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Francesco Mazzei apre Radici, quelle del Sud. E guida la carica dei ristoranti italiani a Londra

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Da vent'anni Francesco Mazzei vive a Londra, dove oggi è una chef star. E agli inglesi ha fatto scoprire i sapori della sua Calabria. Ora raddoppia con Radici, trattoria sull'orgoglio gastronomico del Sud. Ma non è l'unico a scommettere sulla cucina italiana in una città sempre più tricolore. In barba alla Brexit. 

Francesco Mazzei. Calabrese a Londra

I natali sono dichiaratamente calabresi, e Francesco Mazzei, chef cresciuto mediaticamente a Londra, tra Masterchef UK e tanti programmi di cucina prodotti dalla BBC, non fa nulla per nasconderlo. Anzi, la sua idea di ristorazione italiana all'estero, alla conquista del pubblico inglese, grida con orgoglio l'appartenenza a un territorio che solo recentemente sta scalando la ribalta dei palcoscenici internazionali (all'inizio dell'anno il New York Times ha inserito la Calabria tra le 52 mete turistiche imperdibili del 2017, anche per merito della sua offerta gastronomica). Lui invece, la cucina regionale – ancor prima che italiana – la difende e la valorizza sul campo già da qualche tempo, anima de La Sartoria, non distante da Piccadilly Circus. Prima è stato il turno del Santini a Edimburgo, poi sono arrivati Franco's e L'Anima, sempre nella capitale inglese. E oggi a Londra (dove vive da 20 anni), tra cipolle di Tropea e 'nduja, è diventato una star. Ecco perché lo chef di Cerchiara di Calabria è pronto per guardare ancora oltre, e il prossimo aprile inaugurerà Radici, una trattoria tricolore nel quartiere di Islington per celebrare la cucina del Sud: non solo Calabria, ma pure Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia e Sardegna.

 

Le Radici del Sud

A cominciare dalla selezione di salumi e formaggi, per proseguire con i piatti dell'infanzia, pochi, selezionati, a un prezzo contenuto: Umido di baccalà e Ferrazzuoli – una pasta acqua e farina con ragù misto di agnello, maiale e vitello – o l'Involtino di fegato servito con purè di patate affumicate. Ma anche il menu della domenica, quello per ritrovarsi in famiglia intorno a una tavola imbandita di cibo semplice e prodotti buoni. E poi pane e pizza fatti in casa, nel forno a legna che riscalderà il cuore della trattoria, ridisegnata da uno studio di architettura londinese dove fino a qualche settimana fa c'era il ristorante Almeida, per riflettere un ambiente informale, moderno, che ricordi però la Calabria nella spigolosità di certi dettagli, ispirati alla costa della punta dello Stivale. Sempre protagonista della scena. Alla guida della cucina ci sarà il braccio destro di Mazzei, lo chef che lo affianca da più di dieci anni, Antonio Mazzone: insieme imposteranno il menu sulla base di un confronto costante, che tenga conto della stagionalità. Mentre il format è stato sviluppato con l'appoggio del gruppo di ristorazione D&D London, già proprietario degli spazi in Almeida street, civico 30, che presto esporranno l'insegna Radici, e partner de La Sartoria, a Mayfair.

 

Gli altri “italiani” in città

È decisamente un buon momento per la cucina (e la pizza: Da Michele apre battenti in città proprio oggi!) italiana a Londra, lo confermiamo ogni giorno: dopo Luca by Isaac McHale, l'esperimento anglo-italiano di Fucina, la tigella di Lionello Cera e Roberta Pezzella da Manitoba, febbraio vedrà l'apertura di Hai cenato al Nova Complex di Victoria, che presto ospiterà pure il terzo punto vendita di Shake Shack in città. Il primo esperimento italiano del gruppo The Social Company si affida alla supervisione di Jason Atherton, già proprietario della Social Eating House di Soho, e al suo chef stellato Paul Hood. Ristorante italo-newyorkese (?) e cocktail bar – The Drunken Oyster – per conseguire l'ennesimo successo in città: il gruppo conta già otto insegne a Londra, e non è un caso che per la nona apertura abbia scelto il blasone italiano. La congiuntura è decisamente favorevole.

 

Radici | Londra | Almeida street, 30 | da aprile 2017 | www.facebook.com/radicin1/?fref=ts

 

a cura di Livia Montagnoli


Il galateo a tavola: la logica delle buone abitudini nel libro di Elda Lanza

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92 anni, scrittrice e giornalista con una decina di libri all’attivo tra gialli, romanzi e saggi, prima presentatrice della televisione italiana, esperta di galateo e comunicazione, docente di Storia del Costume. La signora Elda Lanza torna in libreria con un nuovo lavoro sul galateo, strizzando l’occhio ai comportamenti a tavola.

