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Carnevale d'autore. Le sfrappole di Gino Fabbri

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A Bologna in Carnevale significa fritti. Senza se e senza ma, soprattutto se si va a bussare a casa del maestro Gino Fabbri. Nessuna concessione alle varianti pseudo light, se si sceglie una sfrappola, tanto vale gustarla in tutta la sua bontà, senza sensi di colpa.

Come ha sempre dichiarato apertamente, la sua filosofia è quella di coinvolgere tutti i sensi per raggiungere il piacere più sublime che la pasticceria possa immaginare. Una perfezione che si raggiunge solo mettendo insieme grande tecnica e grande materia prima, con una attenzione all'estetica che, sempre più, è parte integrante dell'esperienza gastronomica, e in modo ancora più decisivo quando si tratta di pasticceria. A questo bisogna aggiungere la capacità di rinnovarsi, non dimenticare il passato, e avere una propria identità. Nel caso dei dolci d'occasione, però, la tradizione vince. Parliamo delle feste comandate, di quelle in cui, attraverso un boccone, si rivive la propria storia, la memoria dell'infanzia. E quando questo avviene attraverso il percorso gastronomico personale di un grande maestro, come Gino Fabbri, il gioco diventa ancora più imperdibile. Bisogna andare a cercare, infatti, tra la tradizione di famiglia per trovare l'origine delle sue sfrappole. Che non sono altro che la versione bolognese dei dolci più famosi di Carnevale, altrove chiamate frappe, cenci, chiacchiere, lattughe o bugie. Queste però, hanno qualcosa in più, un aroma particolare dato dal brandy e dall'aceto di vino. E una struttura friabile, croccante, leggerissima. “È importante che la pasta sia stesa sottilissima, quindi bisogna tirarle in più possibile” ammoniscono dalla pasticceria “e che il fritto sia perfetto”. Consigliano di non usare l'olio di oliva (meglio uno di semi – possibilmente arachidi o girasole) perché troppo vigoroso negli aromi, ma soprattutto di usare sempre un olio fresco, non sfruttato e facendo molta attenzione alla temperatura. Insomma: per fare delle sfrappole meravigliose bisogna partire dall'olio.

A Bologna la tradizione del Carnevale è abbastanza sentita, le persone indulgono ancora con più facilità a un dolce. E, soprattutto, a un dolce fritto. Oltre alle sfrappole, ci sono i classici bigné o le frittelline, “e c'è una gran richiesta” confermano dalla pasticceria di Fabbri. Soprattutto in un periodo che, se non ci fosse questa occasione specifica, probabilmente non sarebbe molto vivace per quanto riguarda i dolci, vicino com'è alle feste di fine anno. Invece no. Nonostante spesso le case siano ancora piene di qualche cioccolatino della calza della Befana, a un dolcetto di Carnevale non si riesce proprio a resistere.

Le sfrappole

430 g. di farina media

160 g. di uova pastorizzate

20 g. di olio di oliva

45 g. di zucchero semolato

2 g. di sale

15 g. di aceto di vino

10 g. di brandy

10 g. di liquore all'anice

scorza di mezza arancia grattugiata

Impastare tutti gli ingredienti nella spirale (solo il tempo necessario a incorporare tutta la farina).

Dare alcune pieghe a sfogliatrice per far prendere struttura e lasciar riposare una notte in frigorifero.

Tirare al minimo spessore possibile; tagliare, girare nel cestello e friggere in olio bollente alla massima temperatura. Spolverare con zucchero a velo.

Gino Fabbri | Bologna | via Cadriano, 27/2A | tel. 051 505074| www.ginofabbri.com/

a cura di Antonella De Santis

Per leggere Carnevale d'autore. Le frittelle di Iginio Massari clicca qui

Per leggere Carnevale d'autore. La Torta Coriandoli di Sal de Riso clicca qui

Per leggere Carnevale d'autore. I cassateddi ra cummari della Pasticceria Corsino clicca qui 


Spirit of Scotland 2017. Roma ospita la sesta edizione dell'evento dedicato al whisky

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Acqua, cereali, torba e lievito. Sono pochi e semplici gli elementi che danno vita a una vera leggenda, che vanta una tradizione secolare e accompagna la storia scozzese: il whisky. Un prodotto inconfondibile, protagonista del festival Spirit of Scotland da ben sei edizioni.  

Il whisky a Roma

Anche se prodotto in molti Paesi, dal Canada al Giappone passando per l’Irlanda, la versione scozzese è senza dubbio quella più affascinante, per storia e tradizione. Si tratta di un'acquavite di cereali talvolta affumicata dalla torba e invecchiata in botti di quercia che hanno precedentemente ospitato sherry o bourbon. Il whisky è un prodotto unico, che sta pian piano facendo breccia anche nel cuore degli italiani. E Spirit of Scotland, il Whisky Festival del Salone delle Fontane di Roma, contribuisce a diffondere il verbo tra professionisti, appassionati e neofiti. Quest'anno infatti la manifestazione, che si terrà il 4 e 5 marzo nel consueto ritrovo dell'Eur, festeggia la sua sesta edizione coinvolgendo tutte le anime del whisky e diverse tipologie di aziende, dalle più note fino alle realtà indipendenti e ancora poco conosciute.

 

Il programma

Le due giornate rappresentano l'occasione per gli addetti ai lavori di scoprire e valutare nuove opportunità di business e formazione. E per i neofiti di avvicinarsi a questo prodotto tramite un percorso di banchi d'assaggio, degustazioni guidate, masterclass, seminari sulla mixology in compagnia degli esperti del settore. Qualche nome? Erick Lorincz, Head Bartender dell’American bar del Savoy Hotel di Londra, il barman di Carlo e Camilla in Segheria Filippo Sisti, i bartenders dell’Oriole cocktail bar di Londra capitanato da Luca Cinalli e Fabio Bacchi, che oltre a essere bartender è fondatore ed editore di Bar Tales, magazine online che indaga il mondo del bartending. Non solo whisky però: tra i vari appuntamenti anche un seminario che mette a confronto il distillato scozzese con il mezcal, in una sorta di scontro a quattro con Roberto Artusio e Cristian Bugiada dell’Agaveria La Punta da una parte, e Antonio Parlapiano del Jerry Thomas e Pino Perrone, Whisky Consulting del Festival, dall’altra. Sabato 4 marzo, poi, si terrà la Balan & Partners Mixology Contest, un torneo a eliminazione diretta che vede sfidarsi otto bartender selezionati da una giuria di esperti.  

 

Dalla teoria alla pratica

In questo contesto non poteva mancare un'area dedicata alla mixologia, con i barman di Jerry Thomas Project, Argot, Freni & Frizioni, Madeleine, Propaganda e Litro. E una destinata al food, dove si è voluto ricostruire un pub in stile scozzese, in cui si potranno gustare ostriche, salmone e haggis (insaccato tradizionale per stomaci temprati). Per gli amanti del vintage, ci sarà uno spazio dedicato alle bottiglie rare di whisky. Gli organizzatori dell'evento danno inoltre la possibilità di passare dalla teoria alla pratica in loco, grazie al progetto Whisky Travel. Il prossimo tour tematico si svolgerà dal 30 aprile al 6 maggio, per sette giorni dedicati alle bellezze scozzesi, whisky in primis.

 

Spirit of Scotland | Roma | Salone delle Fontane, via Ciro il Grande | il 4 e 5 marzo | ingresso 10 euro | www.spiritofscotland.it

 

a cura di Annalisa Zordan

Il Veneto in 8 biscotti tradizionali e la ricetta degli zaeti della Pasticceria Chiurato

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Gialli, pepati, ricchi di spezie: sono i biscotti veneti, dal sapore intenso e sorprendente. Ve ne raccontiamo 8 diverse tipologie, da assaggiare o preparare a casa. Anche grazie alla ricetta degli zaeti della Pasticceria Chiurato, Due Torte nell’edizione 2017 della guida Pasticceri&Pasticcerie.

Un tempo questi dolcetti dovevano accompagnare i marinai nei lunghi viaggi, oppure rinfrancare i lavoratori quando trovavano ristoro nelle osterie. Preparati con farina gialla, pepe o spezie portate dall’Oriente, hanno un sapore particolare e inconfondibile. Il nostro viaggio alla scoperta dei biscotti regionali italiani prosegue con il Veneto: vi raccontiamo 8 specialità locali e la ricetta degli zaeti della Pasticceria Chiurato, Due Torte nell’edizione 2017 della guida Pasticceri&Pasticcerie.

 

Baicoli veneziani

No gh'è a sto mondo, no, più bel biscoto, più fin, più dolse, più łisiero e san par mogiar ne ła cìcara o nel goto del baìcoło nostro venessian” (“Non c'è a questo mondo, no, più bel biscotto, più sottile, più dolce, più leggero e sano da intingere nella tazzina o nel bicchiere del baicolo nostro veneziano”). Così Giuseppe Boerio racconta questi dolcetti tipici nel Dizionario del dialetto veneziano del 1829. Il nostro racconto sui biscotti veneti parte dunque da rappresentanti assai famosi, la specialità di Venezia, venduti ancora oggi nelle tradizionali scatole di latta gialle. Non è ben chiara l’origine del nome, ma è sempre Boerio a darne una descrizione, raccontandoli come molto simili nella forma a un particolare cefalo locale dalla taglia minuta. Erano i “biscotti da viaggio”: grazie alla capacità di conservare a lungo la loro fragranza, questi dolcetti venivano portati sulle navi dai pescatori veneziani, per essere consumati durante le lunghe traversate.

Gli ingredienti sono semplici (zucchero, burro, farina, lievito, albumi e latte) ma la preparazione è lunga e laboriosa, dato che la ricetta prevede due fasi, sia per l’impasto che per la cottura. Per prima si mescolano latte e lievito con una parte di farina e si lascia riposare la massa; in un secondo momento la si impasta ulteriormente aggiungendo il resto della farina, il burro, l’albume leggermente montato, lo zucchero e un pizzico di sale. Si forma un panetto e si cuoce in forno. Una volta dorato in superficie si sforna e si tagliano i biscotti che saranno rimessi a cuocere fino a completa doratura.

 

Baicoli venezianiBaicoli veneziani

 

Bussolai e Essi di Burano

Due biscotti provenienti da Burano, una delle quattro isole della parte più settentrionale della Laguna di Venezia, famosa per i suoi merletti e per le tipiche case colorate. Sono dolci legati alle festività pasquali, ma vengono ormai prodotti in ogni periodo dell’anno. Gli ingredienti sono gli stessi per entrambi i biscotti: farina, uova, burro e zucchero. A cambiare è invece la forma: a ciambellina per i primi, a esse per i secondi. Ne esistono numerose varianti, con l'aggiunta di qualche goccia di fragolino o limoncello, profumati con cannella, agrumi o vaniglia, oppure arricchiti con gocce di cioccolato o canditi. Nella versione originale sono abbastanza secchi, ma non duri: per la loro consistenza friabile sono perfetti con i vini liquorosi, ma anche gustati con lo zabaione o la cioccolata calda.

 

Bussolai, zaeti ed essi di Burano della Cantina do SpadeBussolai, zaeti ed essi di Burano della Cantina do Spade

 

Pastafrolle de Santa Lussia

A Verona la tradizione vuole che Santa Lucia, festeggiata il 13 dicembre, porti regali e dolcetti ai bambini nella notte che precede la ricorrenza. In questa occasione la città si riempie di colori e profumi, soprattutto grazie alle bancarelle di piazza Bra, dove troneggiano in bellavista le pastafrolle di Santa Lucia. Da qui all’Epifania, questi biscotti faranno parte della colazione dei veronesi, grandi o piccoli che siano.

Secondo la ricetta dello chef Giorgio Gioco, proprietario dello storico ristorante Dodici Apostoli di Verona, per realizzarli servono farina, burro, zucchero, uova, scorza di limone, aroma di vaniglia, un pizzico di sale e zucchero a velo. Si lavorano velocemente tutti gli ingredienti insieme come per una normale pasta frolla, si avvolge il panetto nella pellicola e si lascia riposare in frigo per un’ora almeno. Trascorso questo tempo, si stende la pasta con il mattarello, in modo da ottenere fogli da 5 centimetri. Si ricavano i biscottini tagliando la massa nelle forme preferite e si dispongono su una placca da forno già imburrata. Si cuociono i dolcetti a 170-175 gradi per 10-12 minuti, in modo che le frolle restino bianche e morbide. Una volta fredde, si possono cospargere di zucchero a velo e servire.

 

Pastafrolle di Santa Lucia

 

Pandoli di Schio

Diffusi presso le famiglie nobiliari vicentine, questi dolcetti sono stati raccontati dall’accademico Giovanni Capnist nel suo I dolci del Veneto, che li fa risalire al 1860 circa. Prodotti in origine nei comuni di Schio e Malo, in provincia di Vicenza, ormai si possono trovare su tutto il territorio regionale. La loro caratteristica principale è quella di essere talmente morbidi da bagnarsi troppo velocemente quando inzuppati, cosa che impedisce al biscotto di rimanere dritto: la parola pandolo in vicentino indica appunto un individuo un po’ tonto e storto. Erano quasi scomparsi fino a qualche anno fa, prima di essere recuperati da alcune pasticcerie locali, che ne producono modeste quantità, tanto che per assaggiarli bisogna prenotarli con largo anticipo.

Per realizzarli occorrono farina, burro, zucchero, uova, latte, lievito e un pizzico di sale. La preparazione è semplice ma i tempi di cottura solo molto lunghi: i biscotti vanno lasciati in forno per diverse ore a bassissima temperatura, in modo da conferire loro la giusta fragranza.

 

Pevarini

Dal gusto particolare e adatti agli amanti di sapori forti. Questi biscotti, grazie alla caratteristica nota pepata, si sono guadagnati un posto d’onore nei bacari, le osterie venete: sono perfetti da inzuppare nell’ombra, il bicchiere di vino, o da accompagnare a liquori e distillati locali.

La ricetta prevede farina, zucchero, miele, burro, lievito, pepe nero, cannella, chiodi di garofano, zenzero e sale. Tradizionalmente, al posto del burro si utilizzava lo strutto e al posto dello zucchero la melassa, cosa che donava un tipico colore bruno ai biscotti. Per preparare i pevarini si parte facendo sciogliere il burro insieme allo zucchero e al miele, poi aggiungendo via via il resto degli ingredienti: il sale, il pepe e le altre spezie. Infine, si incorpora la farina già setacciata insieme al lievito. Dopo aver fatto riposare l’impasto per 30 minuti circa, si stende una sfoglia non troppo alta (massimo 2 centimetri) da cui si ricavano i biscotti. Si mettono in forno a 180 gradi per 15 minuti e si lasciano raffreddare.

 

PevariniPevarini

 

Storti di Dolo

I biscotti tipici di Dolo, gli storti, nel tempo hanno assunto caratteri talmente identitari da aver trasmesso il loro nome a tutti gli abitanti di centro in provincia di Venezia, definiti appunto “storti”. Venivano realizzati rigorosamente a mano e proprio questo conferiva la caratteristica da cui deriva il loro nome. Una volta simbolo di questa cittadina, sono quasi del tutto scomparsi e prodotti, in quantità limitate, solo da fabbriche locali. Si tratta di cialde croccanti preparate con farina, burro, zucchero di canna, uova, acqua tiepida, zucchero a velo, poi farcite con panna montata. Da qualche anno, la versione artigianale è stata resuscitata dallo chef di Ca’ Zane Martin, Paolo Urbani, che li ha riproposti in diverse occasioni; la ricetta è stata inoltre inserita nel libro La cucina ritrovata (ilmangione.it).

 

Storti di DoloStorti di Dolo

 

Zaeti o zaleti

Secondo la tradizione, questi biscotti dalle origini antiche, sono originari della zona tra Belluno, Udine e Pordenone, luoghi rinomati per la produzione di una farina di mais molto fine, particolarmente adatta ai dolci. Alcune fonti li fanno risalire al 1600, quando un antenato degli zaeti circolava in tutto l’attuale territorio veneto. Secondo i racconti locali, i valligiani arrivavano fino a Venezia per vendere i loro prodotti, tra cui questi biscotti, che divennero subito famosi fra gli abitanti della Laguna. Il nome è un richiamo al loro ingrediente principale, infatti zaeto/zaleto significa, in dialetto, “gialletto”, e fa riferimento alla tipica colorazione giallo paglierino data a questi dolcetti dalla farina di mais. Si creano mescolando la farina gialla con la farina 0, unendo poi al composto lo zucchero, le uova intere e i tuorli, il burro, l'uvetta, il lievito e il sale. Ed è proprio questa la ricetta che ci siamo fatti regalare dalla pasticceria Chiurato di Marostica, in provincia di Vicenza.

 

Ricetta degli zaeti vicentini della Pasticceria Chiurato

 

Ingredienti

1 kg di farina gialla non bramata (Maranello)

500 g di farina tipo 0

6 tuorli

3 uova

400 g di burro morbido

400 g di zucchero a velo

700 g di uvetta

30 g di lievito per dolci

30 g di bicarbonato di ammonio

4 cucchiaini di sale.

 

Procedimento

Mischiare la farina gialla con la farina 0, il lievito e il bicarbonato. Formare una fontana e mettere al centro tutti gli altri ingredienti: uova, tuorli, burro ammorbidito, uvetta, zucchero e sale. Impastare a mano finché la massa non risulta liscia.

Quando l'impasto è pronto formare dei cilindri lunghi 5 centimetri dal diametro di 1 centimetro. Schiacciarli alle estremità con le dita e infornarli a 170 gradi per 20-30 minuti o finché i biscotti non diventeranno leggermente ambrati.

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

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Pancake Day a Londra: 12 eventi da non perdere

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Si chiama Pancake Day o Shrove Tuesday e celebra l'abbondanza della tavola prima del digiuno quaresimale. Quest'anno a Londra si festeggia il 28 febbraio. Sarà un giorno tutto dedicato al gusto dei pancake, le golose frittelle di origine americana. Ecco gli eventi organizzati per l'occasione.

