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Carnevale in Toscana nell'entroterra. Le tradizioni di Castiglion Fibocchi, Chianciano Terme e Foiano della Chiana

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Il Carnevale in Toscana ha un fascino particolare: oltre ai molti festeggiamenti sulle località balneari, ma anche nell'entroterra le tradizioni e i prodotti tipici non mancano.

È fra i più conosciuti e popolari di Italia, dalla storia antica e le tradizioni centenarie, ma il Carnevale di Viareggio non è l'unica festa toscana degna di nota: esistono manifestazioni molto affascinanti anche in altre località balneari come Follonica e Piombino, come vi abbiamo già raccontato, ma non solo: anche nell'entroterra – in particolare nelle province di Arezzo e Siena – la tradizione carnevalesca ricopre un ruolo significativo per le comunità dei borghi. Castiglion Fibocchi, Chianciano Terme e Foiano della Chiana ne sono un esempio.

Castiglion Fibocchi: dal XII secolo d. C. a oggi

Tra le colline dell'aretino prende vita una delle più suggestive feste di Carnevale di tutta la Penisola che risale al XII secolo d.C: Carnevale de fillis Bocchi. Questa la dicitura che si trova nei testi dell'epoca che sta a indicare una festa a base di danze e musica in onore di Bocco, soprannome del signore del paese. La festa prendeva vita nel castello del borgo con maschere e orchestre, un'usanza andata perduta che è stata poi ripresa solo negli anni '90 del secolo passato. Oggi si celebra la ventesima edizione del rinato Carnevale di Castiglion Fibocchi, un evento di rilevanza nazionale con costumi, maschere barocche e 200 figuranti che ogni anno impersonano i personaggi più disparati: ci sono Araldo, Amorino, Sherazade, Arlecchino, la Regina di Cuori e moli altri ancora per un totale di oltre centoquaranta maschere. Protagonista però è il Re Bocco, che apre le porte del castello e racconta le storie della corte.

 

Castiglion Fibocchi

I dolci: il gattò aretino e la panina

È il gattò aretino il dolce di tradizione per antonomasia di Arezzo e tutti i paesini limitrofi, Castiglion Fibocchi compreso. Si tratta di una sorta di tronchetto di pasta biscuit farcito con cioccolata o crema e bagnato con l'alchermes, disponibile tutto l'anno e presente anche durante il periodo di Carnevale insieme agli altri grandi classici della festa come cenci ripieni e chiacchiere. Non mancano poi le frittelle di riso, ricetta tipica di questo mese che la zona aretina condivide anche con Viareggio, la panina, dolce cotto al forno con uva passa, e la focaccia di castagne, pinoli e rosmarino. Per assaggiare i dolci locali realizzati secondo tradizione, consigliamo di recarsi una trentina di chilometri più a sud, al borgo di Castiglion Fiorentino, dove il bar pasticceria La Perla propone tutto l'anno le specialità del territorio. Per il gattò invece, una tappa nella vicina Arezzo è d'obbligo.

 

Focaccia di castagne

Dove comprare il gattò aretino:

Bruschi dal 1937 | Arezzo | via San Domenico, 42 | tel. 0575 24969 | www.facebook.com/Pasticceria-flli-Bruschi-dal-1937

Dove comprare i cenci:

La Perla | Castiglion Fiorentino (AR) | viale Giuseppe Mazzini, 65 | tel. 0575 658680 | www.facebook.com/pg/laperlapasticceria/about/?ref=page_internal

Chianciano Terme: il Carnevale ecologico

In provincia di Siena, il comune di Chianciano Terme è conosciuto soprattutto per il centro termale ricco di acque minerali ad azione curativa. Qui, il territorio e il rispetto per l'ambiente circostante giocano un ruolo fondamentale per la comunità al punto che, dallo scorso anno, è stato creato un evento di Carnevale ad hoc. È l'EcoCarnevale di Chianciano, nato per idea dell'Associazione Culturale EcoRinascimentale, organizzazione che propone progetti che integrano le energie rinnovabili e consentono di riqualificare il territorio. Il Carnevale ecologico si pone come obiettivo quello di celebrare le tradizioni folkloristiche toscane con un occhio di riguardo per l'ambiente. Tutte le maschere sono infatti in carta riciclata e anche i bambini sono invitati a presentarsi con costumi realizzati con materiali ecologici. Dj, musica, gare ed esibizioni sportive: il carnevale eco-sostenibile coniuga in un solo evento tutto il fascino delle tradizioni antiche e moderne con la consapevolezza ambientale contemporanea.

I dolci: la torta di Chianciano

Un guscio di pasta frolla ripieno di pan di Spagna, crema pasticcera e aromatizzato all'amaretto: la torta di Chianciano è la specialità del territorio, nata nel 1948 per opera di Jole Marabissi, patronne dell'omonima pasticceria, e diffusasi presto in tutto il paese. Come la si realizza? “La ricetta ufficiale è segreta”, proprio come da tradizione. C'è poi il più noto castagnaccio, ancora cenci e castagnole, panpepato e cantucci. Immancabili le chiacchiere, che qui prendono il nome di crogetti, dalla forma allungata come le classiche sfoglie fritte ma l'impasto più soffice: “il sapore è quello delle frappe, ma la consistenza è molto diversa”, spiega il team della Pasticceria Centro Storico.

 

Torta Chianciano

Dove comprare la torta di Chianciano:

Marabissi | Chianciano Terme (SI) | località Astrone | tel. 0578 61414 | www.marabissi.it/

Dove comprare i crogetti:

Pasticceria Centro Storico | Chianciano Terme (SI) | via A. Casini, 22 | tel. 0578 31444 | www.facebook.com/pages/Chianciano-Terme-Centro-Storico

Foiano della Chiana: la gara dei carri

È datato 1539 il primo Carnevale di Foiano della Chiana, fra i più affascinanti di tutta la regione. Nella provincia di Arezzo, si festeggia per ben cinque domeniche, le quattro precedenti al Martedì Grasso e quella successiva, fra musica, costumi tipici e danze. Cuore pulsante dell'evento è la Coppa Carnevale, un torneo che chiama a raccolta i diversi carri allegorici e che ogni anno premia quello più originale e meglio realizzato. I partecipanti al titolo annuale sono quattro cantieri denominati Azzurro, Bombolo, Nottambuli e Rustici. Il tema è libero e gli apparati devono essere realizzati interamente in cartapesta. Un pittore, uno scrittore, un critico d'arte e un giornalista: questi i professionisti che compongono il tavolo della giuria. A fine dei festeggiamenti, come accade anche in altre località toscane, viene bruciato il Re Giocondo, un fantoccio di paglia e carta imbottito di petardi. Il rito del rogo – preceduto dalla lettura ufficiale delle malefatte del re – si chiama Rificolonata (dal termine dialettale rificolone, lanterna) e segna la fine del Carnevale.

I dolci: la schiacciata e le brighelle

Tornano anche a Foiano della Chiana le frittelle di riso, disponibili anche nella variante con uva passa e accompagnate da quelle di ricotta. Ma qui nel borgo il dolce più tipico di Carnevale è la schiacciata, una sorta di pan di Spagna (con dosi e procedimento diversi) ricoperto di zucchero a velo. Accanto alle tradizionali castagnole ci sono poi le brighelle, “bombette fritte vuote all'interno e ripiene di crema pasticcera”, spiega Monica Centineo della pasticceria Anice Stellato. Non mancano anche qui, infine, chiacchiere e bignècon la ricotta.

 

Brighelle

Dove comprare la schiacciata:

Anice Stellato | Foiano della Chiana (AR) | via Farniole, 32 | tel. 334 8601150 | www.facebook.com/Pasticceria-Anice-Stellato

a cura di Michela Becchi

Carnevale in Toscana lungo la costa. Le tradizioni di Viareggio, Follonica e Piombino 

Carnevale in Sicilia. Le tradizioni di Acireale, Sciacca, Termini Imerese e Novara di Sicilia


Emilia Nardi e il Brunello di Montalcino: questione di affinità e di appartenenza

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I grandi vini di Montalcino firmati da una grande famiglia umbra. Intervista a Emilia Nardi che, con la sua famiglia, produce Brunello da più di 50 anni. Ma per gli ilcinesi rimane una forestiera.

Il fascino della complessità accomuna Emilia Nardi e Montalcino. Un variegato mosaico di colori e suoli, di paesaggi ed emozioni e tutte le sfaccettature di questa donna: come Montalcino sa offrire diverse interpretazioni del suo vino più noto, anche in Emilia Nardi convivono la tenacia e l'autorevolezza del capitano d'azienda con tutte le sfumature di una carismatica femminilità. Eppure la signora non è ilcinese: è umbra e ne va fiera.

Dice di lei Stefano Cinelli Colombini (A.D. Fattoria dei Barbi): “Le racconto un aneddoto di quando eravamo ragazzi; io ero insopportabile. Ci eravamo appena conosciuti ed eravamo entrambi nei vent'anni. Ad una cena lei mi disse tutta fiera che il loro Brunello era ottimo. Io, secco secco, le dissi che i loro aratri erano i migliori del mondo, ma il vino... Lei, giustamente, se la prese così a male che ancora me lo ricorda. Il tempo è galantuomo e devo dire che da allora diverse volte hanno fatto il Brunello migliore del nostro; mi levo il cappello”.

 

I vini di Emilia Nardi

L'affinità con i suoi prodotti e i suoi spazi è evidente, tutto parla di lei: i suoi vini non sono esplosioni muscolari ma morbidi e lunghi, persistenti. Le sue vigne sono molto curate e si avverte l'attenzione per il dettaglio, il suo casale sobrio ed elegante. È la vera donna immagine dell'azienda, e anche la collocazione geografica delle sue terre echeggia un tratto della sua personalità: difficili da raggiungere, accessibili, ma non per tutti.

Personaggio di peso tra i produttori raccoglie sempre grande consenso nelle tornate elettorali per le cariche del Consorzio: di lei gli altri produttori dicono che è esperta, onesta e competente, ma non sarà lei la donna che romperà il "tetto di vetro", quella metafora cara agli americani per indicare la barriera invisibile, in questo caso fra il governo del Brunello e una donna non montalcinese.

Montalcino vuole un comandante montalcinese; malgrado la mia famiglia sia tra i fondatori del Consorzio e io sia qui da 30 anni, per loro sono e resterò sempre una forestiera”dice, e aggiunge “E poi consideri che qui ha anche il suo peso l'appartenenza politica. In ogni caso per il futuro non sono più disponibile”.

 

Nel DNA della sua famiglia l'elemento dominante sembra essere la terra: dalla produzione di aratri e macchine agricole al vino. Nei primi anni '50 il Brunello non era ancora quello che è oggi, cosa spinse suo padre a Montalcino?

Mio padre arrivò qui per l'agricoltura, non per fare vino, venne per la caccia, per testare le macchine agricole e soprattutto perché voleva un posto dove poter essere se stesso, lontano dal mondo, e fare l'agricoltore. Perché vede, lui all'inizio era uomo di backstage, di produzione, non d'amministrazione. Poi morì mio zio e si dovette caricare nuove responsabilità.

 

Come era la situazione all'epoca?

All'epoca i Consorzi Agrari erano molto importanti e mio padre a loro vendeva le macchine. Ma la sua vocazione non era quella dell'industriale ed ebbe un esaurimento nervoso, tanto da aver bisogno di nuovi spazi, come quelli che ci sono qui. In una cena organizzata per parlare dei nostri aratri fu Franco Biondi Santi a invitare mio padre ad occuparsi di vino. Gli disse che erano solo 5 i produttori a Montalcino e che c'era bisogno di un uomo d'affari. Dopo le 5 famiglie originarie (Biondi Santi, Cinelli Colombini, Costanti, Franceschi, Padelletti) quella dei Nardi è la sesta ancora produttrice di Brunello e fondatrice del Consorzio.

 

L'arrivo dei Nardi negli anni '50 fu diverso da quello dei grandi investitori internazionali di oggi...

Si, molto diverso. Mio padre era agricoltore figlio di agricoltori e nel tempo si è trasformato in imprenditore. La mia è una storia di borghesia, non di sangue blu né di finanza. Mio padre ingrandì l'azienda acquistando i terreni dai mezzadri, terreno dopo terreno, pazientemente.

 

Quest'anno Brunello a 5 stelle: è soddisfatta?

Si, abbastanza. Ho in mente ancora altre cose, prima di tutto penso alla terra: i vigneti devono diventare più vecchi per poter aggiungere quello che vorrei io. Il sangiovese ha bisogno di vigneti di vent'anni e quel quid non si raggiunge con concentrazioni anomale, no; ci vuole il tempo. Perché, vede, la pazienza è essenziale nell'arte dell'agricoltura; si figuri per il Brunello... è pronto quando è pronto, difficilmente dopo 5 anni.

 

Lei conosce bene il valore della pazienza e dell'attesa, ma come si conciliano con le ragioni del profitto di chi investe capitali importanti?

Non si conciliano se pensiamo ai ritmi dell'industria, della finanza; a meno che non si tratti di investimenti sul medio e lungo termine. Industria e finanza hanno un passo molto diverso dall'agricoltura. Come diceva Franco Biondi Santi "il Brunello è per gente paziente".

 

La sua carriera inizia a metà degli anni '80, dopo cinque anni già le tocca la responsabilità della direzione aziendale. Ristruttura vigneti, rivoluziona la cantina, avvia il rapporto tutt'ora stretto con la ricerca scientifica...

Io faccio parte di quella che si è mossa, che ha fatto viaggiare il Brunello all'estero. Ciò è stato possibile anche e soprattutto grazie all'apertura e allo slancio che Montalcino ha ricevuto con l'arrivo di persone e aziende anche internazionali alla fine degli anni '70 e seguenti.

 

Che generazione di giovani è quella attuale del Brunello?

Oggi c'è una nuova generazione di giovani, molto preparati tecnicamente, a loro agio con le lingue straniere, quelli che oggi hanno tra i 25 e 35 anni e che stanno conquistando sempre più responsabilità in azienda, alcuni già le guidano e che si dedicano con vera passione e professionalità.

 

Cosa c'è di diverso secondo lei?

Rispetto a trent’anni fa è cambiato completamente l'approccio all'agricoltura. Prima lavorare la terra non era considerato qualificante, si diceva "braccia rubate all'agricoltura" per denigrare; oggi è esattamente il contrario. Viene percepito il vero valore di questo lavoro, è cresciuta la consapevolezza della sua importanza. E questi giovani della "generazione green" crescono con il vero rispetto verso la terra, ovvero in primis quello della conservazione. Con questi giovani quel potenziale unico che ha Montalcino è in buone mani, si può solo migliorare.