Quando si sente parlare di galateo a tavola, chi non ne sa molto immagina spalle contratte, soggetti imbalsamati intenti a mangiare con la boccuccia da selfie, formalità e rigidità nei comportamenti. A sdoganare queste abitudini del pensiero comune e a portarci sulla retta via, arriva il libro Il tovagliolo va a sinistra di Elda Lanza, che si concentra su altre questioni: la pizza va mangiata con le mani o con coltello e forchetta? La scarpetta è concessa a tavola? Perché il vino si versa con la mano destra? La risposta e tutte queste domande nel saggio di facile lettura che ripercorre, nel tempo, la società dell’educazione attraverso la logica del galateo ricondotta a situazioni comuni (negli uffici pubblici, tra amici, tra estranei, in ufficio, al telefono) con un particolare focus sulla tavola, quello su cui si concentra la nostra intervista a Elda Lanza.

 

Elda LanzaElda Lanza

 

Cosa rappresenta il galateo?

Il galateo è innanzitutto logica: il cucchiaio va a destra del piatto perché si usa con la destra, la forchetta a sinistra perché si usa con la sinistra, ed è diverso dall’educazione. L’educazione nasce dall’affettività, dalla famiglia, ha un linguaggio: “grazie”,“prego”,“scusa”,“per piacere”,“buonanotte”. Il galateo, invece, è una specie di codice della società che dice: “se tu sai queste regole, appartieni a un gruppo di persone che sa le stesse regole”. Se mi siedo a tavola e vedo una persona che mangia il pesce con coltello e forchetta, capisco che è una persona che non sa il galateo, che non appartiene al mio gruppo.

 

Perché la necessità di un galateo?

Per riscrivere delle regole e adeguare la gente al cambiamento della società, del mondo, della vita. Il galateo, dal 1557, è il libro più riscritto al mondo con lo stesso titolo.

 

Si parlava di logica: il cucchiaio va a destra perché si usa con la destra. Ma il tovagliolo, invece, perché va a sinistra?

Il tovagliolo per molti anni è andato a destra, per via della storia della mano buona (destra) e della mano cattiva (sinistra). Inizialmente si usava un pezzo di pane: ci si puliva la bocca e poi lo si mangiava. Invece, il primo tovagliolo inteso come tale era un cencio che si usava mettere sulla spalla destra per prenderlo con la mano sinistra, dato che la destra era occupata a mangiare. Dopodiché, a partire dal ‘600, dalla spalla è passato all’incavo del gomito destro. In quegli anni si mangiava con la mano sinistra. Siamo arrivati ai giorni nostri. Questo tovagliolo non ha avuto pace: sul piatto, sotto al piatto, dentro al bicchiere, era diventato ormai un oggetto di ornamento della tavola.

 

E oggi?

Oggi va a sinistra perché, se lo si mette a destra con cucchiaio, coltello e i due bicchieri (acqua e vino), a sinistra rimane solo la forchetta con il pane, significa che la tavola è squilibrata. Inoltre, se si deve prendere il tovagliolo da destra e metterlo sulle ginocchia, si alza con la mano sinistra e si apre con la destra usando le due mani. Provate a metterlo a sinistra: con le dita della mano destra si alza e si mette con un gesto solo sulle ginocchia. Quindi il tovagliolo si tiene sulle ginocchia e si riporta sulla tavola a fine pranzo, a sinistra, non piegato ma appena stropicciato per far intendere che è stato usato.

 

Nei ristoranti di oggi, anche nell’apparecchiatura della tavola, si rispetta il galateo oppure no?

Ci sono camerieri provenienti da scuole serie che hanno imparato cosa sia giusto o non giusto da fare. È difficile fare cose troppo sbagliate, ma si fanno cose stupide, questo è abbastanza vero: si mettono posate che non servono, sottopiatti con il tovagliolo. I piatti messi a tavola uno sull’altro, per esempio, mi rattristano perché immagino che la mano del cameriere nel togliere il primo, vada a toccare il piatto di sotto dove io dovrei mangiare l’altra pietanza.