Pancake day: storia e tradizione

Chiacchiere, castagnole, frittelle: il Carnevale nella nostra Penisola è un inno allo zucchero e alla frittura. Mentre i pasticceri italiani sono alle prese con la produzione di tutte le specialità tradizionali, i loro colleghi d'oltremanica si preparano per il Pancake Day. Chiamato anche Shrove Tuesday (Martedì grasso, dall'inglese shrive, ovveroassolvere), il giorno del pancake – questa la traduzione letterale – si festeggia ogni anno in Inghilterra prima dell'inizio della Quaresima. L'usanza di preparare le frittelle è nata infatti proprio per l'esigenza di consumare le ultime uova e i vari grassi, come il burro e l'olio, prima di cominciare il periodo di digiuno. E quale prodotto migliore del pancake, dolce a base di farina, uova, burro, latte e zucchero e fritto nell'olio (o burro), per celebrare l'abbondanza della tavola?

Le corse di beneficenza

Una festa molto sentita in tutta l'isola, in particolar modo a Londra, dove ogni anno vengono organizzati diversi eventi, dalle corse di beneficenza alle gare di mangiatori di pancake, dai rave alle feste in terrazza. Cominciamo dalle competizioni sportive: come ogni anno, torna anche nel 2017 la Great Spitalfields Pancake Race, una corsa fra le strade di Spitalfields (East End di Londra) che si impegna a raccogliere fondi per il London Air Ambulance (soccorso medico aereo), e torna anche la Inter-Livery Pancake Race, che si propone di aiutare il Lord Mayor's Charity, organizzazione impegnata nella promozione di laboratori di musica e arti creative negli ospedali. La Parliamentary Pancake Race è invece la gara dedicata ai deputati, giornalisti e vari professionisti della stampa, tutti in corsa per il Charity Rehab, centro di riabilitazione di Londra completamente gratuito che basa la sua attività su donazioni di enti pubblici e privati. Last but not least, due competizioni senza alcuno scopo benefico se non quello di divertirsi: la Leadenhall Market Pancake Race, gara attorno allo storico mercato del XIV secolo e la Better Bankside Pancake Day Race, che obbliga i partecipanti a correre con una padella ripiena di pancake in mano: chi riesce ad arrivare al traguardo con più di un terzo della frittella integra, vince la sfida. Ad accompagnare quest'ultimo evento, musica dal vivo e le prelibatezze dei banchi del Borough Market.

Le gare di mangiatori di pancakes e le feste

Non solo competizioni sportive: gli inglesi gareggiano anche per il titolo di “Più Grande Mangiatore di Pancakes” con sfide all'ultimo boccone per ingerire il più possibile quantitativo di frittelle. Il Pancake Day Challenge chiama a raccolta tutti i più golosi e li invita a mangiare dodici pancake in meno di dodici minuti. A ospitare questa insolita gara, tutti i diversi punti del celebre Breakfast Club dislocati per la città. Il premio in palio? Un pasto offerto dal locale. Altro evento simile avviene al The Diner's di Strand (City of Westminster) con il Pancake and Shake Challenge che impone ai gareggianti di mangiare tre grandi frittelle con gocce di cioccolato e un milkshake al cioccolato in meno di 6 minuti. Tutti i soldi ricavati dalla vendita dei pancakes saranno devoluti allo Shelter, casa di accoglienza per i senzatetto.

Tante anche le feste dedicate alla dolce frittella: per i lettori più appassionati, a Shoreditch c'è il Pancake Day at the Book Club, con musica dal vivo e immancabili assaggi, mentre alla City Livery Company di Poulters (azienda commerciale di pollame, cigni, piccioni, conigli e selvaggina) viene organizzata ogni anno una festa in maschera, la Mardi Gras Frittarty. Nella zona di Hackney Wick invece si festeggia il Pancake Party at Canalside con i dolci più buoni della città preparati da nomi noti come il Breakfast Club e la Mother and Gotto Trattoria, mentre nella vicina Hoxton prende vita il Pancake Day on the Rooftop, una festa sulla terrazza del bar Queen of Hoxton's. Spazio infine anche al Pancake Rave, quest'anno in scena al Ministry of Sound, popolare discoteca della zona di Elephant and Castle.

a cura di Michela Becchi

Paradossi. La Trump Vineyard Estates cerca immigrati per lavoro in vigna

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L'azienda vinicola di Charlottesville, in Virginia, è la tenuta più estesa dell'East Coast, e dal 2011 di proprietà della famiglia Trump. Ora cerca manodopera agricola per la prossima stagione... E fa richiesta per 23 lavoratori stranieri! L'America grida allo scandalo: a quanto pare neanche The Donald può fare a meno dell'immigrazione. 

Trump cerca braccianti agricoli. Stranieri

L'annuncio è di quelli che fanno quantomeno sorridere. La Trump Vineyard Estates cerca lavoratori stranieri da impiegare in vigna da aprile a ottobre, principalmente con mansione di raccolta dell'uva. Ovviamente quel Trump sta per Eric, nonché figlio Donald, ovvero l'attuale presidente degli States. Insomma l'uomo che ha basato tutta la sua campagna elettorale sull'importanza di ridare lavoro agli americani escludendo per quanto possibile gli stranieri, e che da ultimo ha firmato misure molto contestate sull'immigrazione. Secondo quanto riportato dal magazine inglese Decanter, la cantina, che si trova a Charlottesville (in Virginia) e produce bollicine, vini bianchi e rossi (Chardonnay, Sauvignon Blanc, Semillon e Viognier per i bianchi, Bordeaux, Merlot, Cabernet Franc, Petit Verdot e Malbec per i rossi) - “è la più grande cantina dell'East Coast” aveva sostenuto Trump promuovendo orgoglioso l'azienda di famiglia durante uno dei suoi comizi in Florida “facciamo buon vino all'altezza di tanti altri Paesi del mondo” -  avrebbe presentato nei mesi scorsi, in piena campagna elettorale, domanda per ottenere dei visti speciali.

 

Il visto speciale H-2A. Solo gli immigrati vogliono lavorare nei campi

Se il Dipartimento del lavoro approvasse la richiesta, i 23 stagionali entrerebbero negli Stati Uniti, ufficialmente come immigrati e sarebbero pagati 11,27 dollari all'ora (quasi il doppio rispetto alla media nazionale di 7 dollari l'ora). L'attuale visto federale H-2A, infatti, permette ai datori di lavoro statunitensi di assumere temporaneamente lavoratori stranieri per un massimo di dieci mesi, con possibilità di rinnovo, e nel 2016 sono stati circa 8800 i visti temporanei richiesti al Dipartimento del Lavoro per impiego nell'agricoltura; ma in campagna elettorale The Donald si è molto battuto perché il sistema dei visti speciali fosse riformato per favorire l'assunzione di lavoratori americani al giusto prezzo, per marcare la differenza con gli esigui salari corrisposti agli immigrati. D'altra parte proprio il Presidente in passato (fino al 2012 è stato diretto intestatario della cantina) aveva sostenuto che “nessun americano è disposto a lavorare in vigna”.

Se si volesse guardare al lato ironico, sembrerebbe una risposta inconsapevole, contraddittoria e strampalata da parte del tycoon newyorkese alla provocatoria domanda “quanto valgono gli immigrati negli Usa?”, che lo scorso 17 febbraio si era concretizzata nel “Day without immigrants”, giornata in cui la manodopera straniera non si è presentata al lavoro, costringendo alcune delle più importanti insegne americane di ristorazione a rimanere chiuse. Del resto solo guardando alle assunzioni sottoscritte dalle aziende di proprietà di The Donald a partire dal giugno 2015, oltre 280 lavoratori – più di 70 impiegati nell'esclusivo resort di Mar A Lago -  avrebbero documenti stranieri. E ampliando il periodo considerato, in 15 anni la famiglia Trump ha ricevuto il placet del Dipartimento del Lavoro per l'ingresso temporaneo di almeno 1250 lavoratori stranieri.

 

Il boicottaggio della Virginia

Intanto in Virginia continuano le azioni di boicottaggio nei confronti della stessa tenuta vitivinicola, con la campagna denominata 'Stop Trump Wine', che chiede di non acquistare dai negozi che vendono prodotti legati al presidente. È già successo per esempio nei supermercati del gruppo Wegmans – dieci punti vendita in tutta la Virginia-  che dal 2008, prima che la cantina fosse associata alla famiglia Trump (all'epoca Kluge Estate Winery, l'acquisto risale al 2011, per oltre 6 milioni di dollari), contempla in catalogo cinque delle etichette incriminate (ma le bottiglie di Eric Trump sono reperibili in tante altre catene statunitensi, Whole Foods compreso). Ora la decisione dei vertici Wegmans è quella di interromperne la vendita non appena le scorte di magazzino saranno terminate, nel giro di qualche settimana.

 

Fette biscottate con uova e burro: ecco le migliori

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Le fette biscottate, in commercio, si trovano un po' di tutti i tipi: industriali, semi-industriali, artigianali. Di diverso prezzo e con diversi ingredienti. Dopo la degustazione di quelle in stile classico, stavolta proviamo la versione più ricca, con uova, latte e burro. Ne abbiamo assaggiate 8. Ecco le migliori.

Biscotti del Lagaccio, biscotti di Pontedassio, biscotti della salute, panbiscotto. Sono alcuni dei nomi delle fette biscottate “accessoriate”, ossia realizzate con prodotti di origine animale: uova, burro, latte. Non semplici supporti per delizie spalmabili ma dolci compiuti e a tutto tondo: bastano a sé stessi. Da mangiare assoluti o da accompagnare a vini da dessert.

 

Alcuni mesi fa abbiamo degustato le fette biscottate classiche da prima colazione, quelle base prive di prodotti di origine animale: per intenderci, quelle che trovano la loro destinazione ideale completate da un velo di burro e uno strato più o meno generoso di dolcezze spalmabili. Questa volta il focus è sulle omologhe esuberanti, che nell'impasto contengono uova, burro, latte. Ingredienti che conferiscono ricchezza di sapore, grasso, carattere, profumi pervasivi di pasticceria, dirottando le fette biscottate su un altro binario di esperienza e di consumo. Nulla vieta di gustarle insieme a cioccolato spalmabile, marmellate e confetture, da golosoni esagerati. Ma le fette biscottate “maggiorate” sono un dolce a tutti gli effetti: bastano a sé stesse. Immaginate di accompagnarle a un vino dolce amabile e discreto, per niente stucchevole: un Moscato d'Asti per esempio, o meglio un Colli Euganei Moscato Fior d'Arancio, con la fresca nota agrumata che dà la sensazione di pulire la bocca.
 

Fette bscottate

La degustazione

Anche per le fette biscottate “uova e burro” abbiamo preso in esame le due varianti classiche di farina bianca e le integrali. E abbiamo cercato sul mercato prodotti con caratteristiche simili, anche se portano nomi differenti: fette biscottate, biscotti del Lagaccio, biscotti di Pontedassio, biscotti della salute, panbiscotto. Accanto ai prodotti di industrie specializzate, figurano quelli di fior di pasticcieri che inviano le loro dorate dolcezze allineate e chiuse dentro scatole o buste cellophanate a bar e negozi gourmet, enoteche aperte alle specialità alimentari.

I prodotti migliori, sul podio nella nostra classifica? Quelli che esprimono la fragranza, la pulizia, la forza e insieme la delicatezza degli ingredienti (buona farina, uova fresche, burro di panna, in qualche caso lievito madre e bacca di vaniglia naturale), l'equilibrio del sapore, la ricetta ben calibrata, l'aspetto integro e seduttivo, la consistenza croccante e friabile.

 

L'outsider: le fette dei Fratelli Lunardi

Loro sembrano i due blues brothers del grande schermo: giovani e rock, sempre (o quasi) in nero, inseparabili, dinamici, estroversi e geniali… Così come le loro fette: artigianalissime, friabilissime, nella duplice versione classica e integrale (un po’ come il blues, insomma!) in vendita solo nella propria pasticceria. I fratelli Lunardi, Massimiliano e Riccardo, firmano unapiccola produzione confezionata in spartane buste di cellophane a sacchetto e vendono solo nel negozio annesso al laboratorio oltreché per corrispondenza. Lavorazione manuale, lenta lievitazione con pasta madre di famiglia conservata in acqua (“per ottenere unprodotto con un’acidità meno pungente”spiega Massimiliano) e lievito di birra,farina tipo 0 e integrale di grano italiano macinata dapiccoli mulini che non stressano i chicchi, latte intero, uova, zucchero, destrosio, malto, sale marino integrale, olio extravergine d'oliva toscano a parziale sostituzione del burro, per fette grandi e quadrangolari dall'aspetto vibrante, di consistenza molto delicata e alta croccantezza e friabilità, di tonalità beige, appena più chiara nelle classiche.Se le integrali esprimono sentori vintage con un finale leggermente amaro, le classiche hanno aromi e sapore equilibrati, puliti, veraci di burro e farina di buona qualità, a metà strada tra i prodotti di forno tostati e la pasticceria, con richiami soprattutto al panettone. Lascia in bocca una piacevole persistenza e il desiderio di fare il bis.

 200 g prezzo 3,50-4 euro

Lunardi | Quarrata (PT) | via Lucciano, 33/39 | tel. 0573 73077- 340 3402320 | www.fratellilunardi.it | info@fratellilunardi.it

 

I prezzi indicati sono quelli medi al dettaglio. Tranne le prime classificate, le aziende sono in ordine alfabetico

 

 

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1° Classificato

 

Pepe - Pan biscotto: le biscottate classiche e integrali

Se in lizza ci sono i prodotti di Alfonso Pepe è difficile che non conquistino quantomeno il podio. Con il suo Panbiscotto la pasticceria salernitana famosa per un panettone di alta gourmandise raggiunge il primo posto sia con le biscottate toutcourt bianche sia con le integrali, confezionate in scatole di cartone con la tipica livrea Pepe gialla e verde, in vendita nel proprio negozio, on line e a breve in negozi di cose buone. Sono a tutti gli effetti dei dolci, simili anche nell'aspetto ai biscotti del Lagaccio, di forma ovale – “ottenute da un filone con l'impasto simile a quello del panettone” precisa il Alfonso Pepe – fatto con farina (Dallagiovanna), lievito naturale, zucchero, burro, pasta di scorzone d'arancia candita, sale, bacca di vaniglia del Madagascar; cambia solo la farina (doppio zero nelle classiche, integrale nella versione scura) e il dolcificante (zucchero di canna e miele per le integrali). Le buone materie prime e l'arte pasticciera si esaltano in queste artigianali e luminose fette simili a quelle del pane ben tostate, con profumi delicati e insieme complessi e inebrianti di pasticceria, di ottimo burro, di dolcezze che stanno cuocendo in forno, di vaniglia naturale. Il sapore è pulitissimo ed equilibrato, con un soave sottofondo agrumato, la croccantezza superba. Se è ottimo il dorato panbiscotto classico, quello integrale è forse superiore: il colore cappuccino della fetta, i cristalli di zucchero sotto i denti, il gusto particolarmente armonioso e rotondo, dolce ma non troppo, l'intensità e la persistenza delle sensazioni, la croccantezza ancora più accentuata ci dicono che siamo nel mondo dell'integralità nella sua espressione più godibile.

Prezzo: 150 g; 3,60-4,40 euro

Pepe - Pan biscotto: le biscottate classiche e integrali | Sant’Egidio del Monte Albino (SA) | loc. Tuoro via Nazionale, 2 | tel. 081 5154151 - 081 5158331 | www.pasticceria-pepe.it

 

Antignano Prodotto Tipico - Fette biscottate con farina di mais Ottofile di Antignano®

Laboratorio artigianale di pasta prestato alla produzione di prodotti di forno, nasce per valorizzare il mais Ottofile di Antignano, marchio registrato. Con la farina del mais locale non produce solo tagliolini e fettuccine all'uovo, firma anche delle buone fette biscottate, realizzate da Agrival di Castellero (AT) e confezionate in vaschetta ricoperta da cellophan trasparente. Ingredienti: farina di frumento tipo 00, un 12% di farina di mais Ottofile, lievito madre, burro, uova, latte, lievito di birra, farina di frumento maltato, sale. La forma disomogenea delle fette quadrangolari, la faccia di un luminoso giallo uovo, l'aspetto rustico e artigianale, lo spessore piuttosto alto e carnoso le rendono particolarmente invitanti. Il profumo è austero ma opulento e complesso, ed evoca in modo preciso la pasticceria con le sue note di uova, latte e soprattutto burro, accompagnate da un tocco floreale. Al palato le impressioni olfattive si fanno più intense e persistenti e si arricchiscono di nuove sensazioni, quasi esagerate, con richiami netti al mais e ricordi di miele di castagno. Sapore pieno ed equilibrato con un leggero amarognolo che stempera la dolcezza importante. Sensazione sablé, un bel crock sotto i denti e un'eccellente friabilità.

Prezzo: 280 g; 4,60-5,30 euro

Antignano Prodotto Tipico - Fette biscottate con farina di mais Ottofile di Antignano® | Antignano (AT) | fraz. Perosini, 40 | tel. 0141 205232 - 338 3609145 | www.antignanoprodottotipico.it

 

Arimondo - Biscotto di Pontedassio

Il Biscotto di Pontedassio è un biscotto del Lagaccio artigianale, fatto a mano secondo la ricetta di Caterina e Sebastiano Semeria, che nel 1906 fondarono un biscottificio dedicato fin dal nome al piccolo dolce locale. Da qualche anno ne continua la produzione l'azienda Arimondo, che ha rilevato la fabbrica, il marchio e la ricetta originale, tramandata con grande segretezza, impastando farina di grano tenero 0 e 00, zucchero, uova, burro, olio extravergine d'oliva, lievito e sale, con lavorazione a mano e cottura nel forno a pietra. Una fetta-biscotto di ottimo livello, che per la fragranza fresca e pulita, l'equilibrio e la croccantezza seducente merita il podio della classifica. L'aspetto è quello della classica fetta biscottata verace, quadrangolare, spessa e tosta, di un espressivo colorito ambrato e dalla forma disomogenea: ogni pezzo è diverso dall'altro. I profumi e gli aromi sono di buona pasticceria, pervasivi, fini e puliti di burro, di panettone, di sentori dolci e tostati, senza forzature e incertezze. La dolcezza c'è ma non stucchevole, la consistenza giustamente croccante e friabile. Lascia in bocca ricordi di fresche e calde fragranze. Da gustare da solo o in compagnia di companatici dolci e vini da dessert. Si acquista on line, nei punti vendita aziendali sparsi in Liguria, e in alcuni negozi.

