nel gelato al baccalà c'è una tradizionalissima miscela bianca con latte e panna, a fare da base per un gelato che, nuovamente, rimane sul filo tra dolce e salato e che abbina al gelato di cavolo viola fermentato che ha un risultato tridimensionale aggiungendo acidità e piccantezza. Ma sa anche che la cucina ha sempre più bisogno di responsabilità, per questo suo compagno di palco è Carlo Catalani (già all'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo) che spiega il senso del “chilometro consapevole”, che punta il faro non solo sui metodi di produzione, ma anche su quelli di trasporto, sulle condizioni lavorative di chi produce.

Responsabilità è uno dei temi chiave anche per Cesare Battisti e il suo staff del Ratanà. Ne avevamo parlato già lo scorso anno ma in questa circostanza è il pasticcere vicentino Luca De Santi, a raccontare come, nella progettazione dei piatti si spinga sempre più per un ristorante “a scarto zero” in cui le bucce della frutta servono, per esempio, per aromatizzare l'acqua di riso (realizzata con una tecnica che Battisti ha conosciuto al Mad di Copenaghen) da cui nasce il gelato al latte e riso, completato poi al piatto con chips degli stessi chicchi usati, biscotti con farina di riso e mais, crema di mandorle amare e rabarbaro. Un dolce complesso che scivola tra dolce, salato e amaro, senza timore, come molti dei dolci di De Santi. Ma la sostenibilità del Ratanà è un discorso complesso, è anche la responsabilità verso i propri fornitori, scelti con cura e trattati con ancora più cura, pagati il giusto (e allora per ottimizzare la spesa del prodotto risulta ancora più importante lavorarne ogni parte). Fondamentali alleati per una cucina che parte dalla tradizione, dai sapori locali, ma non manca di contaminare con tecniche diverse apprese nei molti viaggi e nelle esperienze all'estero, si tratti di quella della colatura di alici di Cetara (“perché non provare ad applicarla alle sarde di lago?”) o a quella della salsa di soia, da usare per altri legumi locali. Così dal classico ci si muove anche verso sapori più contemporanei, soprattutto per quanto riguarda i dolci. Che De Santi ama vegetali, freschi (“il carciofo è il mio ingrediente feticcio”), anche se non mancano altri più classici.

Quello di Paolo Brunelli è un viaggio tra passato e futuro del gelato al cioccolato. Che, dice, “necessita di un ripensamento nella comunicazione al pari di quello che c'è stato con il gelato al pistacchio”, per eliminare formule esauste (la percentuale di cacao) o cromatismi arditi (i nerissimi) e cerca di individuare un terza via tra la grande tradizione emozionale e le nuove derive gastronomiche. E la trova nella ricerca. Il classico gelato realizzato con il cacao e il latte, quello del passato, oggi cede il posto al sorbetto preparato con massa di cacao e acqua. Che nonostante la maggiore qualità, non riscontra la stessa fortuna tra il pubblico. Il gelato del futuro, dice, è quello che ha al centro il frutto (anche il cacao è un frutto, non dimentichiamolo) ma che sa dare lo stesso piacere a chi lo mangia, attraverso tecniche come l'estrazione del cacao. E ripensare al gelato come una specie di cioccolatino ripieno da gustare a bassa temperatura, che ricorda le tavolette.

Identità Golose 2017 | Milano | Mi.Co. | via Gattamelata | www.identitagolose.it/

a cura di Annalisa Zordan, Antonella De Santis e Livia Montagnoli


La fabbrica di cioccolato di Cioccolatitaliani nel cuore di Milano. Dalla fava di cacao alla tavoletta

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L’ultima idea della famiglia Ferrieri, che in otto anni ha costruito un impero economico indovinando il format gastronomico per piacere all’Italia e al mondo, è un centro di produzione a vista, che tutti i clienti del flagship store di Milano possono sperimentare con mano. Così nasce la prima fabbrica di cioccolato del gruppo. 

Cioccolatitaliani. La crescita in Italia e nel mondo

In un mondo gastronomico sempre più in cerca del colpo di scena per raccogliere consensi trasversali la spettacolarizzazione di produzione e consumo è all'ordine del giorno. E così capita di assistere alla nascita di una fabbrica di cioccolato nel cuore di Milano. Dal 2009 la famiglia Ferrieri ha scommesso sull'apprezzamento generalizzato per il cioccolato per lanciare il format Cioccolatitaliani su scala nazionale prima, oltreconfine (e particolarmente negli Emirati Arabi) poi. Oggi l'attività conta 23 punti vendita in Italia e nel mondo, ma la storia del brand fa capo al primo flagship store di via Edmondo De Amicis 25. Dove dopo 40 anni trascorsi nel mondo della ristorazione, la famiglia Ferrieri (a capo dell’azienda c’è il giovane Vincenzo, un passato nella finanza e le idee giuste per sfondare, ispirato dal modello Le Pain Quotidien) ha puntato a riunire sotto il cappello del cioccolato mondi diversi, ma affini: gelato, caffè, pasticceria, con formula mista di ristorazione e somministrazione che ha dato ragion d'essere all'investimento iniziale. Il prossimo passo, già inaugurato in via De Amicis, si chiama From Bean to Bar Live (dalla fava di cacao alla tavoletta), e si propone di conquistare il pubblico milanese con “la trasparenza dell'artigianalità e la forza dell'esperienza”. Che tradotto in pratica permetterà di produrre il cioccolato direttamente in loco, e portare i clienti nel cuore del processo produttivo, come novelli Willy Wonka calati nella parte disegnata da Roal Dahl.

 

La fabbrica di cioccolato

All'architetto Fabio Mennella è stato dato mandato di progettare uno spazio multiforme, che alla boutique del cioccolato (con corner di gelateria e caffetteria) sommasse un laboratorio a vista, dove sbirciare sin dalle vetrine su strada. E così lo “spettatore” può attraversare tutte le fasi di produzione: tostatura, decorticazione, macinatura, raffinazione, concaggio, temperaggio e modellaggio, tra spazzole e setacci, mulini e cilindri d'acciaio, e macchinari progettati in esclusiva per Cioccolatitaliani da Selmi Group. Intorno un'ambientazione che strizza l'occhio ai cru di provenienza del cacao, materiali naturali, tanto legno massello. E poi, come in ogni fabbrica di cioccolato delle favole che si rispetti, fontane di cioccolato e un caveau in vetro per custodire preziosi lingotti da mangiare. Restyling anche per il dehors, progettato da Maurizio Lai. La materia prima è il Fino de Aroma, denominazione che identifica il frutto nato dall'incontro tra le fave di Criollo e quelle di Trinitario, in questo caso in arrivo dalla Colombia, dalle piantagioni della compagnia Casa Luker. Collaborazione avviata da tempo, che rivela anche un risvolto etico e sociale, a sostegno della Fondazione Granja Luker, un centro di ricerca sul cacao che riunisce 700 agricoltori ogni anno per fornirgli una formazione adeguata in materia, sulla base di sistemi di coltivazione sostenibile.

 

La proposta gastronomica

In “fabbrica” l'ingrediente si trasforma in tante preparazioni diverse, con la collaborazione del pasticcere Leonardo di Carlo, che per il brand firma una serie di creazioni originali, i cosiddetti Capolavori di Leonardi. Ma ci sono anche i Coni d’autore di Roberto Lobrano e una ricca selezione di maestri del cioccolato con le loro specialità, in vendita alla boutique, dai cremini di Guido Gobino alle praline di T’A, da Sabadì a Domori, nel segno di un’Italia unita dall’artigianalità. Dalla colazione all’aperitivo.

 

Cioccolatitaliani | Milano | via De Amicis, 25 | www.cioccolatitaliani.it

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Pitti Taste 2017: a Firenze il salone del gusto è dedicato al caffè di qualità

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Torna, dall'11 al 13 marzo a Firenze, l'evento dedicato alle eccellenze del gusto, dal vino al cibo. Focus del Pitti Taste 2017 è il caffè di qualità e il nuovo movimento di bar di ricerca che si sta diffondendo sempre più in Italia e nel resto del mondo.

L'evento

Giunge alla dodicesima edizione Pitti Taste, il salone di Pitti dedicato alle eccellenze enogastronomiche in scena alla stazione Leopolda di Firenze dall'11 al 13 marzo. Una tre giorni all'insegna del gusto e del cibo di qualità, fra prodotti tipici e sapori nuovi, assaggi e laboratori in un programma fitto di appuntamenti. Focus principale di questa edizione è il caffè, in particolare i caffè specialty, chicchi di qualità selezionati che vengono trattati con cura dalla raccolta all'estrazione finale. Un prodotto che sta prendendo sempre più piede in Italia, dove i baristi cominciano a interessarsi seriamente alla materia e ad approfondire tecniche e conoscenze.Saranno oltre 380 le aziende protagoniste alla Stazione Leopolda (+12%, erano 340 nel marzo 2016), alcune tra le migliori produzioni di nicchia e di eccellenza provenienti da tutta Italia.

Altre novità importanti di questa edizione sono la nuova area nel Piazzale Gae Aulenti, che ospiterà il Taste Shop

Il programma

Si comincia sabato con un laboratorio a cura de La Marzocco, azienda toscana produttrice di macchine per espresso, presso il Teatro dell'Opera, dove i visitatori potranno degustare diverse tipologie di caffè fra miscele e monorigini tostate da diverse torrefazioni locali. Si continua poi lunedì 13 con una cupping session, degustazione professionale di diversi caffè guidata dagli esperti del settore. Direttamente dall'estero poi, Brygg Magazine, rivista norvegese di culto dedicata al tema "Coffee & Conversations" presenterà a Taste una speciale mostra-installazione di immagini d’archivio, e un racconto sulla cultura del caffè nei paesi nordici, con la possibilità per i visitatori di immergersi in suggestive atmosfere visive Ma ci saranno anche presentazioni di libri a tema caffè, contest di caffetteria, talk show e dibattiti sull'argomento per un confronto fra addetti ai lavori ma anche fra consumatori e baristi, torrefattori, importatori e venditori dell'oro nero. Come di consueto, invece, all'appello hanno risposto oltre 370 aziende di prodotti di nicchia da tutta Italia, che proporranno le proprie specialità agroalimentari. Nello spazio Alcatraz, sono disponibili per l'assaggio le prelibatezze più disparate, dalla pasta artigianale alla birra, dai latticini ai salumi, dalle verdure ai mieli, alle conserve. Spazio anche al design, con Taste Tools, la sezione dedicata agli oggetti di food & kitchen design, capi di abbigliamento, attrezzature tecniche e proposte innovative per la cucina. Novità di questa edizione è il trasferimento del Taste Shop in Piazzale Gau Aulenti, che permetterà di acquistare tutti i prodotti esposti e assaggiati durante la fiera. Tra i progetti speciali anche quest'anno il Fumoir di Taste che si rinnova, nel suggestivo porticato del Teatro dell'Opera di Firenze, come area di aggregazione e relax per offrire un tocco di novità e di stile. In collaborazione con Club Amici del Toscano, lo spazio Fumoir ospita incontri guidati attraverso la degustazione di Birre, Vini, Cioccolato, Caffè e DistillatiNon mancano, inoltre, convegni sul tema della ristorazione contemporanea e tutti gli argomenti legati alla tavola e l'enogastronomia, che verranno approfonditi e discussi dai professionisti del settore, guidati dal Gastronauta Davide Paolini.

Fuori di Taste

Oltre agli appuntamenti alla stazione Leopolda, un'altra serie di eventi del gusto coinvolge la città e i suoi ritrovi gastronomici più celebri (dal Santino al Four Seasons, da Ora d'Aria a Burde, ai nuovi arrivati la Buoneria e Sottarno dei Fratelli Lunardi) nei giorni del salone: è Fuori di Taste, una kermesse di spettacoli, performance, talk show, installazioni e degustazioni a tema. C'è il campionato per baristi Grand Prix, una gara di caffetteria fra professionisti del settore che si sfideranno sulle macchine firmate La Marzocco, e poi ancora un convegno dedicato al caffè in Italia, dove interverranno Prunella Meschini de Le Piantagioni del Caffè e Francesco Sanapo di Ditta Artigianale. Si parlerà poi di giovani cuochi, dell'alimentazione infantile e della crisi di consumi in Italia. Da segnalare la serata del 9 marzo, che prevede al Vivaio Milano di via di Scandicci il sushi nostrale , che vede coinvolti i cuochi della Val di Sieve con la versione toscana del sushi ed  il menu di sola pasta ideato dai cuochi de La Menagère utilizzando i prodotti del pastificio Morelli. Domenica 12 “Benvenuti in America”  è la serata che festeggia gli agricoltori e artigiani che esportano i loro prodotti  sulle tavole degli americani e vede protagonisti Alessandro Frassica, in arte ‘Ino, i vini di Painogrillo e Cecchi, il tutto nel locale In Fabbrica di Gianfranco Pampaloni . Mentre lunedì 13 Berberé ospiterà una serata conviviale con pizza fritta, lampredotto e birre: l'incasso sarà devoluto all'ospedale pediatrico Meyer di Firenze.

Pitti Taste | Firenze | Stazione Leopolda | dall'11 al 13 marzo | www.pittimmagine.com/corporate/fairs/taste.html

a cura di Leonardo Romanelli Michela Becchi

Serra Madre. A Roma l'evoluzione di un'azienda agricola urbana

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Un'azienda agricola a conduzione familiare attiva da 80 anni ad Acilia, frazione di Roma, che da pochi mesi a questa parte ha deciso di rinnovarsi e trasformarsi in una serra dove ognuno può acquistare verdure appena colte. E restituire così valore al concetto di Km0 e filiera corta.