 

Nei catering o in ristoranti con moltissimi coperti, però è difficile evitare di mettere i piatti uno sull’altro

È quasi impossibile. Ho provato ad andare in giro per catering a capire questa storia, ma è evidente: il cameriere è un costo altissimo, quindi meno camerieri hanno e più possono tenere un prezzo equo, a questo punto nei servizi devono organizzarsi mettendo già pronti i coperti con i piatti uno sull’altro. Ecco perché ci troviamo di fronte, molto spesso, a cose sbagliate. Il cameriere però, solitamente sa quello che deve fare, purtroppo lo disimpara perché ha clienti che non sanno mangiare: ad esempio, se un cliente conosce il galateo sa che mettendo le posate in un certo modo comunica al cameriere di volere ancora quella pietanza. Però, non è colpa di nessuno.

 

Visto che siamo in tema, secondo il galateo la mancia al cameriere è prevista?

Non credo che il galateo entri in questa cosa, ma c’entra di più il buon senso. La mancia serve per dimostrare al cameriere gentile che abbiamo gradito il suo sforzo. Ma non è detto che bisogna farlo tutte le volte, non è un obbligo. Di solito si va tra il 7-10% del conto. Il galateo non ne parla, indica solo il modo di metterla.

 

E come va data la mancia secondo il galateo?

Se il cliente paga con la tessera, al momento del pagamento può dire di aggiungere un tot, oppure la mette nel libricino con i contanti. Non si mette sulla tavola e si dice: “questo è per lei!”. La mancia non va mai ostentata perché mette a disagio chi la riceve.

 

Ci può svelare qualche curiosità sull'apparecchiatura della tavola?

Tutti usano il coltello con la forchetta anche quando il coltello non serve: la frittata, la verdura cotta, la pasta al forno si tagliano solo con la forchetta, per il pesce si aggiunge un pezzo di pane. C’è poi una cosa che mi fa molto ridere: andare a tavola e trovare le posate della frutta (coltellino e forchettina) messe rigorosamente oltre il piatto. Ora vorrei sapere chi mi invita a cena e mi offre una mela o una pera da tagliare con coltello e forchetta, da cancellare dalla lista degli amici! Per cui le posate della frutta spariscono dai nostri servizi perché non servono più, ma perché abbiamo imparato a non offrire una mela o una pera.

 

Per il servizio del vino, invece?

Altra curiosità sulla mescita del vino: si dice che versare il vino con la mano sinistra, e ruotando la mano facendo un movimento verso l'esterno, porti sfortuna, certo è così! Ai tempi dei Medici negli anelli mettevano il veleno e versando il vino alla rovescia aprivano l’anello e il veleno cadeva nel bicchiere. Probabilmente non è vero, però ci ha insegnato che è un brutto gesto vedere la mano rovesciata che versa il vino, con la mano destra il gesto è più delicato e consono.

 

Tornando a forchetta e coltello, la pizza va mangiata con le mani o con coltello e forchetta?

Io sono di origine sicula e la mangio rigorosamente con le mani, e se la mangi con coltello e forchetta un po’ perde. E poi, in quale pranzo importante è mai successo di mangiare la pizza? Mai! Sempre in un pranzo o in una cena amichevole. La mani si possono usare a tavola. Trovo lezioso, ad esempio, quelli che mangiano i pesciolini fritti con coltello e forchetta, mi fan venire i brividi. Il cuoppo napoletano si mangia con le mani. Non dimentichiamo che le mani sono la prima forchetta e coltello che abbiamo avuto e sono ancora valide.

 

Quindi non è maleducazione magiare con le mani?

Basta farlo con grazia, certo se si fa con il ditino alzato come se stessi lavorando all’uncinetto è una cosa ridicola. La naturalezza è la base, non del galateo, ma dell’educazione.

 

Dobbiamo scordarci il piacere della scarpetta a tavola?

La scarpetta a tavola non si fa, è un gesto infantile che sporca le mani. Non parliamo, poi, di quelli che usano la forchetta infilzando il pezzo di pane per fare la “scarpetta elegante”! La scarpetta si fa eventualmente in casa, ma se si è a un pranzo informale e c’è un sughetto meraviglioso, si può prendere un pezzo di pane e dire alla cuoca: “Non voglio lasciarti questa salsina perché è buonissima”: non pulisco il piatto, ma intingo. La padrona di casa è felice perché le si dà un riconoscimento ad alta voce e io lo sono perché ho spizzicato. Durante un pranzo formale non si fa.

 

Il galateo va applicato anche in casa con amici e parenti o solo per pranzi formali?

Sì! Perché il galateo semplifica le cose. Sembra che in casa siano permesse delle cose che poi in pubblico sono vietate ed è un errore perché se ci si abitua in casa a certi gesti, quando si è con gli estranei verranno ripetuti naturalmente. Se a tavola impari a mangiare con cortesia senza gomiti appoggiati, senza urla, senza spalancare la bocca, ma pensando che hai di fronte delle persone a cui darebbe fastidio, questo diventa abituale.