Prezzo: 250 g; 4-4,50 euro

Arimondo - Biscotto di Pontedassio | San Bartolomeo al Mare (IM) | via Ca’ de Calvi, 18 bis | tel. 0183 400903 | biscottodipontedassio.it

 

Corsini Biscotti  -Fette senza zucchero aggiunto e Briotost al miele

Corsini, una delle migliori industrie dolciarie italiane, ne propone di due tipi, confezionate in buste a sacchetto con l'immagine del prodotto in bell'evidenza: le Fette senza zucchero aggiunto e le Briotost al miele. Entrambe di buon livello, con qualche punto in più conquistato dalle prime: qui si entra nel magico mondo delle fette biscottate. L'aspetto è smagliante: le fette si presentano integre, rotonde e spesse, dalla bella faccia color oro acceso. Il profumo di burro che si sprigiona dalla busta appena aperta ritorna esplosivo e ruffiano in bocca e richiama le fette biscottate di una volta, tutt'altro che punitive, quando le contemporanee tendenze dietetiche erano lontane anni luce. Una sprintosa Lamborghini quanto aromaticità e grassezza, esageratamente burrosa rispetto alle fette concorrenti. Non ci sarà lo zucchero – come edulcorante è usato maltitolo ed estratto di malto, a fare compagnia a farina di frumento tipo 0 (da molini italiani), uova, burro, lievito madre, latte, sale e aromi naturali – ma la dolcezza c'è ed è ben equilibrata in questa biscottata caratteristica e old style, tosta ma friabile, dove tutte le percezioni, odore, sapore, aromi, persistenza, hanno toni medio-forti. Le Briotost al miele (farina di frumento tipo 0, zucchero, uova, burro, lievito madre, latte, miele, tuorlo d'uovo, sale, aromi naturali) sono le sorelle bronzé e vagamente âgédelle Fette Corsini, un po' più dolci e meno burrose, con note tostate e vintage, ma sempre intriganti, croccantissime sotto ai denti e abbastanza friabili.

Prezzo: 250 g; 3-3,20 euro

Corsini Biscotti - Fette senza zucchero aggiunto e Briotost al miele | Castel del Piano (GR) | via Cellane, 9 | tel. 0564 956787 | www.corsinibiscotti.com

 

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Oscar qualità/prezzo

Biscotti Gentilini - Fette biscottate classiche, tostate e integrali

Gentilini, sinonimo di biscotti a Roma dal 1890, richiama alla memoria di una larga fetta di consumatori le colazioni e le merende dei bei tempi. Fette materne e comfort, grandi, quadrangolari e abbastanza spesse, integre e di colorito ambrato, proposte in tre varianti distinguibili dal colore della confezione: classiche (azzurro), tostate (verde) e integrali (rosso). Buone le classiche (farina di frumento, zucchero, burro, miele, destrosio, sale, latte in polvere, farina di frumento maltato, lievito e aromi non meglio identificati), con i tipici profumi di prodotto di forno cotto e tostato, di burro e pasticceria, molto spinti e quasi forzati, spiccata dolcezza, carnosa croccantezza e seducente friabilità. Un irresistibile tuffo nel passato! Un gradino sotto le fette tostate (stessi ingredienti ma con estratto di malto di frumento, di orzo e mais in polvere al posto dello zucchero, aggiunta di uova fresche e senza aromi), dove spiccano sentori vintage e un intrigante sapore dolce-sapido. In quelle integrali (con olio di girasole al posto del burro, 37% di farina di frumento integrale accanto a quella bianca, uova fresche, miele, destrosio ed estratto di malto in sostituzione dello zucchero, poi lievito, sale, latte in polvere, farina di frumento maltato), punteggiate da una diffusa occhiatura, i profumi delicati ma complessi e leggermente agé, gli aromi maltati e mielosi, la dolcezza controllata, la sensazione al palato di crusca e la consistenza molto friabile sottolineano il senso di integralità.

Prezzo: classiche 185 g; 1,60-2 euro. Tostate 175 g;1,60-2 euro. Integrali 175 g;1,70-2,20 euro

Biscotti Gentilini - Fette biscottate classiche, tostate e integrali | Roma | via Tiburtina, 1302 | tel. 06 4123571 | www.biscottigentilini.it

 

Grondona - Lagaccio Antica Genova

Quella di Grondona è una storia che nasce a inizio '800 come mulino e pastificio prima di entrare con tutti e due i piedi nei dolci tipici genovesi (una decina d'anni fa ha anche acquisito i marchi Duca d’Alba e Bonifanti). I biscotti del Lagaccio Antica Genova ricetta originale sono il suo prodotto di punta, delle fette biscottate prodottecon lievito madre, senza lievito di birra, oltre a farina di frumento, zucchero, burro, estratto di malto d'orzo e sale. Piccole, piuttosto rustiche, ben dorate e alveolate, emanano un odore di burro e pasticceria, più vaghi sentori vintage. In bocca tornano le sensazioni al naso e si uniscono a una dolcezza controllata (tra il biscotto e la fetta biscottata semplice) e a una consistenza sottile e di sensuale friabilità.

Prezzo: 250 g; 2,75/3,20 euro

Grondona - Lagaccio Antica Genova | Genova | via Campomorone, 48 | tel. 010 785901 - 010 7856518 | www.biscottificiogrondona.com

 

Biscottificio Antonio Mattei - Biscotti della Salute ricetta originale e integrali

Con i biscotti della salute di Mattei, storico e premiato biscottificio, fabbricante di cantucci e altre dolcezze dal 1858, torniamo nel fantastico mondo della pasticceria. Sono fette di pan brioche tostate, ovali e medio-piccole simili ai biscotti del Lagaccio, proposte sia nella ricetta originale (busta color ciclamino) sia integrali (busta verde chiaro; c'è anche una terza variante senza zucchero, con incarto azzurro). Ingredienti:farina di grano tenero, burro, uova, zucchero, lievito fresco per panificazione, sale marino, più un 28% di farina integrale di grano tenero nella versione scura. Entrambe le tipologie sono belle, smaglianti e invitanti, di aspetto irregolare e integro, piuttosto spesse e di un bel colore ambrato che in quelle integrali diventa oro antico scuro. Eccellenti, da podio, i biscotti ricetta originale, golosi e burrosi, da zuppa di latte e consumo compulsivo, ma equilibrati e fragranti, frutto di una ricetta bilanciata e ben collaudata; appena un po' chiusi al naso, in bocca si aprono in un ventaglio di sensazioni dolci e pulite, arricchite da una croccantezza spessa ma friabile e da una bella persistenza. Un gradino sotto i biscotti integrali: note olfattive e aromatiche esuberanti ma un po' vintage, note burrose importanti e un finale appena amaro, di contro una consistenza molto piacevole, una struttura di corposa croccantezza, con i cristalli di crusca che solleticano il palato.

Prezzo: 200 g; 4,50-4,70 euro

Biscottificio Antonio Mattei - Biscotti della Salute ricetta originale e integrali | Prato | via Ricasoli, 20 | tel. 0574 25756 | www.antoniomattei.it

 

 

a cura di Mara Nocilla

foto di Francesco Vignali

 

Per leggere Fette biscottate: ecco le migliori clicca qui 

Il futuro di Peck. Nuovi punti vendita a Milano, sognando Londra e New York. La strategia di Leone Marzotto

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Dopo il successo del bistrot Piccolo Peck, inaugurato lo scorso autunno, il 2017 della storica gastronomia meneghina si apre nel segno di progetti di espansione e diversificazione che fanno capo all’intraprendenza del giovane Leone Marzotto. Che ci racconta cosa bolle in pentola.

 

Peck secondo Leone Marzotto

Si è parlato di due, tre aperture in città. Niente a che vedere con una catena standardizzata: il blasone della casa, marchiato 1883, ne soffrirebbe. Piuttosto il desiderio di abbracciare la città e i milanesi con una rete di punti vendita strategici, che l'identità del marchio possano moltiplicarla senza fiaccarla, e anzi ribadendo a gran voce la milanesità di un progetto che si tramanda da oltre 100 anni. E certo è una strategia che mira all'attacco, o allo sviluppo, come direbbe Leone Marzotto guardando al futuro di Peck, gastronomia storica di via Spadari, che da un anno vede alla guida il rampollo della celebre dinastia tessile. Leone è giovane, ma le idee sono chiare: dal padre Pietro ha ereditato la passione per l'enogastronomia e il lifestyle made in Italy, gli studi alla Bocconi hanno plasmato la sua indole concreta. E può parlare di strategie, mercati potenziali, posizionamento del brand consapevole di avere tra le mani un “contenitore” prestigioso ramificato in tante linee di business diverse e complementari. La chiave del successo è saperle gestire tutte, secondo quanto richiede il caso.

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Anche il negozio fondato nella seconda metà dell'Ottocento da un salumiere di Praga – fino al 2013, per oltre 40 anni, di proprietà della famiglia Stoppani - è andato incontro alla naturale evoluzione della gastronomia, la bottega di alimentari così come la conoscevamo un tempo che si reinventa per incontrare le esigenze della clientela moderna, e catturare l'attenzione di un pubblico più trasversale.

 

 

La gastronomia moderna. Ristorazione e bistrot

Il processo, in via Spadari - dove la ristorazione è oggi una voce importante e proficua del fatturato - è in atto da tempo, e Leone, in veste di ceo, ha contribuito a un'accelerazione evidente. Di numeri abbiamo già avuto modo di parlare in passato: 830 mq per la vendita, 400 per la somministrazione, 2400 di cucina e laboratori per la preparazione dei cibi, dai panettoni ai patè, dai formaggi ai salumi, ai piatti dei ristoranti. Con 120 dipendenti, di cui circa 30 in cucina sotto la guida di Matteo Vigotti, e una bella quota di fatturato, il 20%, che dipende dai ristoranti: Al Peck, il fine dining, l'Italian bar, separato rispetto al negozio, e l'ultimo arrivato, il Piccolo Peck, il bistrot nato lo scorso settembre nel cuore dell’attività storica. A qualche mese dall'esordio, il format già regala i risultati sperati: “La risposta è positiva, da un punto di vista economico e commerciale. Il bistrot attira molti clienti e soddisfa il nostro primo obiettivo, quello di avvicinare un pubblico diversificato. I giovani, per esempio, o gli stranieri con un altro approccio culturale al cibo. Come gli asiatici: per loro può essere ostico avvicinarsi al banco e scegliere, al bistrot li guidiamo all'assaggio”.

 

Nuove aperture in città?

Ecco perché, per tornare all'inizio, i prossimi locali milanesi - “per ora solo una prospettiva, non azzarderei scadenze concrete” - potrebbero recuperare proprio l'anima del Piccolo Peck, pur in spazi ridotti da riconfigurare in base al posizionamento geografico e all'articolazione dei locali, ma sempre, “nel rispetto del brand”. Insomma, una storia quella di Peck, che chiede di procedere con cautela: “Stiamo vagliando diversi locali, si tratterà di cogliere l'opportunità migliore, quando arriverà. Certo è che abbiamo intenzione di studiare nel dettaglio il progetto pilota, perché funzioni da modello per le aperture successive. Qualcosa che sia nelle nostre corde, perché sappiamo fare tante cose e dobbiamo dargli il giusto risalto”. Le zone in lizza? "Zone prestigiose, come si conviene al nostro brand. Penso a Gae Aulenti, City Life, Il Quadrilatero". E se da un lato Leone si preoccupa di preservare il legame con la città – “Ci teniamo a essere milanesi, Peck fa parte della storia della città e la nostra filosofia è rimasta invariata; per questo per ora non siamo interessati ad altre città italiane” – dall’altro i mercati esteri ingolosiscono una potenza da 20 milioni di fatturato ogni anno, che dell’opulenza e del lusso ha fatto il proprio biglietto da visita. “Siamo ancora una piccola attività di famiglia, per questo ci muoviamo agili, ma la strada internazionale deve essere intrapresa con strategie precise e diversificate”.

Peck, foto M BarroFoto di M.Barro

La strategia internazionale

Sì, perché ci sono le vetrine ambite per il posizionamento del brand e per motivi di business puro – “come New York e Londra, dove dovremmo puntare a realizzare dei flagship store che rappresentino il prestigio del marchio” - e città interessanti per motivi diversi, come gli Emirati Arabi, “che sono un mercato complesso, vantaggioso per la capacità di spesa della clientela, difficile per divergenze culturali che dobbiamo essere preparati ad affrontare”. Come? “Piccolo Peck, per esempio, è stato creato come modello di caffè gastronomico da esportare. A Milano coesiste con le altre realtà ristorative del gruppo, nel caso in cui dovessimo esportarlo a Dubai sommerebbe più anime, un’atmosfera informale dove assaggiare i nostri prodotti e i piatti della cucina italiana. In alcuni Paesi, negli Emirati Arabi, in Asia, credo meno nella vendita al dettaglio. Dobbiamo intuire quali sono gli ostacoli al consumo per avere successo”. E quindi spingersi oltre i prodotti “che si vendono da soli”, olio, aceto balsamico, prosciutto di Parma, Parmigiano Reggiano, per offrire un’esperienza guidata. Firmata Peck. Un marchio che a quanto pare è ancora in grado di “creare emozioni”. Anche dopo 134 anni.

 

Peck | Milano | via Spadari, 9 | www.peck.it

Carnevale in Toscana nell'entroterra. Le tradizioni di Castiglion Fibocchi, Chianciano Terme e Foiano della Chiana

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Il Carnevale in Toscana ha un fascino particolare: oltre ai molti festeggiamenti sulle località balneari, ma anche nell'entroterra le tradizioni e i prodotti tipici non mancano.

È fra i più conosciuti e popolari di Italia, dalla storia antica e le tradizioni centenarie, ma il Carnevale di Viareggio non è l'unica festa toscana degna di nota: esistono manifestazioni molto affascinanti anche in altre località balneari come Follonica e Piombino, come vi abbiamo già raccontato, ma non solo: anche nell'entroterra – in particolare nelle province di Arezzo e Siena – la tradizione carnevalesca ricopre un ruolo significativo per le comunità dei borghi. Castiglion Fibocchi, Chianciano Terme e Foiano della Chiana ne sono un esempio.

Castiglion Fibocchi: dal XII secolo d. C. a oggi

Tra le colline dell'aretino prende vita una delle più suggestive feste di Carnevale di tutta la Penisola che risale al XII secolo d.C: Carnevale de fillis Bocchi. Questa la dicitura che si trova nei testi dell'epoca che sta a indicare una festa a base di danze e musica in onore di Bocco, soprannome del signore del paese. La festa prendeva vita nel castello del borgo con maschere e orchestre, un'usanza andata perduta che è stata poi ripresa solo negli anni '90 del secolo passato. Oggi si celebra la ventesima edizione del rinato Carnevale di Castiglion Fibocchi, un evento di rilevanza nazionale con costumi, maschere barocche e 200 figuranti che ogni anno impersonano i personaggi più disparati: ci sono Araldo, Amorino, Sherazade, Arlecchino, la Regina di Cuori e moli altri ancora per un totale di oltre centoquaranta maschere. Protagonista però è il Re Bocco, che apre le porte del castello e racconta le storie della corte.

 

Castiglion Fibocchi

I dolci: il gattò aretino e la panina

È il gattò aretino il dolce di tradizione per antonomasia di Arezzo e tutti i paesini limitrofi, Castiglion Fibocchi compreso. Si tratta di una sorta di tronchetto di pasta biscuit farcito con cioccolata o crema e bagnato con l'alchermes, disponibile tutto l'anno e presente anche durante il periodo di Carnevale insieme agli altri grandi classici della festa come cenci ripieni e chiacchiere. Non mancano poi le frittelle di riso, ricetta tipica di questo mese che la zona aretina condivide anche con Viareggio, la panina, dolce cotto al forno con uva passa, e la focaccia di castagne, pinoli e rosmarino. Per assaggiare i dolci locali realizzati secondo tradizione, consigliamo di recarsi una trentina di chilometri più a sud, al borgo di Castiglion Fiorentino, dove il bar pasticceria La Perla propone tutto l'anno le specialità del territorio. Per il gattò invece, una tappa nella vicina Arezzo è d'obbligo.

 

Focaccia di castagne

Dove comprare il gattò aretino:

Bruschi dal 1937 | Arezzo | via San Domenico, 42 | tel. 0575 24969 | www.facebook.com/Pasticceria-flli-Bruschi-dal-1937

Dove comprare i cenci:

La Perla | Castiglion Fiorentino (AR) | viale Giuseppe Mazzini, 65 | tel. 0575 658680 | www.facebook.com/pg/laperlapasticceria/about/?ref=page_internal

Chianciano Terme: il Carnevale ecologico

In provincia di Siena, il comune di Chianciano Terme è conosciuto soprattutto per il centro termale ricco di acque minerali ad azione curativa. Qui, il territorio e il rispetto per l'ambiente circostante giocano un ruolo fondamentale per la comunità al punto che, dallo scorso anno, è stato creato un evento di Carnevale ad hoc. È l'EcoCarnevale di Chianciano, nato per idea dell'Associazione Culturale EcoRinascimentale, organizzazione che propone progetti che integrano le energie rinnovabili e consentono di riqualificare il territorio. Il Carnevale ecologico si pone come obiettivo quello di celebrare le tradizioni folkloristiche toscane con un occhio di riguardo per l'ambiente. Tutte le maschere sono infatti in carta riciclata e anche i bambini sono invitati a presentarsi con costumi realizzati con materiali ecologici. Dj, musica, gare ed esibizioni sportive: il carnevale eco-sostenibile coniuga in un solo evento tutto il fascino delle tradizioni antiche e moderne con la consapevolezza ambientale contemporanea.