 

 

Tenute Silvio Nardi | Montalcino (SI) | Casale del Bosco | tel. 0577 808269 www.tenutenardi.com

 

a cura di Dario Pettinelli

Golositalia&Aliment e il Salone del Prodotto Tipico: due eventi dedicati alle materie prime di qualità

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Torna Golisitalia&Aliment, manifestazione giunta alla sesta edizione che si propone di raccontare i prodotti di qualità, in scena a Montichiari (BS) dal 25 al 28 febbraio. Lo stesso weekend, Roma ospita invece il primo Salone del Prodotto Tipico.

Golositalia&Aliment

Seicentoquaranta espositori e un calendario di centoventi eventi che portano in mostra le ultime novità su attrezzature professionali, prodotti gastronomici dall'Italia e dal mondo e nuovi regimi alimentari. Dal 25 al 28 febbraio torna la sesta edizione di Golisitalia&Aliment, manifestazione dedicata alle specialità gastronomiche made in Italy. A ospitare l'evento, gli spazi di Centro Fiera del Garda di Montichiari, in provincia di Brescia, che per quattro giorni si trasformerà in un salone di seminari, concorsi e laboratori per conoscere meglio le materie prime e le tecniche migliori per esaltarne sapori e le proprietà benefiche. Diverse le tematiche e i focus della fiera, a cominciare da quello sulla mixoloy, condotto dalla scuola FBC Bartending, che presenterà una serie di dibattiti sulla figura del barman, sugli aperitivi alcolici e non, sulla storia dell'aperitivo e sull'uso del ghiaccio nei drink. Ma spazio anche al caffè con il Trismoka Challenge, concorso che seleziona il miglior barista di Bergamo e Brescia per la finale del Campionato Italiano Baristi e Caffetteria.

Cuore pulsante dell'evento è però la cucina naturale, che ha come tema principale il sempre più assodato binomio gusto e salute. All'interno dei corsi proposti, trova spazio anche la pasticceria naturale, che si propone di dimostrare ancora una volta che si può mantenere uno stile di vita sano e una dieta equilibrata senza rinunciare ai piaceri della tavola e ai piatti più golosi. E poi ancora seminari sulle donne in cucina, sui prodotti tipici della Lombardia orientale, sull'alimentazione come forma di prevenzione all'osteoporosi e molto altro ancora.

Salone del Prodotto Tipico

Un evento dedicato ai sapori e ai vini dei territori d'Italia: il Salone del Prodotto Tipico di Roma, previsto per il 25 e il 26 febbraio, è una kermesse che coniuga il mondo dell’accoglienza rurale e quello delle specialità mangerecce, entrambi protagonisti del turismo enogastronomico, settore che attualmente sfiora i 40 miliardi di euro l’anno. Organizzato in sinergia con il Salone del turismo rurale, la prima edizione del festival porta nella Capitale alcune fra le più interessanti realtà agrituristiche italiane, oltre a una selezione di artigiani del gusto che propongono assaggi e prodotti in vendita. Sede dell'evento è il Salone delle Fontane in zona Eur, mentre a ideare la manifestazione è Piemmeti, società di Veronafiere, che dichiara: “L’Italia è il Paese che più di ogni altro ha creato un forte processo di identificazione tra i territori e le loro eccellenze gastronomiche”. Ed è proprio su questo che si basa il Salone, “sull'imprescindibile legame tra le bellezze delle nostre terre e la bontà dei prodotti che esse esprimono”. Perché il turismo enogastronomico ha smesso da tempo di essere un fenomeno di nicchia e, come conferma il direttore di Piemmeti Raul Barbieri è diventato un asset fondamentale per la nostra economia”.

Tanti i prodotti in degustazione, dai latticini ai salumi, dai pani ai dolci, passando per il cioccolato, la frutta, il miele, le conserve e tutte quelle prelibatezze che hanno fatto del marchio made in Italy un sinonimo di qualità nel mondo. Presenti anche chef e agricoltori, gli artigiani che giocano un ruolo fondamentale nella filiera produttiva del cibo e del vino. Fra questi, il nostro Giorgione, volto di Gambero Rosso Channel (canale 412 di Sky), lo chef romano Arcangelo Dandini e Stefano Callegari, maestro pizzaiolo e inventore di uno degli street food più apprezzati della Capitale, il Trapizzino, che proprio in questi giorni apre la sua prima insegna a New York.

Golositalia&Aliment | Montichiari (BS) | dal 25 al 28 febbraio 2017 | via Brescia, 129 | www.golositalia.it

Salone del Prodotto Tipico | Roma | 25-26 febbraio 2017 | Salone delle Fontane – via Ciro il Grande, 10-12 | www.salonedelprodottotipico.it

a cura di Michela Becchi

Il Sud Italia riparte dall’agricoltura. E sono i giovani imprenditori a trainare il settore

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Il Sud Italia riparte e lo fa grazie all’agricoltura. Per la prima volta da molti anni, il Mezzogiorno è cresciuto più del resto del Paese. Ed è proprio il settore agricolo, secondo i numeri del rapporto Ismea-Svimez, ad aver trainato la crescita nel corso del 2015.

Il rapporto Ismea-Svimez

Il rapporto è stato elaborato dall’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (Ismea) della Svimez, l'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno. Secondo i dati, il PIL del Meridione ha registrato durante il corso del 2015 una crescita dello 0,8% contro lo 0,5% del Centro-Nord. Se si considera la crescita nel settore primario il trend diventa ancora più evidente: aumenta del 7,3% al Sud, mentre al Centro-Nord si registra un +1,6%. Aumenti importanti, che non si registrano invece nel settore industriale, che ha visto un calo dello 0,3%, né nel terziario, che è invece cresciuto dello 0,8%.

Analizzando la ripresa nel dettaglio si nota che il trend è sostanziato soprattutto dalle produzioni di olio d’oliva, malgrado i problemi creati dagli eventi metereologici nel 2015 e quelli generati dalle infestazioni parassitarie nel 2016.

 

Occupazione giovanile e investimenti

A dare slancio all’agricoltura del Sud Italia, tuttavia, sono i dati provenienti dal settore occupazionale, che ha registrato un +3,8% nel 2015 e continua a crescere nel 2016 con un +5,8% nel primo trimestre e un +6,5% nel secondo, ma anche gli investimenti hanno giocato un ruolo cruciale, cresciuti di quasi il 10% rispetto al 2014.

Il fenomeno ha riguardato sia i dipendenti che gli autonomi, ma nel Mezzogiorno sono più i primi, mentre nel Centro Nord aumentano i secondi. L'aumento dei posti di lavoro riguarda soprattutto i giovani under 35, fascia che registra un +9,1%. “L’agricoltura” scrivono gli analisti di Ismea, “ha assunto un ruolo di primo piano nella creazione di nuova occupazione giovanile al Sud. Nell'anno accademico 2015/2016 gli immatricolati all'università del gruppo agrario hanno raggiunto un livello di quasi il 20% in più rispetto a dieci anni prima”.

Anche nella prima metà del 2016 l'occupazione giovanile in agricoltura è cresciuta dell'11,3% in Italia e, in particolare, del 12,9% nel Meridione. Una crescita alla quale ha dato un decisivo apporto il lavoro a tempo pieno, che registra un aumento del 14,4%. In questo quadro, il peso dell'imprenditorialità giovanile agricola ha un ruolo fondamentale: nei primi sei mesi del 2016 si sono registrate al Sud quasi 20mila imprese in più.

 

Le esportazioni

Un altro settore che contribuisce a sostanziare un positivo benché limitato aumento della crescita è quello delle esportazioni del comparto agricolo. Nel 2015 i prodotti agricoli esportati all’estero sono cresciuti del 15,5% per quanto riguarda il Sud e del 9,6% per quanto riguarda il Settentrione, mentre quelli alimentari registrano un +7,6% rispetto al +6,3% del Centro-Nord. È la Gran Bretagna il Paese europeo che acquista più prodotti del Sud. “La necessità” si legge in conclusione del report, “è quella di proseguire su questa strada incoraggiando le politiche di sostegno e detassazione per i giovani imprenditori agricoli. Lo scopo è quello di assicurare un adeguato ricambio generazionale”.

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

 

 

I consigli dell'oste. Gherra e Vergano del Consorzio di Torino e la carne della Macelleria Brarda

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Viaggio a tappe alla scoperta di prodotti e produttori selezionati dagli osti più bravi d'Italia, premiati dalla nostra guida Ristoranti d'Italia 2017 con i Tre Gamberi. È la volta di Pietro Vergano del Consorzio di Torino.

Che gli osti contemporanei siano in un certo senso enti promozionali del territorio e interlocutori di piccoli artigiani che spesso non sanno cosa siano marketing e grande distribuzione, è cosa ormai assodata. Così abbiamo deciso di contattare quelli più bravi (i Tre Gamberi della nostra guida Ristoranti d'Italia) per farci dare qualche nome. Alla fine ne risulterà una sorta di dispensa ideale degli osti. È il turno del Consorzio, nel cuore della Torino storica, nato e cresciuto sotto l’ala di Andrea Gherra e Pietro Vergano, che da nove anni conducono un lavoro di ricerca virtuoso e in continua evoluzione.

Il Consorzio

Quella di Andrea Gherra e Pietro Vergano è la quintessenza della trattoria moderna: ambiente accogliente e senza fronzoli, atmosfera rilassata, forse un po' bohemienne, cucina moderna ma saldamente legata al territorio, grande attenzione al mondo del vino, in particolare per le produzioni biologiche e biodinamiche di qualità. Sarà anche per questo che negli anni il Consorzio si è affermato come uno dei locali più apprezzati di Torino, tanto da ampliarsi con l’apertura di Banco Vini e Alimenti, altra insegna diventata rapidamente un must in città. Pietro, che abbiamo raggiunto al telefono, consiglia la carne della Macelleria Brarda a Cavour, in provincia di Torino. “Li abbiamo conosciuti tramite una piccola fiera organizzata da loro, alla quale ci ha invitato il nostro fornitore di caffè, amico comune. La loro massima espressione risiede nelle frollature, che nella carne di bue è praticamente imprescindibile. Molti i piatti in cui usiamo i loro prodotti, quello più gettonato è il Carpaccio di bue, che in questo periodo serviamo con porri grigliati, briciole di pane nero ed emulsione di uova”.

Macelleria Brarda

L'attività nasce nel 1971, quando Silvio Brarda, appoggiato dal fratello Giancarlo e spinto dalla mamma Laura, rileva la macelleria dei signori Fabbrone in pieno centro a Cavour, in provincia di Torino. Pochi mesi dopo Silvio incontra Elvira, la donna che lo seguirà nella vita e nella sua attività. Che man mano si implementa e cresce, anche grazie alla preziosa collaborazione, durata vent'anni, della primogenita Roberta. Lei ha poi intrapreso un'altra strada e l'azienda è passata nelle mani del genero Luca Gandione, marito della figlia più giovane Enrica. Era il 2004 e loro avevano appena superato la maggiore età:“Quando mio suocero voleva gettare la spugna mi sembrava assurdo perdere tutto quel patrimonio di tradizioni e materie prime di assoluto livello, così abbiamo mantenuto in vita la macelleria”. La qualità è quella di sempre, così come la location, “ci si poteva spostare in città, dato che qui a Cavour l'80% degli abitanti alleva (e si macella) gli animali, ma abbiamo preferito rimanere in periferia per avere maggior libertà. Libertà di fare quello che vogliamo, lavorando anche carni diverse: di animali più grassi, più adulti. Da noi si trovano prodotti che altrove non hanno”. Come per esempio la carne di bue, proveniente da animali di allevamenti controllati e selezionati con attenzione.

Non mancano ovviamente le carni della razza piemontese: “Cavour è il secondo comune dopo Cuneo dove si allevano le vacche di razze piemontese”. Ecco spiegato perché quasi tutti i capi provengono da allevamenti vicini, con i quali ormai c'è un rapporto di fiducia costruito prima dal suocero e poi da loro “Altri li prendiamo ad Asti e Cuneo. E solo nell'ultimo periodo ci siamo spinti fino a San Giorgio Monferrato per conoscere meglio l'allevamento Migliavacca di Francesco Brezza, che segue un regime di agricoltura biodinamica dagli anni '70. Da lui abbiamo in cantiere tre femmine, che saranno pronte nel 2018”. Con l'allevatore si fa una specie di accordo preliminare dove si concorda: che tipo di capi si vogliono, come devono essere nutriti (in questo caso seguendo un regime biodinamico) e il periodo in cui verranno macellati. Tema non secondario, quello del macello:“Dal 1992 utilizziamo lo stesso macello, garantendo in prima persona la filiera. Andiamo a prendere gli animali dai vari allevamenti, li portiamo al macello e poi li scarichiamo in cella frigorifera, dove comincia la frollatura”. Che va dai 15 giorni per le vacche ad almeno 20 per i buoi, partendo dalla parte anteriore, con spalle e costato, per finire con le cosce.

Oltre la carne c'è di più

Nonostante l'attaccamento alle tradizioni, questa realtà non ha certamente disdegnato l'apporto dato dalla tecnologia: il sito è molto completo e dà la possibilità di contattarli per le spedizioni, che per ora arrivano fino al Centro Italia, “il problema principale è dato dal corriere che, per esempio, per raggiungere la Calabria richiede dai 6 ai 7 giorni”.

Nella Macelleria Brarda c'è anche il reparto dei prodotti trasformati, con formaggi di produttori fidati della zona e salumi stagionati direttamente da loro, come i salami di bue al Barbera, il lardo al rosmarino, la testina marinata, il bue affumicato, il manzo salato, la pancetta cotta e affumicata. E uno spazio è dedicato alla gastronomia con paste ripiene preparate da Enrica in base al periodo. “Ci sono i sempre verdi agnolotti alle tre carni (bue, vacca e maiale) e, in base al periodo, quelli con capretto e asparagi oppure con cappone e carciofi”. A proposito di cappone (continuate la lettura per capire!) da loro potete trovare la finanziera. “Questa è la specialità di mio suocero, la prepara lui con i prodotti che un tempo erano di scarto ma che oggi sono molto richiesti. Capita spesso che non abbiamo abbastanza animelle o cervella per accontentare tutte le richieste”.