 

Come ci si comporta se siamo a tavola con ospiti stranieri quando il galateo è diverso?

Prendiamo l’esempio degli inglesi: mentre mangiano usano tenere la mano non occupata sulle ginocchia, cosa che per il nostro galateo sarebbe un errore. Però non va intesa come qualcosa di stravagante, è una loro abitudine che continueranno a rispettare, come noi rispetteremo la nostra anche se a tavola insieme. Non è un errore né in un senso, né nell’altro.

 

È vero che il carattere di una persona si vede a tavola?

Se condividiamo la tavola con una persona affettuosa, educata, seduta con i gomiti attaccati al corpo che mangia con la bocca chiusa, che parla a voce bassa, che non si soffia il naso rumorosamente, è facile capire che si può andare d’accordo. La tavola è un posto piccolo, dove si sta gomito a gomito, dove l’attenzione per gli altri è altissima. Se sei capace di essere attento agli altri, sei una persona amica.

 

Il tovagliolo va a sinistra

Il tovagliolo va a sinistra | Elda Lanza | Vallardi Editore | pagg. 304 | 14,90 euro

 

a cura di Antonella Dilorenzo

 

Chiude lo storico Farmer's Market del Circo Massimo a Roma? In estate una nuova sede per i produttori di San Teodoro

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Il 31 gennaio è scaduta la concessione dei locali dell'ex mercato ebraico del pesce al Circo Massimo, che tutti i fine settimana ospita il mercato contadino di Campagna Amica. Ora l'amministrazione è intenzionata a bandire una nuova gara, e i produttori del Farmer's Market potrebbero essere costretti a spostarsi. Le aree alternative sono state individuate, ma si naviga a vista. 

Mercati contadini... In città

Oggi che di chilometro zero, filiera corta e alimentazione consapevole si parla tanto, e spesso a sproposito per ammantarsi di un valore che difetta nella sostanza, ognuno può vantare un'esperienza  al mercato contadino di quartiere. Anche nelle grandi città, che sembrano aver riscoperto il legame storico (e prolifico) con le campagne con le circondano, sulla strada di una concreta valorizzazione di quella vocazione agricola per cui l'Italia è celebre nel mondo. Un'attitudine diffusa su tutto il territorio nazionale, radicata per motivi culturali, sociali, paesaggistici, ancor prima che economici, e oggi di nuovo sotto i riflettori per una rinnovata fiducia nel comparto agroalimentare. A Roma, l'esperienza del mercato di Campagna Amica (Coldiretti) in via di San Teodoro – a pochi passi dal Circo Massimo – ha fatto scuola, da tempi non sospetti, quando di stagionalità, coltivazioni bio, produttori “eretici” ancora si parlava poco. E oggi la rete di aziende contadine che ogni fine settimana si ritrovano negli spazi dell'antico mercato ebraico del pesce costituisce un'attrattiva in più per i turisti a passeggio nel centro della città, ma pure un'opportunità per riscoprire la tradizione rurale del territorio laziale.

 

Il mercato di San Teodoro. Orgoglio laziale

E tanti sono i romani che nel week end si aggirano tra gli stand per riempire la sporta della spesa di prodotti certificati (per far parte del circuito, i produttori associati Coldiretti devono sottoscrivere un disciplinare di qualità): broccoli romaneschi, carciofi di Cori, puntarelle, olive di Gaeta, miele e tartufi di Campoli Appennino, formaggi regionali – dalla Marzolina al Caciofiore di Columella – latte fresco crudo alla spina e carni da allevamento certificato. E poi pane casareccio di Genzano, pasta, legumi, olio dop: un ricco paniere regionale che varia secondo stagione, e la possibilità di fermarsi a consumare un pasto veloce al mercato, sopraggiunta in un secondo momento – qualche tempo fa – quando il modello del mercato contadino ha cominciato ad attirare un pubblico sempre più trasversale. E gli esempi in città, solo per restare nel perimetro della Capitale, hanno cominciato a moltiplicarsi. Ma il fascino del mercato di San Teodoro, lo spazio concesso anche alla somministrazione, la sua posizione privilegiata e il suo primato, difficilmente sono eguagliabili. Lo sa bene l'amministrazione cittadina, che ora – il termine per la concessione dello spazio era fissato al 31 gennaio 2017 – si troverà a fare i conti con la necessità di ricollocare il Farmer's Market del Circo Massimo altrove.

 

Un trasloco nel futuro del Farmer's Market?