I dolci: la torta di Chianciano

Un guscio di pasta frolla ripieno di pan di Spagna, crema pasticcera e aromatizzato all'amaretto: la torta di Chianciano è la specialità del territorio, nata nel 1948 per opera di Jole Marabissi, patronne dell'omonima pasticceria, e diffusasi presto in tutto il paese. Come la si realizza? “La ricetta ufficiale è segreta”, proprio come da tradizione. C'è poi il più noto castagnaccio, ancora cenci e castagnole, panpepato e cantucci. Immancabili le chiacchiere, che qui prendono il nome di crogetti, dalla forma allungata come le classiche sfoglie fritte ma l'impasto più soffice: “il sapore è quello delle frappe, ma la consistenza è molto diversa”, spiega il team della Pasticceria Centro Storico.

 

Torta Chianciano

Dove comprare la torta di Chianciano:

Marabissi | Chianciano Terme (SI) | località Astrone | tel. 0578 61414 | www.marabissi.it/

Dove comprare i crogetti:

Pasticceria Centro Storico | Chianciano Terme (SI) | via A. Casini, 22 | tel. 0578 31444 | www.facebook.com/pages/Chianciano-Terme-Centro-Storico

Foiano della Chiana: la gara dei carri

È datato 1539 il primo Carnevale di Foiano della Chiana, fra i più affascinanti di tutta la regione. Nella provincia di Arezzo, si festeggia per ben cinque domeniche, le quattro precedenti al Martedì Grasso e quella successiva, fra musica, costumi tipici e danze. Cuore pulsante dell'evento è la Coppa Carnevale, un torneo che chiama a raccolta i diversi carri allegorici e che ogni anno premia quello più originale e meglio realizzato. I partecipanti al titolo annuale sono quattro cantieri denominati Azzurro, Bombolo, Nottambuli e Rustici. Il tema è libero e gli apparati devono essere realizzati interamente in cartapesta. Un pittore, uno scrittore, un critico d'arte e un giornalista: questi i professionisti che compongono il tavolo della giuria. A fine dei festeggiamenti, come accade anche in altre località toscane, viene bruciato il Re Giocondo, un fantoccio di paglia e carta imbottito di petardi. Il rito del rogo – preceduto dalla lettura ufficiale delle malefatte del re – si chiama Rificolonata (dal termine dialettale rificolone, lanterna) e segna la fine del Carnevale.

I dolci: la schiacciata e le brighelle

Tornano anche a Foiano della Chiana le frittelle di riso, disponibili anche nella variante con uva passa e accompagnate da quelle di ricotta. Ma qui nel borgo il dolce più tipico di Carnevale è la schiacciata, una sorta di pan di Spagna (con dosi e procedimento diversi) ricoperto di zucchero a velo. Accanto alle tradizionali castagnole ci sono poi le brighelle, “bombette fritte vuote all'interno e ripiene di crema pasticcera”, spiega Monica Centineo della pasticceria Anice Stellato. Non mancano anche qui, infine, chiacchiere e bignècon la ricotta.

 

Brighelle

Dove comprare la schiacciata:

Anice Stellato | Foiano della Chiana (AR) | via Farniole, 32 | tel. 334 8601150 | www.facebook.com/Pasticceria-Anice-Stellato

a cura di Michela Becchi

Carnevale in Toscana lungo la costa. Le tradizioni di Viareggio, Follonica e Piombino 

Carnevale in Sicilia. Le tradizioni di Acireale, Sciacca, Termini Imerese e Novara di Sicilia


Emilia Nardi e il Brunello di Montalcino: questione di affinità e di appartenenza

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I grandi vini di Montalcino firmati da una grande famiglia umbra. Intervista a Emilia Nardi che, con la sua famiglia, produce Brunello da più di 50 anni. Ma per gli ilcinesi rimane una forestiera.

Il fascino della complessità accomuna Emilia Nardi e Montalcino. Un variegato mosaico di colori e suoli, di paesaggi ed emozioni e tutte le sfaccettature di questa donna: come Montalcino sa offrire diverse interpretazioni del suo vino più noto, anche in Emilia Nardi convivono la tenacia e l'autorevolezza del capitano d'azienda con tutte le sfumature di una carismatica femminilità. Eppure la signora non è ilcinese: è umbra e ne va fiera.

Dice di lei Stefano Cinelli Colombini (A.D. Fattoria dei Barbi): “Le racconto un aneddoto di quando eravamo ragazzi; io ero insopportabile. Ci eravamo appena conosciuti ed eravamo entrambi nei vent'anni. Ad una cena lei mi disse tutta fiera che il loro Brunello era ottimo. Io, secco secco, le dissi che i loro aratri erano i migliori del mondo, ma il vino... Lei, giustamente, se la prese così a male che ancora me lo ricorda. Il tempo è galantuomo e devo dire che da allora diverse volte hanno fatto il Brunello migliore del nostro; mi levo il cappello”.

 

I vini di Emilia Nardi

L'affinità con i suoi prodotti e i suoi spazi è evidente, tutto parla di lei: i suoi vini non sono esplosioni muscolari ma morbidi e lunghi, persistenti. Le sue vigne sono molto curate e si avverte l'attenzione per il dettaglio, il suo casale sobrio ed elegante. È la vera donna immagine dell'azienda, e anche la collocazione geografica delle sue terre echeggia un tratto della sua personalità: difficili da raggiungere, accessibili, ma non per tutti.

Personaggio di peso tra i produttori raccoglie sempre grande consenso nelle tornate elettorali per le cariche del Consorzio: di lei gli altri produttori dicono che è esperta, onesta e competente, ma non sarà lei la donna che romperà il "tetto di vetro", quella metafora cara agli americani per indicare la barriera invisibile, in questo caso fra il governo del Brunello e una donna non montalcinese.

Montalcino vuole un comandante montalcinese; malgrado la mia famiglia sia tra i fondatori del Consorzio e io sia qui da 30 anni, per loro sono e resterò sempre una forestiera”dice, e aggiunge “E poi consideri che qui ha anche il suo peso l'appartenenza politica. In ogni caso per il futuro non sono più disponibile”.

 

Nel DNA della sua famiglia l'elemento dominante sembra essere la terra: dalla produzione di aratri e macchine agricole al vino. Nei primi anni '50 il Brunello non era ancora quello che è oggi, cosa spinse suo padre a Montalcino?

Mio padre arrivò qui per l'agricoltura, non per fare vino, venne per la caccia, per testare le macchine agricole e soprattutto perché voleva un posto dove poter essere se stesso, lontano dal mondo, e fare l'agricoltore. Perché vede, lui all'inizio era uomo di backstage, di produzione, non d'amministrazione. Poi morì mio zio e si dovette caricare nuove responsabilità.

 

Come era la situazione all'epoca?

All'epoca i Consorzi Agrari erano molto importanti e mio padre a loro vendeva le macchine. Ma la sua vocazione non era quella dell'industriale ed ebbe un esaurimento nervoso, tanto da aver bisogno di nuovi spazi, come quelli che ci sono qui. In una cena organizzata per parlare dei nostri aratri fu Franco Biondi Santi a invitare mio padre ad occuparsi di vino. Gli disse che erano solo 5 i produttori a Montalcino e che c'era bisogno di un uomo d'affari. Dopo le 5 famiglie originarie (Biondi Santi, Cinelli Colombini, Costanti, Franceschi, Padelletti) quella dei Nardi è la sesta ancora produttrice di Brunello e fondatrice del Consorzio.

 

L'arrivo dei Nardi negli anni '50 fu diverso da quello dei grandi investitori internazionali di oggi...

Si, molto diverso. Mio padre era agricoltore figlio di agricoltori e nel tempo si è trasformato in imprenditore. La mia è una storia di borghesia, non di sangue blu né di finanza. Mio padre ingrandì l'azienda acquistando i terreni dai mezzadri, terreno dopo terreno, pazientemente.

 

Quest'anno Brunello a 5 stelle: è soddisfatta?

Si, abbastanza. Ho in mente ancora altre cose, prima di tutto penso alla terra: i vigneti devono diventare più vecchi per poter aggiungere quello che vorrei io. Il sangiovese ha bisogno di vigneti di vent'anni e quel quid non si raggiunge con concentrazioni anomale, no; ci vuole il tempo. Perché, vede, la pazienza è essenziale nell'arte dell'agricoltura; si figuri per il Brunello... è pronto quando è pronto, difficilmente dopo 5 anni.

 

Lei conosce bene il valore della pazienza e dell'attesa, ma come si conciliano con le ragioni del profitto di chi investe capitali importanti?

Non si conciliano se pensiamo ai ritmi dell'industria, della finanza; a meno che non si tratti di investimenti sul medio e lungo termine. Industria e finanza hanno un passo molto diverso dall'agricoltura. Come diceva Franco Biondi Santi "il Brunello è per gente paziente".

 

La sua carriera inizia a metà degli anni '80, dopo cinque anni già le tocca la responsabilità della direzione aziendale. Ristruttura vigneti, rivoluziona la cantina, avvia il rapporto tutt'ora stretto con la ricerca scientifica...

Io faccio parte di quella che si è mossa, che ha fatto viaggiare il Brunello all'estero. Ciò è stato possibile anche e soprattutto grazie all'apertura e allo slancio che Montalcino ha ricevuto con l'arrivo di persone e aziende anche internazionali alla fine degli anni '70 e seguenti.

 

Che generazione di giovani è quella attuale del Brunello?

Oggi c'è una nuova generazione di giovani, molto preparati tecnicamente, a loro agio con le lingue straniere, quelli che oggi hanno tra i 25 e 35 anni e che stanno conquistando sempre più responsabilità in azienda, alcuni già le guidano e che si dedicano con vera passione e professionalità.

 

Cosa c'è di diverso secondo lei?

Rispetto a trent’anni fa è cambiato completamente l'approccio all'agricoltura. Prima lavorare la terra non era considerato qualificante, si diceva "braccia rubate all'agricoltura" per denigrare; oggi è esattamente il contrario. Viene percepito il vero valore di questo lavoro, è cresciuta la consapevolezza della sua importanza. E questi giovani della "generazione green" crescono con il vero rispetto verso la terra, ovvero in primis quello della conservazione. Con questi giovani quel potenziale unico che ha Montalcino è in buone mani, si può solo migliorare.

 

 

Tenute Silvio Nardi | Montalcino (SI) | Casale del Bosco | tel. 0577 808269 www.tenutenardi.com

 

a cura di Dario Pettinelli

Piadèra apre a Dubai. Matteo Bianchi prova ad esportare la piadina negli Emirati

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Esportare la piadina romagnola a Dubai. È quello che sta facendo Matteo Bianchi, giovane ingegnere di Poggio Rusco, che il 2 marzo aprirà nella Capitale degli Emirati Arabi il primo dei ristoranti Piadèra. E per l’inaugurazione un ospite d’eccezione: Chef Rubio e il suo “pasto sospeso”.

Il progetto Piadèra a Dubai

Matteo Bianchi è un imprenditore mantovano che ha lavorato in molti settori - dal private equity al retail - con diverse esperienze all’estero. Insoddisfatto della sua condizione, quasi due anni fa decide di mettere in piedi il progetto di un ristorante romagnolo a Dubai, città in cui vive e lavora da qualche anno. In poco tempo il febbrile lavoro di Bianchi lo porta a riunire una serie di imprenditori italiani in una cordata che sostiene l'idea e, cosa non di poco conto, a fare un accordo con nonna Norina, marchio che gestisce sei chioschi tra Cervia e Milano Marittima, titolare della tradizionale ricetta della piadina romagnola. Così il 2 marzo prossimo, il primo dei ristoranti ribattezzati Piadèra (nome che si riferisce alla “razdora”, la signora romagnola che fa le piadine artigianali) aprirà a Dubai. E sarà un “padrino” speciale a inaugurare il locale di Bianchi: dopo l’esperienza fatta a Roma in collaborazione con Casetta Rossa e Erri De Luca, chef Rubio, ha deciso di replicare il “pasto sospeso” anche negli Emirati, in occasione dei Labour Camp.

 

Chef Rubio e il pasto sospeso alla Piadèria

Durante l’inaugurazione l’incasso sarà raccolto e reinvestito per consegnare i pasti ai lavoratori dei Labour Camp, i campi di lavoro internazionali: persone che vengono, nella gran parte dei casi, dai Paesi asiatici e arrivano a Dubai con la speranza di trovare un impiego remunerativo. Non solo: nei giorni seguenti chiunque potrà passare dal ristorante 100% italiano e lasciare un’offerta, il famoso caffè sospeso napoletano, un contributo volontario per chi non può permetterselo. A fine giornata la raccolta delle donazioni e il cibo in eccedenza verrà recapitato nei Labour Camps direttamente dal personale di Piadèra.“Il made in Italy è uno stato mentale” ha spiegato chef Rubio,“sono particolarmente felice di poterlo esportare proponendo, assieme al gusto della tradizione gastronomica italiana, un modello di solidarietà capace di bilanciare l’onda intransigente che sta attraversando questo periodo storico”.

 

Il menu del locale

Non solo: Rubio, insieme allo chef resident di Piadèra Francesco Cavarretta mostrerà a pubblico e clienti le fasi della preparazione dei piatti in un cooking show. Il menu infatti è un mix trasversale fra piatti 100% italiani e dettami Halal, un insieme di regole che permette ai credenti musulmani di consumare pasti rispettando le norme prescritte dalla propria religione.

Bando alla carne di maiale, sostituita da fesa di tacchino, speck di manzo e bresaola negli antipasti, mentre la piadina sarà fatta con una variante a base di olio di oliva, eliminando dunque lo strutto. Il resto degli ingredienti sono selezionati fra materie prime di qualità provenienti dall’Italia e altri prodotti in loco dallo staff di Piadèra, come ad esempio la mozzarella. L’impostazione multiculturale del ristorante non riguarda solo i menu o il personale selezionato - fatto da italiani, egiziani, asiatici, africani - ma anche la cordata di investitori che vede top manager, personalità del mondo dello sport e professionisti del business internazionale sia di origine italiana che araba. “La prospettiva è multiculturale ma, allo stesso tempo l’italianità di Piadèra è pervasiva” ha spiegato l’imprenditore modenese, “anche arredi, packaging e sito web sono rigorosamente made In Italy. L’idea è semplice: il nostro flatbread non è altro che il tappeto volante per far volare il meglio del Sistema Italia, dall’imprenditorialità alla solidarietà, dai prodotti culinari a quelli del design, in giro per il mondo abbracciando diverse culture”.

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

 

 

 

TheFork Festival 2017: cene in oltre 700 ristoranti al 50%. Ecco dove

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Scoprire nuovi locali e stili di cucina grazie a TheFork. Dal 21 febbraio al 6 aprile torna The ForkFestival, l’iniziativa che permette di mangiare nei ristoranti aderenti con uno sconto del 50%. Giunto alla quarta edizione, quest’anno conta oltre 700 ristoranti partner dell’evento, con menu ad hoc per i clienti che prenotano sulla piattaforma online.

La quarta edizione di TheFork Festival

Forte del successo delle prime tre edizioni, ritorna TheFork Festival, un evento che permette a coloro che prenotano dalla piattaforma online - o attraverso l’applicazione mobile TheFork per iOs e Android - di mangiare in ristoranti di livello con uno sconto del 50%. In tutta Italia, dal 21 febbraio al 6 aprile, oltre 700 ristoranti parteciperanno all’iniziativa con menu ad hoc a metà prezzo, compresi diversi ristoranti stellati. Un’occasione per scoprire nuove cucine anche per chi generalmente non ha un budget molto alto da dedicare a pranzi e cene fuori di casa, ma anche un’opportunità per ristoratori e imprenditori del cibo. “TheFork Festival è un appuntamento sempre più atteso sia dagli utenti sia dai ristoranti” ha spiegato Almir Ambeskovic, country manager di TheFork Italia “consente ai clienti di andare più spesso a mangiare fuori, provando così le novità della loro città. Per i ristoratori invece è uno strumento di marketing. Secondo le analisi condotte da TheFork, gli esercizi che hanno partecipato alle iniziative precedenti hanno mantenuto più del triplo delle prenotazioni nei mesi successivi, rispetto ai ristoranti non aderenti”.

 

I locali aderenti e i ristoranti più interessanti

Tantissimi gli aderenti all’iniziativa di TheFork, sparsi un po’ su tutto il territorio nazionale. Vi segnaliamo quelli che ci sembrano più interessanti, così da poter cogliere al volo l’opportunità di provare specialità e novità dei maestri della cucina italiana. Come in ogni edizione, presenti anche i ristoranti segnalati dalle guide e dalla stampa gastronomica, che proporranno prezzi dai 45 ai 120 euro.

 

I ristoranti al Nord

Partiamo dal Piemonte, e più precisamente da Torino, con il Birichin di Nicola Batavia in prima fila che, dalla sua splendida cucina a vista, proporrà un menu a 57 euro, oltre a ristoranti come Premiata Osteria dell’Hermada, il marocchino Mogador e il vegetariano Verde Gusto. In Lombardia gli appassionati di cucina gourmet avranno l’imbarazzo della scelta, soprattutto se si trovano a Milano: all’appello rispondono Finger’s e Finger’s Garden, dove si potrà gustare la cucina fusion di Roberto Okabe a 60 euro, il Liberty di Andrea Provenzani con un menu a 47 euro e Claudio Sadler con il menu a 105 euro.

In Veneto torna la proposta di Nicola Batavia, stavolta al The Egg all'Hotel Danieli di Venezia. Mentre scendendo in Toscana a La Tenda Rossa di San Casciano in Val di Pesa (FI) Cristian e Maria Probst proporranno un menu a 60 euro.

 

I ristoranti al Centro Sud

Proseguiamo con il Lazio, che conta tanti locali partner del festival. Nella Capitale saranno Il Convivio Troiani con un menu a 110 euro, ma anche il Mirabelle dell’Hotel Splendide Royal, con al sua proposta a 120 euro, a celebrare The Fork per un mese e mezzo. I foodlovers capitolini potranno anche provare Livello1 (menu a € 55), il ristorante-pescheria che vede in cucina il giovane Mirko di Mattia.