L'azienda agricola

Il mondo contadino è depositario delle tradizioni più antiche del nostro paese, ed è la terra stessa a insegnarci che la storia e la tradizione non si improvvisano”. Iniziano così a raccontarsi i ragazzi di Serra Madre, azienda agricola a conduzione familiare di Acilia, quartiere di Roma, la cui storia risale ai primi anni del Novecento. A ripercorrere la vicenda della famiglia è il titolare, Stefano Mangiante: “Mio nonno, Fortunato Mangiante, originario della Liguria, ha deciso di emigrare da solo in Argentina all'inizio del secolo scorso. Una volta tornato in Italia, ha scelto di trasferirsi a Roma e ha acquistato un terreno ad Acilia”. Comincia così, nel 1937, a lavorare la terra con la sua famiglia, rifornendosi ai Mercati Generali di via Ostiense di Roma, e optando per la coltivazione in serra. Vende ortaggi all'ingrosso e, dopo i primi quarant'anni di lavoro, decide di intraprendere parallelamente l'attività vivaistica. Oggi, è la terza generazione della famiglia Mangiante ad avere in mano le redini dell'azienda, un gruppo di giovani che hanno deciso di intraprendere una strada diversa.

 

Patate

La serra

Abbiamo avuto un'idea ambiziosa, quella di saltare completamente tutti i passaggi intermedi della filiera agricola che ci obbligano a consumare gli ortaggi solo diversi giorni dopo la raccolta”. Per creare un progetto nuovo: un luogo dove poter raccogliere, lavare e vendere le verdure nel giro di poche ore. Che porta con sé un sogno ancora più ambizioso, “utilizzare il lavoro della terra come mezzo per riappropriarsi del territorio e prendersene cura”. Un'idea portata già avanti da altre realtà come la Fattoria di Fiorano, Capodarco, I Casali del Pino.Uno spazio polifunzionale “dove trascorrere del tempo insieme ad amici e familiari e riscoprire il valore della terra”.

 

Serra

L'idea ora è realtà: si chiama Serra Madre e ha aperto appena pochi mesi fa, lo scorso 26 novembre, ma ha già raccolto l'entusiasmo del pubblico: “La clientela è rimasta contenta, ci fa molto piacere vedere che in tanti credono in noi. Nel fine settimana ci passa a trovare tanta gente anche da fuori zona, non solo per l’acquisto di ortaggi, ma anche per fare una passeggiata in serra o nel vivaio a diretto contatto con la natura”.

La coltivazione e i prodotti

40mila metri quadri, suddivisi fra coltivazione in campo aperto (25mila metri quadri) e in serra (15mila metri quadri) per un totale di cinque ettari di terreno agricolo. Un centro all'avanguardia dal punto di vista della sostenibilità con pannelli solari per la produzione di energia elettrica e un sistema di riciclo dell'acqua piovana.

 

Serra Madre, esterno

Non appena si entra dentro Serra Madre si viene accolti dall'area espositiva: prodotti freschi in bella vista, raccolti solo poche ore prima, ortaggi ma anche fiori, piante e semi, tutti disponibili per l'acquisto. Ma non è tutto, perché qui è possibile passeggiare fra frutta e ortaggi, guardando i contadini all'opera nei campi per capire come funziona il lavoro in serra.

 

Serra Madre

Ma perché proprio la serra? “Perché ci consente di creare un clima favorevole alla crescita delle piante, con il vantaggio di poter offrire un'ampia scelta di prodotti di qualità durante tutto l'anno”. Quello che la famiglia di agricoltori fa è “cercare di trovare un equilibrio tra stagionalità e non”: nello spazio esterno si coltivano solo ingredienti di stagione, mentre in serra c'è una produzione più diversificata. Per esempio, “a dicembre abbiamo avuto sia i pomodori che le zucchine, impossibili da trovare in inverno”. Il punto di forza? “La vendita diretta: tra campo e bancone ci sono solo pochi metri di distanza”. Tanti i prodotti a disposizione, dalle fragole al finocchio, dal cavolo alle carote, senza dimenticare pomodori, lattuga di vario genere, cipolle e tutte le erbe aromatiche, dal prezzemolo al rosmarino, dal basilico al timo.

 

Pomodori

La comunicazione

Serra Madre vuole essere un luogo di sperimentazione e di innovazione, in cui il rispetto e la conoscenza della natura vengono coltivati, insegnati e tramandati”, questo l'obiettivo. Ma per raggiungerlo occorre diffondere il verbo dell'agricoltura e del lavoro della terra fra il pubblico, soprattutto fra i più giovani. “Vogliamo incoraggiare le nuove generazioni a riscoprire i cicli naturali e la saggezza della manualità”. E per farlo, la famiglia Mangiante organizza periodicamente degli eventi legati al mondo agricolo e gastronomico: “corsi di giardinaggio, showcooking, mercatini dell'artigianato, mostre artistiche e visite guidate, cercando di inserire anche degli incontri a tema organizzati da altre realtà”. Come tutti i settori, anche quello dell'agricoltura è fatto di confronti e scambi fra professionisti e consumatori. In programma a breve, il Wave Market, un mercatino itinerante in scena questo weekend (4 e 5 marzo 2017) “con food truck, esposizioni, musica, corsi e laboratori dedicati”, per creare un luogo di aggregazione a contatto con la natura.

 

Ravanelli

Progetti

Perché è proprio questo l'obiettivo del progetto: “Educare le nuove generazioni al valore dell'agricoltura e di una sana alimentazione, far vedere come nasce, cresce e si evolve una pianta, tramandare quello che abbiamo imparato dai nostri avi e dare la possibilità a tutti di avere un prodotto di qualità”. E nel frattempo che l'attività continua a ingranare, la famiglia ha già altre idee in cantiere. Come un Museo dell'Agricoltura, un luogo dove “raccontare l'evoluzione delle tecniche, degli utensili e i mezzi utilizzati nella storia attraverso un percorso educativo studiato su misura”. E c'è anche l'ipotesi di un ristorante, “dove servire i nostri prodotti direttamente dal campo alla tavola”. Collaborando con altri produttori locali, “con cui ci piacerebbe lavorare, e sperimentare in cucina per capire come trasformare al meglio il prodotto agricolo”. Attenzione alta anche alla formazione, soprattutto quella dei più piccoli: “Abbiamo intenzione di organizzare visite guidate per le scuole, non solo in serra da noi ma anche in altre aziende agricole più o meno vicine, purché si rispetti sempre la filosofia del contatto con la natura e del rispetto ambientale”.

Serra Madre | Roma | Via di Macchia Palocco, 320 | www.serramadre.it

a cura di Michela Becchi

Identità Golose 2017 report. Secondo giorno: Crippa, Alajmo, Bowerman, Scabin

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Tra pasta, giovani talenti e mostri sacri si srotola una lunga domenica di congresso. Il secondo giorno porta spunti e riflessioni sul tema del viaggio, sempre più uno stimolo che attraversa territori, epoche e storie personali.

La mattinata dell’Auditorium. Contaminazioni e viaggi nel tempo

Identità Golose, secondo giorno. E il congresso entra nel vivo. Ad accogliere la platea che affolla l’auditorium per una mattinata che si preannuncia generosa di big dell’alta cucina italiana e internazionale ci pensa ancora una volta Enrico Crippa. Lo chef del PiazzaDuomo si conferma altrettanto generoso nel presentare una sequenza di piatti calibrati nel minimo dettaglio, per esecuzione e mirabile gestione del tempo. E la squadra, i ragazzi che sembrano danzare alle direttive del maestro, sono la chiave di volta di una cucina che si alimenta della passione per un mestiere che non si accontenta di essere raccontato, ed è prima di tutto pratica costante, sorretta da un pensiero rigoroso. Che nel caso specifico è Un viaggio nel tempo in tre tempi, tre coreografie che sono tanto debitrici alla filosofia orientale – “del Giappone mi affascina la maniacalità per la materia prima e il livello altissimo di cucina, oltre al rigore delle gerarchie” – quanto al lavoro in Langa, tra l’orto di Alba e la memoria del territorio. Dall’Antipasto misto di primavera al gioco di Alla pasta ci giro attorno, alla rivisitazione del Mattone. Una scenografia impeccabile e accattivante che se da un lato ribadisce l’eccellenza del cuoco che l’ha concertata, dall’altro lascia poco spazio alla riflessione, col rischio di focalizzare l’attenzione sulla meraviglia del gesto e della perizia tecnica, più che stimolare il dibattito.

 

Enrico Crippa

Ricevuto l’applauso caloroso della sala, il cuoco di Alba lascia il palco a Cristina Bowerman – viaggiatrice lei stessa che ha formato il suo percorso tra Italia e Stati Uniti - che si fa portavoce di un messaggio di inclusione che non è mai troppo ripetere. E la sua lezione, allora, gira intorno all’accettazione dell’altro come valore della diversità, con una contaminazione di tecniche che passa dal Viaggio in Cina del brodo di pollo alla coda alla vaccinara con mole messicano.

Il viaggio di Heinz Beck (La Pergola di Roma), invece, individua un territorio immaginario. Quello dell'evoluzione dell'uomo e del suo rapporto con il cibo. Che giunge a un grado zero: carne affumicata, semi, pane azzimo, distillato di verdure. Un incontro primordiale con il cibo che si risolve con il gesto semplice del mangiare, sena formalismi e senza sovrastrutture. Un semplice panino che contiene in sé tutta l'evoluzione della specie.

Paul Pairet e il viaggio nella percezione. La pizza di Massimiliano Alajmo. La libertà di Christian Puglisi

È già mattinata inoltrata quando con cappellino d’ordinanza fa capolino uno scanzonato Paul Pairet, che a dispetto della voglia di non prendersi troppo sul serio porta a Identità l’esperienza di uno dei ristoranti più esclusivi del pianeta, l’Ultraviolet di Shanghai. Quindi tra un cestino da pic nic, una canzone romantica e una grande dimostrazione di abilità tecnica presenta un viaggio nella memoria in tre piatti, che culmina con l’illusione di Tomato e Mozzarella, il gioco probabilmente più riuscito: due piatti identici - uno salato, l’altro dolce – che tra musica ed effetti speciali finiscono per rappresentare un viaggio nella percezione, ingaggiando una sfida con il commensale. Quando la parola spetta a Massimiliano Alajmo (un altro habitué del palco di IG), invece, il viaggio torna a farsi estremamente personale, con il racconto del Viaggio di Margherita. Nel 2015 il team di ricerca delle Calandre di Rubano ha ottenuto il brevetto per la pizza cotta a vapore, che ora si rinnova in forma di Maxcalzone, Maxcalzino e Centopezze (tutti progetti in attesa di essere brevettati). Tre modi diversi per fare ricerca sulla materia, sulla digeribilità degli impasti e sulla loro versatilità. E dimostrare che si può utilizzare il grasso per veicolare cariche aromatiche che valorizzano gli ingredienti e i loro tempi di cottura. Si lavora sul calzone tradizionale, donandogli uniformità in cottura e capacità di accogliere le farciture più varie, ma pure su una pizza a strati – che ricorda la texture di un centopelli – differente in forma, struttura e persino colore che rompe la monotonia della pasta in masticazione. Nessuna voglia di sostituirsi a chi il pizzaiolo lo fa di mestiere, per carità, ma Alajmo il suo messaggio lo ribadisce chiaro: “Esiste la cucina, senza distinzioni”. E allora è bello che il viaggio dell’innovazione possa proseguire senza limiti e barriere tematiche di sorta. Chiude la mattinata l’omaggio a Umberto Bombana, che l’orgoglio della cucina italiana lo esporta nel mondo, dal suo apprezzatissimo ristorante di Hong Kong. E il momento di celebrazione si trasforma in opportunità per omaggiare un maestro della cucina italiana come Ezio Santin, che per primo ha avviato lo chef bergamasco sul percorso dell’alta ristorazione.

E non si distacca molto dall'idea di Alajmo, Christian Puglisi sul palco insieme a Jonathan Tam con cui condivide il lavoro in cucina a Relae di Copenaghen. Parla di libertà. Quella libertà dello scegliere il proprio lavoro e del modo in cui affrontarlo, senza vincoli, né limiti imposti da una visione predefinita. E testimonianza sia la sua continua voglia di fare e di sperimentare, anche diversi format ristorativi (e oggi è a 5 nella capitale danese).

Dentro e fuori il territorio

Il primo cuoco coreano a conquistare la Stella Michelin è innamorato della pasta, per avendo messo piede in Italia solo oggi per la prima volta. Si chiama Jun Lee (Soigné di Seoul) e rappresenta un esempio, allo specchio, di quell'attrazione tra Italia e Oriente che pare ormai irresistibile. “Non volevo fare la pasta, ma poi quando ho iniziato è diventata la mia ossessione” confessa spiegando il suo amore per certa gestualità. E racconta dei primi approcci negli Stati Uniti e del primo pop up tornato a Seoul. “Ero giovane e sfrontato e ho sperimentato tanto, a volte anche cose immangiabili: volevo dimostrare che potevo fare qualcosa mai fatto prima”. Definisce la sua cucina coreana, ma la sua mentalità nutrita negli Usa è aperta: “si può fare tutto e andare oltre la tradizione”. E così la forma italiana accoglie un gusto coreano: come nei ravioli (eredità dell'esperienza con Jonathan Benno) con il classico ripieno di fagiano con purè di castagne. O nei tajarin con salsa coreana all'aglio.

Da una parte all'altra del mondo, e ritorno: scambio di visite tra il campano Franco Pepe e la pizzaiola Sarah Minnick (Lovely Fifty-fifty) che tracciano la rotta della pizza d'autore da Caiazzo a Portland sulla strada della ricerca delle farine e degli impasti, dei lieviti e dei condimenti. Un percorso che ha visto l'uno incontrare l'altra e viceversa alla ricerca di quegli elementi comuni che li hanno fatti arrivare insieme sul palco di identità golose. La cura assidua ai grani, per esempio, che ognuno declina in modo diverso: fedeltà assoluta al proprio mix di farine per Pepe, continua sperimentazione per l'americana “come vedevo fare da mio padre” dice Pepe nel raccontare lo stupore di aver visto la Minnick gestire diversi sacchi di farina sotto al bancone dell'impasto. Rigore assoluto nella scelta di materie prime locali e stagionali (tanto da osare togliere la margherita in inverno, “perché a Portland il basilico è al massimo solo in estate” dice ancora la pizzaiola). La scelta di condire sulla pala, e poi uno sguardo comune che li ha portati a mettere a punto una pizza a 4 mani, ma divisi da un oceano. Solo attraverso foto e confronti, un viaggio che è stato, stavolta, solo un viaggio nelle idee.