Il progetto, si apprende dai documenti ufficiali, era stato autorizzato – peraltro senza bando – dall’amministrazione Alemanno stabilendo una durata massima, che, appunto, è arrivata a conclusione. Ma visti i risultati raggiunti negli ultimi anni è impensabile l'idea di interrompere l'esperienza, anche se la struttura dell'ex mercato ebraico necessita ora di una riqualificazione degli spazi inderogabile. E allora l'assessore allo Sviluppo Economico, Turismo e Lavoro Adriano Meloni e il suo Ufficio sono già al lavoro per garantire continuità al progetto (oltre che per preparare un regolamento complessivo su tutti i Farmer’s Market). Che in concreto significa individuare nel minor tempo possibile un nuovo spazio per ricollocare il mercato; al momento le aree in ballottaggio, tutte limitrofe a via di San Teodoro, spaziano da piazza Albania a via di Santa Prisca, a via Salvator Rosa, nei pressi di piazza Bernini. Ma la procedura dovrà essere ufficializzata tramite avviso pubblico, per assegnare la destinazione alle attività del Farmer's Market. Ed è molto probabile che i termini si protrarranno fino all'estate. Intanto quale sarà la sorte dei produttori del mercato? “Per questa settimana si continua” ribadisce Maurizio Ortolani del Coordinamento Campagna Amica Lazio “e così sarà fino a quando non avremo comunicazioni ufficiali”. Quella che si profila per le prossime settimane, a quanto pare, è una situazione di stallo, un'ulteriore proroga destinata ad avere vita breve. Anche perché, e Meloni lo sottolinea, “i lavori alla struttura non possono attendere”. Poi si dovrebbe procedere a riassegnare tramite bando di gara lo spazio (dopo un passaggio in Giunta che ne sancisca la destinazione d’uso come spazio commerciale: ad oggi è ancora un’autorimessa), così che possa partecipare una pluralità di soggetti. Alla commissione giudicante stabilire se riconfermare il Farmer's Market Coldiretti o premiare nuovi concorrenti. Seguiremo l'evoluzione nei prossimi mesi. 

 

a cura di Livia Montagnoli

Meet in Cucina 2017. Parlano gli chef abruzzesi che vogliono salvare l'Abruzzo

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Da un congresso gastronomico le proposte per la rinascita dell'Abruzzo. Una regione che ha incredibili patrimoni naturalistici, artistici e gastronomici ancora da scoprire.

Fino a qualche giorno prima dell'inaugurazione molti ancora domandavano a Massimo Di Cintio se fosse effettivamente confermata la terza edizione diMeet in Cucina: “Mi chiedevano: ma si fa lo stesso?” dice. Ma nevicate e terremoti oltre a portare danni e tragedie possono essere anche la spinta a far di più e a far meglio. E così è stato, nonostante la drammatica cronaca recente. Meet in Cucina è arrivato, puntuale, a riunire alla Camera di Commercio di Chieti addetti ai lavori, produttori, cuochi, ristoratori, allievi degli istituti alberghieri. E mentre si tirano le somme di questa terza edizione abruzzese si prepara a duplicarne il format in altre regioni, a partire dalle Marche nella prossima estate, con l'obiettivo di raggiungere gli stessi risultati: circa seicento persone da tutta la regione, ma anche da Marche, Molise, Puglia e Lazio.

Una testimonianza della forza di questi luoghi, pronti a rimettersi in moto. L'Abruzzo ha bisogno di ripartire, più forte di prima, perché tutte le difficoltà vissute negli ultimi anni non rappresentino una paralisi economica e culturale. E i mezzi ci sono tutti. L'integrità delle sue genti, la tenacia di chi è abituato a convivere con un territorio bellissimo, generoso e aspro, l'orgoglio combattivo delle proprie radici. A confermare questa stretta rispondenza tra i luoghi e chi li abita è Enrico Crippa, che ha aperto la manifestazione: “non conosco l'Abruzzo ma conosco da 15 anni un abruzzese” ha detto riferendosi al suo sous chef Antonio Zaccardi di Castiglione Messer Marino, come lui – racconta - “caparbio, solitario, silenzioso”, come lui impegnato a raccontare il paesaggio attraverso i piatti: “bisogna guardarsi intorno, avere rispetto per il prodotto e paesaggio. E farlo con il proprio stile” spiega “che, una volta trovato, non bisogna mollare”. E tra le ricette presentate non manca di omaggiare anche l'Abruzzo con Sfumature di paprika in Abruzzo, un risotto che fa suoi aromi e sapori di questi luoghi: peperone, finocchietto, lardo.