Che cos'è la finanziera

Nata durante il medioevo, la finanziera è un piatto tipico piemontese di origini povere. La prima testimonianza scritta risale al 1450 grazie al Maestro Martino, al quale si deve la stesura del Libro de Arte Coquinaria. Data la natura del piatto,in cui si utilizzavano gli scarti della trasformazione dei galletti in capponi (ovvero i testicoli), negli anni ha subìto diverse rielaborazioni, arricchendosi di altre frattaglie. Con lo scorrere del tempo è anche passato dall'essere considerato un piatto povero a una portata nobile e oggi è presente sia nelle piole che nei ristoranti blasonati, pensiamo per esempio alla Finanziera del Cambio nobilitata dalla presenza dei funghi. Nonostante le molte varianti gli ingredienti comuni sono: cervella e animelle di vitello, e aceto.

 

Consorzio | Torino | via Monte di Pietà, 23 | tel. 011 2767661 | www.ristoranteconsorzio.it

Macelleria Brarda | Cavour (TO) | via Amedeo Peyron, 28 | tel. 0121 6295 | www.macelleriabrarda.it

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

I consigli dell'oste

Michele Vallotti e i salumi di Vanni Forchini

http://www.gamberorosso.it/it/food/1030696-i-consigli-dell-oste-michele-vallotti-e-i-salumi-di-vanni-forchini

 

Nasce il francobollo dedicato al bacalà alla vicentina

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Il bacalà alla vicentina è il piatto di Vicenza per antonomasia. A partire dal 1 marzo 2017, questa ricetta tradizionale sarà rappresentata anche su un francobollo ordinario per una collezione speciale volta a promuovere le eccellenze enogastronomiche made in Italy.

Il francobollo

Si chiama Le Eccellenze del sistema produttivo ed economico ed è una serie tematica di francobolli ordinari ideata per valorizzare le specialità enogastronomiche italiane. C'è quello per il 160esimo anniversario del Riso Gallo, emesso dal Ministero dello Sviluppo Economico lo scorso 3 ottobre 2016, e prima ancora c'erano stati tutti quelli ispirati ai vari vini DOCG (Denominazione di Origine Controllata e Garantita). Ora è giunto il tempo per la tradizione gastronomica vicentina di entrare a far parte del programma filatelico delle Poste Italiane. L'1 marzo 2017 sarà emesso dal Ministero il primo francobollo ordinario dedicato al piatto veneto, del valore di 0,95 euro.

Una pentola di terracotta con il bacalà affiancata da una forma di polenta: queste le immagini della vignetta, curata da Anna Maria Maresca. Prodotti tipici della città, che più di tutti rappresentano l'essenza della cucina vicentina. Accanto al francobollo, sarà inoltre presente unbollettino illustrativo sulla ricetta con un articolo a firma di Luciano Righi, presidente della Confraternita del Bacalà alla Vicentina.

Il bacalà alla vicentina

A diffondere il verbo del bacalà, anche un'associazione di ristoratori e gastronomi nata a Sandrigo, a pochi chilometri a nord di Vicenza. È la Confraternita del Bacalà alla Vicentina, che ha lo scopo di promuovere questo piatto dalla storia antica: affonda le sue radici nel XV secolo, più precisamente nel 1432, anno in cui una spedizione guidata dal mercante veneziano Pietro Querini naufraga e raggiunge l’isola di Røst in Norvegia. Qui il mercante scopre per la prima volta il merluzzo essiccato, decidendo di portare con sé il souvenir. Una volta tornato a casa, lo fa assaggiare ai gastronomi vicentini, che si rendono subito conto dell'enorme potenzialità: poteva essere un’alternativa valida al più costoso pesce fresco che, oltretutto, era facilmente deperibile. In città i cuochi più appassionati iniziarono così a elaborare una loro versione del pesce essiccato. Oggi, il bacalà (o baccalà) alla vicentina si prepara con lo stoccafisso secco, olio extravergine, latte, cipolle bianche, sarde sotto sale, formaggio grana. Come le migliori ricette della tradizione poi, naturalmente ogni località e ogni chef ha una sua variante con dosi e ingredienti diversi, mantenendo però sempre invariato il prodotto principale.

baccalaallavicentina.it

a cura di Michela Becchi

Street Food 2017. Molise: Maramimmo di Termoli

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Salumi, formaggi, cavatelli ma non solo: la cucina molisana è fatta anche di pesce e vanta una ricca tradizione ittica. A Termoli, una famiglia di pescatori ha deciso di creare un locale d'autore specializzato nel fritto misto.

Niente scrippelle fritte, focacce, fiadoni o uccelletti con la marmellata: lo street food più godurosio del Molise secondo la guidadel Gambero Rosso è quello proposto da Antonietta Amedei. Moglie del proprietario di un molo peschereccio, questa molisana doc ha scelto di puntare tutto sul pesce e i piatti tradizionali di Termoli. Ecco la sua storia.

Come nasce l'attività?

L'idea è nata per caso, due anni fa, perché ci siamo resi conto che era difficile trovare un posto buono dove andare a mangiare pesce fresco. Mio marito ha un molo peschereccio e così abbiamo deciso di lanciarci a capofitto in quest'avventura culinaria.

Perché proprio la formula dello street food?

Non abbiamo pensato Maramimmo come un locale di street food, più semplicemente come un ristorante informale dove chiunque può gustare una buona frittura di pesce. La definizione cibo da strada è venuta dopo.

Esperienze in cucina?

Nessuna, a parte in quella di casa mia. Sono autodidatta e appassionata della buona tavola: qui da Maramimmo faccio tutto io, dalla pulitura e cottura del pesce alla pasta fresca.

Che tipo di piatti proponete?

In particolare fritti misti, ma anche altre ricette della tradizione di Termoli come le seppie ripiene, polpetti in purgatorio, tortini di alice e patate, baccalà con peperoni e zuppe di pesce.

Qual è il piatto che va per la maggiore?

Sicuramente le fritture di calamari e quelle di paranza.

Ogni quanto cambia il menu?

Quotidianamente. Le nostre proposte variano a seconda della disponibilità degli ingredienti e del pescato del giorno: in questo modo, offriamo piatti diversi ogni giorno.

Dove vi rifornite per le materie prime?

Il pesce è quello del molo di mio marito, della spiaggia qui accanto, mentre per verdure, formaggi e altri ingredienti ci riforniamo da piccoli produttori locali e anche dal mercato. Cerchiamo sempre di rimanere nell'area di Termoli per valorizzare le eccellenze del territorio.

Cosa offrite da bere?

Qualche etichetta di vino molisano e poi diverse birre.

Progetti per il futuro?

Nessuno, per il momento. Ci piace il nostro lavoro e amiamo la nostra terra: perché dovremmo andarcene o aprire da un'altra parte?

Pensate mai di inserire ricette nuove?

Sì, lo faccio tutti i giorni. Ma sempre mantenendo quel legame con la tradizione, che vogliamo rispettare e valorizzare attraverso i nostri piatti. Quello che ci proponiamo di fare è di restituire valore alla ricca cucina molisana, in particolare quella della costa.

Quanti siete nel team?

Io sono la titolare e la cuoca, insieme a un'altra signora che mi aiuta in cucina. Ci sono poi i ragazzi che si occupano della parte amministrativa e del banco e, a seconda della richiesta, a volte assumiamo qualche persona in più per un certo periodo, per esempio durante la stagione estiva.

Siete aperti tutto l'anno?

Sì. Nonostante la cucina di pesce sia più associata al caldo e all'estate, i nostri clienti sembrano apprezzare i piatti tutto l'anno, fritture in primis. E siamo aperti sia a pranzo che a cena.

Maramimmo | Termoli (CB) | corso F.lli Brigida, 64 | tel. 0875 702809 | www.facebook.com/maramimmo

a cura di Michela Becchi

Guida Street Food 2017 del Gambero Rosso | Euro 6,50 | acquistabile in edicola, libreria e on line

Guida Street Food 2017 del Gambero Rosso. Ecco i risultati

Street Food d'Italia 2017. Valle d'Aosta: Sushiball di Courmayeur

Street Food d'Italia 2017. Veneto: Gourmetteria di Padova

Street Food d'Italia 2017. Friuli-Venezia Giulia: Mamm Ciclofocacceria di Udine

Street Food d'Italia 2017. Lombardia: La ravioleria Sarpi di Milano

Street Food d'Italia 2017. Emilia Romagna: Punto G di Piacenza

Street Food d'Italia 2017. Trentino Alto Adige: Briciole Food and Drink di Rovereto

Street Food d'Italia 2017. Marche: Il Furgoncino di Pesaro

Street Food d'Italia 2017. Umbria: Bacalino di Perugia

Street Food d'Italia 2017. Puglia: Piadina Salentina di Lecce

Street Food d'Italia 2017. Liguria: Moltedo di Recco

Street Food d’italia 2017. Abruzzo: Alla Chitarra Antica di Pescara

Street Food d'Italia 2017. Sardegna: Sebaderia Dulcinea di Nuoro

Street Food d'Italia 2017. Sicilia: Nino U' Ballerino di Palermo 

Italian Artisan Wines, il portale di e-commerce per promuovere il vino italiano in Cina

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Continua l'interesse dell'Italia verso il mercato cinese, quarto importatore di vino al mondo. Italian Artisan Wines è la nuova piattaforma di e-commerce che si impegna a far conoscere le migliori piccole e medie aziende vinicole della Penisola ai consumatori orientali.

Il portale

Un portale web che si propone di selezionare le migliori aziende vinicole di piccole e medie dimensioni e supportarle su tutti i fronti, in termini di gestione burocratica, degli ordini e della comunicazione in lingua. È Italian Artisan Wines, piattaforma di e-commerce che punta ad aiutare i produttori di vino che hanno deciso di scommettere sul mercato cinese, quarto importatore al mondo. A idearla, l'azienda Zixun China Advisor, realtà italiana con base a Hong Kong. Come districarsi fra burocrazie, dazi e lingua nel territorio cinese? A queste e altre problematiche legate all'esportazione si propone di trovare una soluzione il neonato portale, che ha attivato la campagna di iscrizioni a ottobre. L'obiettivo? Arrivare a cento etichette nel primo semestre 2017. Non solo, entro il mese di giugno è previsto lo sbarco su TMall, principale marketplace cinese parte del gruppo AliBaba, colosso dell'e-commerce che conta oltre 530 milioni di clienti. “La strategia di comunicazione in lingua cinese e la scelta di avere un hub commerciale e logistico in un punto strategico come Hong Kong ci permette di intercettare nei giusti modi e tempi questa domanda e i trend emergenti”, ha dichiarato Stefano Balsamo, Ceo di Zixum China Advisor.

Il mercato cinese

Ma perché proprio la Cina? Perché è un mercato in continua espansione, su cui l'Italia del vino sta cercando di mettere radici già da tempo. Primo produttore mondiale, l'Italia ha una quota di mercato pari solo al5,6% e si posiziona al quinto posto dopo la Francia (43,3%), l'Australia (24,1%), il Cile (11%) e la Spagna (6,7%). Il mercato del vino in Cina, in costante evoluzione, ha registrato nell'ultimo anno un aumento del +22%: solo nel 2016 il Paese del Dragone ha importato vino per 1,2miliardi di euro. “La nostra media di crescita in Cina è superiore a quella dell’ultimo triennio”, commenta Denis Pantini, direttore di Wine Monitor Nomisma, “tuttavia l'export di vino italiano nel quarto mercato mondiale è modesta”. E aggiunge:“Giusto pensare a sfondare nell'e-commerce: in Cina è il secondo canale off trade, dopo la grande distribuzione”. Sono infatti 688milionigli utenti Internet attivi in Cina e 659milioniquelli iscritti ai social media. Senza contare che metà dei Millenials (fra i 25 e i 34 anni) cinesi appartiene alla classe medio-alta e il 52% acquista vino online. Un mercato in fermento, dunque, dove anche i più giovani rappresentano una fetta di clientela significativa.

a cura di Michela Becchi


Olio di palma. La risposta ufficiale dell'Università di Napoli

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Ancora sull'olio di palma. Dopo il comunicato diffuso - a quanto pare non ufficiale - in seguito al convegno tenuto al Dipartimento di Farmacia dell'Università Federico II, è la stessa università di Napoli a mettere i puntini sulle i, con un altro comunicato. Ecco che cosa è emerso.

Olio di Palma sì, olio di Palma no

Lo scorso 10 febbraio presso il Dipartimento di Farmacia dell’Università Federico II si è tenuta una giornata di informazione e di approfondimento intitolata "Olio di Palma sì, olio di Palma no" sulle varie criticità collegate all'uso dell'olio di palma nel campo salutistico-nutrizionale e al suo impatto a livello ambientale ed ecologico. Subito dopo è circolato un comunicato dove si affermava che l'olio di palma non fa male se lavorato con adeguati controlli tecnologici e rimanendo al di sotto dei 200° C. Noi ne abbiamo parlato qui. Ma abbiamo volutamente omesso un altro punto del comunicato che diceva: “La sua assimilazione giornaliera, con il consumo di prodotti confezionati, sarebbe piuttosto limitata, se confrontata all’assunzione di grassi saturi derivanti da alimenti come carne e formaggi. Anzi, poiché i bambini avrebbero particolare necessità di acidi grassi saturi nelle prime fasi di vita, secondo gli esperti l’olio di palma potrebbe addirittura svolgere un ruolo positivo: è infatti ricco di acido palmitico, lo stesso che compone fino alla metà dei grassi presenti nel latte materno”.

Per chiarire questo punto, per noi sospetto, abbiamo contattato Gabriele Riccardi, ordinario di Malattie del Metabolismo presso l’Università Federico II, presente al convegno in veste di relatore. Che ci ha confermato ogni dubbio. Ovvero che tutti i relatori presenti hanno sottolineato come, pur senza voler lanciare anatemi e liste di proscrizione, sia necessaria una certa cautela nell’uso dell’olio di palma e degli alimenti che lo contengono. Tra questi sono presenti prevalentemente prodotti da forno, creme spalmabili e merendine preparati a livello industriale.