In Campania, a ridosso del Parco nazionale del Cilento c’è la Locanda Severino (Caggiano - SA), guidata daVitantonio Lombardo che propone un menu a 55 euro in cui fonde sapientemente la cucina delle due regioni. Coloro che invece si trovano a Napoli potranno gustare le specialità di Palazzo Petrucci, a 80 euro, dove Eduardo TrottaLino Scarallo sapranno accontentare anche i palati più esigenti. Infine, la Sicilia, dove La Fenice dell’Hotel Villa Carlotta, a Ragusa, delizierà gli ospiti con il menu della famiglia Malandrino a 70 euro.

The Fork Festival | in tutta Italia | dal 21 febbraio al 6 aprile 2017 | http://blog.thefork.com/it/tag/thefork-festival/

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

 

 

 

Intervista ad Alfio Ghezzi. Orgoglio trentino alla Locanda Margon: bollicine, minimalismo e territorio

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Alla fine del 2016 è arrivata la seconda stella Michelin (le Due Forchette de Gambero Rosso invece già le aveva conquistate), per la prima volta a premiare la ristorazione trentina, che Alfio Ghezzi rappresenta da sei anni alla guida del ristorante delle Cantine Ferrari. Il suo è un percorso di riscoperta del territorio, che in cucina diventa ispirazione per trovare nuovi stimoli.

In cucina. Attraverso e per il territorio

Riappropriarsi del territorio, di ritorno tra le montagne dell’infanzia, quelle che oggi giocano da protagoniste sulla tavola della Locanda Margon. E cambiare registro, per ricominciare a lavorare in provincia. Non una fuga dalla città, piuttosto una sfida nuova, e nuovi interrogativi. Perché in fondo le risposte sono proprio lì, tra quelle montagne, le sue, quelle che Alfio Ghezzi porterà sul palco di Identità Golose tra qualche giorno, tra i relatori della sezione Identità di Montagna. E come potrebbe essere altrimenti, visto il rapporto che lo lega alle valli e alle vette del Trentino? Lui, che ad alta quota ritrova l’ispirazione, e che quando qualche mese fa si è trattato di ricaricare le batterie e trovare nuovi stimoli, è salito su un parapendio per una traversata in solitaria di oltre due settimane, da Trento all’Alpe d’Huez. Un modo estremo e dolce al tempo stesso per trovare una simbiosi più autentica con il territorio e chi lo abita: Attraverso… Senza lasciare tracce, come ha voluto ribattezzare l’esperienza, che è diventata pure case history per la platea di Ted X Trento, lo scorso 27 novembre. Cosa c’entra questo con le cucine blasonate, la mondanità del ristorante di casa Ferrari in Lunelli, la rigorosa visione gastronomica di uno chef d’esperienza allievo di Gualtiero Marchesi? 

Sei anni di Locanda Margon. Tornare a casa

Più di quanto si possa immaginare prima di intavolare una lunga chiacchierata con lo chef, che di quel territorio sempre più spesso sbandierato dalla cucina contemporanea come paravento per nascondere una certa mancanza di personalità, ha fatto il baluardo di una solida identità, punto di partenza (e non di arrivo) della ricerca gastronomica: “Come posso interpretare al meglio il territorio? Quando nel 2010 ho scelto di lasciare la città per tornare tra le mie montagne è stata la prima domanda che mi sono fatto”. Un quesito sempre attuale, anche oggi che la Locanda Margon, grazie a un lavoro di continuità e alla meticolosa formazione di una brigata di giovani promettenti, veleggia tra le tavole più apprezzate della Penisola, nel rispetto del ruolo che la sua posizione gli impone – costola gastronomica delle Cantine Ferrari, suggestiva villa cinquecentesca tra le vigne della proprietà, 40 più 20 coperti in veranda – ma pure capace di rivendicare la propria autonomia. Una fisionomia precisa che porta la firma di chef Ghezzi, classe 1970, una laurea in filosofia, trascorsi importanti al fianco del maestro Marchesi prima, Andrea Berton poi. Dal 2010 al timone della Locanda, alle porte di Trento. Nel mezzo anche un Bocuse d’Or (Italia) vinto nel 2012. Alfio Ghezzi oggi è uno chef che sa parlare di etica e comarketing, formazione e imprenditoria della ristorazione incanalando il discorso su un binario coerente, pur ricco di stimoli diversi che convivono tra loro. E probabilmente questa, la curiosità di gestire spunti molteplici (“la multidisciplinarietà del cuoco”, come la chiama lui) è la sua forza.

La cucina come concetto spaziale

Il cuoco deve essere in grado di elaborare gli stimoli, la sua cucina diventa un concetto spaziale all’interno del territorio, deve saper essere descrittiva, e ugualmente assertiva. In questo percorso l’elemento assertivo, il valore aggiunto, è l’esperienza del cuoco”. Che significa, per esempio, essere in grado di approcciare il prodotto senza una logica talebana, inventando nuovi legami tra ciò che è vicino e quanto di buono si scopre lontano. E questo succede ogni giorno alla Locanda Margon, dove arrivano la carne degli yak allevati allo stato brado in Val d’Ambez e lo zafferano della Val di Gresta (“se ne producono solo 120 grammi ogni anno”), l’extravergine dop di Riva del Garda e le chiocciole di Borgo San Dalmazzo, che brucano sui pascoli delle Alpi Marittime Meridionali: “Mi piace l’idea di una cucina contaminata, che sappia raccontare, e intavolare relazioni privilegiate con i produttori”. Una visione chiara, che negli ultimi tempi sta virando verso la ricerca di semplicità, per offrire al commensale un’esperienza immediata, poco complessa: “La nostra cucina è riconoscibile, non cerchiamo di fare capriole, ci piace togliere più che mettere”. 

La Locanda Margon

 

Il connubio con il vino

Eppure uno chef che convive con un patrimonio vinicolo apprezzato in tutto il mondo deve confrontarsi con una sfida in più, “una vera opportunità, perché il vino diventa uno stimolo, spesso sottovalutato dalla cucina, per ideare nuovi piatti”. Come il Blanc de Blancs di baccalà con crema di porri e patate e zuppetta allo Chardonnay, oggi tra i signature dish di maggior successo. O Riso e bollicine, mantecato con erborinato di capra e Ferrari Perlé Rosé. Il processo però è complesso: “Il cuoco deve saper incontrare le esigenze dell’enologo, prestare attenzione ai profumi. E poi ci sono gli ingredienti vietati, quelli di difficile abbinamento: banditi i fondi troppo ristretti, attenzione al pepe. E invece consigliabile ricercare pseudo-dolcezze. Ostacoli che finiscono per diventare uno stimolo per tutta la brigata”. 

Riso e Bollicine

La ristorazione di provincia. E la sfida del Trentino

Come del resto i premi, ultimo in ordine di tempo la seconda Stella Michelin (la prima nel 2011), lo scorso dicembre a Parma: “Sono dell’idea che per migliorare ci sia bisogno del riconoscimento. Specialmente per i ragazzi è molto importante(in cucina si lavora in 4, altrettanti sono in sala, ndr)”. Ma lui, se l’aspettava? “Da un paio d’anni cercavamo di lavorare su un cambio di passo, sulla cura dei dettagli, sulla ricerca di continuità. Se cambia la mentalità di chi sta in cucina, cambia anche l’atteggiamento di chi si siede al ristorante”.

E di fatto l’ultimo premio della Rossa ha acceso i riflettori sulla ristorazione di un territorio che più lentamente di altri sta trovando la propria strada per emergere: “Il Trentino è una zona cuscinetto, tra territori molto forti come l’Alto Adige o la zona del Garda, siamo raggiunti dal turismo internazionale. E le idee non mancano, ci sono colleghi giovani e molto preparati. Però per affermare un cambiamento di passo ci vuole tempo, bisogna costruire e saper mantenere”. D’altro canto il tempo può giocare anche a favore di un territorio di provincia: “In città è più semplice farsi notare, ma la parabola è più corta. Qui tutto è più duraturo, io sono tornato al mio modo di essere e di vivere. E anche l’ospite è più sobrio, non subisce quel bombardamento di stimoli della città. Si può impostare un discorso diverso, impegnativo, che ripaga gli sforzi”. Nello specifico dalla piazza privilegiata delle Cantine Ferrari si cerca di accontentare l’ospite locale come il pubblico internazionale in cerca dell’ambiente esclusivo promesso dal prestigio del brand.

 

Il Crudo e il Cotto

Il minimalismo al servizio del territorio

La chiave di volta? Una rielaborazione personale di quel minimalismo marchesiano “che ha lasciato una traccia importante”. Ma guai a parlare di moda, oggi che molti hanno scelto di votarsi al dio dell’essenzialità: “Usciamo da anni di tecnica estrema, che mentre raggiungeva l’apice della sua parabola ci aveva fatto deviare dall’obiettivo, e cioè scavare per fare meglio. Un layout minimale, due ingredienti nel piatto, cotti bene e serviti alla temperatura corretta. La complessità la riserviamo alla migliore gestione possibile della materia prima”.

Un esempio nel piatto? L’Insolito Trentino, “all’apparenza un semplice spaghetto in bianco, e invece un sorprendente equilibrio di acidità e aromaticità con gli ingredienti del nostro territorio”: spaghetti Monograno Felicetti, extravergine Uliva, Trentingrana e Ferrari Perlé. E così si ritorna ancora una volta a parlare di territorio, all’urgenza di preservarlo, di tornare a valorizzarlo senza sfruttarlo: “Vent’anni fa Serge Latouche sosteneva che un cuoco che non si interessa di ambiente è sicuramente deficiente, nel senso che manca di qualcosa. Io ho ritrovato un rapporto più autentico con la mia terra, che ora è la mia forza”. E adesso, fresco dell’ultima conquista, che succede? “Sono stati sei anni di crescita, ora è giusto far sedimentare i risultati raggiunti. Non voglio ripartire subito con un nuovo obiettivo, ma lavorare bene con tranquillità. Perché diventi la nostra quotidianità”. Anche se una priorità che detta legge nella cucina di Alfio c’è: “Lavoriamo per comunicare generosità all’ospite. E questo sarà sempre il nostro primo obiettivo”.

Insolito Trentino

 

Locanda Margon | Trento | via Margone di Ravina, 15 | tel. 0461 349401 | www.locandamargon.it

 

a cura di Livia Montagnoli 

Anteprima Montefalco 2017 report. I nostri assaggi dell'annata 2013

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Anche se è ancora solo un progetto di vino, è stata presentata, in questi giorni, l'annata 2013 del Sagrantino di Montefalco. Sono le prime espressioni di un vino che guarda sempre più verso l'eleganza e la sostenibilità.

L’incantevole borgo di Montefalco ha ospitato il 20 e 21 febbraio la terza edizione dell’Anteprima Sagrantino. L’appuntamento è stato anche l’occasione per celebrare i 25 anni della Docg, con una trentina d’aziende presenti e oltre 200 etichette in degustazione delle varie denominazioni: Montefalco Sagrantino Docg 2013 secco e passito, Montefalco Rosso Doc 2015, Montefalco Rosso Doc Riserva 2014, Montefalco Bianco Doc 2015 e una selezione vintage di Montefalco Sagrantino Docg 2007.

 

Il Sagrantino tra passato e presente

La coltivazione del sagrantino a Montefalco ha origini antichissime, testimoniate anche dalla presenza di alcune viti centenarie all’interno delle mura del borgo. Nel corso del tempo, sono state formulate molte ipotesi sulle origini del vitigno, ma a oggi non sono state riscontrate affinità genetiche con altre varietà conosciute. È difficile stabilire con certezza se il vitigno sia giunto a Montefalco nell’antichità o se si tratti di una di una vite locale domesticata. Di certo ha trovato un habitat perfetto sulle dolci colline umbre, caratterizzate da suoli argillosi e da un clima fresco e continentale.

La tradizione ha da sempre affiancato alla versione secca il vino passito, che con la sua dolcezza, bilancia le asprezze tanniche tipiche del vitigno. Il passito è sempre stato il vino delle cerimonie religiose, destinato per tradizione alla celebrazione della Pasqua. Tuttavia, il sagrantino ha vissuto un periodo di progressivo abbandono in favore di altre varietà più produttive, che ha rischiato di decretarne l’estinzione. La sua riscoperta si deve ad alcuni appassionati produttori che, a partire dagli anni ’60, hanno recuperato le vecchie vigne dando il via a un’opera di lenta rinascita. Da poche decine di ettari, si è arrivati a un vigneto che oggi ha una superficie complessiva di oltre 600 ettari. Nell’ultimo decennio sono state costruite molte nuove cantine e dal 2000 a oggi la produzione di Sagrantino è passata da 660 mila a circa 1.300.000 bottiglie. I vini di Montefalco rappresentano il 16,7% della produzione della regione Umbria. Il Montefalco Sagrantino Docg pesa per il 6,3%, mentre i vini Montefalco Doc per il 10,4%. Il valore complessivo delle esportazioni si attesta attorno al 60%. I principali mercati esteri sono rappresentati da: USA (25%), Germania (12%), Cina (7%), Svizzera (4%), UK (4%), Danimarca (4%), Giappone (4%), Canada (4%), Olanda (4%), Belgio (4%), Hong Kong (2%) e da un’altra trentina di paesi.

MontefalcoMontefalco - i vigneti

 

Sostenibilità e zonazione del territorio

Da alcuni anni l’area di Montefalco sta lavorando a un progetto innovativo per la gestione agronomica delle vigne. L’obiettivo è di elevare il livello qualitativo della produzione, migliorando contemporaneamente la sostenibilità ambientale e sociale della viticoltura. Dal 2015 il Consorzio Tutela Vini Montefalco, in associazione con alcune cantine del territorio, collabora con Confagricoltura Umbra, le società Leaf e Perleuve al progetto Grape Assistance. Si tratta di un modello di assistenza tecnica, che fornisce informazioni per un utilizzo sempre minore e più responsabile dei fitofarmaci. Il progetto Grape Assistance è nato con l’obiettivo di ridurre del 20% in 3 anni il consumo di fitofarmaci e rendere la viticoltura sempre più sostenibile a livello ambientale. È stata creata una rete di stazioni meteo sul territorio per monitorare, condividere ed elaborare i dati di microclima, ed evidenziare le zone a maggior rischio d’incidenza di malattie della vite. Le stazioni meteo sono dotate di sensori per la pioggia, sensori di temperatura e umidità relativa e sensori di bagnatura fogliare. I dati vengono incrociati con i modelli previsionali, in modo da creare un sistema di gestione del territorio aggiornato in tempo reale. Già dal primo anno si è registrata una riduzione del 5% del numero d’interventi fitosanitari e del 14% dell’indice di frequenza dei trattamenti. Dopo due anni di sperimentazione sul territorio di Montefalco, dal prossimo anno, il modello Grape Assistance sarà esteso a tutta l’Umbria.

A questa iniziativa, si affianca il progetto New Green Revolution, nato per la salvaguardia e la valorizzazione dell’identità produttiva e culturale del territorio del Montefalco Sagrantino Docg. Oltre alla creazione di un protocollo di agricoltura sostenibile, è stato istituito anche un percorso formativo con l’ITIS Agroalimentare dell’Umbria, per formare nuove figure professionali da inserire nel mondo produttivo. Molti ragazzi hanno già partecipato a gruppi di lavoro per il monitoraggio dei vigneti e hanno trovato poi occupazione all’interno delle stesse aziende.

Contemporaneamente è stata realizzata una Carta dei Vigneti di Montefalco. Il territorio è solo apparentemente uniforme. L’area coltivata è compresa tra i 220 e i 400 metri di altitudine e i terreni, seppur di matrice prevalentemente argillosa e poveri di scheletro, presentano differenze da zona a zona. Ma sono soprattutto le diverse esposizioni e pendenze delle vigne a determinare un mosaico di macro aree e parcelle, che comincia a delinearsi con chiarezza e potrà essere molto utile in futuro per la crescita complessiva della denominazione.

 

L’annata 2013

L’annata 2013 non è stata delle più facili. L’inverno è stato caratterizzato da forti precipitazioni. In primavera il freddo ha rallentato lo sviluppo vegetativo e le piogge hanno creato parecchi problemi soprattutto per lo sviluppo della peronospora. Da fine giugno l’estate è stata regolare, con notevoli escursioni termiche tra il giorno e la notte, e il bel tempo è proseguito fino all’inizio di novembre, quando le piogge hanno costretto a chiudere la vendemmia rapidamente. Nel complesso è stata un’annata caratterizzata da una produzione ridotta, ma con uve di buona qualità.

La degustazione delle etichette del 2013 ha confermato una tendenza generale verso un profilo dei vini più fresco ed elegante, più che strutturato e concentrato. Tuttavia, proprio per l’esuberante tannicità giovanile del Montefalco Sagrantino, si sa che oggi un 2013 è solo un progetto di vino, che avrà bisogno di parecchi anni d’affinamento in bottiglia prima di raggiungere una piena maturità espressiva, armoniosa ed equilibrata.

MontefalcoSagrantino di Montefalco in degustazione

Note di degustazione

Il Montefalco Sagrantino di Perticaia è elegante e armonioso, con frutto fragrante, leggera speziatura e trama tannica già ben integrata al corpo del vino.

Bouquet raffinato con morbido sentore di spezie, bocca armoniosa dal frutto succoso e tannini già abbastanza evoluti per il Montefalco Sagrantino Collenottolo della Tenuta Bellafonte.

Un vino di grande prospettiva il Montefalco Sagrantino di Adanti, aromaticamente intenso, profondo e giustamente tannico, con aromi di piccoli frutti a bacca scura e lievi sentori balsamici.

Frutto croccante, con bella trama tannica ed equilibrata freschezza per il Montefalco Sagrantino Colpetrone delle Tenute del Cerro.

Bagaglio aromatico fruttato e bocca già armoniosa per il Montefalco Sagrantino Collepiano di Arnaldo Caprai.

Si apre su delicati profumi varietali ilMontefalco Sagrantino Antonelli San Marco, pur denotando ancora una certa ruvidità tannica, in bocca esprime già equilibrio, con aromi molto persistenti.

Profilo olfattivo fine ed elegante, bocca aromaticamente profonda, con matura trama tannica per il Montefalco Sagrantino Della Cima di Villa Mongalli.