 

Enrico Crippa. Sfumature di paprika in Abruzzo

 

Da dove ripartire

Cosa manca? Forse un po' di consapevolezza: dei propri mezzi, della necessità di una visione più ampia, di doversi raccontare meglio, e di come sia ancora tutto da stabilire il contatto con quella parte circostante d'Italia che – per vicinanza e attitudine - dovrebbe conoscere bene questo patrimonio paesaggistico, storico, enogastronomico. Un cuore verde, cui si potrebbe guardare come meta ineludibile e che invece rimane ancora un segreto per pochi. E l'Abruzzo dovrebbe ripartire proprio da qui: dalla sua incredibile ricchezza. “Tutto quel che è stato fatto, in Abruzzo, è opera di privati” dice Niko Romito, che spiega come sia giunto il momento di mettere a sistema l'immensa forza di un gruppo – quello legato al cibo e alla ristorazione - compatto e in crescita costante: “ma serve una visione, un progetto condiviso di medio e lungo periodo, bisogna uscire dal provincialismo, avere un obiettivo e perseguirlo”. Le potenzialità dell'indotto legato all'enogastronomia sono enormi, ma per svilupparle serve che queste fuoriserie che sono i nostri chef, abbiano strade su cui correre, e le strade le fanno le istituzioni

 

Il panorama ristorativo abruzzese e i suoi chef

Sono tanti, più o meno giovani, hanno carattere, identità, personalità forti nutrite a suon di studi ed esperienze in grandi ristoranti (come Daniele D'Alberto del BR1 di Montesilvano: passaggi da Vissani, Cedroni). Hanno “piedi ben piantati nella terra e testa tra le nuvole” come suggerisce Alessandro Bocchetti nel presentate Marcello e Mattia Spadone, padre e figlio in forza a La Bandiera di Civitella Casanova (che hanno portato un bellissimo lavoro su un piatto classico: Gallo e Granaglie, in cui la ricerca tecnica e l'innovazione con tanto di distillazione a bassa pressione per il brodo ottenuto dal fondo delle ossa tostate, si inserisce con decisione e coerenza sulla base tradizionale, sia nel prodotto che nella ricetta che nella cottura alla brace). Un esempio di evoluzione all'interno di una strada familiare, come per Peppino e Adriano Tinari di Villa Maiella di Guardagrele.

 

SpadoneMarcello e Mattia Spadone. Gallo e granaglie

 

In una regione che conta poco più di un milione di abitanti, il panorama ristorativo sta acquistando valore tanto da rappresentare un'attrattiva non solo locale, anzi: “da Guardiagrele vengono in pochi” dice Arcangelo Tinariben diversa dalla situazione della Francia rurale che ho conosciuto da Michel Bras dove nei grandi ristoranti la clientela è locale ed eterogenea, la domenica ci sono le famiglie, anche perché i bambini pagano 30 euro nei 3 Stelle. Così si crea una cultura dell'alta cucina”. Ma qualcosa si muove anche qui.

 

Una regione da scoprire

La punta di diamante è, ovviamente Niko Romito (che ha illustrato il suo sistema che dal Reale e la ricerca che consente l'alta ristorazione, porta alla scuola, al progetto Spazio fino alla ristorazione collettiva di Intelligenza Nutrizionale). Ma non è il solo. A lui il compito di apripista e portavoce del suo territorio all'estero. Come è stato al congresso spagnolo Madrid Fusion, in cui ha cominciato il suo intervento mostrando dove si trova l'Abruzzo, cartina alla mano. Perché di questo Abruzzo ancora si sa troppo poco: poco delle coste che alternano spiagge quiete e insenature tortuose, poco dei parchi naturali e delle montagne che scendono a picco nelle acque pescose dell'Adriatico, poco delle città d'arte, della storia e dell'immenso patrimonio enogastronomico che conta vigneti, zafferano, grani autoctoni (e grandi pastifici come Verrigni, Cocco, De Cecco, Del Verde), salumi tipici (ventricina in testa), ortaggi (come il peperone dolce di Atino), legumi e formaggi straordinari (come il pecorino di Farindola). Ci sono storie virtuose di ritorno alla terra e legami tra produttori e cuochi che racchiudono in sé la potenzialità di una rinascita collettiva. Una rivoluzione imminente, presagisce Romito.