I valori nutrizionali dell'olio di palma

L’industria alimentare preferisce l’olio di palma ad altri grassi perché costa poco ed è in grado di dare consistenza cremosa o croccante agli alimenti. Tuttavia, l'olio di palma presenta un contenuto di acidi grassi saturi- i grassi che favoriscono l’innalzamento dei livelli di colesterolo nel sangue - superiore alla maggior parte degli altri oli usati in alimentazione, quali olio d’oliva, olio di semi di girasole, olio di soia e olio di mais e, rispetto a questi, un minore contenuto di acidi grassi mono/polinsaturi che contribuiscono, invece, a mantenere il colesterolo sotto controllo. Solamente il burro ha un contenuto percentuale di acidi grassi saturi simile a quello dell'olio di palma. Ma, punto primo: quanti di noi mangiano alimenti realizzati col burro tutti i giorni? E in quali quantità? Invece sono sicuramente tanti coloro che, ogni giorno, ingurgitano olio di palma sotto forma di alimenti trasformati. Punto secondo: la quota di acido palmitico nel burro è circa la metà rispetto a quello contenuto nell'olio di palma. Questo va debitamente considerato giacché ricerche recenti hanno dimostrato che non tutti i grassi saturi hanno gli stessi effetti negativi per la salute umana e per il sistema cardiovascolare; infatti, mentre alcuni di essi- in particolare l’acido palmitico – contribuiscono ad aumentare significativamente i livelli di colesterolo, altri, come l’acido stearico (contenuto, ad esempio, nella sugna) sono relativamente meno dannosi.

Il consiglio all'industria alimentare: sostituite l'olio di palma

L’acido palmitico è presente anche in altri alimenti come la carne e i prodotti caseari (formaggi, latticini, burro, creme) ma è particolarmente abbondante nell’olio di palma (si chiama acido palmitico proprio per questo). Alla luce di queste considerazioni appare logico raccomandare all’industria di sostituire, quando possibile, l’olio di palma con altri grassi che, anche se più costosi, sono certamente più salutari in quanto in grado di contribuire a mantenere sotto controllo i livelli di colesterolo riducendo, così, il rischio cardiovascolare. Occorre, però, considerare che gli alimenti contenenti olio di palma forniscono, in media, soltanto circa il 10 % del totale di acidi grassi assunti dalla popolazione adulta in Italia (nei bambini e negli adolescenti il suo contributo è significativamente più elevato); tuttavia, essendo principalmente rappresentati da prodotti industriali in gran parte utilizzati a fini voluttuari, sono anche quelli che si possono più facilmente limitare. Infatti, altre fonti di grassi saturi- come i derivati del latte o la carne- contengono proteine nobili e altri nutrienti che giustificano ampiamente la loro presenza, sebbene in quantità moderate, nella dieta abituale.

Non è solo un problema di acido palmitico

E ancora una volta sottolineiamo che i potenziali problemi per la salute dovuti a un eccessivo consumo di olio di palma sono legati anche al suo contenuto di tre sostanze tossiche (una delle quali classificata come genotossica e cancerogena) appartenenti al gruppo dei glicidili esteri. Pertanto il consumo abituale di prodotti alimentari contenenti quantità rilevanti di olio di palma viene indicato come potenzialmente rischioso soprattutto per bambini e adolescenti da parte dell’Autorità per la sicurezza alimentare europea (EFSA) in un documento che richiama l’attenzione sulla presenza nell’olio di palma di questi tre contaminanti che si formano nel processo di raffinazione ad alte temperature (200°C) di oli vegetali. L’EFSA ha focalizzato l’attenzione sull’olio di palma perché le quantità in esso presenti sono di gran lunga superiori rispetto agli altri grassi vegetali: 6 – 7 volte superiore rispetto all’olio di mais, alle miscele di olio per friggere e almeno 70 volte rispetto all’olio di oliva. Insomma, olio di palma sì o olio di palma no? Il convegno ha lasciato la risposta, come ovvio, ai singoli consumatori. Anche perché le informazioni condivise con i partecipanti consentono a ciascuno di fare la scelta giusta che, come sempre in ambito nutrizionale, non può che basarsi sul senso dell’equilibrio e la razionalità.

a cura di Annalisa Zordan

Città tartufo si riunisce a Norcia per fare il punto sulla candidatura Unesco

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Il tartufo si candida a Patrimonio Immateriale dell'Umanità. Avanzata dall'Associazione Nazionale Città del Tartufo, la candidatura verrà esposta domenica 26 febbraio a Norcia di fronte a tutti gli associati.

Alba, Acqualagna e Norcia sono le roccaforti del tartufo pregiato italiano. Ma non sono le uniche zone dove si cavano questi preziosi figli della terra. Il Tuber magnatum pico si raccoglie dal Piemonte alla Calabria, il melanosporum dalla Campania fino al Veneto, insomma in tutta l’Italia sono presenti una o più specie di tartufo. Dall’altra parte non basta dire tartufo per significare qualcosa di buono, e giustificare il prezzo pagato. A parte “sua maestà” il bianco e il nero di Norcia, al vertice della piramide della qualità, alcune delle nove specie di cui è consentita la commercializzazione in Italia sono di qualità decisamente inferiore, come lo scorzone, il brumale e ancor più il bianchetto. In fondo alla classifica del gradimento il tuber mesentericum, non a caso volgarmente noto come tartufo bituminoso per il suo forte odore di acido fenico. A far chiarezza, assicurando la tracciabilità del prodotto e tutelando i consumatori, un'associazione nata ad Alba nel 1990.

Associazione Nazionale Città del Tartufo

Nata ad Alba nel 1990, l’Associazione Nazionale Città del Tartufo riunisce il Centro Nazionale Studi Tartufo e 53 associazioni di 13 regioni (qui la lista completa). Molte le iniziative intraprese, volte a valorizzare il tartufo delle specie riconosciute per legge (Legge 752/85), con particolare riguardo al Tuber magnatum pico e al Tuber melanosporum vitt, salvaguardare il territorio e l'ambiente delle zone tartufigene particolarmente vocate e favorire la conoscenza e la promozione turistica delle aree produttrici di tartufo. Ultima in ordine di tempo: l'assemblea straordinaria che si terrà a Norcia domenica 26 febbraio. Durante la quale verrà esposto a tutti i soci il processo avviato per la richiesta all’Unesco di candidatura delle “Pratiche e conoscenze della Cultura del tartufo quale bene immateriale vivente”.

Il Tartufo candidato Unesco

Un appuntamento che arriva circa un mese prima della riunione della Commissione nazionale italiana Unesco che deciderà la candidatura da presentare a Parigi. Il luogo scelto per la riunione è Norcia, una delle città associate più duramente colpite dal sisma, proprio nel primo fine settimana della sua mostra mercato dedicata al tartufo nero pregiato. Il presidente dell’Associazione Michele Boscagli ha dichiarato:“Il riconoscimento, qualora ci fosse, assumerebbe per i territori in difficoltà un valore ancora più importante, soprattutto come sprone per infondere fiducia in una ripresa sociale ed economica delle comunità”. Ecco perché la manifestazione Nero Norcia, non solo si svolgerà ma è stata pensata con una formula allungata in tre fine settimana, dal 24 al 26 febbraio, e poi dal 3 al 5 e dal 10 al 12 marzo, come strumento di rilancio dell’economia del territorio.

Solidali con le zone terremotate

Siamo a Norcia, cuore della Valnerina e della tradizione del Tartufo nero pregiato anche per esprimere la disponibilità di tutti i soci affinché questi territori, così colpiti, possano partecipare attivamente alla vita associativa secondo il principio irrinunciabile della condivisione e possano in futuro, speriamo molto prossimo, beneficiare dell’accoglimento della richiesta di candidatura. Come Norcia, le Città associate di Cascia e Amandola hanno bisogno di sentire la presenza e la vicinanza dell’Associazione che con questo processo di candidatura ha intrapreso una strada per la salvaguardia e la trasmissibilità del nostro patrimonio collettivo”. All’Assemblea, insieme al presidente delle Città del Tartufo, parteciperanno la gran parte dei sindaci e rappresentati delle amministrazioni associate, compresi quelli dei comuni emiliani che nel 2012 hanno vissuto l’esperienza del terremoto. A fare gli onori di casa saranno Nicola Alemanno e Giuliano Boccanera, rispettivamente sindaco e assessore allo sviluppo economico del Comune di Norcia.

 

Assemblea Città del Tartufo | Tensostruttura allestita nella zona sportiva di Norcia | 26 febbraio ore 10.30 | www.cittadeltartufo.com

 

a cura di Annalisa Zordan

Acciuga in Viaggio

L'Acciuga in Viaggio, il nuovo food truck che viaggia alla scoperta delle Dolomiti

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Un nuovo food truck stravagante, una scatoletta di acciughe su ruote: è L'Acciuga in Viaggio, carretto dedicato alle bollicine e il buon cibo che viaggia fra le più belle località delle Dolomiti. È partito oggi 23 febbraio a Selva di Val Gardena, in provincia di Bolzano, e ha ancora quattro tappe da percorrere.

Il progetto

L’amore per il terroir, la ricerca appassionata della qualità e l’eleganza dei vini: sono questi i valori dello Champagne Boizel, che fanno della Maison francese un sinonimo di garanzia conosciuta in tutto il mondo e che si tramanda da ormai sei generazioni. Ad affiancare la cantina in un nuovo e originale progetto, l'osteria L'Acciuga di Ravenna (Un Gambero della guida Ristoranti d'Italia), specializzata nella cucina di pesce. Insieme, queste due realtà hanno dato vita a un nuovo food truck, L'Acciuga in Viaggio, un carretto dal design insolito – una scatoletta di acciughe con le ruote – che ha intrapreso un percorso alla scoperta delle Dolomiti. Con un itinerario studiato su misura che comprende diverse località, a partire da Selva di Val Gardena (Bolzano), prima tappa del viaggio iniziato oggi giovedì 23 febbraio 2017, al Ristorante Da Tommaso. Si passa poi a Corvara in Badia (Bolzano), dapprima al Rifugio Punta Trieste e dopo all'Hotel Marmolada, e poi ancora a Cortina d'Ampezzo presso l'Enoteca Baita Fraina. A concludere il percorso gastronomico dell'originale apetta, l'Enoteca Contemporanea di Feltre (Belluno), che segna la fine del progetto.

I prodotti

Diversi i piatti e gli abbinamenti proposti da L'Acciuga in Viaggio, a cominciare dall'ampia selezione di etichette firmate Boizel. Protagonista del primo appuntamento è il Brut Réserve, un assemblaggio di chardonnay, pinot nero e pinot meunier, ma non mancheranno anche le altre bottiglie della Maison. Dal Blanc de Noirs al Blanc de Blancs, dal Brut Rosé al Joyau de France 2000, ma anche Grand Vintage 2004, Ultime Extra Brut e Cuvée Sous Bois 2000: queste le bollicine disponibili a rotazione durante l'itinerario del food truck. Ad accompagnare i calici, piatti d'autore a cura del team de L'Acciuga, che per ogni tappa studierà un menu apposito a seconda del vino scelto. Per la cena al ristorante Da Tommaso il food truck propone: ostriche Belle Du Nordet, crema di patate e baccalà mantecato, humus di ceci con bocconcini di rana pescatrice e guanciale, patate schiacciate con acciughe e panna acida, crostino di segale, polpo arrostito con pomodori infornati e infine un gelato a base di cipolla rossa di Tropea.

www.facebook.com/Lacciuga-in-viaggio

a cura di Michela Becchi

Appunti di degustazione. Tarlant, la storia dello Champagne in 4 Pas Dosé

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In visita da Tarlant alla scoperta di una storica maison della valle della Marna. Una cantina in bilico tra passato e futuro, con grandissimi Champagne che, pur fedeli allo stile aziendale, spingono sul pedale della ricerca. Quella che arriva dal passato.

La storia

Depuis 1687,ovvero dal 1678.Il messaggio,che troviamo impresso nel loro stemma di famiglia,è forte e chiaro: “noi Tarlant abbiamo fatto la storia del vino in Francia e, con orgoglio, rivendichiamo le nostre radici su ogni bottiglia di Champagne prodotta affinché il consumatore non scordi mai la passione e i sacrifici di Pierre Tarlant che in quel preciso anno divenne in primo vignaiolo a Gland, nel dipartimento francese dell'Aisne”. Il legame dei Tarlant con la Champagne si stringe però solo cento anni dopo, nel 1780, quando Louis Tarlant e sua moglie Marie-Madeleine si stabiliscono a Oeuilly (valle della Marna) piantando il primo vigneto la cui eredità, generazione dopo generazione, giungerà fino a Louis Adrien Tarlant che nel 1927, dopo aver preso parte alla cosiddetta Rivoluzione dello Champagne, è stato uno degli artefici del riconoscimento dell'AOC Champagne. Nonostante i danni conseguenti alla prima guerra mondiale, Louis Adrien non perse le speranze e, dopo aver ricostruito vigneto e cantina, diede una svolta decisiva alla sua azienda andando a creare la prima cuvée Tarlant che venne commercializzata nel 1929 col nome di Carte Blanche.

TarlantLa famiglia Tarlant

Neanche la seconda guerra mondiale scalfì il successo dei loro Champagne che, col passare del tempo, divennero sempre più apprezzati e richiesti dal pubblico tanto da spingere le discendenze future ad acquisire nella zona ulteriori vigneti che attualmente si estendono per circa 14 ettari distinti in quattro cru che al loro volta si suddividono in 55 parcelle localizzate attorno ai villaggi di Oeuilly, Boursault, St-Agnan and Celles-lès-Condé. Un vero e proprio patchwork ampelografico gestito oggi sotto l'abile regia della dodicesima generazione, Benoît e Mélanie Tarlant, i quali cercano di migliorare ancora di più i loro Champagne valorizzando al massimo l'identità delle varie parcelle caratterizzate da terreni geologicamente differenti (gesso,calcare, sparnacien, sabbia, ciottoli) dove sono coltivati sei vitigni (età media 31 anni di cui qualcuno anche a piede franco): pinot noir, chardonnay, pinot meunier, arbanne, pinot blanc e petit meslier.

 

Tarlant

Il lavoro in vigna e in cantina

Dal punto di vista agronomico Tarlant è da sempre attenta all'ambiente per cui in vigna si usano esclusivamente concimi biologici e la lotta agli insetti viene portata avanti attraverso la confusione sessuale. Per evitare l'erosione si ricorre all'inerbimento.

In cantina le uve, raccolte rigorosamente a mano, sono vinificate separatamente in modo che sia esaltata al massimo la differenza territoriale delle varie parcelle. La vinificazione viene effettuata attraverso sia uso di barrique (acquistate sempre nuove ma riusate più volte) sia attraverso l'uso di contenitori in acciaio inox. I vini, sottoposti a chiarificazione naturale prefermentativa, in inverno sono sottoposti a frequenti "batonnage" e, per filosofia aziendale, non effettuano mai malolattica.

La seconda fermentazione avviene nelle cantine sotterranee dell'azienda e, mediamente, lo champagne rimane a contatto con i lieviti per almeno 5 anni prima di essere sboccato. In tale ambito è importante sottolineare che la purezza e l'autenticità territoriale degli Champagne Tarlant è garantita grazie ad un dosaggio minimo (6 g/l) o, per la maggior parte dei casi, pari a zero.