Dentro, completamente immerso nel territorio: così Kobus Van Der Merwe (Wolfgat di Paternoster), per molti il Redzepi sudafricano, parte dai quadri commestibili per raccontare e consegnare ai suoi clienti quell'incredibile angolo di mondo che è la costa Occidentale sudafricana, il frammento individuato dal percorso in bici che fa ogni mattina per andare al lavoro che gli dona la materia viva dei suoi piatti. E lo fa attraverso le molte erbe, i pesci a noi sconosciuti, le piante come il fico dal sapore dolce-salato che ricorda il tamarindo. E le molte erbe aromatiche che confluiscono in paesaggi di sapori. Come nell'insalata che segna lo scorrere del tempo, di mese in mese e di stagione in stagione.

Il viaggio di Norbert Niederkofler (St. Hubertus del Rosa Alpina di San Casciano in Badia) si suddivide in varie tappe. La prima è quella legata al territorio e i suoi abitanti: piante, ortaggi, animali. Un trionfo di tesori che non vediamo quasi più “forse perché abbiamo troppe cose in Italia” e che invece sono da valorizzare al massimo e senza sprechi, per una cucina del rispetto. E il piatto che incarna questo passaggio è la tartara di coregone, dove tutto viene impiegato, perfino le squame (essiccate e fritte per dare il croccante al piatto), le lische e la testa, impiegati in un fondo (a dispetto di quanto comunemente pensato rispetto a questo pesce). Servono tutte le tecniche possibili per valorizzare la materia prima, ma servono anche scelte radicali, come quando decise di concentrarsi sul suo territorio “sono in montagna, cucino la montagna” dice. E questo pensiero è la sintesi di un'ulteriore tappa, quella legata alla paternità e all'esigenza di capire chi è e dove vive, e di costruire un'esperienza gastronomica capace di essere un valore aggiunto per chi si trova di fronte al panorama della Val Badia. E non sono restrizioni, ma spinte alla creatività per trovare, nell'ambiente circostante e nelle materie prime locali, quella che risponde alle proprie esigenze. Come per i contrappunti acidi (ritrovati nella frutta) o la necessità di impiegare alcuni prodotti che hanno una loro stagionalità durante tutto l'anno. L'esempio qui è quello del piatto di Trippa al latte, sanguinaccio con mele, pelle di latte (prima congelata e poi passata al cannello) e ribes. L'ultima tappa è quella che si declina intorno al piatto di oca: cotto con una tecnica giapponese della brace, accompagnato con orzo fermentato, collo di oca ripieno di frattaglie di oca, salsa di oca, in un piatto che ha un respiro etico, nel riconoscere la professionalità del fermentatore alla stregua dell'allevatore e del contadino, non di assumerne i ruoli egli stesso: “per me è importante che ci sia una faccia” dice, “io ci parlo e inizia il viaggio”.

La nuova cucina. Giovani talenti in viaggio

Fil rouge degli incontri della mattina: la necessità di fare squadra e il viaggio che porta i giovani chef dalle cucine dei maestri a una loro personalissima nuova cucina. Partiamo con quello messo in pratica dai giovani cuochi calabresi, tra cui Luca Abbruzzino (Ristorante Abbruzzino) e Caterina Ceraudo (Dattilo). E parliamo di Cooking soon, il progetto dei giovani chef in Calabria, che si fanno ambasciatori della loro terra nel mondo. Si sono uniti per valorizzare il patrimonio culturale, artigianale e umano che vanta l’agroalimentare calabrese, interpretando positivamente un territorio notoriamente difficile. Nasce dalla voglia di mettersi in gioco assieme, dimostrando anche la capacità di andare oltre all'egocentrismo. Caterina lo conferma: “Crediamo nella partecipazione, insieme alle aziende, ai piccoli produttori, agli enti, alle istituzioni, ai protagonisti che preservano ogni giorno con il loro lavoro i tesori di questa regione, ad un percorso comune”. Dichiarazione di intenti messa in pratica sul palco di Identità Golose con una ricetta che le appartiene, la frittata mare e monti, in cui la protagonista è la sardella. “Tutto nasce dal libro dedicato a mio papà (Roberto Ceraudo) 'Banchetto di nozze', che è una sorta di enciclopedia della cucina calabrese romanzata. Qui si parla della frittata e tra gli ingredienti compare la sardella. Quando l'ho letto, mi sono subito ricordata del suo sapore unico. Ma mi sono anche chiesta se questo sapore me lo sarei ricordato negli anni”. La sardella è una conserva tipica a base di bianchetti di piccolissima o media taglia, un prodotto su cui si basava l'economia di interi paesi della costa ionica calabrese. Prima del 2010. “Quando la Comunità Europea ha emesso un Regolamento (N. 1013/2010) volto a preservare alcune specie di pesce a rischio, tra questi c'erano i neonati del pesce azzurro (ovvero i bianchetti)”. Senza però fare dei distinguo, come spesso accade. “Con una biologa marina abbiamo appurato che con una formazione adeguata dei pescatori, un monitoraggio costante e regolamentando periodo di pesca e quantità pescata, si risolverebbe tutti i papabili rischi di estinzione”. Basterebbe organizzarsi insieme anche alle istituzioni. Ma torniamo al piatto: un uovo cotto a 65° C per mezz'ora con sfoglia e terra (farina e sardella frullata ed essiccata) e cicoria cotta a pressione per pochissimi minuti, con pochissima acqua, poi marinata in acqua e sale, “così dal punto di vista aromatico è come la cicoria cruda mentre la consistenza ricorda la cotta. È un insegnamento di Niko Romito. Da lui ho imparato a mantenere integro il prodotto, esaltando al massimo anche gli ingredienti poveri”.

Il ruolo dei maestri

E veniamo ai maestri di questi giovani chef. Onnipresenti in ogni intervento, tra ringraziamenti e sentita gratitudine. Con un positivo atteggiamento di umiltà diffusa. Non sappiamo se è grazie alla selezione fatta dagli organizzatori del congresso, ma la sensazione è che tra le giovani promesse della cucina italiana ci sia un ritorno all'umiltà e alla volontà di farsi in quattro. È quello che trapela dall'emozione visibile di Martina Caruso (Hotel Signum), sul palco di Identità insieme al fratello Luca Caruso. E dalle parole decise di Michelangelo Mammoliti (La Madernassa) che ha iniziato a lavorare in cucina al fianco dei nonni a soli 11 anni. “Devo tutto ai miei maestri, da Marchesi a Ducasse, a Stefano Baiocco (presente in sala). Da loro ho imparato a non lamentarmi, il rigore, la disciplina e il rispetto, per la materia prima e per gli altri”. Il suo piatto è frutto di tutti questi insegnamenti e rappresenta perfettamente il viaggio: si chiama Cubic ed è un raviolo quadrato, ripieno di anguilla, servito con barbabietola sotto aceto, albicocca fermentata in soluzione di prugne, spinaci.

 

Cubic

Viaggio, maestri, gratitudine. Denominatori comuni anche dell'intervento di Riccardo Canella (Noma) che recita una poesia per presentare il suo piatto The dark side of the squid.

 

The Dark side of the Squid

Un viaggio dal Veneto, regione d'origine dove peraltro ha incontrato Massimiliano Alajmo - “uno dei più grandi chef a livello italiano, con un approccio alla materia tradizionale e al tempo stesso fresca quasi come quella di un bambino. Le Calandre è il posto dove ho mangiato meglio nella mia vita”– a Copenaghen, dove ha conosciuto il suo attuale maestro René. Ma anche un viaggio interiore che (ri)porta alla tradizione: “Il futuro è il ritorno alla tradizione. Come diceva mia nonna: se vuoi sapere dove vuoi andare devi conoscere da dove vieni”. Sul palco presenta un calamaro (ricordo del piatto veneto: la seppia al nero) crudo spennellato con un garum di calamaro, nero di seppia, e una pasta di maitake. Con una riduzione vegetale, limone, radici di prezzemolo con olio di radici di rabarbaro, aglio nero, sale di alga arrostita, salsa al prezzemolo.

Partire verso la libertà

La nuova cucina è anche quella che viaggia dalla strada maestra alla rivendicazione della propria libertà espressiva. Sono tutti giovanissimi gli chef che si alternano sul palco della Sala Blu nella scaletta pomeridiana per spiegare cosa significhi avere il coraggio di metterci la faccia, e l’anima, al giorno d’oggi. Molti hanno maturato precocemente l’amore per la cucina, figli di grandi famiglie della ristorazione italiana. Altri, questo percorso, l’hanno incrociato in un secondo momento, sviluppando pure una consapevolezza per il territorio in cui sono cresciuti da cui non può prescindere l’affermazione della propria personalità. Tutti però hanno in comune la predisposizione a viaggiare, quell’apertura mentale e l’attitudine al sacrificio che li ha resi particolarmente maturi sin da giovanissimi, abituati a muoversi in grandi brigate, capaci di equilibrare l’esigenza di condividere un obiettivo comune con il desiderio di emergere (senza prevaricare gli altri). Che poi è la spinta che fa la differenza: occhi ben aperti per cogliere ogni insegnamento del maestro, fiducia incondizionata nel lavoro di squadra e insieme affinamento di quella capacità critica necessaria per spiccare il volo. In questo senso, è la storia “over quota” di Marta Scalabrini– oggi chef patronne di Marta in Cucina a Reggio Emilia – a imporsi come modello: il distacco è il tema fondante del suo viaggio, dalla cucina di Marco Stabile verso “una città da fondare” secondo le proprie regole. Con quella propensione al rischio che rappresenta la forza della libertà: “Ti voglio bene, ma me ne devo andare”, come Enea davanti alle promesse di felicità di Didone. Distacco straziante che si stempera nel piatto presentato sul palco, sgombro, rapa rossa e finocchietto per raccontare un gioco intellettuale nelle premesse (la metafora tra il viaggio di Enea verso la fondazione di Roma e quello di un giovane cuoco) e convincente nel gusto. Marta è arrivata alla cucina con un po’ di ritardo – a 27 anni – ma oggi, a 34 anni, rivendica con forza la voglia di esserci, perché “quello che cerca l’ha nel cuore”, come diceva Guccini in una sua canzone.

Il legame di sangue, dal Salento all’Abruzzo

Più a Sud, in quel Salento che fa fatica a trovare un’identità gastronomica contemporanea, i giovanissimi BrosFloriano e Giovanni Pellegrino con l’inseparabile Isabella Potì– non fanno neanche 90 anni in tre. E da poco più di un anno si sono fatti motore del proprio territorio – “pensiamo globale, facciamo locale” - dopo aver viaggiato nel mondo per formarsi nelle cucine dei grandi maestri. Il palco lo padroneggiano come pochi, abili comunicatori e cuochi d’esperienza, nonostante la giovane età. E al pubblico di Identità presentano un Sanguinaccio Royalrealizzato live, che oltre a omaggiare la terra in cui sono nati (“abbiamo studiato da un macellaio come realizzarlo, istruiti da un gitano seconda la tecnica tradizionale”) sceglie l’impatto visivo per rappresentare il legame di sangue che li unisce. Lo stesso che lega i gemelli Spadone, figli d’arte di una grande famiglia della ristorazione abruzzese, alla guida de La Bandiera di Civitella Casanova. L’attitudine sul palco dei due ragazzi è molto più schiva, ma la scintilla che scaturisce dal legame che li unisce si rivela con forza durante l’esecuzione di un piatto buonissimo, che esalta la materia prima locale – il pollo dell’azienda Del Proposto – con la tecnica magistrale appresa da Mattia alla scuola dei fratelli Roca (mentre Alessio, suo fratello, si faceva le ossa in sala all’Enoteca Pinchiorri). Il viaggio verso l’Abruzzo si rende quanto mai doveroso nel momento in cui è più forte il rischio che si spengano i riflettori su una regione così ricca di storia gastronomica e prodotti eccellenti. Loro, con il supporto di mamma e papà, ne sono ambasciatori eccellenti, e sorprende, oltre alla perfetta sintonia (“assaggio tutti i piatti di mio fratello quando li crea, e so come raccontarli ai clienti”) la concretezza con cui si approcciano alla pratica della ristorazione, dall’approvvigionamento delle materie prime alla gestione del cliente.

Territorio, prodotti e fatica

La stessa maturità la porta sul palco Matteo Metullio, chef de La Siriola, che nel 2013 è stato lo chef stellato d’Italia più giovane di sempre. Oggi, a 28 anni, affronta la gestione del lavoro in cucina come gli è stato insegnato dal maestro Niederkofler: rigore altoatesino per concertare un meccanismo perfetto. E capacità di sfruttare a vantaggio proprio e del commensale quell’amalgama di personalità, provenienze, culture che si ripropone in ogni brigata. In fondo anche questo vuol dire viaggiare, attraverso gli incontri in cucina. Suo il gioco sul chilometro vero: uno Spaghetto freddo a km 4925, la somma della strada percorsa dagli ingredienti che finiscono nel piatto, dagli scampi pugliesi di Porto Santo Spirito alla colatura di alici campana, dal basilico al pomodoro. Ma la nuova cucina italiana è anche pizza, con il 25enne Stefano Vola (allievo di Gabriele Bonci), da Santo Stefano Belbo, che l’amore per le sue Langhe lo mette in teglia – con un impasto arricchito da nocciole piemontesi – e nella scelta di fare rete per promuovere il lavoro contadino, la fatica di svegliarsi prima dell’alba, il gusto autentico del territorio.