Armonioso, sorso denso e appagante, con tocco speziato, per il Montefalco Sagrantino Fidenzio Tudernum. Il Montefalco Sagrantino 25 Arnaldo Caprai esprime già eleganza di profumi e buona armonia gustativa, con tannini ben integrati al corpo del vino.

Intenso, con frutto ricco e tannini ancora in rilievo il Montefalco Sagrantino Campo alla Cerqua di Tabarrini, che chiude con un finale persistente su note minerali. Un vino ancora un po’ acerbo, ma di bella prospettiva.

 

a cura di Alessio Turazza

foto: Consorzio Tutela Vini Montefalco - Alessio Turazza

 

Ristoranti in Estremo Oriente. Paul Pairet triplica a Shanghai, Enrico Bartolini a Hong Kong per l'esordio all'estero

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Lo chef francese è un veterano della ristorazione cinese e della cucina d'avanguardia. Ora ci prova, sempre sotto l'egida di Unico, con la cucina familiare e scenografica del Chop Chop Club. Intanto a Hong Kong arriva un altro italiano doc, Enrico Bartolini, che firma la cucina di Spiga. 

Paul Pairet. Un francese a Shanghai

A Shanghai, tra le città a più alta densità gastronomica del mondo, il francese Paul Pairet può vantare due insegne che reggono la propria fama sul suo nome. Classe 1964, formazione tra i ranghi della scuola francese più classica, in Estremo Oriente lo chef ha saputo guardare oltre, propulsore di uno stile personalissimo presto identificato dall'espressione “french but not french”. Il modo più semplice per scoprirlo, a Shangai, è sedersi alla tavola di Mr & Mrs Bund. O, per gli avventori più spregiudicati (e i portafogli più abbienti), prenotare uno dei 10 posti (in tavolo unico) del futuristico Ultraviolet, riconosciuto tra le cucine più tecnologiche del continente asiatico: 20 portate d'avanguardia mentre intorno si consuma un film, tra luci, suoni, profumi, proiezioni. Dal 2012, uno dei primi esperimenti di cucina multisensoriale nel mondo. Che gli vale l'ottavo posto dell'Asia's 50 Best Restaurants (e il numero 42 nella classifica globale). E allora Paul Pairet, abile perfezionatore di format che sbancano il botteghino, ci riprova con Chop Chop, ancora una volta sotto l'egida del gruppo Unico, operativo da un paio di settimane all'interno del complesso Three on the Bund. Ancora una volta a Shangai, ma verso nuovi orizzonti: offrire una cucina impeccabile, calibrata sui tempi di cottura.

 

Il tabellone degli “arrivi” al Chop Chop Club

Così il Chop Chop Club (una sessantina di coperti per cominciare), per certi versi, segna la volontà di tornare a cucinare entro confini più certi, sublimando il piatto attraverso l'esecuzione e la capacità tecnica. Con l'apporto indispensabile della tecnologia: forni di precisione capaci di raggiungere i 500 gradi, nel caso specifico. E un menu improntato al servizio di carne e pesce cucinati sul momento, una decina di portate principali sempre disponibili (solo per il servizio serale), in uscita ogni 15 minuti, con l'espediente scenografico del tabellone luminoso, con gli orari delle infornate, il tempo di attesa e le porzioni disponibili di ogni pietanza. Quello che ci si aspetta dal cliente – perché quando si ragiona in questi termini, e il tasso di sperimentazione è alto, i commensali per primi sono chiamati a calarsi nella parte, farsi trascinare nel gioco – è la voglia di condividere il pasto con gli altri, godere dell'apparato scenico offerto dalla casa, e poi, del cibo, familiare e confortevole, l'uno imprescindibile dall'altro: polli che escono dal forno interi da consumare in due, rombi di grandi dimensioni, cosci d'agnello e pance di maiale succulente. In abbinamento contorni e ricette d'ispirazione francese. Prezzo medio a persona 50-60 euro.

Enrico Bartolini a Hong Kong

Intanto, sempre a proposito di chef folgorati dall'Estremo Oriente - che molto apprezza la cucina francese, come dimostra pure l'ultima 50 Best, ma tributa il giusto merito anche a tanti connazionali, da Bombana a Lavarra in Cina, Fantin a Tokyo – Enrico Bartolini pianta la sua prima bandierina a Hong Kong. E la prima all'estero forte del riscontro crescente ottenuto tra i confini nazionali. Spiga, in Queens Road al terzo piano dell'LHT Tower Podium, è un ristorante di lusso che propone cucina italiana in centro città, riprogettato da Joyce Wang dopo la parentesi del Lupa di Mario Batali (che gli spazi li occupava prima del cambio rotta, per la stessa proprietà: Dining Concepts). Il servizio è cominciato da un paio di mesi, in tavola – tra suggestioni dell'Italia anni Cinquanta, arredi di design e una veranda-giardino – arrivano i piatti che raccontano la Penisola del buon gusto: gamberi rossi di Mazara con salsa al tamarindo, ravioli con ricotta di bufala e broccoli in brodo di patate, risotto, Black Angus con millefoglie di patate, ossobuco, vitello tonnato, mousse al cioccolato con crema di nocciole. E una carta dei vini da oltre 300 referenze, affidata al sommelier Maurizio Severgnini (mentre la cucina è affidata a Giuseppe Carlucci).

 

Chop Chop Club | Shangai | Three on the Bund, 3 Zhong Shan Dong Yi Road | www.unicoshanghai.com/ccc/

Spiga | Hong Kong | LHT Tower Podium, 31 Queen's Road Central | www.diningconcepts.com/restaurants/spiga

 

a cura di Livia Montagnoli

Benvenuto Pinot Grigio. La nuova Doc si presenta

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Nascerà ufficialmente a marzo il consorzio della nuova Doc delle Venezie, ed è pronto ad accogliere il contributo di tutti. Ma, se i vignaioli trentini dicono no, negli Usa è Pinot Grigio mania. Anche Lady Gaga pronta ad entrare nel business?

La nascita del super Consorzio

Step by step, il Pinot Grigio avanza. La grande Doc interregionale "delle Venezie", che comprende in maniera trasversale i territori di Veneto, Trentino e Friuli Venezia Giulia, procede a piccoli passi verso il traguardo, superando gradualmente importanti tappe intermedie. L'ultima è stata l'invio dello statuto consortile al Ministero per le Politiche agricole, annunciato alcuni giorni fa a Verona. La prossima sarà quella del 2 marzo, che sancirà la nascita ufficiale del consorzio di tutela, la sua costituzione. Non si sa ancora quanti saranno i soci, non si sa ancora quante saranno le produzioni rivendicate. Per ora, la Doc Pinot Grigio "delle Venezie", e la collegata Igt "Trevenezie", sono un'affascinante incognita ma dalle grandi promesse. Perché, potenzialmente, i circa 21 mila ettari distribuiti tra Veneto (11.500), Friuli Venezia Giulia (6 mila) e in Trentino (2.800), pari all'85% della superficie nazionale di Pinot Grigio, potrebbero valere 2 milioni di ettolitri, che tradotto in bottiglie significa 260 milioni. Numeri che potrebbero fare di questa Doc un mostro buono, capace di affrontare l'agguerrito mercato globale con armi ben più affilate rispetto a ora, e con una dimensione quantitativa consona, al pari di quanto sta facendo il tanto decantato, e affermato su scala globale, Prosecco.

Perché una nuova Doc?

Un'operazione esclusivamente di taglio commerciale? Non ci sta Albino Armani, al timone dell'Associazione temporanea di scopo (Ats), che da un anno e mezzo lavora al progetto col coordinamento tecnico e il supporto istituzionale dell'Unione italiana vini di Antonio Rallo. Anzi, ci tiene a sottolineare i vantaggi e la bontà dell'operazione a tutti i livelli e per tutte le categorie produttive. A partire dalle migliaia di viticoltori coinvolti che potranno produrre vini sotto il marchio di una Doc riconosciuta, e riconoscibile, sostenuta da un consorzio con tutte le carte in regola e, soprattutto, in grado di tenere sotto controllo le produzioni. "Per prima cosa, non esiste una denominazione che non abbia dietro di sé un consorzio forte. In questo momento" afferma Armani "abbiamo la possibilità di fare ordine, disegnare la piramide e garantirla. Ma, soprattutto, darle più valore e, di certo, non sminuirla. Io sono convinto che questo progetto farà bene in particolare ai viticoltori più piccoli".

L'occasione è ghiotta. Del resto, c'è bisogno di un deciso rilancio per questo vino bianco, originato da un vitigno che è la quarta varietà più coltivata in Italia (+144% negli ultimi cinque anni) ma che, se si guarda alle produzioni, si ritrova disperso qua e là tra le varie Doc e Igt regionali. Il motivo della nascita della superdoc sta anche qui. Razionalizzare e fare sistema per essere competitivi.

Quale mercato per la neo Doc?

Perché negli ultimi tempi, il mercato non sembra sorridere particolarmente a questo bianco, che – va ricordato – negli Stati Uniti (primo cliente del vino tricolore) è sinonimo di Made in Italy e resta uno dei più apprezzati dai consumatori, vecchi e nuovi. Rilancio necessario, quindi, se si guarda alle quotazioni alla produzione che, secondo le rilevazioni Ismea, sono ben lontane (oltre 15% in meno) da quelle del 2013 e 2014, quando i vari Pinot Grigio Igt Veneto, delle Venezie e Marca trevigiana erano ampiamente sopra i 10 euro a ettogrado. L'ultimo rilevamento, invece, le vede al di sotto dei 9 euro a ettogrado, non accadeva dal settembre 2015.

"Un consorzio e una Doc sono gli strumenti con cui sarà possibile riorganizzare e valorizzare l'intera produzione del Triveneto, che è un riferimento nazionale per questa varietà", afferma il presidente di Uiv, Antonio Rallo, che guida anche il Consorzio Doc Sicilia e che, come tale, ben conosce l'importanza di mettere a sistema le produzioni di un territorio, in funzione della tutela e della promozione sui mercati. Armani, probabile futuro numero uno del consorzio della Doc "delle Venezie", è cauto. L'attuale fase di passaggio è particolarmente delicata: il nodo da sciogliere è quello delle grandi cantine che oggi imbottigliano il Pinot Grigio fuori dalla zona di produzione, ad esempio in Piemonte, in Lombardia, in Toscana. Quando tutto sarà a regime sono previste, ovviamente, delle deroghe all'imbottigliamento. Per ora è importante coinvolgere i maggiori brand e renderli attivi in questa partita, a cominciare dalla possibilità di entrare a far parte del consorzio. "Siamo consapevoli che dovrà accogliere tutti, perché c'è bisogno di tutti per pianificare il futuro della Doc. Il Pinot Grigio" sottolinea Armani "è un vitigno diffuso in tutto il mondo, lo si produce in California, in Australia e non solo. È un vino del mondo su cui, pertanto, c'è grande competizione".

 

Il lavoro sulla qualità

E in Italia, in particolare nel Triveneto, il Pinot Grigio potrebbe trovare una sua espressione, un valore aggiunto, pur mantenendo le caratterizzazioni territoriali di ciascuna zona. "Il vantaggio di essere uniti ci consentirà di innalzare il livello qualitativo a partire dal lavoro in vigna. Per questo, il consorzio dovrà farsi promotore di una guida al miglioramento gestionale sia da un punto di vista agronomico sia da quello ambientale, che possa guardare alla sostenibilità". In sostanza, una fase di educazione e di ricerca rivolta ai viticoltori. "Ma c'è anche un vantaggio tecnico" aggiunge Armani "che deriva dal fatto che nel Triveneto c'è una viticoltura avanzata, fatta da imprenditori giovanissimi, con una forte attenzione ai cloni, con la gran parte dei vigneti irrigati (il disciplinare prevede l'irrigazione di soccorso; ndr). Allora, possiamo dire che il Pinot Grigio risponde davvero a una viticoltura moderna, dalla pianura alla collina, con viticoltori di eccellenza". Va anche detto che (pur sapendo che il metodo di conduzione dei due vitigni sia ben diverso) oltre il 60% della base produttiva del nascente consorzio, si stima, coltiva il Pinot Grigio e anche Glera per il Prosecco.

 

Il modello Pinot Grigio

Sul versante dei controlli, si gioca una gara parallela. La neonata società Triveneto certificazioni sarà garante della qualità e delle quantità di questa Doc. Metterà a disposizione una banca dati nata dalla sinergia di quattro attuali enti di certificazione (Siquria, Valoritalia, Ceviq e Camera di commercio di Trento) per tenere sotto controllo i numeri. Dall'altro lato, curerà le commissioni di degustazione per provare a definire uno "stile" Pinot Grigio del Triveneto, pur con le sfumature, le peculiarità territoriali e aziendali: "Potremmo dire di essere gli unici al mondo" rileva Armani "a disporre di una Doc sovraregionale valutata da un panel univoco di degustatori". E dopo la vendemmia 2017, il 2018 sarà l'anno in cui il consorzio tirerà le somme: saprà quanta produzione è stata rivendicata a Doc, quanta a Igt, conoscerà il peso rispettivo di viticoltori, trasformatori e imbottigliatori. Il focus a quel punto sarà regolato e sarà più chiara la fotografia del fenomeno. Ora, invece, è tutto più sfumato.

 

La fase attuale e gli obiettivi futuri

La fase attuale somiglia alla costruzione delle fondamenta di una grande casa. Come fa notare il segretario generale di Uiv, Paolo Castelletti, questo progetto consentirà la "riorganizzazione del sistema delle Doc verso un modello di aggregazione territoriale e produttiva che faciliterà la promozione e valorizzazione identitaria del Pinot Grigio". Nella speranza che il modello possa essere "esportabile in altre situazioni". Il numero uno di Cia, Dino Scanavino, non ha dubbi: "Finora il Pinot Grigio era un figlio di nessuno e subiva un mercato avverso. Una produzione dalla mole così vasta, senza identificazione chiara col territorio, rischia di stare alla mercé delle speculazioni. Qualificarlo in questo modo è una scelta intelligente dalla quale trarranno vantaggio innanzitutto i viticoltori". Sostegno convinto al progetto anche da parte dell'Alleanza delle cooperative italiane con Ruenza Santandrea, coordinatrice del settore vitivinicolo: “L'operazione è, da un lato, di natura commerciale ma, allo stesso tempo, avrà una ricaduta positiva sul reddito degli agricoltori. Il Triveneto sta lavorando da tempo su questo vitigno e forse proprio averlo ancorato a un determinato territorio rappresenterà il valore aggiunto della Doc per tutta la filiera". Uno degli obiettivi non dichiarati di questo progetto è far sì che da un ettaro coltivato a Pinot Grigio, con una resa intorno a 160 quintali di uve, si possa ricavare annualmente in media una cifra tra 9 e 10 mila euro: un limite di sostenibilità economica, che oggi non è garantito. Anche questo è un obiettivo. Forse, davvero, quello più importante.

 

I contrari. Vignaioli del Trentino: "Né Doc né Igt"

Ma non tutti sono d'accordo con la nascita della nuova Doc. Lo hanno scritto nel loro manifesto produttivo che non utilizzeranno mai né la Doc Pinot Grigio "delle Venezie" né la Igt "Trevenezie". I 60 produttori aderenti al Consorzio vignaioli del Trentino, presieduto da Lorenzo Cesconi, sono più che mai decisi ad andare avanti per la propria strada, in coerenza con quanto fatto finora. "Di fatto" spiega Cesconi "l'operazione trasforma la vecchia Igt in una Doc, portando la resa da 190 a 180 quintali per ettaro: un limite troppo alto per una varietà così poco produttiva come il Pinot Grigio. La resa media dei nostri aderenti, che continueranno a utilizzare per il proprio Pinot Grigio l'Igt delle Dolomiti, è di circa cento quintali. Un limite che noi trentini consideriamo consono con una viticoltura che possa dirsi sostenibile". Per i Vignaioli, l'ingresso del Trentino in questo progetto sa di sconfitta: "Significa che dobbiamo affidarci ad altri per andare avanti". E se l'operazione avrà successo? "Allora mi complimenterò con Albino Armani".

 

Note dal disciplinare

La Doc “delle Venezie” ammette le tipologie Pinot Grigio, anche frizzante, Pinot Grigio spumante (da dosaggio zero a dry) e bianco. La base ampelografica è costituita per un minimo dell'85% da Pinot Grigio e per un massimo del 51 da vini territoriali come Garganega, Verduzzo, Tocai friulano, oltre ad alcuni internazionali come Chardonnay, Pinot bianco e Muller Thurgau. Tuttavia, per dieci anni dall'entrata in vigore del disciplinare è consentito usare anche altri vitigni a bacca bianca. La zona di produzione comprende la Provincia di Trento e le Regioni Friuli Venezia Giulia e Veneto. La resa massima di uva non deve superare i 180 quintali per ettaro.

Il Pinot Grigio predilige terreni leggeri che sgrondano, ambienti ventilati e sbalzi termici che ne esaltano i profumi. Al naso, si caratterizza per aromi di fiori bianchi e sentori di pera, mela verde e frutta tropicale, ha buona struttura e piacevole freschezza.

 

Il Pinot Grigio di Lady Gaga

"Pinot Grigio girls, pour your heart out...", canta in una sua recente hit Lady Gaga, cantautrice e musicista americana di origini italiane (al secolo Stefani Joanne Angelina Germanotta). La popstar potrebbe presto lanciare il suo brand vitivinicolo entrando nel business delle bevande. Il marchio "GrigioGirls"(titolo di un brano del suo ultimo album 'Joanne', a sua volta nome della trattoria gestita dai genitori a New York), secondo la stampa statunitense, sta per arrivare sul mercato. Un segno della straordinaria forza e del legame inscindibile degli americani con questo vino. E, se vogliamo, anche il segno che, con la Doc unica, l'Italia del vino, forse, ci ha visto giusto.

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 9 febbraio

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Cavit e Terre d'Oltrepò si aggiudicano La Versa: "Ecco come rilanceremo la storica cantina lombarda con gli spumanti di qualità"

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Finalmente la svolta che si aspettava per Cantina La Versa: dopo la rinuncia di Cantina Soave l'azienda vinicola dell'Oltrepò Pavese passa nelle mani di Cavit e Terre d'Oltrepò, che scommetteranno sugli spumanti di qualità con un piano quinquinnale sotto il nome di Valle della Versa.  