Quattro le linee di Champagne prodotte: Tarlant Classic, Tarlant Vintages, Terroir Revelation e Cuvee Luis.

 

La degustazione, guidata da Mélanie Tarlant Daniel Romano, si concentra solo sui Pas Dosé.

 

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Tarlant Zero (Brut Nature)

Da uve chardonnay (1/3), pinot meunier (1/3) e pinot nero (1/3) della raccolta 2008 a cui vengono aggiunti vini di riserva affinati in legno. Lo Champagne effettua una prima fermentazione in contenitori in acciaio termocontrollati e rimane a contatto con i lieviti sei anni prima di essere sboccato (la nostra bottiglia aveva data sboccatura febbraio 2016). Dal punto di vista gustativo questo Champagne rappresenta un punto di riferimento, pur nella sua semplicità, per chi vuole cominciare a prendere confidenza con questa tipologia di vini che certamente non sono per tutti i palati data la loro secchezza. Da applausi la sapida e corroborante persistenza finale.

 

Tarlant Rosé Zero (Brut Nature)

Da uve chardonnay (50%), pinot nero (44%) e pinot meunier (6%) della raccolta 2008 e 2009, è un rosé d’assemblage (viene aggiunto un 9% di pinot nero fermo prima della presa di spuma)che effettua una prima fermentazione in legno e, dopo la seconda fermentazione, segue un affinamento sui lieviti per cinque anni (la retroetichetta della nostra bottiglia indicava come dégorgement il mese di ottobre del 2015). Il naso è ricco di sensazioni di agrumi rossi e fruttini di bosco che, fortunatamente, non forniscono un quadro olfattivo sdolcinato e ruffiano che spesso si ritrova in altri rosati pari categoria. Al sorso il vino è nettamente sapido tanto da sembrare un derivato della fermentazione alcolica del sale rosa dell'Himalaya. Provare per credere.

 

Tarlant BAM! (Brut Nature)

L'acronimo BAM rappresenta l'unione tra passato e futuro della Champagne perché se da un lato al suo interno nasconde i nomi di Benoît And Mélanie, dall'altro questo vino fa esplicito riferimento ai nomi dei vitigni usati per la sua produzione ovvero pinot Blanc (18%), Arbanne (18%) e petit Meslier (64%) che sono tre varietà quasi scomparse che i Tarlant, pian piano, stanno reintroducendo e preservando per produrre i loro Champagne così come accadeva in passato nel territorio. Le uve, così come riporta la retroetichetta, sono state vendemmiate il 24 settembre 2009 e vinificate separatamente in legno. Una volta effettuata la cuvée, il vino è stato messo in bottiglia il 4 maggio 2010 per poi essere sboccato manualmente il 16 dicembre 2015. Inizialmente irriverente con la sua spiccata vena agrumata che graffia il palato, il BAM! tende col tempo e l'ossigenazione a perdere parzialmente la sua sfacciataggine grazie alla cessione di profumi di mela cotogna, mimosa e cera d'api, che vanno ad ammorbidire l'impressione aromatica iniziale donando armonia ed equilibrio. L'assaggio è rigoroso ma al tempo stesso seduttivo, con le percezioni olfattive che riprendono forma e sostanza in una scalata gustativa coinvolgente.

 

Tarlant Cuvée Luise (Brut Nature)

Come si può facilmente pensare guardando l'etichetta, questo vino rappresenta un vero e proprio elogio al rigore e alla tradizione della Champagne le cui coordinate sono fornite da un perfetto equilibrio tra chardonnay (50%) e pinot nero (50%) da vecchie vigne di oltre 65 anni piante su un'unica parcella: Les Crayons (Oeuilly). La prima fermentazione di questo Champagne, rigorosamente in botti di legno, prevede l'uso vini di riserva delle annate '96, '97, '98 e '99 accanto a chardonnay e pinot nero provenienti dalla vendemmia 2000. Una volta effettuata la cuvée finale, lo champagne è andato in bottiglia a maggio 2001 e sboccato 15 anni dopo. Dotato di un perlage fine e persistente, questo la Cuvée Luise si caratterizza per una stratificazione aromatica composta da scorza di pompelmo rosa, pane tostato, polline, kiwi, melone bianco, tutti ben coordinati da uno scenario minerale di grande regalità. Approccio gustativo complesso ed impegnativo dove un abbrivio agrumato lascia la scena ad una affilata sapidità e continui rimandi all'olfatto. È ancora giovanissimo, compresso, e questo fa ben sperare per il suo futuro che si prefigura regale e lucente così come vuole il suo DNA.

 

Tarlant | Francia | Epernay | 51480 Oeuilly tel. +333 26 583060 | http://www.tarlant.com/

 

a cura di Andrea Petrini

Un sito archeologico sotto al McDonald's. Così nasce il primo fast food-museo a Roma

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McDonald’s colpisce ancora. Il gigante del fast food ha finanziato il restauro di un antico tracciato viario romano risalente al II-I secolo a.C, venuto alla luce proprio durante gli scavi per l’apertura del punto vendita di Marino. Così il locale è diventato il primo fast food-museo del mondo. Attirando, com’era prevedibile, le ire di cittadini e associazioni ambientaliste.

Gli scavi di McDonald’s

Tutto inizia nel 2014 quando a Marino gli scavi per costruire la sede del McDonald’s si bloccano per un ritrovamento sotterraneo: si tratta dei resti della prima delle città che si incontrava provenendo dall’Urbe, Bovillae. Proprio sotto agli scavi, nei pressi della frazione Frattocchie, operai e archeologi ritrovano un tratto di strada lungo 45 metri, rivestito in pietra silicea, che si dirama dalla via Appia Antica, una delle strade consolari più importanti per Roma. A quel punto, McDonald’s e la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale hanno deciso di unire le forze, mettendo in campo un progetto di recupero che si è protratto per  2 anni. La multinazionale del fast food ha investito circa 300.000 euro, mentre la Soprintendenza si è occupata del lavoro tecnico-scientifico. Anche il ristorante è stato ripensato sulla base del restauro: grazie a una struttura “a ponte” il tratto viario è stato integrato alla costruzione, rendendo visibile i resti archeologici anche dalla sala e dalla terrazza esterna, tramite un pavimento a vetri. Così il McDonald’s di Marino è diventato un vero e proprio “ristorante-museo”.

 

Le critiche dei cittadini

Perplessità e dubbi sono stati espressi dalla popolazione di Marino e dalle associazioni ambientaliste, soprattutto per quanto riguarda la tutela del patrimonio archeologico e la sicurezza stradale. E diverse rimostranze si sono levate per problemi di opportunità, avanzando l’ipotesi che McDonald’s sfrutti il patrimonio storico e archeologico della zona per aumentare visibilità e introiti: è il motivo per cui alcune associazioni hanno chiesto di poter usufruire di un accesso esterno alle rovine, senza passare necessariamente dall’interno dell'edificio. Non da ultimi, i ristoratori di Marino e di località vicine come Ariccia hanno espresso preoccupazione per la presenza di un’attività che, a detta loro, diminuirebbe gli introiti dei locali “tradizionali”.

 

Le iniziative di McDonald’s in Italia

McDonald’s è spesso foriero di iniziative che oltrepassano gli stretti confini dell’ambito food, per arrivare a connettersi al tessuto sociale della città. Ma uno stuolo di polemiche accompagna da sempre le campagne di comunicazione del gigante del fast food: basti ricordare la netta opposizione dei cittadini di Firenze all’apertura del punto vendita di fronte al Duomo. Il sindaco Nardella, in quell’occasione, motivò il no con la “difesa” delle attività tradizionali del centro storico e la questione del patrimonio Unesco: un no che ha spinto Mc Donald’s a chiedere un risarcimento di mancato incasso pari a 18 milioni di euro, più danni di immagine. Il progetto del nuovo punto vendita di Firenze - malgrado la multinazionale si impegnasse ad acquistare prodotti dalla filiera corta per il 50% del totale - al momento sembra accantonato.

Ma anche la vicenda del quartiere Borgo Pio di Roma, su cui ci siamo già espressi, ha opposto sostenitori e detrattori del brand: l’idea di aprire un fast food a pochi metri dal Passetto e dal colonnato di piazza San Pietro ha scatenato le ire dei residenti e del sindaco Virginia Raggi. Ma in questo caso la risposta di McDonald’s è stata ben diversa da quella di Firenze: appena un mese fa, infatti, la multinazionale americana ha messo in piedi un’iniziativa degna di nota, proprio grazie al fast food di Borgo Pio. Grazie a un accordo con l’Elemosineria Apostolica, ogni lunedì il punto vendita distribuisce pasti gratis a senzatetto e bisognosi.

 

Il primo fast food museo

E ora Marino, dove McDonald’s e la Soprintendenza hanno creato una galleria museale sotterranea, che permette a pubblico e clienti di visitare gratuitamente i resti: pannelli didattici illustrano origini e funzioni della strada in italiano e inglese, mentre un itinerario specifico è stato studiato per i visitatori più piccoli. “Sono particolarmente orgoglioso” ha commentato Mario Federico, amministratore delegato McDonald’s Italia “di aver contribuito, come McDonald’s Italia, a restituire al territorio di Marino questa importante testimonianza della sua storia. Questo progetto è un esempio virtuoso di come pubblico e privato possano collaborare fattivamente al recupero culturale a vantaggio della comunità. Ma non solo: testimonia il fatto che è possibile far convivere modernità e cultura antica”.

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

Carlo Cracco alla conquista di Milano

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È lo chef più conosciuto d’Italia. Spesso criticato, mai molto amato, discusso per i suoi spot. Ma lui non molla, anzi: raddoppia, si trasferisce in Galleria e la trasforma nel tempio della gastronomia italiana, al pari della moda, nella città meneghina. Punta sulla cucina d’autore e di innovazione: che non è effetto speciale, ma progetto. “E permette di pensare a un’identità per il futuro”.

Non c’è niente di meno vuoto di uno stadio vuoto(Eduardo Galeano). Ma anche un ristorante come quello di Cracco, visto dall’alto – appena finito il servizio del pranzo e già apparecchiato per la cena – regala la stessa sensazione. È un teatro, muto e sospeso, dove si rappresenterà l’haute cuisine(anzi, la cucina d’autore, per dirla con le sue parole) ma solo ancora per qualche mese, poi lo spettacolo si trasferirà a dieci minuti di strada, ma che valgono una vita intera: la Galleria Vittorio Emanuele II (avevamo pubblicato i primi rendering qui).

 

Il cuore del cuore di una città dove il food ormai conta quasi come la moda. In un concept totalmente nuovo, ci andrà lui, il cuoco più famoso d’Italia. E uno dei più bravi, anche se c’è chi se lo dimentica offuscato dagli spot sulle patatine e sui bagni o dai cenoni milionari. Fa sorridere che giusto a cinque minuti ci sia il Marchesino del suo Maestro, Gualtiero Marchesi, ma non è uno scherzo del destino. Il suo trasferimento sarà un evento per la ristorazione (a questi livelli, ci ricorda solo l’arrivo degli Alajmo al Quadri veneziano ma la struttura lì c’era già): una sfida – senza rete – per lo chef vicentino che in questa sala, ora silenziosa, ha passato il decennio più importante della sua carriera.

 

 


 

Carlo, dieci anni formidabili?

Questo devono dirlo i miei ospiti che si siedono qui dal 2007. Qualche sera fa, però, un cliente che era venuto ad assaggiare i miei piatti dieci anni fa, ancora prima dell’apertura ufficiale del mio locale, mi ha fatto un bel complimento...

 

Cosa ha detto?

“Sei sempre stato bravo in cucina e lo sei ancora. Ma la cosa fondamentale è che sei venuto qui a cambiare tutto, a rompere gli schemi e continui a innovare”. Mi ha reso molto felice, per due ragioni: si è accorto che non mollo e si ricordava di quanto fosse stato complicato dieci anni fa.

 

In effetti, diventare chef-patron alla vigilia della crisi epocale…

Lo so, ma non è che puoi aprire un ristorante pensando a quanto verrà. Ci sono sempre stati periodi fortunati o meno per il nostro lavoro, e io per natura non mi rassegno al grigio. Ma dovevo farlo, in quel preciso momento. Anche se stavo bene da Peck, sia chiaro. Come ero a mio agio anche alle Clivie nelle Langhe o in Albereta.

 

Ma…

Ho avuto una formazione classica: uno inizia come commis, se è bravo diventa capo partita, poi sous chef e finalmente chef. Il gradino finale è fare il patron, lo trovo giusto. Perché sei libero, autonomo nel bene e nel male. Puoi sognare e costruire, senza chiedere a nessuno. Devi basarti sul frutto del tuo lavoro e quindi sulle tue capacità. Puoi crescere ancora, rischiando.

 

Il passaggio in Galleria nasce da questa esigenza?

Lo sentivo necessario. Volevo un posto molto più grande, importante e l’ho trovato lì (è su più piani, dove c’era lo shop Mercedes-Benz, ndr): per lavorare divertendomi di più, nelle varie situazioni che offrirà.

 

Solo tu e pochi altri in Italia state proseguendo sulla creatività pura, l’avanguardia è guardata sempre più con sospetto…

Non posso cambiare la visione, perché l’ho dentro. Semmai posso cucinare – con la mia brigata, lo sottolineo – in maniera più consapevole di dieci-quindici anni fa. Poi, mettiamoci d’accordo sui termini, l’innovazione o la “rottura degli schemi” sono un modo di esprimersi. Mica qualcosa di studiato o marketing.

 

Tu non dici mai alta cucina, ma cucina d’autore: perché?

Solo i francesi possono usare quel termine, loro la fanno da tempo immemorabile, in contrasto con la cucina borghese e quella popolare. Noi siamo partiti dalla Nouvelle Cuisineintrodotta in Italia da Marchesi 30 anni fa, che veniva sbeffeggiata per le piccole porzioni e l’originalità. “Si esce con la fame e si va a mangiare la pizza”, ricordi? Ora tutti parlano e sanno di cucina, avviene come per il calcio: ma non abbiamo la storia dei francesi in materia. Quindi non ha senso – per me, sia chiaro – rifarsi all’alta cucina. Faccio cucina d’autore, che è già un’impresa.