Identità di pasta: Occidente-Oriente e ritorno

Sono 8 anni che dal palco di Identità Golose si ragiona sul piatto simbolo dell'Italia. E in questi 8 anni non sono mancate provocazioni nella quali la pasta è stata interpretata in modo nuovo, lavorata, stressata, talvolta maltrattata, per evidenziarne potenzialità ancora inedite. Lo dice Matteo Baronetto (Del Cambio) quando spiega che la difficoltà di misurarsi con un prodotto iconico come la pasta racchiude in sé la messa in luce di caratteristiche magari minime non ancora scoperte. E le caratteristiche si muovono dentro-fuori la tradizione. E dentro e fuori i confini.

C'è tanta Asia, in questa mattinata dedicata alla pasta. C'è nell'intervento di Carlo Cracco, (che annuncia l'abbandono della tv per affrontare il nuovo impegno) che spinge il pedale della ricerca dei sapori negli Spaghetti con salsa di tè verde matcha, wasabi e bottarga, e c'è – come prevedibile - nell'intervento di Luca Fantin del Bulgari di Tokyo che firma una magnifica cucina italiana a partire dal 90% di prodotti locali, cercati fin negli angoli più remoti del Giappone, come testimonia il libroLa cucina di Luca Fantinche segue le tracce del suo girovagare alla ricerca di prodotti sconosciuti agli stessi giapponesi, che possono interpretare la cucina tricolore in modo fedele. Si tracciano così le tappe di un viaggio nella materia prima che è anche un viaggio alla ricerca della materia prima e delle sue variazioni stagionali, in cui ha messo insieme ben 200 fornitori. L'incontro di sapori e di culture si risolve con l'Insalata di pasta, per la quale usa la pentola in cui in Giappone si prepara il riso, e ci cuoce i ditalini in un brodo intenso di frutti di mare (in proporzione di 2:1) fino a completo assorbimento. L'obiettivo è valorizzare la pasta di piccolo formato (riscoperta per i suoi figli) che trova poco spazio nell'alta cucina. Si ottiene una pasta slegata, ideale in insalata, arricchita da king crab, ricci di mare, uova di salmone, verdure amare e dressing di erbe fermentate, e portata in tavola direttamente nella pentola da cui attingere liberamente, per lo stupore dei clienti di un locale così lussuoso. Un'idea di convivio e condivisione che si affaccia sempre più di frequente nelle grandi tavole di mezzo mondo.

Ma l'oriente entra, a sorpresa, anche nell'intervento di Ernesto Iaccarino che parla con convinzione di identità familiare, mediante il bel video che ripercorre la storia degli Iaccarino attraverso 100 e passa anni, raccontando le numerose attività, dentro e fuori dall'Italia, a San'Agata ai Due Golfi e alle Pieracciole, l'azienda agricola di 8 ettari di famiglia. Ma il radicamento in un territorio da solo non basta: “la cucina è anche contaminazione”. E detto da uno che celebra la tradizione fa riflettere: “oggi sembra che la cucina sia usata per mettere dei muri. Invece la cucina è apertura”. Anche perché, aggiunge: “ci sono tante grandi cucine nel mondo. Non solo quella italiana” e lui ne mette insieme tre, nel suo Dumpling mediterraneo: quella nostrana, quella orientale del raviolo, e quella mediorientale del gelato di fagioli. Un omaggio alla Cina in cui gli Iaccarino, da 10 anni, hanno a Macao un loro avamposto di mediterraneità. Il dumpling ripieno di verdure è laccato con una demi glace vegana con la carrube a sostituire le ossa, con un concetto più contemporaneo di bontà e sostenibilità. Ma anche la sua aglio, olio e peperoncino con salsa tonnata e sgombro marinato svela nuovi paesaggi e rimandi territoriali.

Note giapponesi anche nel piatto di Anthony Genovese (Il Pagliaccio). Nato in Francia, da genitori calabresi, ha lavorato in Giappone, Thailandia, Malesia, Cina. Chi meglio di lui poteva parlare di viaggio? Un viaggio tra i luoghi ma anche personale, verso una italianità che ha dovuto sudare e dimostrare. Con grande apertura nei confronti delle altre culture e tradizioni. Sul palco di Identità porta delle pacote (questo il nome dei mezzi paccheri Felicetti) cotte al vapore. Una cottura classica Giapponese, all'interno di un cartoccio fatto di alga kombu, attraverso la quale la pasta non assorbe tutta l'umidità, e se anche tende a gelatinizzarsi, non essendoci un ricambio, l'effetto finale è una sorta di vetrificazione. Una reazione che dà alla pasta struttura e consistenza completamente diverse. Il piatto si completa con fegato di merluzzo - “conosciuto dopo un viaggio in Norvegia”- ostriche, acciughe e brodo di radici (radici bruciate nel camino e acqua) e zenzero bruciato “che chiude il sapore del brodo, regalando affumicatura, dolcezza e piccantezza”.

Tradizione e classicità 2.0

C'era una volta la cucina delle grandi riunioni familiari intorno al tavolo, dei piatti importanti e delle tradizioni borghesi. La cucina degli aspic o dei prodotti pregiati. È una cucina che ancora resiste e trova nuove aperture che, dall'altro lato della bilancia rispetto alla seduzione esotica, si traducono in versioni aggiornatissime eppure a loro modo fedeli di quelle pietanze. Lo fa Fantin nella pasta con una bottarga prodotta con tecniche che rubano intuizioni dalla grande tradizione italiana e nipponica, molto più delicata della nostra. O Cracco nei suoi Fusilloni con burro affumicato e pepe di Timut col burro che rimanda alle cucine di impostazione classica, in abbinata al parmigiano e con l'aggiunta del pepe. Un piatto che seduce con la familiarità dei sapori, e conquista con inaspettate sfumature. E lo fa Baronetto nel suo aspic di spaghetti (pasta in doppio condimento, con sugo di carne e con peperoncino a mitigare la spinta grassa, attorcigliati insieme e immersi in una gelatina neutra con semi di olive). Ma un esempio sono anche i Sedanini Mistery cotti nella zucca all'interno dell'utensile-scultura di Andrea Salvetti. Solo apparentemente trasgressivi perché gli oggetti del designer già sperimentati da Paolo Lopriore (cui Baronetto riconosce la primogenitura nell'uso: “noi cuochi non dobbiamo aver timore a usare strumenti che usano già altri colleghi perché ci sono visioni differenti” spiega “è l'identità di ognuno che dà la libertà”) riportano in tavola la cucina di convivialità e condivisione. Le grandi ceramiche di servizio e le casseruole da cui attingere. Lo dimostra anche Massimo Mantarro di Taormina (dove guida i tre ristoranti del San Domenico Palace: 20 persone in cucina e 28 in sala) che punta tutto al territorio e alla stagionalità, con piatti generosi e pieni di sapori e di aromi. Al Principe Cerami, gourmet dell'albergo ospitato in un ex convento del '400, si alternano suggestioni rubate a quel territorio così ricco: triglia, carciofi e mandarini tardivi. Ma anche seppia e nero di seppia. In un carosello di sapori che ritraggono un paesaggio che è quello che dalla terrazza del loro ristorante gastronomico abbraccia dall'Etna al Teatro Greco di Taormina, in un passaggi tra erbe aromatiche, ortaggi frutta e pesci presi nel loro variare mese dopo mese.

Nel pomeriggio gli interventi di Eugenio Boer (Essenza), Mauro Colagreco (Mirazur), Luciano Zazzeri (La Pineta). Con lo chef di Essenza che provoca e presenta la Carbonara Smile. “Ogni volta che esco dall'Italia mi capita di vedere nei ristoranti delle carbonare al limite del decente. Così ho voluto fare anch'io la mia versione”.Il piatto dello chef è una provocazione: una bavarese fatta con il grasso del guanciale e il condimento classico della carbonara, più la panna (“Mi sono detto: se la devo fare male, la faccio male veramente”). Ad accompagnare la bavarese pasta stracotta, disidratata e fritta, con due cubi di guanciale.

 

Carbonara Smile

Colagreco porta un piatto che racchiude il presente (francese) e le sue radici sudamericane e abruzzesi. “Quest'anno sono andato a Guardiagrele, il paese dei miei nonni, e ho assaggiato tutti i prodotti locali, tra cui un formaggio di capra con la lavanda. Così oggi porto un pacchero ripieno di caprino e lavanda proveniente dalla Costa Azzurra, accompagnato da una specie di parmantier preparata con patate viola(sudamericane), porri, brodo e latte dove è stata in emulsione la lavanda”. Zazzeri incanta la platea con la sua spontaneità, l'enorme conoscenza in fatto di pesci: sa riconoscere un pesce pescato a rete da uno pescato con la canna per via della consistenza; quello a rete ha la carne molto più frollata. Sul palco prepara gli spaghetti con le acciughe, marinate con aglio, olio, peperoncino, prezzemolo, e i fegatini di pollo.

Ritorno al futuro

Chiude la giornata di Identità di pasta il grande Davide Scabin (Combal.Zero), ovvero uno che ha sdoganato la pasta nell'alta cucina, rendendola degna di essere presentata ai congressi o di comparire sulle tavole delle cucine d'autore. Apre il suo intervento raccontando una storia, scritta da lui, su quel che sarà nel 2.400. Ovvero un ritorno, da parte di una popolazione assuefatta di realtà virtuale, sapori tutti uguali e cibi ogm, a una vita vera e a cibi biologici. “È un viaggio verso “Atavica” perché la tradizione non è lontana, ma si muove con noi e cambia continuamente. Oggi, per esempio, prendo tre piatti della tradizione, li metto assieme e ne faccio un mio piatto. Unico nel suo genere. Un po' come fanno i bartender che mixando Vermouth rosso e Campari creano il Milano Torino”. Ecco dunque la Caciocarbogene, una pasta cacio e pepe (dove al posto del pepe c'è il garofano), carbonara (con uovo cotto per un'ora e dieci a 62° C, rotto e condito con olio all'anice e sale grosso) e genovese di agnello. Un oltraggio a pubblica tradizione? Assolutamente no:“è un piatto divenuto mio sfruttando la tradizione italiana”.In questa nuova linea “atavica” Scabin ha eliminato tre elementi caratteristici della cucina cosiddetta contemporanea: i piatti diversi per ogni portata (“Al Combal.Zero usiamo un unico piatto per tutto il menù”), i germogli e i fiori (“che usiamo solo ed esclusivamente per un dolce a cui serve il tannico”). Alla fine del suo intervento, e della giornata, annuncia anche di essere stato ingaggiato da Hervé This come ambasciatore della cucina Note by note, insieme ad Andrea Camastra, di cui vi abbiamo parlato qui

Identità Golose 2017 | Milano | Mi.Co. | via Gattamelata | www.identitagolose.it/

a cura di Annalisa Zordan, Antonella De Santis e Livia Montagnoli

Per leggere il report della prima giornata clicca qui

Fame. Storia della fanzine che parla di cibo

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Una fanzine che parla di cibo, ma anche di magia, viaggi, rimorsi, amore, cattivo gusto. È il progetto di Alessandra De Cristofaro e Irene Rinaldi.

Cominciamo dalle basi. Fanzine (contrazione di fan e magazine) è una rivista di ultranicchia destinata agli appassionati di un determinato settore. Fame, da leggersi in italiano, sta a indicare l'appetito a tutto tondo. Un po' come lo intendeva Steve Jobs, un po' nel senso letterale del termine. E Fame Fanzine, neanche a dirlo, è una rivista sul cibo creata da due giovani illustratrici: Alessandra De Cristofaro e Irene Rinaldi.
 

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Alessandra De Cristofaro e Irene Rinaldi

Alessandra, classe 1982, nasce a Lecce, a diciannove anni si trasferisce a Bologna per iscriversi all'Accademia di Belle Arti e continua la sua carriera da illustratrice ad Amburgo dove amplia le sue conoscenze per poi lavorare con case editrici per ragazzi. Irene è romana, è dell'85, dopo il liceo frequenta l'Istituto Europeo di Design e pian piano si dedica principalmente alla stampa artigianale e all'incisione. Arriviamo così al 2014, quando le due decidono di dar vita al loro progetto. “Da sempre siamo molto attente al cibo, al gusto, al sapore e ci stuzzicava l'idea di parlarne in maniera nostra, senza limitazioni, con un approccio diverso. A volte si tratta il cibo come una divinità intoccabile, ecco: noi volevamo essere un po' blasfeme riportandolo alla pancia, alla spontaneità”. A questo si aggiunge l'esigenza di uno spazio libero fuori dalle costrizioni economiche o dalla distribuzione canonica: “Ci siamo trovate d'accordo sul far confluire il progetto in una fanzine. Da lì abbiamo pensato al nome. Nessun dubbio: la parola “fame” era perfetta sia perché suona bene accanto a “fanzine” sia perché lascia spazio a tante interpretazioni”. Una volta scelto il nome e il tipo di prodotto editoriale, sono partite.
 

Fame Fanzine

48 pagine fotocopiate, quartino centrale a colori, copertina inizialmente stampata in serigrafia, il tutto raccolto con punti metallici. Fame è una fanzine dal carattere volutamente auto prodotto e che per certi versi va contro a tutti i principi della grafica: “I primi numeri di Fame Fanzine avevano la copertina stampata in serigrafia, una tecnica non casuale dato che per noi rappresenta libertà, libertà di stampare su qualsiasi supporto o superficie, di stampare a casa, di auto produrre. Secondo la filosofia punk del Do It Yourself, equivalente dell'italiano fai da te, che rifiuta le canoniche etichette musicali”. Allo stesso modo le due aggirano qualsiasi problema legato alla distribuzione, tant'è che stampano solo 50 copie che incrementano in base alle richieste. Sia per evitare sprechi sia per consentire (e qui ritorna la libertà) a chiunque di stamparsi a casa la rivista disponibile online gratuitamente. “L'obiettivo di Fame Fanzine non è certo quello di fare i soldi. Almeno per ora! Ma rappresenta un'oasi felice al riparo da scadenze, richieste assurde, clienti difficili da gestire”. Fare auto produzione vuol dire anche fare un investimento proporzionale al tempo che possono dedicargli e il prezzo della vendita, di 3 euro, finalizzato esclusivamente alla stampa del numero successivo.
 