 

Daniele D'ALbertoDaniele D'Alberto. Sgombro, polpelmo e rape rosse

 

Raccontare il territorio senza provincialismi

Lo pensiamo a guardare il lavoro del giovane Gianni Dezio (Tosto di Atri) ex allievo della scuola Niko Romito Formazione che oggi racconta l'Abruzzo e (in un piatto) l'Oasi dei Calanchi dal suo punto di vista di figlio di emigrati tornato in patria. Uno sguardo obliquo, il suo, permeato di tradizioni del Venezuela, ma fortemente poggiato su quell'angolo d'Italia da dove proviene la sua famiglia: “per questo la mia, oggi, è una cucina concentrata sulla tradizione abruzzese” dice, e aggiunge “domani non so”. La chiave per rilanciare la regione? “Partire dal territorio senza essere provinciali”. Come è stato accolto il suo ristorante ce lo spiega dicendo che solo il 10% della sua clientela è di Atri, ma vicino c'è Pescara e a 9 chilometri il mare e il movimento turistico che porta con sé. Un fattore fondamentale, per lui come per altri colleghi con cui c'è uno scambio continuo: “ci confrontiamo soprattutto su aspetti tecnici, ma ognuno vive realtà diverse: chi è in montagna, chi in campagna, chi sul mare, chi ha appena cominciato e chi invece ha una struttura già consolidata”.

DezioGianni Dezio. Terra dei Calachi

 

La rete con i produttori

Chi vive a un passo dal mare è Cinzia Mancini (Bottega Culinaria Biologica, San Vito Chietino). Ha le idee chiare: “dobbiamo fare rete non solo tra noi chef, ma anche con i produttori, facendoci promotori del territorio: se un turista viene da me devo fargli conoscere il prodotto, creare per lui dei percorsi e fargli scoprire la nostra regione”. Come ha fatto a Meet in Cucina dove ha presentato un piatto che dimostra come essere pienamente immersi nelle tradizioni pur con una spinta innovativa molto forte. La sua pasta e fagioli è realizzata con un solo ingrediente: il fagiolo di Paganica (oggi Presidio Slow Food) trasformato in farina, brodo, pasta (pasta secca di farina di fagioli passata al forno per tre ore a 90 gradi per creare una sorta di maglia glutinica che la rende lavorabile. La parte liquida si ottiene con un doppio brodo a base di fagioli fermentati in acqua e sale che danno un tono umami e acido. I fagioli sono una quenelle di purea di fagioli caffè disidratato ricomposto nella forma del legume). Ad accompagnarla sul palco Matteo Griguoli, agricoltore e referente del Presidìo Slow Food che ha raccontato il paesaggio in cui origina questo legume di cui oggi esistono solo due varietà (a pane e bianco, differenti per sapore e consistenza), a fronte delle molte di un tempo.

 

Cinzia Mancini

Cinzia Mancini. Pasta e fagioli

 

I cuochi fanno squadra “anche i grandi come Romito sono attenti alle esigenze di noi piccoli. E non è scontato” né secondario: “c'è un'assenza totale delle istituzioni, che non hanno idea di quale sia la direzione che abbiamo intrapreso”. Chiediamo di spiegarci meglio: “ci rimbocchiamo le maniche sapendo che non c'è aiuto dall'altra parte. Fare le cose più banali, anche apportare migliorie al ristorante, è complicato e richiede tempo e tanta burocrazia, poi è tutto difficile: servono infrastrutture, collegamenti più funzionali”. Ma non finisce qui: “parlo di San Vito, che conosco bene: i punti di informazione turistica non sono finanziati e spesso sono dati a società che non dimostrano molto interesse. Con dei colleghi abbiamo proposto un infopoint su un trabocco, l'unico comunale. Non c'è stata alcuna risposta”. C'è un gruppo di ristoratori che vuole smuovere le acque, quindi? “Sì, abbiamo fatto una piccola cooperativa per spingere verso la qualità, sia come proposta gastronomica, sia come organizzazione e offerta turistica, anche in previsione della ciclabile più lunga d'Europa” (ne avevamo parlato qui) che porterà un turismo attento alla sostenibilità e alla qualità dell'offerta. “Ma non siamo preparati. Servirebbe formazione per noi addetti ai lavori: lingue, promozione del territorio, accoglienza”.