 

Perché abbiamo il moloch delle cucine regionali, immagino…

Esatto. All’estero hanno la tradizione, spesso molto basica, e l’alta cucina che si ispira quasi sempre a quella francese. Non hanno un background ricchissimo come quello italiano e neppure i nostri prodotti straordinari: sono costretti ad andare oltre, vedi Redzepi. Non volendo scimmiottare, lui si è creato la “sua” cucina sfruttando tutto quello che offre il territorio danese, praticamente nulla rispetto al nostro. E anche gli spagnoli, per uscire dall’anonimato, hanno lasciato perdere i loro piatti tradizionali e hanno giocato, spesso, sulla tecnica pura.

 

Noi stiamo a metà, evidentemente.

Il problema vero non è rappresentato dal nostro passato e dalle cucine regionali, ma dal nostro modo di viverle. Non abbiamo la voglia di rivederle seriamente, per non farle morire. Appena tocchi qualcosa – e l’ho provato in prima persona – sembra di commettere un sacrilegio. Si vuole creare un’idea di competizione tra la cucina d’autore e quella tradizionale, mentre invece la differenza è tra la buona e la cattiva cucina. Il risultato è che non si è creata una nuova e ampia clientela che sappia apprezzare le idee innovative come il piatto regionale moderno.

 

Tu fai parte della corrente secondo cui oggi sia il momento d’oro della cucina italiana o la vedi come Scabin, che parla di piattume soprattutto tra i cuochi più giovani?

Sinceramente non lo so. Dieci anni fa c’era un terzo dei ristoranti di oggi, si poteva capire più facilmente la situazione. Mangio mediamente bene, me la prendo solo quando a tavola arrivano dei piatti complicati, pretenziosi e preparati male. Ho letto della soddisfazione generale per le 294 stelle singole Michelin in Italia: forse bisognerebbe consolidare la qualità e non pensare solo alla quantità. Anche sui giovani, non è tutto oro quello che luccica.

 

Vai controcorrente?

Non sono tra quelli che dicono “noi eravamo meglio alla loro età”. Balle, sono uguali a noi. Ci sono quelli che dopo un tot di tempo non reggono, quelli che non sanno lavorare e mi fanno arrabbiare, ma anche quelli bravissimi con un talento che emerge subito: Simone Cantafio fece uno stage da Cracco-Peck a 17 anni, dissi a Baronetto di seguirlo con attenzione ed eccolo che a 30 anni guida il ristorante di Michel Bras, in Giappone. Poi ci sono quelli bravi, professionisti e perbene, che ci ‘rubiamo’ tra i locali migliori. Ma la maggior parte dei giovani cuochi è un po’ approssimativa: se Scabin voleva dire questo con il termine ‘piattume’, allora ha ragione.

 

Ti ritieni un buon maestro?

Ho la vocazione di far crescere le persone vicine, mi piace trovare qualcuno che condivida il meccanismo della cucina in cui opera. Comunque, il concetto maestro-allievo è superato: un ragazzo che entra in brigata, è semplicemente uno che fa lo stesso lavoro e si confronta ogni momento con chi è più esperto. Io gli offro la possibilità di vedere: se lui segue e capisce come sono arrivato al piatto vuol dire che è andato oltre. Ma la differenza la mette lui, non la mia lezioncina. Ergo, vorrei leggere che “il tal cuoco ha lavorato con” e non che “è stato allievo di”.

 

Curioso che molti pensino al Cracco fustigatore di cuochini e poi si accorgano che i due più famosi sous-chef non sono suoi vice bensì compagni di strada

Matteo l’ho conosciuto che aveva 16 anni e mi ha seguito in quattro cucine diverse. Ci siamo sempre capiti al volo, so che qualcuno di voi dice che non si è ancora ‘decracchizzato’ ma lo trovo normale, visto l’enorme passato in comune. A Luca Sacchi ho chiesto se voleva lavorare con me e ha accettato, si è creato un ottimo rapporto. E lui non è un allievo, ma una persona del mio gruppo. Una cucina non va avanti senza un gruppo: sembra banale, ma non lo è.

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Sei ancora l’alchimista, come ti ha definito un giorno Marchesi?

Non la sapevo, questa. Diciamo che la parte più divertente del mio lavoro è studiare i piatti e ancora più verificare la possibilità di evolverli: per esempio, abbiamo appena rivisitato la Marinara del 2006 che ora è decisamente più centrata. In altri casi, non riesci a migliorare la ricetta: come per l’Insalata russa. Dedichiamo tempo ed energia a questo aspetto della cucina, poi è il cliente a decretare il successo: ho creato piatti che mi sembravano pazzeschi e non sono piaciuti, ne ho studiati altri che per me erano solo buoni e continuano a essere richiestissimi. Noi facciamo il possibile e l’impossibile, ma è chi mangia a decidere la classifica.

 

Con i colleghi hai un buon rapporto? Ti stimano, ma non sei considerato un amicone

Evidentemente perché non sono mai stato socio di nessuna associazione. Ma in compenso, ho sempre cercato di far crescere tutti e ci sono prove concrete. Tanti si ‘muovono’ solo a parole, dando l’impressione di combinare grandi cose. Poi, la verità è che ho sempre un sacco di lavoro e il poco tempo libero preferisco passarlo in famiglia. Non mi viene naturale andare ai matrimoni dei colleghi e farmi i selfie con loro, ma non penso sia grave.

 

Passi anche per un critico del sistema Italia

No, è che non sopporto quanto crea impedimento. Le regole e quindi anche la burocrazia ci vogliono in un Paese civile, ma non devono richiedere un mare di tempo e soprattutto non devono bloccare l’impresa. Bisogna dare una mano a chi investe, non togliere la voglia. E dico: chi lavora bene non merita contributi, ma ricevere un occhio diverso dallo Stato sì. In Francia chi ha un Tre Stelle non è considerato come una pizzeria o un chiringuito che con tutto il rispetto fanno altro, con logiche differenti e problemi lontanissimi dai miei. Lì hanno creato comparti diversi, da noi è tutto uguale. È giusto? Per me, no.

 

Il 2017 sarà l’anno di un salto epocale. Solo due numeri del nuovo concept: oltre 1.100 mq di superficie e un affitto annuale da 1,1 milioni di euro. Sensazioni della vigilia?

Un bel mix: incoscienza, paura, attesa, entusiasmo. Ma non ho fatto la scorta di salame (che è il mio comfort-food!), anzi ho cercato di ridurne il consumo.

 

Intanto hai scaldato i motori aprendo Ovo all’interno di un grande albergo di Mosca

Un’occasione interessante, nata per la visita del loro direttore a Milano. In un anno, abbiamo fatto un buon lavoro: la Russia ha delle grandi materie prime e a Mosca in particolare adorano tutto ciò che è italiano. Hanno circa 2.500 locali con la nostra cucina, buona o cattiva che sia, e questo spiega quanto ci amino. Non c’è cosa migliore di ricambiare, in modo serio.

 

Non ci dire che anche tu sei in procinto di partire? Di andar fuori dall’Italia?

Mi lamento, mi lamento, ma alla fine sto bene qui a Milano, tanto più in un buon momento per la città che mi ha accolto a 21 anni. E poi ho un contratto di 18 anni in Galleria, quindi…

 

Cracco | Milano | via Victor Hugo, 4 | tel. 02 876774 | http://www.ristorantecracco.it/

 

a cura di Maurizio Bertera

foto Malgarini

 

Articolo uscito sul numero di Febbraio 2017 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui

 

 

 

Andoni Luis Aduriz ci prova con la ristorazione informale. Dal Mugaritz a Topa Sukalderia a San Sebastian

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Lo chef spagnolo famoso nel mondo è alla guida di un nuovo format gastronomico fondato sul mix di sapori baschi e latinoamericani. Il locale, appena inaugurato a San Sebastian, recupera la storia delle migrazioni del XIX secolo alla volta del Sudamerica, e presto potrebbe replicare in altre città. 

Il ristorante casual di Andoni Luis Aduriz

“Vasquizacion” è il termine che Andoni Luis Aduriz ha scelto per identificare la sua nuova sfida ristorativa. Non una colonizzazione - tutt’altro è lo spirito che ha sempre orientato la ricerca gastronomica dello chef del Mugaritz – e invece una contaminazione prolifica con la cucina latinoamericana, frutto dei viaggi intrapresi alla volta del Sudamerica negli ultimi anni, che hanno contribuito a persuadere uno dei più apprezzati chef di Spagna e del mondo delle molteplici relazioni tra le culture gastronomiche dei Paesi Baschi e di tanti Paesi latini. La sfida nella sfida, però, alza la posta in gioco, e per la prima volta vede Aduriz confrontarsi con un format informale, improntato alla ristorazione casual e per tutte le tasche, nel cuore di San Sebastian. Una strada, quella della diversificazione dei progetti gastronomici e dell’interesse per una platea più ampia ed eterogenea, che sempre più chef blasonati decidono di intraprendere, spesso affidandosi alla formula del pop up, altre volte, come nel caso in questione, sodalizzando con partner solidi per sviluppare un nuovo concept. Nel barrio De Gros, nell’elegante città basca affacciata sull’Atlantico che tanto risente della vicinanza con il confine francese, Topa Sukalderia (topa in euskera e guaranì significa incontrare) ha aperto da un giorno appena. Ma in Spagna molti la stavano aspettando, tra le novità destinate a influire sulla scena gastronomica locale più attese del 2017.

L’incontro tra Paesi Baschi e Sudamerica

Il progetto di Mugaritz e gruppo IXO (la società partecipata di Aduriz e Bixente Arrieta, che gestisce lo stesso Mugaritz, oltre per esempio al Nerua e al Bistrò del Guggenheim di Bilbao) è ambizioso, e trae spunto dalla storia che lega le due estremità dell’Atlantico, la costa basca da un lato, la sponda sudamericana dall’altro, interessate in passato da costanti flussi migratori - molti sono i baschi emigrati nel XIX secolo alla volta di Cile, Uruguay, Argentina, Colombia, ribattezzati “Los Vizcainos” - che hanno contribuito a incentivare gli scambi. Anche a tavola. Dietro c’è una ricerca accurata, che mette sul piatto idee, ricette, storie e prodotti che vogliono rendere giustizia alla storia, proponendo ai commensali varietà e divertimento quanto basta. Alla guida della cucina ci sarà Jessica Lorigo, la carta cercherà di rispondere a una domanda semplice: “Cosa cucinerebbe un basco emigrato in Sudamerica utilizzando ingredienti e nuovi stimoli a disposizione?”. Senza per questo intaccare l’identità delle fonti d’ispirazione o mortificare gli ingredienti.

Ceviche, foto di Oscar Oliva

La cucina. Cosa si mangia

Quindi tra i 20 piatti in carta sfilano il Ceviche di Acapulco con il pescato del giorno, il Tiradito di baccalà, guacamole e mole dei mille giorni, ma anche Empanadas argentine di ossobuco con kalimotxo e le Croquetinhas di pollo. Piatti creativi che non spaventano, neanche nel prezzo, tra i 5 e i 18 euro per una portata principale. Senza contare la possibilità di spizzicare (impossibile negarlo a un basco) la variante della casa dei tacos messicani, i "tacotalos" di miglio o mais che sostituiscono la tortilla tradizionale e accolgono ripieni generosi come il merluzzo al pepe verde o i calamari al nero con mole. E ancora una selezione di pietanze cucinate sul carbone. Da bere, a confermare l’anima informale del locale, soprattutto cocktail a base di pisco, tequila, rum (ma pure le “micheladas” messicana a base di birra), e poi vini e champagne al calice. Per una spesa media che si aggira tra i 25 e i 50 euro. E tanti coperti a disposizione – due piani con terrazza – molti dei quali guardano alla cucina.

Un ristorante già pronto per macinare numeri, dunque, che in effetti funzionerà da apertura pilota per l’espansione internazionale nei piani dei soci: il concept gastronomico, del resto, nasce con l’ambizione di reinventarsi in altre parti del mondo. Da San Sebastian alle principali capitali internazionali.

 

Topa Sukalderia | San Sebastian | Agirre Miramon Kalea, 7 | www.topasukalderia.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Professione Chef. La borsa di studio Ben’s Friends in ricordo di Beniamino Nespor

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Alla fine di novembre la notizia della scomparsa di Beniamino Nespor lasciava un grande dolore tra i suoi familiari, amici e colleghi, e un vuoto nel mondo della ristorazione milanese, che perdeva uno dei suoi talenti migliori. Ora un’Associazione lo ricorda, e insieme alla Academy del Gambero Rosso ha deciso di aiutare un altro giovane chef, finanziandone la formazione. Ecco come partecipare. 

In ricordo di Beniamino

Qualche mese fa il gesto estremo di Beniamino Nespor - talentuoso chef di stanza a Milano, con l’amico e compagno d’avventure Eugenio Roncoroni fondatore di Al Mercato (poi moltiplicatosi in Burger Bar e Tacos Bar) - lasciò tutti senza parole. Ma qualcuno ha voluto raccogliere l’eredità del giovane chef, scegliendo di ricordarlo con la fondazione di un’associazione, la Ben’s Friends, che ora in collaborazione con Gambero Rosso Academy dà seguito a uno degli obiettivi prefissati sin dall’inizio: contribuire alla formazione di chef talentuosi come lo era Benianimo. Così grazie al sodalizio tra le due realtà, sarà assegnata una borsa di studio rivolta a uno dei frequentanti del corso Professione Chef tra le sedi delle Città del gusto che lo attiveranno nel 2017: Torino, Roma, Napoli.

La borsa di studio al talento di un giovane chef

L’agevolazione, da destinare allo studente più meritevole in possesso delle caratteristiche riportate nel bando (tra cui il possesso del diploma conseguito in un istituto professionale alberghiero), è a copertura totale del costo del corso. Le domande per la candidatura dovranno essere presentate via email all’indirizzo indicato nel bando entro il 14 aprile 2017 facendo riferimento al modello scaricabile sul sito della Fondazione Nespor o alla pagina dedicata sul sito del Gambero Rosso. A valutare le candidature sarà una Commissione composta da un rappresentante dell’Associazione Ben’s Friends e dal board di Gambero Rosso Academy. E la graduatoria definitiva sarà approvata entro il 28 aprile.

 

Per scaricare il bando http://www.gamberorosso.it/it/component/k2/1031526-borsa-di-studio-ben-s-friends

 

Sulle strade della California. Un viaggio a più tappe tra assaggi e racconti. Vol. 3

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Viaggio in California terza tappa: il vino, i paesaggi naturali, gli hotel d'atmosfera e le grandi tavole d'autore. In viaggio tra San Luis Obispo e Santa Barbara.

Il mare è mio fratello (J. Kerouac). 