Nuova vita per Cantina La Versa

Un piano quinquennale per riportare ai fasti di un tempo Cantina La Versa, focalizzando il suo core business sugli spumanti di qualità, con una base sociale forte. Guardano già al futuro la cantina Terre d'Oltrepò di Broni e la cooperativa trentina Cavit, dopo essersi aggiudicate, in cordata, la storica azienda dell'Oltrepò Pavese per 4,2 milioni di euro (50 mila euro in più rispetto alla base d'asta fissata dalla sezione fallimentare del tribunale di Pavia). Determinante il passo indietro di Cantina di Soave nell'asta telematica di lunedì 20 febbraio. E così, dopo anni difficili, uno dei pilastri della spumantistica lombarda, può tornare in pista. È dal luglio 2016 che La Versa non immette sul mercato alcun vino, dopo le vicende giudiziarie che hanno portato all'arresto del suo amministratore delegato e all'avvio della procedura fallimentare. Ora, l'arrivo dei nuovi proprietari, riuniti nella newco denominata "Valle della Versa" (co-partecipata al 30% da Cavit e al 70% da Terre d'Oltrepò), riapre i giochi. Immobili, beni strumentali, autorizzazioni, brevetti, giacenze, lista clienti e fornitori, marchi e certificazioni, magazzino semilavorati e sfusi (il wine point di Montescano sarà oggetto di un'asta separata): il pacchetto acquistato ora va fatto funzionare.

 

Il piano di rilancio

Da dove passerà il rilancio della realtà lombarda? Enrico Zanoni, dg di Cavit (ricavi a circa 180 mln nel 2016), è chiaro: "Ci doteremo di una struttura leggera, con un cda composto da cinque membri, due dei quali espressi da Cavit, che avrà il compito di definire un business plan di lungo termine".Tutto è in fase di definizione, ma una cosa è certa: "Punteremo sulla spumantistica di qualità, senza l'ossessione dei volumi". Cavit metterà a disposizione competenze tecniche-enologiche, la sua forza commerciale, ma da sola non sarebbe intervenuta nell'operazione: serviva un partner territoriale ed è stato trovato in Terre d'Oltrepò che, attraverso Cantine Palazzo, è tra i conferitori della stessa Cavit. "La Versa è un marchio importante col quale vogliamo portare del valore aggiunto all'intera viticoltura oltrepadana", afferma Andrea Giorgi, da meno di un anno presidente della grande cooperativa pavese (800 soci, 4.500 ettari e 429 mila quintali di uve nel 2016). "Questa joint venture con Cavit ci consente di allargare la nostra base sociale, diffondere lo spirito cooperativo anche in Valle Versa. Saremo operativi dalla prossima vendemmia. L'obiettivo è migliorare i prezzi e aumentare la redditività delle associate. Del resto, non potevamo perdere questo treno. Il progetto è ambizioso e porterà vantaggi per tutti".

E si riaccendono anche le speranze per i circa 30 lavoratori in mobilità. Tra i criteri vincolanti dell'acquisizione c'è l'impegno ad assumere nella sede di Santa Maria della Versa almeno 5 dipendenti entro 12 mesi, attingendoli dall'elenco fornito dal curatore fallimentare. Soddisfazione è stata espressa dal sindacato Flai-Cgil: "Finalmente La Versa ha un titolare e ci auguriamo che la cantina torni al lavoro già dalla prossima vendemmia. Non siamo a conoscenza del piano industriale e chiederemo un incontro ai nuovi vertici", sottolinea Cinzia Saviotti, segretaria Flai-Cgil Pavia. "È chiaro che per fare della qualità occorre manodopera qualificata, e gli ex lavoratori di La Versa" conclude "hanno già queste competenze".

 

a cura di Gianluca Atzeni

Carnevale d'autore. Biasetto, Boccanera&Venanzi, Giorgia Proia e Simone Porcelli, Vecchione

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Pronti per l'ultima “infornata” di dolci fritti? A poche ore dalla fine di Martedì Grasso, ecco i classici della tradizione di Carnevale. Nella ricetta di quattro grandi maestri pasticceri della penisola

Non è Carnevale senza un fritto. Lo abbiamo detto e ridetto. E ora che siamo arrivati all'ultimo giorno di queste lunghe feste vi proponiamo le ricette dei classici di stagione. Ma, anche se si frigge un po' in tutta Italia in questa e molti dolci sono in comune, non è detto che, da nord a sud, vengano realizzati tutti nello stesso modo. Per sincerarcene abbiamo chiesto a tre maestri pasticceri le loro ricette così da poterle confrontare. L'importante poi è seguire le regole per un fritto perfetto, che ci aveva suggerito Iginio Massari.

 

 

Pasticceria Biasetto di Padova

Luigi Biasetto. Tre Torte per la guida Pasticceri e pasticcerie d'Italia 2017

Famoso, famosissimo, anche perché i suoi magnifici prodotti sono in vendita anche in insegne diverse dalla sua. Ma è a Padova che si può conoscere da vicino in ogni sua creazione, dolce o salata, da colazione o dopo cena. Espressione di quell'arte dolce che fa dell'equilibrio tra sapori, forme e struttura l'elemento imprescindibile di ogni boccone. Luigi Biasetto è uno dei nomi che fanno grande la pasticceria italiana nel mondo, impegnato com'è nella didattica, in concorsi internazionali, nelle consulenze. Un grande maestro a tutto tondo che non manca di un richiamo all'aspetto più intimo e familiare del preparare e gustare i dolci, come nel casso delle frappe.

 

Frittelle (o castagnole)

270 g. di latte
100 g. di burro
20 g. di zucchero
1 pizzico di sale

190 g di farina 00

7/8 bianchi d’uovo (200 g) oppure 5 uova intere (250 g)
Buccia grattugiata di 1 arancia
100 g di uvetta
50 g di pinoli
3 g di lievito chimico

olio di oliva per friggere

 

Mettere nella pentola latte, burro, zucchero, il sale e portare a bollore il tutto, aggiungere la farina.

Spegnere il fuoco e mescolare per alcuni minuti la pastella preparata poi trasferire in una boule. Lasciarla raffreddare ancora per alcuni minuti e intanto preparare un composto con le uova, la buccia d'arancia grattugiata

Unire le uova alla pastella finché risulti un impasto ben liscio, aggiungere infine uvetta e pinoli ben mescolati con il lievito.

Mettere la pasta per frittelle nella sac à poche munita della bocchetta grossa, preriscaldare l’olio nella pentola e riscaldarlo finché raggiunga 175°C. Monitorare con una sonda la temperatura dell’olio, che non potrà mai superare i 185°C. Sotto i 170°C le frittelle si riempiranno d’olio.

Su un foglio di carta da forno formare delle palline di circa 20 g, quindi spostare il foglio di carta con sopra le palline nella pentola, facendo attenzione che non si attacchino fra di loro durante lo spostamento.

Dopo alcuni secondi si può sfilare la carta da forno tranquillamente, quindi lasciare per un minuto le frittelle senza toccarle. Per ultimare la cottura, con un movimento da sinistra verso destra e ritorno, far rotolare le frittelle su se stesse con una schiumarola.

A cottura ultimata (prima che diventino scure) scolarle e farle cadere nella carta assorbente.

Spolverare con un po’ di zucchero a velo e servire.

 

Queste frittelle si manterranno belle morbide per il giorno dopo, se tenute in una scatola chiusa. Potete a piacere sostituire la frutta secca con cubetti d’arancio canditi, cedro, noci, fichi, datteri…
Potete utilizzare il tuorlo d’uovo per fare una crema pasticcera per farcire o sostituire il bianco d’uovo con uovo intero

biasetto

Frappe

Da piccolo mi divertiva fare dolci con mia nonna Cesira, è stata lei a insegnarmi come preparare frappe così leggere e friabile. Uno dei segreti è tirare la pasta talmente sottile da appoggiarla sopra un giornale e poter leggere le parole”.Così Luigi Biasetto presenta le sue frappe di cui ci dà la ricetta.

 

280 g di farina

56 g di latte

3 g di lievito chimico

1 uovo

2 cucchiai rasi di zucchero

1 pizzico a tre dita di sale

30 g di vermouth

30 g di burro a pomata

La buccia di ½ arancia

½ baccello di vaniglia

Olio di arachidi per frittura

Zucchero a velo semolato (quanto basta)

 

Versare la farina, lo zucchero e il sale nella boule di vetro, grattugiare l’arancia, aggiungere la vaniglia grattata. Nel centro del contenitore aggiungere le uova, il latte e il vermouth, quindi lavorare fino a ottenere un impasto ben liscio.

Stendere la sfoglia con l’aiuto della tirapasta, passandolo per 5/6 volte a uno spessore sempre più sottile, dare la giusta elasticità all’impasto ripiegandolo su se stesso tutte le volte (come si usa fare per i tagliolini o altra pasta all'uovo). Per stenderle utilizzare meno farina possibile, potrebbe sporcare l’olio. Lasciare riposare un’oretta l’impasto prima di cuocere farà bolle più grosse

Dividere il panetto in più parti e stendere il più sottile possibile, utilizzando un po’ di farina se necessario.

Appoggiare la pasta tirata su un panno leggermente spolverato di farina. Lasciare riposare un’oretta l’impasto prima di cuocere farà bolle più grosse) e quindi tagliare con una rotellina, liscia o rigata, in rettangolini di 15 cm x 4. Mettere a riscaldare l’olio in un contenitore sufficientemente grande per contenere le chiacchiere; mantenere l'olio a 180°C, controllando la temperatura con una sonda o un termometro da cucina.

Appoggiare delicatamente nell’olio le chiacchiere, quattro alla volta facendo attenzione a tenerle ben distese, e non appena si saranno gonfiate girarle su se stesse e ultimare la cottura.

Quando saranno ben dorate la cottura sarà ultimata, toglierle dall’olio e metterle in piedi di profilo sulla carta assorbente.

Appena raffreddate spolverare di zucchero a velo e servire.

Può essere gradevole grattugiare un po’ di limone o arancio prima di spolverare con lo zucchero a velo. In alcune regioni è abitudine mettere anche un po’ di alchermes (in Francia le chiamano bugne di Lione, anche questa è una nostra specialità esportata)

 

Pasticceria Biasetto | Padova | via Facciolati 12 | tel. 049 8024428 | http://pasticceriabiasetto.it/

 

Casa Manfredi di Roma

Giorgia Proia e Simone Porcelli. Due Torte per la guida Pasticceri e pasticcerie d'Italia 2017

Pasticceria di impronta francese, gelato artigianale, praline, mignon e lieviti anche in vasocottura: il panorama della pasticceria c'è tutto, e tutto a partire da ottime materie prime, come per esempio il Latte Nobile per il gelato e il burro francese Corman per i lieviti. Non manca anche pasticceria salata e d'occasione, come quella per il carnevale. Con frappe e castagnole dalla forte personalità.

casa manfredi

Castagnole

1000 g. di farina frolla molino Pasini

500 g. di ricotta di pecora

400 g. di uova

200 g. di zucchero

15 g. di baking

50 g. di rum  

Vaniglia un baccello

Scorza 1 limone

Olio di arachidi per friggere

 

Impastare la ricotta con lo zucchero e gli aromi. Inserire la farina e il baking. Aggiungere le uova e in ultimo aggiungere il rum.

Far riposare 2 ore al frigo. 

Formare delle palline da 3 cm di diametro. 

Friggere a 170° C in olio di arachidi

 

Frappe

1000 g. di farina torta molino Pasini 

150 g. di saccarosio

100 g. di burro

300 g. di uova

10 g. di sale 

100 g. di sambuca

100 g. di vino bianco

Olio di arachidi per friggere

 

Impastare tutto con il gancio tranne i liquidi alcolici. Inserire poi poco alla volta i liquidi alcolici fino ad ottenere un impasto liscio.

Far riposare 2 ore in frigo

Stendere a 0,5 mm. Friggere con olio di arachidi a 170°C.

 

Casa Manfredi | Roma | Aventino, 91 | tel. 06 97605892 | https://www.facebook.com/casamanfrediaventino/

 

 

Gruè di Roma

Marta Boccanera e Felice Venanzi. Premio Pasticceri Emergenti per la guida Pasticceri e pasticcerie d'Italia 2017 

Una storia recente nutrita a suon di studi con grandi maestri (tra cui anche Luigi Biasetto), ricerca attenta della materia prima, richiami alla pasticceria d'Oltralpe. Sono giovani Marta Boccanera e Felice Venanzi - nel panorama romano e in quello italiano - ma non abbastanza da non accendere un riflettore sulla propria attività. Che alterna lievitati da colazione e biscotteria secca, torte e monoporzioni di impianto moderno e praline, piccole opere perfette nella testura come nell'armonia dei sapori, con glasse a specchio ineccepibili che racchiudono costruzioni molto elaborate. Non manca anche una parte dedicata al salato che si attesta su una buon livello, con proposte più tradizionali.

 

Castagnole gruè

Castagnole

2000 g. di latte

20000 g. di acqua

800 g. di burro

200 g. di zucchero

60 g. di sale

4000 g. di uova

3000 g. di farina forte

 

Far bollire acqua, latte, burro, zucchero e sale; arrivato a bollore aggiungere la farina precedentemente setacciata e cuocere fino a che non si stacca dai bordi della pentola.

Mettere in planetaria far raffreddare fino a 60° c e aggiungere le uova a filo.

Dressare, ovvero disporre su una teglia con sac à poche in palline da 15g

Friggere a 175° c in olio di arachide

 

Frappe

4000 g. di farina forte

25 g. di sale

600 g. di zucchero

4 bacche di vaniglia

400 g. di burro

1300 g. di uova

200 g. di vernouth

170 rum agricolo

 

Impastare tutti gli ingredienti insieme mettendo il burro a pomata. Lasciar riposare una notte in frigo stendere dei fogli sottilissimi e tagliare in rettangoli di 16 cm x 6. Friggere a 175° c in olio di arachide. Fare attezione alla temperatura dell'olio e a ritirarle prima che scuriscano.

 

Gruè | Roma | viale Regina Margherita, 95 | tel. 06 8412220 | www.gruepasticceria.it/

 

 

Dolciarte di Avellino

Carmen Vecchione. Due Torte per la guida Pasticceri e pasticcerie d'Italia 2017

Un ambiente grazioso e accogliente e un laboratorio che sforna a tutte le ore una grande pasticceria d'autore, che punta sulle materie prime di altissima qualità, sulla messa a punto di ricette perfette, sulla tecnica e la capacità di confrontarsi anche con dolci che esulano dalla tradizione irpina. Ormai famoso è il suo panettone, proposto tutto l'anno. Ma anche durante il periodo di Carnevale, l'offerta non manca di soddisfare i palati più esigenti, ricchissima com'è di specialità campane, come il migliaccio, il pastiere di riso e altre prelibatezze. Immancabili le frappe, sia con zucchero che con miele.

 

castagnole

Castagnole

1 kg di farina
300 g. di panna
150 g. di zucchero
180 g. di uova
15 g. di baking
50 g. di pasta limone
1 vaniglia in bacca

Impastare il tutto e con un sac à poche dressare come si fa per i bignè su carta forno che va poi tagliata con un taglierino. Friggere in olio a 160 gradi. Inzuccherate da calde.

 

 

Chiacchiere (o frappe)

1,5 kg. di farina
400 g. di uova
150 g. di burro morbido
150 g. di zucchero
15 g. di sale
300 g. di vino bianco secco
Scorza di limone
1 vaniglia in bacca

Olio di arachide per friggere

Impastare tutto insieme tranne il vino che si deve aggiunge poco alla volta.
Stendere a un millimetro di spessore e friggere in olio d'arachide a 165 gradi. spolverare di zucchero a velo o miele

 

Dolciarte | Avellino | via Trinità. 52 | tel. 0825 34719 | www.dolciarte.it

 

a cura di Antonella De Santis

 

Salumi da Re 2017. All'Antica Corte Pallavicina torna il raduno di norcini e salumieri d'Italia

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C'è ancora una volta il Gambero Rosso dietro l'organizzazione della tre giorni di festa (e approfondimento) che vede coinvolti i principali artigiani norcini e aziende salumiere d'Italia. Dal 1 al 3 aprile incontri, degustazioni e tanti momenti di intrattenimento, ospiti dei fratelli Spigaroli. 

Il raduno di norcini e salumieri italiani

E sono quattro. L'appuntamento con Salumi da Re, ospiti alla corte cinquecentesca dei fratelli Spigaroli di Polesine Parmense, è ormai un baluardo che sventola sulla norcineria italiana di qualità. Anche quest'anno, all'inizio della primavera – dal 1 al 3 aprile – allevatori, norcini e salumieri della Penisola si ritrovano all'Antica Corte Pallavicina per raccontare un'arte nobile e antica, e confrontarsi tra loro, durante una manifestazione che vuole essere momento di ritrovo e raduno per gli addetti ai lavori e grande festa del gusto e dell'eccellenza gastronomica aperta al pubblico. Del resto, per quanto improntata su regole perfezionate in secoli di tradizione, la norcineria nazionale rappresenta un settore importante e in continua evoluzione dell'enogastronomia tricolore. Ramificata in tante diverse varianti regionali. Ecco perché nel week end di Polesine Parmense si ritroveranno medie e piccole aziende norcine di tutt'Italia: l'anno scorso erano state 60 le realtà coinvolte, tra produttori di salumi, pane e lievitati, aziende extrasettore, cantine e birrifici. E per l'edizione 2017 il parterre non sarà da meno, con interessanti novità e nuovi momenti di confronto.