I collaboratori

Ogni numero ha un tema diverso che viene sviluppato da illustratori, giornalisti, scrittori, fotografi e fumettisti in totale libertà di tecnica e contenuti. Si parla di viaggi, di magia, rimorsi, amore o cattivo gusto. E tra cornetti (lievitati o scaccia fortuna), pozioni magiche, banane che sono anche lune, viaggi di cozze e omaggi al Brioschi, c’è spazio anche per le ricette scritte da Camilla Pistacchi, la chef del ristorante vegetariano, e di volta in volta dagli “ospiti” della fanzine, “per il numero sulla magia un erborista ci ha dato la ricetta per volare - chiaramente la pozione aveva effetti allucinogeni - oppure degli amici del Cilento, che si occupano della riscoperta dei cibi locali (Fichi e Alici), ci hanno regalato alcune ricette dei loro liquori”. Che, a pensarci, sono delle pozioni magiche.

Il cibo, veicolato dalla grafica e dalle illustrazioni, crea in ogni numero nuove sinergie con gli argomenti più disparati. “Ci piace il cortocircuito che si crea associando il tema del cibo con altri argomenti, poi la scelta delle varie tematiche serve a noi per capire chi coinvolgere: la selezione garantisce la totale libertà a chi collabora”. Tra i collaboratori, i fumettisti e illustratori più interessanti del momento, come Alice Socal, Marta Baroni, Misstendo, Cristina Portolano. E ancora Daniela Tieni, Soniaqq, Marco About. Coinvolti con lo spirito che si avvicina più che altro a un invito informale a cena. “All'inizio abbiamo coinvolto gli amici poi pian piano abbiamo allargato il tiro. L'impostazione rimane sempre la stessa: quando chiediamo un contributo, lo facciamo invitando chi partecipa a sentirsi libero di proporci cose diverse dal suo campo d’azione abituale, di sfogarsi per comunicare qualcosa di nuovo, senza alcuna, a parte il tema, indicazione editoriale. Tanto selezioniamo i collaboratori a monte”. E la libertà è quello che ripaga il contributo gratuito. Ovviamente sono Alessandra e Irene a curare l'editing: “Siamo attentissime a pubblicare un lavoro lineare e corretto, proprio per il rispetto assoluto nei confronti del lavoro altrui. L'editing è il nostro atto di amore nei confronti di chi percorre un pezzo di strada con noi”.
 

Curiosità a margine

Chiediamo loro di consigliarci due locali, uno a Roma e l'altro a Lecce, imperdibili. “Pigneto Quarantuno a Roma nel quartiere Pigneto e il bistrot vegetariano Etiko Bottega a Lecce”. Siete per caso vegetariane? “Beccate! Ma rispettiamo tutti coloro che fanno la spesa, anche carnivora, eticamente”.

www.famefanzine.com

a cura di Annalisa Zordan

Il biologico nutrirà i Paesi del Sud del mondo. La ricerca

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Un interessante dato è emerso dal rapporto annuale “The World of Organic Agriculture: Statistics and Emerging Trends” dell’istituto di ricerca FiBL e della Federazione internazionale dei movimenti per l'agricoltura biologica IFOAM (848 organizzazioni associate da 121 Paesi, 22 dall’Italia) in occasione di Biofach, il salone dedicato agli alimenti biologici di Norimberga: Asia, Africa e America Latina sono le tre aree che ospitano l’85% dei produttori di biologico di tutto il mondo.

Il Sud del mondo ospita più di tre quarti dei produttori di biologico

L'aggiornamento al 2015 mostra una comunità che conta 2,4 milioni di operatori del settore, ben il 7,2% in più rispetto all’anno precedente. Guardando alla classifica, l’India conferma la sua posizione di testa (585.200), seguita da Etiopia (203.602) e Messico (200.039). Dati che non solo scardinano la vecchia concezione che lega il biologico all’idea di un tipo di coltivazione elitaria, ma che mettono in luce il valore del bio come strumento concreto volto al miglioramento della qualità di vita degli agricoltori, garantendo concretamente lo sviluppo della sicurezza alimentare, della crescita economica, della tutela ambientale e della salute dei Paesi in via di sviluppo. Lo conferma anche Paolo Carnemolla, presidente di FederBio, federazione nata nel 1992 per iniziativa di organizzazioni di tutta la filiera dell’agricoltura biologica e biodinamica, riconosciuta quale rappresentanza istituzionale di settore nell’ambito di tavoli nazionali e regionali: “L’agricoltura biologica gioca un ruolo fondamentale nei Paesi in via di sviluppo soprattutto in aree caratterizzate da scarsità di risorse dove piccole unità familiari sono legate a una gestione tradizionale della terra. È stato dimostrato come in queste zone l’agricoltura biologica sia più efficiente non solo per i costi più bassi determinati dal reimpiego delle sementi e dalla rinuncia a fertilizzanti chimici e pesticidi, ma anche per rese uguali e superiori all’agricoltura convenzionale nel lungo periodo. Rese che sono conseguenza del ripristino della sostanza organica nel terreno, in grado anche di diminuire l’impatto della siccità e di contrastare la desertificazione”.

 

Il biologico. Un settore in crescita su tutti i fronti

Ampliando la prospettiva al mondo intero, il rapporto fotografa un settore in crescita su tutti i fronti: un mercato florido (75 miliardi di euro), l’ampliamento dell’estensione di terre coltivate (+14,7%) e l’aumento dei produttori (+7,2%) soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Qualche esempio concreto: nel 2015, la coltivazione biologica di avocado, frutta tropicale e cacao ha registrato una forte crescita in Africa. Il continente ha fatto notevoli passi in avanti grazie agli incentivi e alla pianificazione strategica del biologico supportata dell’African Union. La maggiore attenzione e consapevolezza hanno portato a un aumento delle esportazioni e al rafforzamento del mercato domestico. Anche sul versante Asia i dati seguono il trend: il continente ha registrato un’importante crescita del mercato interno. Dove la Cina detiene la leadership sia in termini di dimensioni del mercato (4,7 miliardi di euro) che per superficie agricola biologica (1,6 milioni di ettari). Infine, con il 13% delle terre globali destinate al biologico, l’America Latina è la terza area del mondo per entità di superficie dopo Oceania ed Europa. Qui, nonostante la crisi economica abbia ridotto sostanzialmente i supporti governativi all’agricoltura biologica, molte amministrazioni locali si sono date da fare per agevolare i produttori.

 

La conferma di WWF Italia

Una tesi anticipata e confermata nel forum internazionale di Expo “Il Biologico nutrirà il Pianeta” dove è intervenuto anche un rappresentante di WWF Italia: “Il biologico è l’innovazione agricola e alimentare più importante della fine del XX secolo, basata sulla riscoperta di un approccio ecosistemico, socialmente inclusivo ed economicamente resiliente per la produzione di alimenti e materie prime rinnovabili. I detrattori dell’agricoltura biologica sostengono che non potrà mai nutrire un pianeta di 9,6 miliardi di persone entro il 2050, il WWFItalia insieme a Federbio (la Federazione che riunisce le principali aziende della filiera del biologico in Italia) sono convinti del contrario”.

 

Il rapporto annuale “The World of Organic Agriculture: Statistics and Emerging Trends”: https://shop.fibl.org/fileadmin/documents/shop/1698-organic-world-2016.pdf

 

 

 

Settimana della Birra Artigianale, la festa itinerante per celebrare la birra di qualità

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Torna anche quest'anno, dal 6 al 12 marzo 2017, la Settimana della Birra Artigianale, evento all'insegna del gusto della birra di qualità che coinvolge pub, ristoranti e birrifici di tutta la Penisola.

La presentazione

Il video è davvero suggestivo: parte con le materie prime, seguono i gesti, poi entrano le persone, tutte diverse: ingegneri, avvocati, medici, metallari, hipster, sportivi, vecchi appassionati, incalliti degustatori o semplici curiosi. La promozione della Settimana della Birra Artigianale, che parte oggi, 6 marzo 2017 e terminerà domenica 12 marzo, è stata accompagnata da questo filmato che con poche calde pennellate riassume un modo sfaccettato, complesso, multiforme, in continua evoluzione. Il creatore dell'evento, o meglio del grande contenitore di eventi, è Andrea Turco, che dalle pagine del blogzine Cronache di Birre ogni giorno racconta la scena brassicola italiana e internazionale con competenza e toni pacati rari in questo settore di solito abituato a parlare (e a scontrarsi bonariamente) ad alta voce. Lo abbiamo incontrato ieri al Luppolo Station di Roma, dove si è svolta l'anteprima della manifestazione che coinvolgerà birrifici, pub, beer shop, ristoranti, associazioni di tutto lo Stivale, per un'intera settimana di eventi e promozioni: degustazioni guidate, visite in birrifici, cotte pubbliche, serate di abbinamento cibo-birra e molto altro.

Il Ballo delle Debuttanti

Si tratta della festa che dà inizio alla Settimana della Birra Artigianale, e che anche quest'anno si è tenuta nel locale di Viale Trastevere. Il gioco che si cela dietro il nome riguarda "l'ingresso in società" di 13 nuove creazioni da altrettanti birrifici italiani, che ieri hanno presentato in anteprima le loro ultime ricette, alcune che vanno toccare stili in voga in questo momento come la birre alla frutta – due fruit IPA alle spine, la Magic Key del pugliese Birranova con mandarino, e la nuova T.S.O dell'abruzzese Casa di Cura, con cedro biologico – o le Italian Grape Ale – la Narciso di Birrificio dell'Aspide, con mosto di uve moscato; altre che invece pescano da stili più tradizionali, magari con qualche leggera rivisitazione – come la classica blonde ale di Birrone, la Astrid, o la Sex Appils di Argo, pilsner con un leggero dry hopping di Tettnang, o ancora la cream ale all'elicrisio di Birrificio di Cagliari, la Cream Heli; fino a giungere alla sperimentazione pura: la KO2 di Birra dell'Eremo, realizzata con un lievito non ortodosso nella produzione brassicola.  Poi c'erano anche Toccalmatto con la Rosebud, sour ale aromatizzata con rosa canina e timo, Manerba con l'Interstellar Overdrive, una double IPA definita e pulitissima, Foglie d'Erba con la Coton, anche qui una double IPA potente ed estrema, aromatizzata con resina di pino. Da Arcevia, in provincia di Ancona, il Birrificio dei Castelli ha presentato una profumatissima Damnatio Memoriae, APA con luppoli americani e neozelandesi, mentre dalla provincia di Teramo, Bibir e Opperbacco hanno esibito due birre a tutta beva: rispettivamente la Birrantonio Dry Hopped Edition, golden ale con dry hopping di Hallertau Mittelfruh, e la Hopnotic, hoppy lager con luppolo Galaxy.

Il programma

Ma quello al Luppolo Station è solo un assaggio di ciò che sarà la Settimana della Birra Artigianale. 732 aderenti, 509 eventi e un numero incredibile di promozioni, questi i numeri della manifestazione. E tutto per creare consapevolezza nei confronti di un prodotto che riscuote sì molto successo, ma che ancora non ha diffusione capillare ed è spesso vittima di pregiudizi e scarsa conoscenza. Sono molte le opportunità offerte da questo evento per avvicinarsi a questo mondo o per approfondirne la conoscenza. Alcuni esempi? Oggi, 6 marzo 2017, Retrobottega a Roma, propone la cena-degustazione Where Beer Happens, dedicata ad abbinamento tra piatti di alta cucina e le birre di Ritual Lab; a Livorno invece Hoperation Good Beer organizza presso il pub del Piccolo Birrificio Clandestino la Red Fruits Night, una serata dedicata alle birre ai frutti rossi. In occasione della festa della donna, il prossimo 8 marzo, presso il beershop Zimurgo, in provincia di Varese, Luigi "Schigi" D'Amelio, birraio di Extraomnes, sottoporrà le sue creazioni al giudizio femminile nel Donne VS Birraio. Spostandosi verso sud, a Bari, il Birrificio Bari, in collaborazione con il Planetario Sky Skan presenta A Riveder Le Stelle, spettacolo di astronomia birraria tutto da scoprire. La chiusura, il 12 marzo, è affidata alle cotte pubbliche: a Jesi, presso il Jack Rabbit, brewpub indipendente, e a Vaie (TO) presso il birrificio Soralamà, mentre a Olbia l'associazione Fermento Sardo organizzerà un incontro tra hombrewer, e in Sicilia l'associazione Hora Benedicta proporrà una degustazione particolare, un viaggio tra religione miti e leggende legate alla birra. E molto altro ancora.

www.settimanadellabirra.it/

a cura di William Pregentelli


Dalla rete al piatto: il progetto per promuovere il pesce fresco nelle mense scolastiche

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Un progetto che si propone di valorizzare il pesce fresco del Mare Nostrum nelle cucine delle scuole e promuovere il gusto del made in Italy anche fra gli ospedali e le aziende. Per migliorare il livello delle mense e tutelare i prodotti italiani. Ecco i risultati.