Appena fuori San Francisco la Pacific 1 diventa un nastro sottile bordo oceano, tutto si allontana da tutto, resta solo il paesaggio aspro delle colline a strapiombo e il mare turbolento che parla “non per frasi ma per versi”, per dirla con Jack Kerouac nei racconti di Big Sur. Le soste lungo la strada possono essere innumerevoli, perché il paesaggio si ripete, ma solo per sguardi distratti. La luce cambia repentina e dunque cambiano le rocce, la vegetazione, il rumore del vento. I chilometri non contano, un viaggio fatto così può durare giorni.


 

San Luis Obispo

A metà percorso verso Los Angeles, San Luis Obispo (più familiarmente SLO) è una tappa con sembianze di isola felice in quanto a benessere, piaceri del cibo inclusi. Il numero di ristoranti gourmet procapite è imbarazzante, il tour delle cantine conta da solo 31 tappe, tra i paesaggi dall’orizzonte, dall’oceano alle Seven Sisters, i crateri (spenti) che caratterizzano la valle.

 

MarketFarmers Market

Il Farmers Market

Tra gli appuntamenti fissi, basti per tutti il Farmers Market del giovedì, quando si fa la spesa fino a tarda sera da più di 120 produttori, aziende agricole e contadini del territorio. Con l’occasione si cena a base di street food di qualità a ogni stand, e i ristoranti aprono i battenti su strada con la versione take away dei piatti abitualmente serviti ai tavoli. Per il mercato si pedonalizza Higuera Street, la strada principale di San Luis. L’appuntamento catalizza eventi di ogni tipo: musica dal vivo, corse urbane di gruppo in bicicletta, cinema e teatro. Stupisce il mercato per la vivacità, l’allestimento e la qualità eccellente dei prodotti. Stupisce la partecipazione altissima, di grande richiamo per i villaggi vicini, costante ogni settimana. Stupisce la reiterazione, a cadenza fissa, di una festa popolare unica in California, comparabile alle nostre celebrazioni e feste patronali, religiose e mangerecce.

 

Luna redLuna Red

I ristoranti

Al mercato del cibo ambulante fanno da contrappunto luoghi in cui sostare per degustazioni di qualità come Luna Red o SLO Provisions. Il primo, di ambientazione ispano coloniale, è specializzato in tapas gourmet e piccoli piatti dai sapori globali, studiati da chef Shaun Behrens, a partire da una ricerca attenta di ingredienti rigorosamente stagionali e coltivati in loco. La presentazione dei piatti si fa ricordare per accostamenti cromatici e gusto estetico. Scopriamo che Shaun, prima di dedicarsi alla cucina, voleva diventare architetto, in linea con l'attitudine alla progettazione della sua famiglia di ingegneri. Cucinava per pagarsi gli studi e alla fine tra le due passioni ha vinto quella della gastronomia. In cucina gli piace utilizzare tutto e ridurre al minimo gli scarti, così inventa marinature speziate ricche di bucce di agrumi e foglie aromatiche in armonia con la preparazione dei piatti principali. Tra le sue creazioni l’insalata di barbabietole arrosto con formaggio di capra e riduzione di barbabietola arancione; il Morro Bay: ceviche di scorfano con scalogno, pomodori, jalapeno e coriandolo oppure l’insalata di cavolo nero con vinaigrette di pistacchi tostati e formaggio Manchego. Indimenticabili le polpette di agnello speziato in romesco di noci.

 

SLO ProvisionsSLO Provisions

A SLO Provisions, la coppia Steve Bland e Dwyne Willis ha scelto Jensen Lorenzen come chef consultant. Stella Michelin, Lorenzen ha molti fan da queste parti sin da quando cucinava al Cass House di Cayucos, indirizzo gourmet sul mare, pochi km a nord di San Luis. SLO Provisions è una sorta di mensa rustico-chic della città, con un design ispirato ai Cinquanta, fresco e colorato di rosso. È possibile ordinare à la carte o programmarsi un bel menu take away. Specialità: circa 30 varietà di carni e pollo arrosto di altissima qualità, preparati con lente cotture; ovvero la realizzazione del sogno gastronomico più ricorrente delle famiglie americane, perfetto per chi non ha voglia o tempo per prepararselo da sé. Tutto è fresco e buono come a casa, dalla colazione alla cena, il menu è disponibile nell’arco dell’intera giornata.

 

Granada Bistrot Granada Bistrot 

 

L'hotel

Ma la sosta che vale il viaggio è al Granada Bistrot e l’hotel omonimo, uno dei luoghi più evocativi che un rabdomante di atmosfere magiche possa immaginare. L’edificio anni '20 - piccolo, a un piano, con mattoncini a vista - è discreto. Gli interni ricordano un ambiente bohème europeo d’inizio secolo, senza retorica o compiacimento. Nei dettagli anche alcune finiture made in Italy, come le tende di lino o alcuni arredi vintage. Pezzi d’arte, tappeti persiani e caminetti in camera, nelle poche stanze al piano superiore. Sempre al piano superiore la terrazza con il caminetto fa da sala pranzo privata per gli ospiti dell’hotel, a fine serata per un drink dopo cena o a colazione al mattino. Intimo come una casa l’hotel, caldo e accogliente il bistrot, come fosse la cucina di una villa in Provenza. Chef JustinCasey, formazione nei migliori ristoranti di San Francisco, prepara piatti ispirati alla cucina spagnola mediterranea e latino americana, utilizzando esclusivamente prodotti freschi di mercato mentre la lista vini riunisce i migliori biodinamici californiani.

TheStationThe Station

 

Il vino

Prima di riprendere la Pacific 1 direzione Santa Barbara, tappa d’obbligo è The Station, una vecchia stazione carburante in stile déco anni Venti, oggi un posto fantastico dove gustare dell’ottimo vino californiano e selezioni d’importazione. The Station organizza serate insieme ai food truck: ogni volta ne invita uno diverso a sostare al parcheggio del vecchio distributore e si occupa dell'abbinamento dei vini allo street food della serata.

 

santa barbaraSanta Barbara Wine Collective

Santa Barbara

Santa Barbaraconcludela love affair con mare e natura. È l’ultima sosta a tu per tu con l’oceano, prima che l’oceano diventi di Los Angeles, da Malibù a Redondo. La luce è già vacanziera, tutto ispira relax e vita in modalità flaneur, ciondolante a piedi o a bordo di una cabrio (una qualsiasi, non necessariamente Mustang).

Bacara ResortBacara Resort

L'albergo

Per parlargli, all’oceano, conviene far tappa al Bacara Resort: il patio, il prato e poi l’accesso diretto alla spiaggia creano un ambiente privato esclusivo. La vista sull’orizzonte, dalla poltrona davanti al caminetto acceso, fa del Bacara una tappa di meditazione e comfort per tutti i sensi, incluso il gusto. Chef Vincent Lesage è approdato qui da Parigi con un curriculum a Tre Stelle Michelin. Cura i menu dei tre ristoranti del resort con l'attenzione che si presta alla cucina di casa. Da colazione a cena, il suo obiettivo è garantire fragranza e cibi sani preparati con ingredienti biologici coltivati in zona e tecniche innovative di cucina francese rivisitata. Al mattino la bassa marea stravolge i ricordi della sera prima, quando il mare tocca quasi lo steccato. Una spiaggia enorme invita alla passeggiata prima di ripartire, non senza dedicarsi a una colazione ricca ed healthy. E poi via: lo Stearn Wharf sarà pure un luogo turistico ma permette di osservare la costa dal mare.

 

Shellfish & Co.Shellfish & Co.

 

Il take away e la mecca del vino

Meno estatico ma ugualmente determinante, è decidere di restare in coda per qualche minuto alla finestra della Shellfish & Co., ordinare la specialità di granchio fresco preferito e aspettare, seduti ai tavoli sul molo, di essere chiamati quando è pronto: il gioco è fatto. Vassoio, granchio e vino da portare dove si preferisce, per godere del cibo con vista esclusiva sull’oceano.

 

Oreana Winery

Oreana Winery

Il tour del vino in California è un must e va onorato. Ogni comunità va fiera delle proprie cantine. Dedicare del tempo a mapparne le peculiarità, aiuta a leggere la geografia dei luoghi attraverso la geografia dei vitigni. Il circuito urbano di Santa Barbara vale da campionatura enologica per l’intera contea. A Downtown, la Funk Zone è una mecca per gli appassionati di vino, un distretto post industriale riconvertito dalla generazione emergente di nuovi enologi: giovani, hipster e lanciati a conquistare il mondo attraverso la cultura del vino. È un luogo inconsueto, molto funk: design, architettura e arte, tra vintage e contemporaneo, cortili da picnic e vecchi depositi in mattoncini recuperati; sono le location insolite di una passeggiata dalle mille soste, ognuna dedicata a un vino e a un cibo da scoprire.

Non si può lasciare Santa Barbara senza una tappa ai giardini di Lotusland, uno dei dieci migliori al mondo, ricco di collezioni spettacolari di piante esotiche. Si lascia la Pacific1 per una piccola digressione su, nel verde fitto della collina di Montecito: tempo premiato, ogni angolo al Lotusland è una sorpresa. Poi via giù di nuovo, si procede per Malibù.

 

Luna Red | Usa | California | San Luis Obispo | 1023 Chorro St | Http://Www.Lunaredslo.Com/

Slo Provisions | Usa | California | San Luis Obispo | 1255 Monterey St | Http://Www.Sloprovisions.Com/2

Granada Bistrot | Usa | California |San Luis Obispo | 1130 Morro Street |Http://Www.Granadahotelandbistro.Com/#Granada

The Station| Usa | California |San Luis Obispo | 311 Higuera | Https://Thestationslo.Com/

Slow Wine | Usa | California | Sulle Trace Dei Vini Http://Www.Slowine.Com/

 

Bacara Resort & Bistrot | Usa | California | Goleta | 8301 Hollister Ave | Http://Meritagecollection.Com/Bacararesort/?Nck=8442760955

Stearn Wharf | Usa | California | Santa Barbara | Http://Www.Stearnswharf.Org

Shellfish & Co. | Usa | California | Santa Barbara | Http://Www.Shellfishco.Com/

Urban Wine Trail | Usa | California | Santa Barbara | Http://Www.Urbanwinetrailsb.Com/

Santa Barbara Wine Collective | Usa | California | Santa Barbara | 131 Anacapa St. | Http://Www.Santabarbarawinecollective.Com/

Ganna Walska Lotusland | Usa | California | Santa Barbara |Http://Www.Lotusland.Org/

 

 

a cura di Emilia Antonia De Vivo

 

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Anteprime 2017. Vini di Romagna e Sagrantino alla prova degustazione

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Dopo la presentazione delle nuove annate toscane, adesso tocca a Romagna e Umbria. Per i vini romagnoli la sfida passa dall'estero, per il Sagrantino si chiama eleganza.

Anteprima Vini di Romagna (19 e 20 febbraio)

Nell'anno del cinquantenario della Doc Romagna Sangiovese, la cittadina di Faenza ha rinnovato l'appuntamento con Vini ad arte, l'anteprima giunta alla 12ma edizione che ha richiamato nel comune della ceramica oltre 700 visitatori, con 40 aziende partecipanti (mille le bottiglie aperte), in rappresentanza di un territorio, la Romagna, che può dirsi un gigante del vino italiano. Esteso tra le province di Bologna e Rimini, con 16 mila ettari vitati iscritti a Doc e Docg, questo comprensorio conosciuto per l'alta densità produttiva ha lavorato a innalzare il livello qualitativo dei suoi vini, rinnovando i vigneti di collina a partire dagli anni Novanta e, più di recente, introducendo dodici menzioni geografiche aggiuntive per il principe dei vini romagnoli: il Sangiovese di Romagna Doc. L'anteprima del 19 e 20 febbbraio, ospitata all'interno del Mic (Museo internazionale della ceramica) è stata in primis l'occasione per conoscere l'annata 2014, caratterizzata da condizioni metereologiche instabili che si sono susseguite dalla primavera a fine estate, come spiega Cristina Geminiani,portavoce del Convito di Romagna:"Qualcuno la definirebbe complessa, che ha richiesto un’attenta conduzione del vigneto e una rigorosa selezione dei grappoli. Tutto ciò ha permesso di realizzare vini snelli, ma di buona qualità".

Guardando al futuro, si profila una novità per l'edizione 2018: se la kermesse faentina nel 2017 è stata calendarizzata dopo le Anteprime Toscane, per la 13ma tappa si sta pensando di posizionarla poco prima, senza soluzione di continuità e sempre in modo da mantenere il filo conduttore in nome del vitigno Sangiovese. La decisione spetterà al nuovo cda, e al nuovo presidente, che sarà eletto tra qualche mese: l'assemblea potrebbe essere convocata prima della Pasqua, ad aprile.

I numeri della denominazione

L'Anteprima ha permesso anche di fare il punto sull'aspetto economico della realtà romagnola, che da sola conta oltre 7.100 ettari vitati, per una produzione di 11,7 milioni di bottiglie con 3.800 viticoltori interessati. In questa terra, dove le tracce del vino Sangiovese si ritrovano già da metà del Seicento, la Doc Sangiovese sta crescendo gradualmente. Il +3,6% degli imbottigliamenti fatto registrare nel 2016 è un buon segnale, ad avviso del presidente consortile, Giordano Zinzani (Caviro): "Mantenere il segno più in un anno problematico non è cosa da poco. E vorrei sottolineare anche il +21% sul 2015 del nostro bianco, l'Albana Docg. Altro aspetto positivo è stato l'aumento dei soci iscritti al consorzio, passati da 103 del 2012 a 116 dello scorso anno". Enio Ottaviani, San Patrignano, Piccolo-Brunelli, Villa Papiano sono solo alcune delle new entry. Il Consorzio Vini di Romagna, nato nel 1962, associa 8 cantine cooperative, 98 produttori vinificatori, 8 imbottigliatori e 5.800 aziende viticole iscritte agli albi delle vigne Doc e Docg. Erga omnes dal 2012, gestisce dieci denominazioni, per un totale di 86 milioni di bottiglie tra Doc (11,7 mln) e Igt (soprattutto Rubicone). Il territorio, compreso in quattro province (Bologna, Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini), rappresenta il 30% della superficie vitata della regione (è esteso per oltre 100 km) e produce oltre il 60% dei vini di tutta l'Emilia Romagna. Il Sangiovese, in particolare, è suddiviso in 12 menzioni geografiche aggiuntive, operative dall'annata 2013.

Quale mercato?