I focus, le degustazioni, la gara di taglio del prosciutto

Molto ricco, come sempre, il calendario degli approfondimenti, curato da Mara Nocilla, giornalista del Gambero Rosso e curatrice per l'editore della Guida Grandi Salumi, che condurrà i giochi sul palco degli incontri. Diversi i temi da sviluppare, dai convegni e laboratori sui Salumi innovativi (la nuova frontiera delle produzioni norcine e le nuove modalità di consumo, per una pausa gourmet all'insegna dei salumi di qualità) al focus dedicato ai grandi classici - i salami, per esempio: è possibile farli più buoni? con la partecipazione di Guido Stecchi), o ai Tradizionali ritrovati, da antiche razze suine, e ai Salumi da pentola (quelli che devono "pipare"). Senza dimenticare, e quest'anno l'omaggio è d'obbligo, le specialità salumiere in arrivo dai territori terremotati del Centro Italia, notoriamente legati alle produzioni d'eccellenza nel settore norcino. Perché la festa sia ancora più ricca, per la prima volta, sabato 1 aprile la corte di Polesine aprirà le porte anche in notturna, per una festa d'apertura del raduno – la Pork Fest – che vedrà protagoniste tutte le aziende coinvolte, per la degustazione e la vendita dei propri prodotti, e una conviviale amatriciana conclusiva. Con musica, birra artigianale e tanti momenti di intrattenimento. La seconda novità coinvolgerà gli addetti ai lavori, impegnati in una Gara di taglio del prosciutto per dimostrare perizia e precisione, a mano o con l'affettatrice a macchina. Tra gli sfidanti le migliori botteghe del gusto e gastronomie italiane, valutate da una giuria di chef, giornalisti e addetti ai lavori. E sempre il secondo giorno, dopo il tramonto, l'appuntamento è con la cena di gala allestita al Cavallino Bianco, il ristorante di famiglia poco distante dall'Antica Corte, dove i produttori avranno modo di incontrare buyer e stampa di settore. Mentre si rinnova il sodalizio con Chef to Chef, l'associazione che riunisce cuochi e produttori emiliani, protagonisti del raduno Cento mani di questa terra lunedì 3 aprile.

 

Salumi da Re | Antica Corte Pallavicina, Polesine Parmense (PR) | dal 1 al 3 aprile | www.salumidare.it

Starbucks Milano sarà il più grande d'Europa. Torrefazione e panificio vista Duomo: parla Howard Schultz

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A Milano per presentare il progetto a Palazzo Marino, il ceo del colosso americano della caffetteria svela i primi retroscena di un progetto da milioni di dollari di investimento, che darà lavoro solo in città a 100 persone (e 350 nel complesso). Aperto il maxi cantiere all'ex palazzo delle Poste, la cittadella di Starbucks si svilupperà su 2400 metri quadri, tra roastery e panificio. 

Schultz a Milano

Tra palme date alle fiamme, polemiche sugli alberi di banano e skyline esotici vista Duomo (in realtà basterebbe consultare gli archivi storici della città per scoprire, foto in bianco e nero alla mano, che nell'Ottocento proprio le palme rientravano nei progetti urbanistici della città), alla fine parla lui, Howard Schultz, 63 anni, amministratore delegato di Starbucks. Nei giorni scorsi l'annuncio di Percassi, che per il colosso americano della caffetteria curerà lo sbarco in Italia, aveva posticipato l'apertura del primo punto vendita – il chiacchieratissimo palcoscenico milanese atteso in origine per l'estate 2017 – di un anno, al 2018, “perché il progetto è complesso e vogliamo curarlo nei minimi dettagli”. E così sarà, stando alle dichiarazioni di Schultz, che introdotto dal sindaco Giuseppe Sala oggi presenterà a Palazzo Marino il suo progetto, sbandierando un investimento di diversi milioni di dollari e l'assunzione di 350 persone (100 solo a Milano).

 

Roastery e panificio: ecco Starbucks Milano

Sì, perché quella che sorgerà nell'ex Palazzo delle Poste di piazza Cordusio sarà una vera e propria cittadella del caffè a marchio Starbucks: nel pomeriggio milanese di ieri, dopo un incontro col neo-partner Rocco Princi, il ceo di Seattle l'ha raccontato agli studenti della Bocconi, fornendo loro una concreta idea di cosa voglia dire esercitare la leadership. 2400 metri quadri “per omaggiare la cultura italiana del caffè”, ci tiene a ribadire Schultz, a partire da una città come Milano, rinata dopo l'Expo: “E la nostra Roastery sarà un catalizzatore che mostrerà al mondo che posto incredibile sia Milano per investire”, riporta oggi l'intervista rilasciata a Repubblica. L'intenzione insomma è quella di metterci la faccia, tanto che il flagship store di piazza Cordusio sarà gestito direttamente dal gruppo americano; le caffetterie che seguiranno, a Milano e Roma, saranno invece affidate alla mediazione del gruppo bergamasco di Antonio Percassi.

Attualmente Starbucks conta un numero impressionante di caffetterie, 24mila in tutto il mondo, ma a Milano c'è l'intenzione di realizzare il negozio più grande d'Europa, fabbrica di caffè e centro di panificazione insieme, con l'aiuto d’autore di Princi. Una vera torrefazione, dunque, sul modello della sede storica di Seattle (dove il marchio Starbucks muoveva i primi passi nel 1971), che presto sarà replicata anche a New York e Tokyo. Con un'attenzione in più, viste le peculiarità del Belpaese, alla progettazione degli spazi e al design degli interni: “Abbiamo aperto in Italia il nostro centro di design per i lavori, un cantiere enorme”, ha rivelato Schultz al Corriere della Sera.

Tecnologia all'avanguardia e servizi al cliente

Per quanto riguarda l'offerta al pubblico, cominciano a trapelare i primi dettagli: cinque tipologie differenti di caffè, espresso compreso, realizzate con l'ausilio di tecnologie all'avanguardia, come il nitro caffè estratto a freddo utilizzando l'azoto liquido, e possibilità di acquistare in negozio le miscele e gli altri prodotti marchiati dal gruppo. Capitolo servizi al cliente, come prevedibile (e qui gli standard di Starbucks dovrebbero fare scuola, come abbiamo più volte auspicato), ineccepibile: wifi superveloce, diffusione musicale in partnership con Spotify, servizi di pagamento fintech.

L'attesa è ancora lunga. 

 

a cura di Livia Montagnoli

Mercati rionali d'Italia: Porta Palazzo a Torino

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È il più grande mercato all’aperto d’Europa, e uno dei più caratteristici: Porta Palazzo, a Torino, non è solo un luogo destinato alla vendita, ma uno spaccato della vita cittadina degli ultimi 200 anni: dalla storia all’arte all’immigrazione.

L'impianto urbanistico

Il mercato venne spostato qui nel 1835, per riunire in un solo grande spazio i tanti piccoli mercatini, come quello di piazza Palazzo di Città e piazza Corpus Domini”, ci spiega Piergiuseppe Menietti, autore del libro Porta Palazzo e il Balon nelle cartoline della collezione Piero Bianchi (Il Punto Editore, 2016). L’area che oggi ospita l’enorme Piazza della Repubblica, la sede del mercato, ebbe una secolare evoluzione nei pressi dell’ingresso sud della Torino romana, la Porta Palatina. “Nel 1729, per volere di Vittorio Amedeo II, fu Juvarra” continua Menietti “a organizzare la piazza, che nel 1831 venne ulteriormente ampliata, raddoppiando le sue dimensioni”. A ben guardare la parte porticata della piazza, giungendo dal Municipio attraverso via Milano, si possono infatti trovare ancora i segni che identificano gli edifici disegnati da Juvarra rispetto a quelli successivi, opera di Giuseppe Frizzi e Giovanni Aprile. A questi si aggiunse l’ampia area ottagonale progettata da Giuseppe Formento. “Il nome Porta Palazzo” spiega Menietti “deriva dalla vicina Porta Palatina, che a sua volta prese quel nome da un edificio medievale che si trovava lì vicino, il Palacium, un tempo identificato con la cosiddetta Casa del Senato”.

Nell’immediato dopoguerra, Porta Palazzo era il posto in cui si trovava tutto, “se non c’è a Porta Palazzo, allora non esiste”, ripetono ancora oggi; fino a diventare sede di contrabbando di sigarette o di armi.

 

LibroLa copertina del libro Porta Palazzo e il Balon nelle cartoline della collezione Piero Bianchi

Le strutture coperte

Nella piazza ci sono anche quattro strutture coperte, i padiglioni II e V, mercati alimentari costruiti nel 1836 su progetto dell’ingegner Barone. Il padiglione II ospita il mercato del pesce, mentre il V contiene rivendite di carne e di generi alimentari. “Nel 1915 inizia invece la costruzione della Grande Tettoia dell’Orologio” ci dice ancora Menietti“dovevano essere due, ma con la Guerra della seconda non se ne è poi fatto più nulla”. Al suo posto, nel 1963 venne costruita una tettoia per la vendita di stoffe e abbigliamento, poi scomparsa e sostituita con una struttura contemporanea disegnata da Massimiliano e Doriana Fuksas, oggetto di un ampio dibattito cittadino e subito definito Palafuksas, ancora oggi destinato ad abbigliamento e calzature.

porta palazzo, Concessione di Piergiuseppe Menietti"Cartolina storica, per gentile concessione di Piergiuseppe Menietti

 

Le storie di Porta Palazzo

Cos’è Porta Palazzo oggi? “È Porta Pila” risponde sorridendo Menietti “e ‘Pila’ è il termine che in piemontese gergale significa denaro”.

Sono tante le curiosità che caratterizzano questo mercato; fu qui che Francesco Cirio, venditore di frutta e verdura, ebbe l’intuizione di mettere i prodotti in barattolo, dando vita alla sua industria conserviera (c’è una lapide nella piazza a ricordarlo). “Nel 1902” conclude Menietti “si cominciarono ad eleggere ‘Le Regine di Porta Palazzo’, un concorso di bellezza gemellato con Les Halles di Parigi”.

Le storie che si possono raccontare su Porta Palazzo sono molte, ma altrettante se ne possono vivere: basta semplicemente perdersi a passeggiare fra gli antichi negozi, le bancarelle e le urla dei venditori: un’esperienza unica, che raggiunge il suo apice il sabato mattina, quando si capisce al meglio qual è il cuore gastronomico di Torino.

 

Le botteghe

Il mercato, a Porta Palazzo, non vuol però dire solo merce a buon prezzo. Sono molte le particolarità e le eccellenze che si possono trovare qui. Ve ne suggeriamo alcune.

 

Rinaldi porta palazzoRinaldi

Rinaldi

Fra i negozi più antichi del mercato c’è Rinaldi, una drogheria fondata nel 1890 che oggi è gestita da Giorgio e Alessio, rispettivamente quarta e quinta generazione della famiglia. Il negozio è lungo e stretto, con grossi banchi in legno, per metà con un pavimento in legno e per metà in pietra, a ricordare quella che una volta era la divisione fra la bottega e il magazzino delle farine. Adesso, entrando da Rinaldi, si percepiscono subito i profumi della liquirizia, delle caramelle, del caffè e delle tisane. Un salto temporale che ti mette subito a tuo agio.

Oggi la vendita è solo al dettaglio” ci spiega Alessio. “L’ingrosso si è perso con gli anni, ma quello che più ci differenzia dalla grande distribuzione è il dialogo col cliente, i consigli”. Le pareti sono vere e proprie opere d’arte: da una parte la frutta secca e candita, dall’altra una serie di miscele e tè. “Se negli anni ’60 era il tè nero a farla da padrone” continua Antonio “oggi si vendono molto le tisane e le miscele”. Alcune non si possono non provare, come lo ‘Zar di Russia’ con tè nero, bergamotto, fiori di zagara, cartamo e lavanda; o lo ‘Shahrazad’, base di tè nero con melograno e papaya. Anche la frutta disidratata merita un cenno di riguardo: qui se ne trovano più di 30 tipi diversi.

 

Ceni

Con quasi 3000 articoli e una grande attenzione all’innovazione, alla ricerca e alla qualità, questo antico locale – la drogheria esiste da oltre 100 anni, mentre la famiglia Ceni lo gestisce dal 1963 – è un’altra perla di Porta Palazzo. Una ventina di diversi tipi di riso, farine macinate a pietra per panificazione o pasticceria, marmellate, cereali…e un grande impegno per i presidi Slow Food: lenticchie di Ustica, di Castelluccio o di Villalba e ancora i fagioli, gli zolfini di Pratomagno, i Badda di Polizzi o il fagiolo lungo di Scicli. Basta attendere qualche minuto in coda e chiedere.

Molto del lavoro” ci dice Stefano, che coi fratelli gestisce il locale, “lo dobbiamo agli immigrati dal Sud, che per tradizione sono dei grandi consumatori di ottimi legumi, un tempo meno conosciuti da queste parti, almeno per quanto riguarda la varietà… pensiamo solo al fagiolo bianco”. Anche le spezie, più di un’ottantina da ogni parte del mondo e in particolare dal Medio Oriente, sono uno dei fiori all’occhiello di Ceni: si crede di entrare in una drogheria mentre, in realtà, si fa il giro del mondo.

 

Damarco porta palazzoDamarco

 

Damarco

Istituzione locale per la vendita di vini e liquori: basta dare un’occhiata alle nove enormi vetrine sotto i portici per farsene un’idea. Nel guardare le centinaia di bottiglie, sempre ben ordinate, è curioso notare che tutti i prezzi sono riportati su bigliettini scritti (forse meglio dire decorati) a mano.

La storia dei Damarco inizia nel 1959 – anche se in precedenza i locali ospitavano già una rivendita di vini e liquori da asporto, l’antica drogheria ‘Maffè dal 1890’ (la vecchia insegna è ancora appesa sopra il lungo bancone) – per diventare oggi uno dei negozi più forniti della città, frequentato da molti stranieri, soprattutto francesi. “Iniziò tutto mio suocero” ci spiega Nino Castaldo “e ora noi continuiamo con una gestione familiare, con più di 4000 fra dolciumi, caffè, vini, liquori e birre artigianali”. Su quali siano i vini più venduti, Castaldo ha le idee chiare: “Chi viene qui oggi lo fa per acquistare vini di un certo livello. Già da qualche anno i vini da prezzo non si vendono più, così come non facciamo più i volumi di una volta…meno ma di una buona qualità”. I più curiosi sul sito possono trovare le novità del momento.

 

Gallina

Se dici pesce, a Porta Palazzo, pensi a Beppe Gallina. Fino a un paio d’anni fa al mercato II, banco n. 2, oggi Gallina continua a vendere pesce di qualità, ma in più ha aggiunto un reparto di preparati. “È un’idea alla quale pensavo da tempo” ci spiega Beppe, che da dietro al banco dispensa consigli e sorrisi “per avere un po’ di movimento e dare un servizio in più ai clienti” o a chi preferisce trovare un pesce di ottima qualità bello e pronto.

Siamo alla quarta generazione ormai. Nel 1920” continua “iniziò la mia bisnonna, con poche varietà di pesce fresco quasi esclusivamente d’acqua dolce, in aggiunta a qualche pesce conservato sotto sale o essiccato, come lo stoccafisso. Nel 1935 la sostituì mia nonna e nel 1960 mia madre, Rosangela Gallina”. Solo nell’84 viene rotta la tradizione matriarcale e Giuseppe Gallina comincia a lavorare con la madre, fino a rilevare l’attività nel 1996. Quello che traspare parlando con Beppe è l’amore e la passione per quello che fa. “Vedo con piacere” ci dice “che aumenta sempre più l’attenzione per quello che si compra. Mi piace parlare coi clienti, consigliar loro come cucinare il pesce”. Nel 2010 pubblica il libro Banco N. 2 (Blu Edizioni), curato da Paola Mazzarelli, in cui parla della sua storia, di quella del mercato di Porta Palazzo e di tante ricette di pesce. La sua preferita? “Una che ho inventato io, Rombo allo zafferano e rosmarino. Si mettono i filetti infarinati in padella con una noce di burro in cui si è sciolto dello zafferano e qualche foglia di rosmarino tritata grossolanamente. Bastano 3 o 4 minuti per lato prima di metterlo su un letto di orzo perlato cotto. Una spruzzata di limone e qualche scaglia di parmigiano per guarnire”.

 

Banco 35, Mercato V

Banco di macelleria sempre affollato – ma non ci sono numerini, bastano gli sguardi attenti dei macellai – dove, se non si arriva troppo tardi, basta chiedere. Santino di Feo questo mestiere lo fa da 50 anni. “Macelliamo a Riva di Chieri vitelli francesi allevati qui in Italia. Vendiamo diversi pezzi – bovini, ovini, selvaggina, conigli, pollame – ma facciamo anche preparazioni”.

 

Banco 7, Mercato V

Salumi e formaggi da tutta Italia, che Claudio Monteverde ama recuperare nelle varie regioni, facendo molta attenzione alla loro provenienza. E allora il salame è di Felino e il cotto di Parma, le mozzarelle sono pugliesi o campane, la provola silana rigorosamente made in Calabria e la fontina arriva da un caseificio valdostano.

 

I contadini

Da sempre alle spalle della Tettoia dell’Orologio ci sono i banchi dei contadini, dove si sente ancora parlare piemontese ed è un dovere passare. Verdure e frutti sono di stagione e non sempre – quasi mai, a dire il vero – tirate a lustro, come in altri banchi: quasi a dire che quei prodotti arrivano davvero dalla terra. Il posto migliore dove acquistare prodotti a Km0.

 

 

Ci sono poi delle figure a metà fra la storia e il folklore, dei veri e propri hotspot.

 

Il signore delle zucche

Di poche parole: parlano le grosse fette di zucca che si trovano già pronte sul banco, avvolte con cura nella pellicola trasparente. Ne volete una più grossa? Non c’è problema, “basta chiedere”.

 

La signora delle uova

Sommersa fra centinaia di uova, colpisce la velocità con cui si passa dalla richiesta ad avere un pacchetto in mano, fatto con pregevole maestria.

 

I venditori di menta e coriandolo

Non hanno neppure il banco e si trovano agli angoli del mercato. Pochi euro per un paio di mazzetti. Per il vero tè alla menta non si può far altro che rifornirsi qui.

 

Mercato di Porta Palazzo | Torino | piazza della Repubblica | https://scopriportapalazzo.com/

 

a cura di Marco Cambiaghi

foto di copertina: gentile concessione di Piergiuseppe Menietti

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