Il progetto

2mila kg di pesce provenienti da nove differenti mercati ittici per le cucine delle scuole marchigiane, abruzzesi, laziali ed emiliane: questi i numeri del progetto Dalla rete al piatto, che si propone di promuovere il pesce fresco italiano dapprima nelle mense scolastiche e poi anche in quelle ospedaliere e delle aziende, convincendole ad abbandonare il prodotto surgelato. A ideare l'iniziativa, Eurofishmarket, azienda di consulenza, ricerca, formazione ed informazione specializzata nel settore ittico. Un progetto volto non solo a valorizzare il pesce fresco del Mare Nostrum ma anche a combattere lo spreco alimentare, tema caldo degli ultimi anni per il quale tutti si stanno battendo. Sostenuto dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Dalla rete al piatto ha iniziato il suo percorso fra i vari istituti lo scorso novembre 2016 concentrandosi in particolar modo su asili nido e scuole elementari. L'obiettivo finale? “Favorire il consumo del pesce povero proponendolo fresco dopo che è stato trasformato in tipologie di prodotto di facile consumo come filetti, bastoncini, hamburger e altri tipi di lavorazione che eliminano la presenza di spine”, ha dichiarato Valentina Tepedino, Direttore di Eurofishmarket.

I risultati

E il pesce italiano sembra avere un futuro nella ristorazione collettiva di scuole, ospedali e aziende, dove ha mostrato di essere nettamente più gradito rispetto al prodotto congelato, spesso di provenienza estera (come nel caso del pangasio vietnamita). Questi i risultati dell'iniziativa, pubblicati la scorsa settimana a Roma durante un evento a cura di Eurofishmarket. Grazie al progetto, alici, tonnetti, triglie, totani, cefali, vongole, cozze, gallinelle, moscardini e razze di Adriatico e Tirreno, specie significative dal punto di vista nutrizionale e organolettico, sono state introdotte nelle mense dell'Ospedale di Pescara, delle Scuole di Modena, dell'Università Tor Vergata - Roma 2, in un'azienda privata marchigiana manifatturiera e al Campo Base Villa Reale di Amatrice. “Abbiamo incontrato e gestito diverse difficoltà scaturite da condizioni climatiche particolarmente avverse e mutevoli che non sempre hanno consentito di reperire determinati prodotti ittici individuati in quel periodo”, hanno dichiarato gli esperti del team di Eurofishmarket. E aggiungono:“Nel contempo, tali criticità hanno ulteriormente innovato e perfezionato l’attività di trasformazione dei laboratori coinvolti che si sono trovati a dover gestire delle vere e proprie emergenze”. Un progetto che mostra risultati positivi, “accolto con grande entusiasmo soprattutto dai più piccoli” e che è riuscito a coinvolgere ben 10.800 utenti in 4 regioni utilizzando 3mila kg di pesce fresco e coinvolgendo 3 laboratori di trasformazione, “numeri nettamente superiori alle nostre aspettative”.

a cura di Michela Becchi

Identità Golose 2017 report. Terzo giorno: Bottura, Romito, Camanini, Lopriore, Cracco

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I grandi nomi della cucina e i grandi maestri pizzaioli, la cucina di montagna e quella di mare. La terza e ultima giornata di Identità Golose punta sui temi caldi della vita gastronomica internazionale.

L'ultima giornata di Identità Golose si apre con la schiera dei big della cucina Italiana: Cracco, Bottura. Romito, Camanini, Lopriore: una sequenza dei talenti più acuti del nostro panorama ristorativo, dotati di una visione che esula dalla semplice cucina. E poi, nelle sale collaterali: pizza, cucina di montagna e cucina di mare.

 

CraccoPiatti di Carlo Cracco

Carlo Cracco: tra ricordi e piatti iconici

Apre l'ultima giornata di lavori Carlo Cracco, che annuncia il suo futuro prossimo. Niente più MasterChef, chiusura del ristorante in via Victor Hugo e apertura in Galleria Vittorio Emanuele II, sempre a Milano. Cinque piani, tre dei quali ospiteranno le cucine, il caffè, la pasticceria, il ristorante, il bistrot: un progetto enorme capace di cambiare le dinamiche cittadine. Sembrano lontanissimi i tempi in cui lo chef vicentino s'iscrisse all'alberghiero non tanto per cucinare, ma per avere l'opportunità di viaggiare. 

E proprio la tematica del viaggio è resa tangibile grazie ai suoi piatti: la Sea salad world tour per esempio. Che deriva dal suo famoso Quaderno di mare“una specie di ceviche a base di dentice che recupera gli scarti di pesce ridisegnati in sfoglie. Al quale abbiamo aggiunto due gelatine, ricavate da altrettanti infusi. Il primo di nasturzio, germogli di piselli, finocchietto, achillea. L'altro a base di pepe di sansho e wasabi; sono queste gelatine” spiega “a fare la differenza perché restituiscono acqua alla preparazione: sembra di ritrovare il mare”. Il viaggio, anche temporale, attraverso i suoi piatti continua con il Tuorlo marinato, altra creazione simbolo, cui è stato aggiunto del plancton “per dare una nota vegetale e marina mantenendo quella sulfurea dell'uovo”. L'uovo, marinato, diventa malleabile e viene usato per fare degli spaghetti conditi con baccalà cotto nel latte di mandorla, ultimati con cioccolato alle mandorle. “L'approccio rimane quello della predisposizione alla contaminazione” dice“anche se non basta usare prodotti esotici, bisogna farli propri”. L'ultima tappa è quella di un viaggio più intimo, legato ai ricordi, che vede come protagonista il Riso e latte, classico dolce contadino. Che sul palco di Identità Golose prende la forma di un arancino con un cuore di mascarpone e zabaione. Al ristorante si serve su una ciotola contenente arancia, zenzero, cannella, garofano, ginepro, anice, cardamomo coperti da sale grosso bollente, che funge da estrattore di profumi. E infine servito con caramello di limone.

 

CamaniniI piatti di Riccardo Camanini

 

Riccardo Camanini: una cucina a doppio passo

Si tratti di quello recente, fatto di esperienze vissute e ricordi familiari, o di quello remoto, di storia antica e tradizioni centenarie, il passato è uno degli snodi cardine con i quali i cuochi fanno in conti. E lo fanno in un modo dialettico, quasi sempre rispettoso, ma allo stesso tempo libero da timori reverenziali. Il viaggio che racconta Riccardo Camanini (Lido 84 di Gardone Riviera) origina da un passato lontano, andando a pescare tra le ricette di epoca romana di cui, grazie ad Apicio, abbiamo testimonianza. In questo caso il “condito di miele da viaggio”, un “intruglio” che ha suscitato la curiosità di Camanini e messo in moto la sua creatività. E, insieme a quella, la voglia di riportare in auge uno strumento affascinante quasi dimenticato, quel torchio che, nella grande cucina classica, si usa per estrarre il corallo dei crostacei e gli umori dalla carne per farne fondi, succhi e salse. Camanini lo porta in sala e lo usa di fronte ai clienti. Ennesimo tassello di quella cucina fatta in tavola che conquista (sarebbe meglio dire riconquista) terreno e trova una splendida interpretazione artigianale a Gardone, come nel servizio della cacio e pepe cotta in vescica o nello zucchero filato con burro di arachidi lavorato a mano in sala. Ma facciamo un passo indietro: torchio alla mano, è venuto naturale riflettere su come rielaborare l'intruglio di Apicio. Ne è nata una salsa di faraona con miele, colatura di alici (al posto del garum), aceto locale di groppello, riduzione di marsala invecchiato; legata con il sangue, che coagula a 55°, nello stile dei civet. Hardcore anche la scelta della carne: il rognone. Frattaglia difficile, amara, ferrosa, presentata in tartara e lavorata in più fasi: cottura, riposo, pressatura (per recuperarne il sangue) e arrostitura violenta della parte centrale. Rompe il tabù del sangue di rognone, tradizionalmente prodotto di scarto, il cui uso è consentito dal grande lavoro dell'allevatore e del macellaio che consegna una materia integra e di qualità.

Questo piatto muscolare ha il suo contraltare in un altro esile, domestico, emozionale: la minestrina di risoni in brodo. Che arriva da un passato recente, e che Camanini trasforma a partire dalla scelta della pasta per assicurare un morso piacevole, cambiando le proporzioni tra liquido e solido, puntando un brodo vegetale e su un grasso ugualmente vegetale a formare i classici occhi oleosi in galleggiamento sul brodo. Crea una salsa di pistacchi e acqua di pomodoro invernale, cui aggiunge un olio di cedro libanese estratto dagli alberi del giardino di Lido 84. Un ritratto dentro-fuori il tempo e la memoria in una cucina che vuole, sempre di più, recuperare il valore del gesto e del gusto.


lopriore

 

Paolo Lopriore: il convivio e la sua storia

Da Apicio al cuoco Bartolomeo Scappi, attivo in quel crogiolo internazionale che era la corte papale nel '500, passando per la riflessione sul ruolo della cucina nei secoli e sul nuovo concetto di ristorazione che Paolo Lopriore (Il Portico di Appiano Gentile) sta definendo per approssimazioni sempre più mirate da un anno e mezzo a questa parte. La sua cucina conviviale è un triangolo ristorativo ai cui vertici troviamo 3 C: cuoco, cameriere, cliente. Ognuno con un proprio spazio (cucina, sala, tavola) e un compito ben preciso. E, pure se riconosce al cuoco un ruolo artistico, lo circoscrive a un lavoro minuzioso sul prodotto. L'obiettivo è intaccare il meno possibile la materia e solo per prepararla alla cottura, mai dopo; al resto pensano i commensali, chiamati a comporre i propri piatti anche grazie ai macchinari artistici di Andrea Salvetti, usati per completare in tavola le cotture.Da Scappi arriva la testimonianza del consumo di cavedano, pesce d'acqua dolce scomparso per secoli dalle nostre tavole che Lopriore lavora “mettendosi a servizio del prodotto”, eliminandone con tecnica le lische senza quasi scalfirlo. Ricuce l'incisione necessaria per togliere le spine e porta il pesce arrostito apparentemente integro, come mai era stato presentato prima, definendo un nuovo parametro dell'arte della tavola.

Della cucina della condivisione e del convivio di Lopriore abbiamo già parlato, ma della cornice in cui matura no. Ci pensa Luca Govoni (docente di storia e cultura della cucina italiana all'Alma) a inquadrare in un contesto storico e sociologico gli elementi portanti della cucina, quella domestica e quella di alto rango. E suggerire spunti di riflessione. Come quando ricorda il ruolo della chiesa nel trasformare le ricette di grasso in ricette di magro, o dà un orizzonte simbolico agli oggetti più familiari, come il sale in tavola a evocare la saggezza di Cristo che si può prendere e dosare; o quando nota come sia cambiato il modo stesso di stare a tavola, definendo (e qui cita un brano del Manifesto dell'Accademia italiana della cucina)la convivialità come "felice parentesi di conversazione e di amicizia"possibile anche grazie a una diversa attitudine fisica. E fa riferimento a quando il commensale si sporgeva oltre il suo coperto, nel prendere un condimento o una porzione, con un gesto di apertura che non trova quasi più riscontro nelle tavole contemporanee. Quel gesto di familiarità e incontro che Lopriore è sempre più deciso a far rinascere.

 

Piatti di Massimo Bottura

 

Massimo Bottura e l'ingrediente più importante

È quasi ora di pranzo ma la voglia di ascoltare l'oratore degli chef tiene la platea incollata alle sedie. È il momento di Massimo Bottura, il miglior chef del mondo da poco laureatosi (con laurea ad honorem) in Direzione Aziendale all'Università di Bologna. Anche lui (come Cracco) fa un excursus storico dei suoi piatti arrivando fino al Rinascimento della cucina italiana. Qui e ora. “Ora come non mai abbiamo preso coscienza del nostro passato, e grazie alla consapevolezza del pensiero contemporaneo, alla condivisione e alla biodiversità alimentare stiamo dando vita a una cucina italiana mai concepita fino a oggi”. Il punto di partenza (e di arrivo) è e rimane sempre la cultura: “L’ingrediente più importante per il cuoco del futuro è la cultura”. Lo chef modenese, non nuovo a parallelismi con l'arte, parla dei ristoranti italiani come delle botteghe rinascimentali, nelle quali attingere saperi, conoscenze, ma anche uno stile preciso, quasi svolgendo un ruolo sociale: “Noi chef dobbiamo essere ambasciatori dell’agricoltura, dobbiamo fare formazione, sviluppare il turismo”.

Ma come ci è arrivato Bottura al Rinascimento? Passo dopo passo, piatto dopo piatto. Esattamente come avviene per l'arte in cui una cosa evolve via l'altra. “Una volta ho assaggiato una Caesar salad, che a mio avviso aveva troppa salsa. Così ho preparato la mia versione: la Caesar salad in Emilia, con croccante di parmigiano, mostarda, aceto balsamico e pancetta”. Dalla versione emiliana è passato poi alla Caesar salad in bloom. Diventata, oggi, un'insalata di mare con acqua al nero di seppia, fondo di teste di gamberi e scampi, acqua filtrata di ostriche, yogurt di latte di mandorle e concentrato di camomilla. È l'evoluzione della sua cucina, che non ha mai perso di vista il gusto, come notato da Enzo Vizzari. Durante l'intervento, Bottura, porta altri esempi (delle tappe) del suo viaggio nella cucina italiana: parla di come è arrivato a creare la Lepre nel bosco, il Riso cacio e pepe, ilRiso camouflage o il Tiramizucca rotto (l'evoluzione diOops, mi è caduta la crostatina) che sarà in carta alla Francescana da ottobre. Ispirato, ovviamente, a un tortello di zucca alla mantovana, piatto della sua infanzia. La chiusura riprende il parallelismo con l'arte: “Come il Rinascimento, dopo l’invasione barbarica, recupera la classicità greca e romana con un approccio consapevole e culturale, così la cucina italiana oggi recupera le tradizioni che le appartengono, dopo l'invasione della nouvelle cuisine, del fusion, dell’avanguardia spagnola o della nordic cuisine”.