La Romagna vitivinicola non è certamente un territorio che sta facendo registrare grandi movimenti di mercato, con cessioni e acquisizioni, come in altre zone d'Italia. Il valore medio di un vigneto qui si aggira sui 50 mila euro per ettaro: cifra alquanto bassa, ma se si lavorerà bene all'estero le cose potrebbero cambiare. "Il positivo andamento dei mercati per il Sangiovese denota come ci sia voglia di questa tipologia di vino", fa notare l'enologo Francesco Bordini (Noelia Ricci/Pandolfa) "ed è proprio questo che sta dando alle aziende il coraggio di andare avanti".

Oggi, le cantine del Consorzio vini di Romagna imbottigliano e commercializzano il 75% dei vini a Do e il 60% dei vini a Ig della Romagna. Per due terzi, i vini romagnoli vengono consumati sul territorio nazionale (più della metà nella stessa Emilia Romagna), prevalentemente in Gdo (47%), Horeca (40%) e per un 13% a privati. Quasi una cantina su dieci effettua la vendita diretta. Per quanto riguarda l'export, la quota sui volumi totali è del 34%, assorbita da Gran Bretagna, Giappone, Germania, Stati Uniti, Svizzera e Canada. Il consorzio sta sfruttando a pieno gli strumenti promozionali concessi dalle misure dei Psr regionali e dall'Ocm vino: "Tutte le iniziative di promozione vengono concordate in seno a una commissione nel cda. E la maggior parte di queste" sottolinea Zinzani "sono rivolte a piccole aziende, non tanto ai grandi produttori che hanno la possibilità di affrontare direttamente i mercati". E così, a breve una dozzina di aziende sarà alla fiera Prowein, in circa trenta saranno a Vinitaly in uno stand comune e a fine anno è prevista una tappa negli Stati Uniti: "Durante l'anno sono previste uscite pubblicitarie sulla carta stampata" aggiunge "in testate internazionali di settore".

Master del Sangiovese

Non accadeva dal 2013 che il Master del Sangiovese andasse a un sommelier romagnolo. A riportare in regione il titolo nella 16ma edizione, svoltasi al Mic di Faenza, è stato Marco Casadei, classe 1985, forlivese, che ha preceduto il livornese Massimo Tortora (terzo classificato nel 2016 e sempre secondo nel 2015) e il bresciano Artur Vaso. I tre sommelier Ais finalisti di questo 2017 si erano distinti tra una decina di partecipanti provenienti da Lombardia, Veneto, Toscana e da Emilia Romagna. Oltre a un premio da 2.500 euro, Casadei volerà a Los Angeles per partecipare al corso Master of Sangiovese tenuto dalla North American Sommelier Association (N.A.S.A).

Anteprima Vini di Romagna | 19 e 20 febbraio | www.consorziovinidiromagna.it

Anteprima Sagrantino (20-21 febbraio 2017)

Sono state 31 le cantine che hanno offerto in assaggio il Montefalco Sagrantino 2013, che quest’anno compie 25 anni dalla promulgazione dalla Docg. Complessivamente sono stati circa 200 i vini in degustazione, tra cui Montefalco Rosso 2015, Montefalco Rosso Riserva 2014 e Montefalco Bianco (nelle versioni Trebbiano Spoletino e Grechetto). Positivo il parere sulla vendemmia 2016, sia per il Montefalco Sagrantino sia per il Montefalco Rosso. Ci si attende, per quanto riguarda il primo, un’annata caratterizzata da vini eleganti e setosi, con un’ottima struttura e una componente acida importante, destinata al lungo invecchiamento. Per quanto riguarda i bianchi, l’annata si presenta piena ed equilibrata, ricca di profumi e di aromi. Da bere subito, ma anche da tenere in cantina. Per quanto riguarda l’annata 2013 è stata valutata quattro stelle dai tecnici che hanno avuto modo di confrontarsi con vini dai buoni colori, con pH leggermente elevati e tannini morbidi. Caratteristiche che garantiscono un’ottima qualità, nonostante le difficoltà sopraggiunte dal punto di vista climatico e soprattutto dalla peronospora.

Tra i temi caratterizzanti di questa edizione, l’attenzione alla sostenibilità con il progetto di Grape Assistence per la riduzione dell’uso di fitofarmaci. Spiega Amilcare Pambuffetti, presidente del Consorzio di tutela Vini di Montefalco “Si tratta di un sistema di stazioni meteo connesse alla Rete che si scambiano dati utili per decidere interventi in tempo reale. Attualmente l'uso dei fitofarmaci è stato ridotto di circa il 40%, ma se tutte le aziende del Consorzio sposassero il protocollo, sarebbe possibile risparmiare ben 88 mila euro relativi ai soli prodotti chimici”. Il progetto, dopo essere stato testato a Montefalco, sarà esteso a tutta l’Umbria.

I vini di Montefalco oggi

Il Sagrantino sta cambiando molto. Non più vini pesanti e dalla pronunciata tannicità di cui farsi vanto, ma ricerca dell’eleganza e dell’equilibrio. Per chi vuole vini meno strutturati c’è sempre il Montefalco Rosso, in grado di soddisfare sia l’esigenza della bevibilità sia quella di una spesa più contenuta. Secondo Filippo Antonelli dell’omonima azienda “La nuova impostazione dei vini è il risultato sia dei nuovi vigneti sia delle rinnovate attenzioni in vinificazione”. E poi aggiunge, quasi fosse uno slogan: “Il Sagrantino non è solo tannino, così come Montefalco non è solo Sagrantino”. Infatti, gli aromi del Trebbiano Spolentino stanno conquistando sempre più spazio, anche se la gelata dello scorso 25 aprile ha ridotto le quantità, decurtando allo stesso modo il Grechetto. Un po’ come era successo nel 2013 con il Sagrantino che, falcidiato dalla peronospora, aveva dato quantità scarse (812 mila bottiglie contro 2 milioni del 2015). Da registrare che gli operatori esprimono preoccupazioni perché l’effetto terremoto del Centro Italia si sta facendo sentire. L’area, pur non essendo stata toccata dai sismi, soffre di una contrazione delle presenze. I vini di Montefalco avendo incrementato l’export (al 60%) hanno limitato le perdite registrate dai tradizionali canali quali vendita diretta, esercizi di Montefalco o in Regione. Per questo motivo lo sviluppo del turismo continua ad essere strategico.

I numeri di Montefalco

I vigneti di Montefalco Doc attualmente raggiungono 410 ettari, mentre la superficie di vigneto iscritta al Sagrantino Docg, dal 2000 al 2015 è quintuplicata (da 122 a circa 610 ettari). Dal 2000 ad oggi la produzione del Sagrantino è triplicata: da 660 mila ad oltre 2 milioni di bottiglie. I Vini di Montefalco rappresentano il 16,7% della produzione di vino regionale, di cui il Sagrantino Docg rappresenta il 6,3%, e il Montefalco Doc il 10,4%. I principali Paesi di destinazione dell'export (circa il 60%) per i vini di Montefalco sono: Usa (25%), Germania (12%), Cina (7%), Svizzera (4%), Inghilterra (4%), Danimarca (4%), Giappone (4%), Canada (4%), Olanda (4%), Belgio (4%), Hong Kong (2%). Il Sagrantino oggi muove un giro d’affari stimato in 35 milioni di euro, che arrivano a 100 con l’indotto.

Il Giro d’Italia e la tappa tra i vigneti di Sagrantino

Il prossimo 16 maggio, la decima tappa del Giro d’Italia, sarà all’insegna del Sagrantino. Si tratta di una crono da 39,2 chilometri che si snoderà dal fondovalle (Foligno) alla Piazza del Comune di Montefalco, dopo aver attraversato Bevagna e passando da un dislivello di 220 m. s.l.m. ai 472 dei rilievi collinari più elevati. Se per il Giro si festeggia l’edizione numero 100, per il Sagrantino si celebrano i 25 anni della Docg. (1992).

Anteprima Sagrantino | 20 e 21 febbraio | www.consorziovinidiromagna.it

a cura di Gianluca Atzeni e Andrea Gabbrielli

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 23 febbraio

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Arte e cibo a Madrid. Food hall e sinergie trasversali al Salone d'Arte Contemporanea ARCO

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È un sodalizio che esplora territori diversi quello tra cibo, design, creatività e artigianalità. Che insieme raccontano il mondo del gusto e quello dell'arte, a braccetto per intrattenere il pubblico delle grandi occasioni – come nelle food hall di celebri saloni di settore – o l'uno ispirazione per l'altro, per inediti esempi di mecenatismo enogastronomico. L'esempio di Madrid.  

Arte e cibo. Una sinergia che si rinnova

La storia potrebbe cominciare da Granada, scrigno di bellezza secolare, che alla dominazione araba deve i celebri ricami intagliati nella pietra rossa, tra facciate affastellate a protezione della roccaforte dell'Alhambra. O tra gli stand riuniti sotto la volta della Galeria de Cristal di Madrid, in Plaza de Cibeles, dove fino al 26 febbraio va in scena l'edizione 2017 di Art Madrid, una delle manifestazioni di arte contemporanea tra le molte collaterali al più celebre salone internazionale di ARCOmadrid, che giunto alla sua 35esima edizione continua a radunare collezionisti dalla Spagna e dal mondo tra le opere delle principali gallerie del Paese (quest'anno con una nutrita rappresentanza di galleristi e artisti in arrivo dall'Argentina, la nazione ospite). Che il connubio tra arte e chef, cibo e design sia una strada che regala soddisfazioni è cosa ben nota ai frequentatori dell'uno e dell'altro mondo, quello dell'enogastronomia non meno del campo d'azione di artisti e creativi in cerca di ispirazioni trasversali e accattivanti. E così non sono pochi i sodalizi che si rinnovano in occasione di manifestazioni e fiere di settore: da anni ormai i più noti saloni d'arte - da Frieze ad Art Basel, ad Arco, per l'appunto - fanno a gara per offrire al proprio pubblico abituale un'offerta gastronomica stimolante e varia. Non lo stesso si può dire delle fiere italiane, molto spesso schiave degli accordi di esclusiva con i big della ristorazione industriale che monopolizzano i nostri enti fiera. Dal canto loro, non poche realtà dell'industria alimentare e della ristorazione individuano in queste grandi manifestazioni un'opportunità per raggiungere nuovi target, e – ancor più spesso – rilanciare la propria immagine grazie all'apporto creativo di artisti desiderosi di cimentarsi con committenze insolite.

 

Le food hall temporanee. Mangiare ad Arco Madrid

Quel che ne deriva, se vogliamo tracciare un'analisi di costume, è il proliferare di food area che assommano in fiera insegne votate allo street food di qualità e ristorazione veloce curata nei contenuti e nell'immagine. Ad Arco, per esempio, anche l'edizione 2017 presenta al pubblico che sceglie di trascorrere una giornata tra i padiglioni di Ifema una foodhall allestita dall'architetto Andrès Jaque con tavoli in legno, lucine colorate da sagra paesana – con quell'allure naif che oggi fa tendenza – corner brandizzati sistemati di tutto punto per ricreare l'atmosfera di un ristorante: c'è la proposta di Lateral, celebre insegna madrilena, e l'area affidata allo staff de La Florida per l'acqua Solan de Cabras, la cucina orientale di Sushita e il caffè di illy, il catering di Vilaplana. E la cerveceria di Alhambra, che i visitatori ammessi alla Vip Lounge (design di Briales del Amo, Patricia Reznak e Loreto Ramon-Solans) ritrovano nell'elegante piccolo bar disponibile per degustazioni guidate delle tre etichette del birrificio andaluso (Especial, Reserva 1925, La Roja), accanto allo spazio total black di Ruinart, che dispensa calici di bollicine francesi e stuzzichini per l'aperitivo. Si mangia, dunque, e si beve bene.

Foto Araceli Vazquez

 

Performance in fiera

Stessa sorte per gli ospiti di Art Madrid, che sono invitati a scoprire il gin di Hendrick's attraverso un espediente che non passa inosservato, la performance dello street artist Misterpiro, che ogni giorno improvvisa sul momento dipingendo su una tela piuttosto insolita: un cetriolo, in omaggio al simbolo della casa, che nella ricetta consigliata finisce a guarnire il gin (e l'Espacio Hendrick's in galleria, arredato con cetrioli rampicanti, non fa che ribadire il concetto). Ma nella Lounge area si può anche mangiare: jamon iberico Fisan con un bicchiere di birra La Virgen o un calice di vino rosso spagnolo. Partnership che non fanno che confermare quanto prolifico e usuale sia ormai il rapporto tra le due realtà.

Mecenatismo enogastronomico

Proprio Alhambra, e il suo legame con il territorio che ha visto nascere il birrificio nel 1925 nel cuore di Granada, rappresentano un ottimo esempio di come l'industria alimentare possa farsi mecenate dell'arte (in Italia sono celebri soprattutto i casi di tante aziende vinicole, da Ceretto in Piemonte a Cantina Petra in Toscana, a Ciccio Zaccagnini in Abruzzo), sfruttando a propria volta le ricadute positive in termini di marketing, comunicazione e restyling del brand. E questo è l'altro fenomeno di costume da evidenziare. In occasione di Arco, il birrificio andaluso un tempo artigianale e oggi legato al gruppo Mahon, ha voluto ribadire l'evoluzione in atto in chiave di riposizionamento del brand apponendo la propria firma in fiera. Non limitandosi cioè a gestire uno spazio nella foodhall, ma facendosi promotore di un premio all'arte emergente, che ha ricompensato gli sforzi di cinque giovani artisti, tutti ispirati da Granada, dagli arabeschi dell'Alhambra, dalla catena produttiva della birra omonima, che ancora cerca di mantenere traccia della sapienza artigiana delle origini. E trova terreno comune con il fare artistico proprio sul versante della manualità.

Un primo passo verso la costituzione di un Fondo Artistico permanente di Cervezas Alhambra, che in passato ha trovato precedenti nel sodalizio con alcuni importanti artisti spagnoli, come Martin Azua, che per il progetto crear/sin/prisa (creare senza fretta) ha esposto nel barrio del Born di Barcellona l'opera Parar, un tappeto di 50 metri quadri realizzato a mano, ideato come arredo urbano e illuminato con video mapping per riprodurre delle impronte. Prima ancora, a Valencia, era toccato alla street artist Raquel Rodrigo, in occasione del festival Intramurs, che al telaio ha lavorato ispirata dalle architetture dell'Alhambra. Solo alcune delle molteplici possibilità che uniscono il mondo dell'arte a quello del cibo. E i loro interessi, non solo a tavola. 

 

a cura di Livia Montagnoli

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