 

RomitoInteligenza Nutrizionale di Niko Romito

 

Niko Romito e l'Intelligenza Nutrizionale

Il viaggio che Niko Romito sceglie di raccontare è quello che parte dalla cucina d'autore e arriva alla ristorazione collettiva. Si parla di mense ospedaliere, ma potrebbero essere quelle di scuole, uffici, e altre realtà fatte di grandi numeri e bassi costi. All'estremo opposto dell'alta ristorazione, fatta di spese alte, talvolta altissime (e non solo per i clienti ma ancora di più per i ristoratori), e di pochi coperti. Così, risalendo la corrente, Romito ha trascinato con sé quanti più elementi del suo ristorante Reale (Tre Forchette e Tre Stelle Michelin a Castel di Sangro) per distillare saperi e tecniche anche ad altri format gastronomici, esempi di una “cucina di mezzo” alla portata di tutti. Ci sono stati prima i bistrot della scuola di cucina di Romito, Spazio (Rivisondoli, Roma a breve il trasloco - Milano ma potrebbe essere anche Londra, New York o Tokyo”, dice non senza lasciar presagire nuove prospettive), primo frutto di un processo di democratizzazione del cibo di alta qualità possibile grazie a quel laboratorio di ricerca che è rappresentato dal Reale, in cui si studiano tecniche e si sperimenta, per poi impiegare i risultati anche in altri contesti. “Un po' come per la Formula 1” diceva qualche tempo fa, alludendo a quanti ritrovati tecnologici d'avanguardia siano passati dalle auto da corsa a quelle che incrociamo quotidianamente sulle nostre strade. Quando una ricerca viene elaborata nei suoi risultati, messi a sistema e ottimizzati nei costi e nelle procedure, può uscire dal contesto dell'eccellenza ed essere declinata in diversi àmbiti. Un processo a cascata, insomma. In cui le tecniche dell'alta cucina non servono a dare vita a creazioni originali, ma a definire dei canoni che non lasciano spazio a errori, a codificare dei procedimenti che consentono di realizzare piatti perfetti indipendentemente dalla mano che li realizza eliminando il ruolo autoriale del cuoco. Ancora una volta, esattamente all'opposto di quanto si ritiene sia patrimonio della cucina d'autore.

Del progetto Intelligenza Nutrizionale, sviluppato in collaborazione con GioService, e l'Unità di Ricerca in Scienza dell'Alimentazione e Nutrizione Umana dell'Università La Sapienza di Roma, e del ruolo primario dell'alimentazione nel percorso di guarigione, vi abbiamo già detto quando Romito lo ha presentato qualche mese fa. Ora è arrivato il momento di vederne la messa in pratica (con l'appuntamento del 12 aprile per il primo servizio), di capire come, concretamente, le tecniche messe a punto (sottovuoto, siringaggio, alta temperatura e pellicola di amido, salamoia, vapore) rispondono alle esigenze della cucina ospedaliera: food cost complessivo? 5 euro al giorno (per colazione, pranzo, cena), riduzione di scarti ed energia (con notevole impatto su grande scala), aumento del valore nutrizionale dei prodotti anche dopo la cottura, sapore, aspetto, facilità di preparazione (e costanza nei risultati), conseguente educazione alimentare. Complice di tutto questo processo, un carrello impiegato per trasportare e rigenerare i piatti, che arriva a 100° e consente non solo di tenere in caldo i cibi, ma di completarne la preparazione mentre arrivano ai pazienti.

 

pizze

Identità di Pizza. Contaminazione di gusto

Nel gioco di prospettive ribaltato che assegna all’ultima giornata di Identità il programma più ricco di ospiti di peso e tematiche collaterali, alla pizza spetta la dignità che ha saputo conquistarsi sul campo col passare degli anni, fino a raggiungere un livello di prestazione altissimo e diffuso in tutta la Penisola, quale che sia lo stile abbracciato dai pizzaioli in Italia e nel mondo. La pizza, dunque, come viaggio di contaminazione tra cucina e arte dell’impasto, o studio della materia, come preferisce dire Massimiliano Prete. Il pizzaiolo pugliese adottato dal Piemonte apre la mattina di Identità di Pizza al fianco dell’amico e sodale Enrico Crippa. Insieme propongono una Contaminazione di gustoche è anche viaggio tra i prodotti d’eccellenza d’Italia, dalla cima di rapa alla cipolla piemontese, che accompagna pure l’assaggio di una focaccina bella da vedere quanto buona da mangiare sotto forma di brodo in bicchiere. Il sodalizio tra i due si concretizza nella comunione di intenti che li spinge a lavorare con rigore e dedizione, entrambi orientati verso quell’evoluzione gastronomica che richiese studio costante. Ma anche voglia di divertirsi con la materia prima, contaminare i generi, condividere esigenze: “Il prossimo passo?”rivela Crippa “Ho chiesto a Massimiliano di fare il pane per il mio ristorante: è giusto che il cuoco si dedichi alla cucina, affidandosi a un professionista per la panificazione”.

 

La pizza di Nasti

Evoluzione, ricerca, originalità: la nuova dignità della pizza

Maestro riconosciuto della pizza, abile “scultore della farina” è Corrado Scaglione, prima cuoco e poi pizzaiolo per passione, che tutti i giorni fa viaggiare la verace pizza napoletana, rivendicando la possibilità di portarla oltre i confini tradizionali, lui che con l’Enosteria Lipen ha fondato in Brianza un rifugio per chi vuole affidarsi alla sapienza di chi conosce il mestiere. La missione è quella di comunicare la pizza nella sua complessità, e presto la proposta di Lipen si arricchirà di un prodotto a pala, mentre il maestro sperimenta nuovi impasti. Sul palco di Identità presenta il suo viaggio verso la contaminazione territoriale, che è pure il viaggio che vuole condividere con i suoi commensali; e sul disco steso con maestria finiscono cipolla di Tropea, lardo di Arnad, pomodori del piennolo. Poi regala un assaggio di dessert/non dessert, con una mousse di acqua di mozzarella caramellata in superficie e contrastata da canditi di limone, “perché una pizzeria deve proporre dolci all’altezza: da Lipen il dessert vale il 10% del fatturato, non possiamo ignorarlo”.

Ma c’è anche chi porta sul palco la voglia di viaggiare oltre i confini nazionali per riscoprire il senso di una ricerca che a volte è troppo difficile riconoscere tra le mura domestiche. Del resto nemo profeta in patria, e Gennaro Nasti per trovare la sua consacrazione ha dovuto prima conquistare Parigi, con una pizza che è il risultato sì dell’attaccamento alla sua terra, Secondigliano, ma soprattutto del desiderio di lavorare fuori dagli schemi, fino a incarnare il ruolo di pizzaiolo chef dietro al forno di Bijou (più tradizionale, invece, la proposta di Popine). Il suo, dunque, è un viaggio alla ricerca di un’identità in aggiornamento costante, che fa bene al mondo della pizza d’autore e alla promozione del made in Italy all’estero.

Nel pomeriggio è tra gli altri Ciro Salvo (50 Kalò, a Napoli, e più di recente 50Panino) a rappresentare l’orgoglio della pizza napoletana con un inno al valore della semplicità: Margherita e Marinara. Gli fanno eco Giuseppe e Simone Vesi (Pizza Gourmet), in un pomeriggio molto napoletano, con una lezione sulla riscoperta dei sapori veri. E si chiude con l’americana Sarah Minnick, già protagonista in auditorium con Franco Pepe il giorno precedente, che propone due pizze, una rossa e una verde. Con lei al forno c'è ancora una volta il pizzaiolo di Caiazzo, assistente per un giorno. Gran finale affidato a Renato Bosco (presto grande protagonista a Verona) con l'originale Marghe-Tira: pelato di kiwi, mozzarella di bufala campana dop e basilico.

 

Tra montagna e mare

Mare e monti per l’ultima giornata della Sala Blu 2, dove la mattina trascorre dibattendo di microclimi alpini e transumanza, latte di malga e tradizione di terra per Identità di montagna. I protagonisti che si avvicendano sul palco arrivano da tutta l’Italia montana, a cominciare dall’enclave del Nord Est – Alfio Ghezzi di Locanda Margon da Trento e poi Riccardo Gaspari e Oliver Piras e Alessandra Favero, rispettivamente da Cortina e San Vito di Cadore – per attingere poi alla tradizione aostana con Maurizio Grange e Piergiorgio Pellerei de La Clusaz di Gignod, fino a scendere in Calabria per l’intervento concertato di Antonio Biafora Nino Rossi (Biafora a Qafiz). Dopo la pausa, invece, il palco si sposta al mare, per incontrare la Puglia di Angelo Sabatelli, che da Putignano viaggia tra due mari, dalla Puglia all’Oriente.

 

Tony Lo CocoGli anelletti al ragù - Tony Lo Coco

Concentrato sulla sua terra, in un cammino tutto giocato sulla reinterpretazione della tradizione locale, è Tony Lo Coco, da I Pupidi Bagheria, che mentre cucina evoca i mercati di Palermo e le stigghiole – qui interpretato come viaggio dal maiale al tonno, che diventa protagonista avvolto da tagliatelle di seppia – e poi attinge alla memoria per giocare con gli anelletti al ragù, proposti nella variante di mare e stravolti nell’impiattamento che ricorda un dessert.

 

Identità di mare in un viaggio in Oriente

Ancora tonno, e ancora Identità di mare, con la sua medula (il midollo) nel piatto di Paolo Casagrande, italiano all’estero – dal Lasartedi Barcellona – che da qualche mese può vantare le Tre Stelle Michelin. La sua è una cucina che brilla per eleganza e colore, in equilibrio tra espedienti tecnici e contaminazioni di sapore. E l’orizzonte, per molti versi ben centrato sulla costa catalana, spazia spesso verso l’Estremo Oriente (un fil rouge comune a tanti nelle tre giornate) per intercettare shiso e mirin, calamansi e latte di cocco, zenzero e curry. Ma sul palco il cuoco trevigiano che ormai pensa in spagnolo porta soprattutto il viaggio del “suo” Lasarte, che guida per Martin Berasategui, e che con lui si è evoluto negli ultimi anni.

CeedroniMoreno Cedroni e Andrea Cuomo

 

Alla sua compostezza, fa da contraltare l’esuberanza di Moreno Cedroni (La Madonnina del Pescatore, Senigallia), che in sala presenta la sua Via della Seta (un menu già sperimentato al ristorante), dalla Cina a Venezia, passando per Samarcanda e Aleppo. Ma attenzione al monito di un maestro del mestiere: “L’unica strada possibile per mettersi in cammino è partire dalla cucina tradizionale, altrimenti i viaggi diventano corti”.

CedroniDumpling al latte di sesamo di Moreno Cedroni

 

Le suggestioni sono moltissime, dal dumpling al latte di sesamo, dalle polpettine di pesce al coriandolo alla fermentazione del cavolo rosso. Ma guai a non saper fare un purè! Chiude il viaggio al mare Giulio Terrinoni (Per Me a Roma) con il suo quinto quarto di pesce: “Per me la rana pescatrice è il maiale di mare. Con la sua testa preparo la coppa”.

 

 

a cura di Annalisa Zordan, Antonella De Santis e Livia Montagnoli

foto: Brambilla Serrani

 

Per leggere il report della prima giornata clicca qui

Per leggere il report della seconda giornata clicca qui

 

Il ristorante gourmet di Fico Eataly World. Con Enrico Bartolini e i cuochi de Le Soste

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Lo chef del Mudec di Milano supervisionerà con il suo gruppo il ristorante fine dining che aprirà all'interno di Fico, dal prossimo 4 ottobre. A Bartolini il compito di rappresentare l'Associazione Le Soste, che così per la prima volta mette il sigillo su un'attività commerciale. Ne parliamo con Claudio Sadler, presidente dell'Associazione. 

Fico apre il 4 ottobre

Si potrebbe cominciare da una data. Per la prima volta inequivocabile: 4 ottobre 2017. Oscar Farinetti, ospite a Milano alla cena di gala de Le Soste di Palazzo Serbelloni, lo annuncia chiaro al microfono. All'inizio di ottobre, con qualche mese di ritardo sui piani iniziali, Fico aprirà al pubblico: “Segnatevelo in agenda, il 4 ottobre, alle 10, siete tutti invitati a Bologna per il lancio mondiale di Eataly World Fico”. Ma la sorpresa che arriva con la benedizione dell'Associazione Le Soste riguarda uno dei progetti di ristorazione che troverà spazio nel mirabolante parco dei divertimenti del cibo concepito dal patron di Eataly. E sancisce l'esordio in ambito commerciale dell'associazione che da oltre 30 anni riunisce una selezione dei migliori ristoranti di cucina italiana tra i confini nazionali e nel mondo (gli ultimi arrivati, appena “promossi” sono Giuseppe Iannotti, Andrea Aprea, Terry Giacomello, i fratelli Costardi e Marcello Spadone). Più di avvicinamento che di esordio si tratta, per la verità, perché proprio per la sua natura legale “l'associazione non può fondare una società, né intraprendere attività a scopo di lucro, come la gestione di un ristorante”, sancisce Claudio Sadler, che dell'Associazione è il Presidente. Allo chef milanese chiediamo allora di spiegarci cosa succederà alle porte di Bologna a partire da ottobre, in quello che si configura come il ristorante gourmet di Fico - il Ristoro di Fabbrica Italiana Contadina -  operativo sin dai primi giorni di apertura del parco in collaborazione, appunto, con Le Soste e con lo chef Enrico Bartolini, che dell'associazione fa parte e invece per suo conto gestisce un gruppo di ristorazione ben noto agli addetti ai lavori per la capacità di perseguire obiettivi ambiziosi e portarli a buon fine, dalla cucina pluripremiata del Mudec di Milano all'ultimo progetto (il primo in trasferta) di Hong Kong, Spiga.

 

 

Il ristorante gourmet di Fico. Con Enrico Bartolini

Qualche tempo fa Oscar Farinetti ha proposto a Le Soste di collaborare con Fico alla definizione di un ristorante d'autore nell'ambito del progetto” spiega Sadler “Ma noi non possiamo esporci, per questo sarà il gruppo di Enrico a gestire l'insegna”. E in stretta collaborazione con Le Soste, secondo una configurazione inedita che somma diversi attori: “Durante l'anno gli chef dell'Associazione si avvicenderanno nell'elaborazione di un menu che per 15-20 giorni completerà la proposta gastronomica ideata da Bartolini. Prevediamo di impiegare almeno sei dei nostri associati ogni anno. E chiaramente mi metterò in gioco anch'io”. La scaletta è ancora tutta da decidere, il progetto necessita di una messa a fuoco puntuale che arriverà nei prossimi mesi. Ma anche Enrico Bartolini ha ribadito il suo impegno al fianco di Farinetti proprio in occasione della cena: “Faccio parte dell'associazione da poco, sono tra i più giovani. Questo per me è stato un anno speciale e la chiamata de Le Soste a rappresentare il ristorante dentro questa nuova iniziativa mi riempie d'onore”. L'idea, come racconta Bartolini, è quella di presentare al pubblico internazionale che visiterà Fico (e ci si attende un'affluenza copiosa) un formula fine dining inusuale, proprio perché calata in un contesto che potrà avvalersi del supporto di tanti artigiani del cibo riuniti insieme: “Sicuramente la proposta della cucina si avvarrà dei prodotti realizzati dagli artigiani di Fico”, conferma Sadler. “Tutti gli artigiani saranno chiamati in causa, dagli allevatori di carne ai produttori di tartufi. Sarà divertente anche per i cuochi trovare ogni giorno soluzioni diverse per affascinare i milioni di turisti che visiteranno Fico”. Così la Fabbrica Italiana Contadina di Farinetti, acquista un altro partner illustre nel suo percorso di avvicinamento alla meta: “Dobbiamo fare un figurone” dice Bartolini “è la prima volta che mettiamo il brand Le Soste addosso a un'attività commerciale”. Per lui, che nell'ultimo anno ha infilato un successo professionale dopo l'altro, si preannuncia un'altra sfida ambiziosa.

 

a cura di Livia Montagnoli

video di Massimiliano Tonelli

Olieria a Bologna: il primo negozio di olio extravergine in città

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Non si ferma il fermento gastronomico di Bologna, una città sempre più ricca di indirizzi golosi e interessanti. Che ora si prepara ad accogliere la sua prima oleoteca, una boutique dedicata all'oro verde d'Italia.

L'idea

Circa 50 diverse etichette da 14 regioni d'Italia, tanto per iniziare. E poi conserve, sottoli, patè, olive da mensa ma anche cosmetici. La prima oleoteca di Bologna ha tutte le carte in regola per diventare un punto di riferimento per gli appassionati di extravergine – ma più in generale per gli amanti della buona tavola – in città. Un'insegna che va a inserirsi nella sempre crescente lista degli indirizzi a prova di buongustaio di Bologna, città che sembra destinata a diventare un polo gastronomico a tutti gli effetti. E ora anche un punto d'incontro per chi vuole scoprire qualcosa in più su uno dei prodotti più rappresentativi del made in Italy e della cultura culinaria tricolore. Si chiama Olieria ed è un negozio di olio extravergine di oliva ma, ancora prima, un progetto: quello di diffondere la cultura dell'olio di qualità.

 

A ideare questa nuova boutique in via Saragozza, non lontano da Palazzo Albergati, è Fabio Giurgola, attualmente alle prese con la seconda parte del corso per tecnici ed esperti degli oli di oliva vergini ed extravergini, ma prima di tutto un biologo con il pallino per il buon cibo e una passione per il mondo dell'agricoltura. A supportarlo in questa avventura, la moglie agronoma Cristina Valeri, anche lei amante della cucina e dell'olivicoltura.

Il progetto

L'idea iniziale era infatti quella di acquistare un piccolo uliveto per cominciare a produrre, ma una volta accantonata questa ipotesi, la coppia ha scelto di gettarsi a capofitto nel settore del commercio. “Abbiamo constatato negli anni che in Italia ci sono davvero pochi negozi dove poter comprare un olio buono e, soprattutto, poche persone in grado di spiegare il prodotto che stanno vendendo”. L'oleoteca nasce quindi sulla falsariga della più comune enoteca, un luogo dove recarsi per comprare una bottiglia ma anche, e soprattutto, per ricevere informazioni utili sul prodotto che si sta acquistando. Olieria si propone quindi come luogo di scambio e di confronto, “un polo di interesse per tutti gli interessati all'extravergine di qualità”.

I prodotti

E naturalmente un negozio dove il consumatore può scegliere fra un'ampia selezione di oli da diverse regioni, dal fruttato delicato a quello più intenso, biologico e tradizionale, in bottiglia o latta da 3 e 5 litri. Per la valutazione delle etichette, Fabio si è affidato a una professionista del settore, Simona Cognoli di Oleonauta, rifornita oleoteca di Ostia Lido, sul litorale romano. Oltre a vendere extravergine di livello, Simona è anche assaggiatrice esperta, sommelier dell'olio e consulente per ristoratori o commercianti interessati a creare un menu o una piccola selezione di olio nel loro locale. “Siamo andati a fare visita a Simona e ci è piaciuto molto il concetto e la filosofia alla base dell'oleoteca e per questo abbiamo deciso di chiedere consiglio a lei”. Indicazioni preziose quelle di Simona, che hanno consentito a Fabio di creare un'offerta articolata in grado di soddisfare le esigenze di tutti. Ci sono i grandi nomi dell'olivicoltura italiana, da Titone a Cosmo Di Russo, ma anche i produttori più piccoli. Ma ci sono anche i sottoli, le olive da tavola, “sia quelle di Gaeta di Cosmo Di Russo che quelli di De Carlo”, e poi la Nocellara del Belice dell'azienda agricola Pisciottadi Campobello di Mazzara in provincia di Trapani, premiata con la menzione speciale dal concorso MonnaOliva. Non mancano, inoltre, prodotti cosmetici naturali a base di extravergine, dalla crema visto allo scrub per il corpo, dal balsamo labbro al bagnoschiuma.

I corsi e gli eventi

Cuore pulsante dell'oleoteca saranno poi anche le serate dedicate all'assaggio: “Al corso di idoneità fisiologica ho conosciuto diverse persone del settore molto preparate con cui ho intenzione di collaborare in futuro per dei corsi di avvicinamento all'olio e degustazioni varie”. Come Sara Barbieri, capo-panel e responsabile del corso per tecnici presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari dell'Università di Bologna, “che inviterò per le lezioni di analisi sensoriale” e Barbara Alfei, capo-panel Assam (Agenzia Servizi Settore Agroalimentare delle Marche). I clienti potranno inoltre assaggiare l'olio che desiderano acquistare ogni volta che si recano in oleoteca: “è fondamentale provare il prodotto prima di comprarlo per capire se risponde o meno alle proprie esigenze. E soprattutto il momento dell'assaggio è essenziale per poter spiegare al consumatore medio le nozioni base sull'extravergine e fargli capire la differenza fra un olio di qualità e uno difettato”.

 

Olieria

Ma l'extravergine può (e deve) anche essere abbinato ad altri ingredienti e utilizzato al meglio in cucina: per questo, Fabio si impegna a realizzare dei laboratori con gli chef “per far comprendere al pubblico quanto questo ingrediente può influire sul risultato finale”. Diversi gli utilizzi del prodotto, a crudo, in frittura, per soffritti e tante anche le sfumature aromatiche che possono esaltare o meno gli altri ingredienti. Insomma, l'extravergine non è solo un condimento ma una materia prima a tutti gli effetti che va studiata e bilanciata con cura.

La comunicazione dell'extravergine di qualità

E queste sono solo alcune delle tematiche che verranno affrontate da Fabio e gli esperti del settore non appena l'oleoteca avrà mosso i primi passi. Perché vendere extravergine oggi non è semplice e, come vi avevamo già spiegato qui, per farlo occorre pazienza, collaborazione fra gli addetti ai lavori e una passione smodata per questo prodotto e la sua storia. Solo in questo modo si riesce a far sviluppare un settore che ha ancora di fronte a sé una lunga strada da percorrere prima di mettere radici nella cultura del consumatore medio.

E aprire un'oleoteca è un passo rischioso, un azzardo che però riesce a dare i suoi frutti: ce lo dimostrano casi come quello di Oleonauta, che è riuscita a creare in poco tempo un circuito di appassionati e consumatori curiosi, o ancora manifestazioni come extraLucca, che ogni anno chiama a raccolta un pubblico vasto e consente ai professionisti di confrontarsi e scambiarsi opinioni, e tutti i concorsi oleari e le guide che si impegnano a valorizzare i produttori migliori. Perché la comunicazione dell'olio è ardua ma non impossibile. “Mi piacerebbe che l'extravergine acquisisse più valore agli occhi del consumatore”, commenta Fabio. Obiettivo finale? “Far percepire l'olio al pubblico come un elemento prezioso. Il mio sogno è di ricevere un giorno un cliente che vuole acquistare una bottiglia come regalo da portare a una cena, proprio come si fa per il vino”. Ed è proprio al livello di conoscenza media che c'è sul vino che bisogna arrivare, ma con un percorso diverso, tutto ancora da costruire. E che si potrà intraprendere solo attraverso la collaborazione fra appassionati.

Olieria | Bologna | via Saragozza, 47 c | tel. 345 0684705 | www.olieria.com | dal 25 marzo 2017

a cura di Michela Becchi

Basque Culinary Center World Prize. Si cercano i protagonisti della seconda edizione

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Il premio all'etica in cucina, che coinvolge gli chef capaci di migliorare la società attraverso la gastronomia, ritorna con una seconda edizione in cerca di nuovi protagonisti. L'anno scorso il riconoscimento stanziato dal centro di ricerca di San Sebastian è andato alla venezuelana Maria Fernanda Di Giacobbe. 

Chi è lo chef etico?

Etica, sostenibilità, responsabilità sociale. Cosa può fare uno chef per migliorare la società attraverso la gastronomia? Chi pensa che le premesse siano troppo ambiziose per riguardare chi in fondo ha passato tutta la sua vita in cucina, per raccontare il mondo attraverso il cibo e l'emozione di condividerlo con gli altri, sbaglia. Perché al di là della retorica più sterile da cui è bene prendere le distanze, proprio dall'attaccamento al territorio e alle proprie radici culturali e sociali nasce l'urgenza di aiutarlo a esprimersi al meglio, e supportare chi lo abita e ne preserva l'identità. Dall'anno scorso, la missione del Basque Culinary World Prize, promosso dal prestigioso centro di ricerca gastronomica di San Sebastian, è quella di individuare lo chef che più si è distinto nel perseguire quest'obiettivo, seguendo l'esempio di chi per primo, e da anni, ha sposato la causa. Come Massimo Bottura, che non a caso presenzia al Consiglio Internazionale di chef, presieduto da Joan Roca, che decide (e deciderà) per l'assegnazione del riconoscimento. Con lui, tra gli altri, Enrique Olvera e Dominique Crenn, Michel Bras e Renè Redzepi, Gaston Acurio e Dan Barber, grandi glorie della ristorazione internazionale che si spendono per apportare benefici alle comunità locali e lavorano nel rispetto della sostenibilità ambientale. La prima edizione del premio, l'estate scorsa, se l'è aggiudicata una donna, la venezuelana Maria Fernanda Di Giacobbe, impegnata in molteplici progetti sociali in un Paese che versa in grave difficoltà, ma può (potrebbe o dovrebbe) contare sulla coltivazione del cacao per creare sistemi di imprenditorialità sani ed equi. Con il supporto alle associazioni Kakao e Cacao de Origen, la chef ha istituito un'oasi di legalità che parte dalla formazione sul campo per raccogliere i frutti di un lavoro onesto e qualificato, rivolto principalmente alle donne in condizioni economiche vulnerabili. Ma con lei, per contendersi la vittoria, altri 19 chef (tra cui l'italiano Massimiliano Alajmo) hanno avuto modo di raccontarsi su un palco internazionale, guadagnando visibilità per il proprio progetto etico.

 

Il premio. Chi può candidarsi per la seconda edizione

Ora è tempo di ricominciare: fino al 2 maggio il Basque Culinary Center attende le candidature dei protagonisti che animeranno la seconda edizione del premio, su proposta online di professionisti, addetti ai lavori (chef, scrittori gastronomici, fornitori di provviste alimentari) e istituzioni della gastronomia che possano certificare la bontà dell'impegno:“Uomini o donne il cui impatto può essere percepito oltre la cucina in settori quali innovazione, ricerca, istruzione, salute, ambiente, sviluppo sociale e imprenditorialità”, recitano le consegne ufficiali. Al vincitore, proclamato il prossimo 18 luglio, spetterà un premio di 100mila euro da devolvere a sostegno di un progetto a sua scelta, che rispetti le finalità del concorso. E la decisione finale sarà nelle mani di una giuria di esperti, molti già coinvolti nel 2016, cui si unirà anche la vincitrice della precedente edizione.

Determinazione e spirito pionieristico giocheranno un ruolo fondamentale nell'assegnazione, come la capacità di guardare al mondo con piglio rivoluzionario: ““Con questo premio ci auguriamo di condividere con tutto il mondo storie di chef che attualmente utilizzano la gastronomia per un futuro migliore. Abbiamo necessità che la gente nomini coloro che lottano a tal fine in qualsiasi modo, anche su scala ridotta: tutti facciamo parte della rivoluzione." Parole emblematiche che Massimo Bottura non si stancherà mai di ripetere. L'anno scorso sono arrivate candidature da 30 Paesi del mondo, per oltre 100 chef diversi. Chi saranno i nuovi protagonisti?

 

www.basqueculinarycenterworldprize.com

 

a cura di Livia Montagnoli

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