ColagrecoMauro Colagrego. Barbabietola di due anni, interrata dopo due mesi di cantina al termine del primo anno, cotta sotto sale, servita con panna e caviale

 

La base c'è, le informazioni mancano

Perché c'è una base incredibile: 3 parchi nazionali, 2 riserve marine, siti archeologici, ristoranti importanti che richiamano clienti da tutta Italia, materie prime pregiate. “Bisogna puntare sul turismo. E basterebbe valorizzare i territori, rafforzare e tenere bene quel che c'è, investire su quel che abbiamo” dice Arcangelo Tinari (terza generazione nel ristorante di famiglia, Villa Maiella), “penso agli opuscoli interattivi dei siti archeologici mai finiti, ai luoghi di valore storico-artistico privi di adeguate informazioni, a percorsi montani mal segnalati o mal tenuti: non è un caso se ogni estate qualche escursionista si perde sulla Maiella. Il problema non è arrivare qui ma capire cosa fare”. Un altro esempio è quello dei tratturi, i sentieri erbosi della transumanza, itinerari turistici: “molti non sono più accessibili: non basta investire in un progetto, va pure mantenuto”. Racconta di Guardiagrele, un borgo bellissimo (che ha dato i natali anche al nonno di Mauro Colagreco, ospite d'onore di questa edizione, che dal Mirazur di Mentone è arrivato accompagnato da Luca Mattioli di Villafranca), con il Duomo e un dipinto del 1400, ma senza un centro d'informazione. “Si potrebbe puntare sul turismo religioso con tutti i siti sacri che abbiamo, quello sportivo con percorsi in mountain bike, ma queste cose non si sanno. Chi viene qui con la famiglia, non ha interesse a rimanere”. Lo dice pensando anche alle politiche dei prezzi: “i nostri comprensori sciistici hanno costi simili a quelli alpini dentro e fuori l'Italia, dove però i bambini sotto i 12 anni non pagano, dunque per ampiezza di piste, pacchetti proposti e offerte sono molto più competitivi e appetibili dei nostri”.

 

Questione di politica e di cultura

Una questione legata tanto all'iniziativa privata quanto alle istituzioni: “sono stato tre anni da Michel Bras: è un'area agricola con pochissimi abitanti, si può fare sci di fondo, ci sono itinerari in bici, e tutto senza entrare in confitto con agricoltori e allevatori della zona”. Ognuno può godere di quella zona. “Ma si deve voler far crescere il territorio”. Così come far crescere culturalmente le nuove generazioni: “in Francia le scuole portano i bambini a visitare le aziende del territorio per conoscere artigiani, allevatori, cuochi, camerieri. Così si crea una generazione consapevole delle varie figure professionali” che potenzialmente potrebbe continuare la grande tradizione artigianale che ogni paese custodisce.

 

 

TinariPeppino e Arcangelo Tinari. Pancetta di maiale nero abruzzese

 

Il valore della biodiversità e della rete tra produttori

Invece si ha la tendenza a perdere la memoria di quel che siamo e di quel che abbiamo: “Tanti produttori oggi preferiscono puntare su pochi prodotti senza valorizzare la biodiversità, che richiede più sforzo” dice ancora Tinari. La sua famiglia nel 2009 ha deciso di puntare sul maiale nero abruzzese, che solo un paio di ani fa è stato riconosciuto come razza autoctona. È stato un investimento, dall'acquisto del territorio all'imparare un mestiere dato che non erano allevatori né norcini. “Ora abbiamo 6 fattrici e un riproduttore. Macelliamo 18 capi l'anno che in gran parte trasformiamo in salumi, sufficienti per il ristorante”. Ne potrebbero fare di più con una rete di vendita: “se ci fosse un farmer market in cui coinvolgere i produttori, creando un sistema di cui potrebbero beneficiare molti creando una realtà più compatta e forte”. Una proposta fatta già nel 2009 ma andata a vuoto: “Non vogliono mischiarsi, invece che vederla come possibilità di crescita viene vista con sospetto”. Dice e aggiunge “dovremmo far uscire dalla testa degli abruzzesi la paura del confronto”.

 

Piazza Duomo | Alba (CN) | piazza Risorgimento, 4 | tel. 0173 366167 | http://www.piazzaduomoalba.it/it/

Reale | Casadonna | Castel di Sangro (AQ) | Piana Santa Liberata | tel. 0864 69382| http://www.ristorantereale.it/

BR1 | Montesilvano (PE) | Largo Belvedere | tel. 085.46 88 101 | http://www.br1culturalspace.it/

Bottega Culinaria Biologica | S. Vito Chietino (CH) | Contrada Pontoni, 72 | tel. 0872 61609| http://www.bottegaculinariabiologica.com/

La Bandiera | Civitella Casanova (PE) | Contrada Pastine, 4 | tel. 085 845219 | http://www.labandiera.it/

Mirazur | Francia | Mentone | 30 Avenue Aristide Briand | tel. +33 4 92 41 86 86| http://www.mirazur.fr/

Villa Maiella | Guardiagrele (CH) | Via Sette Dolori, 30 | tel. 0871 809319 | http://www.villamaiella.it/

Tosto | Atri (TE) | Via Angelo Probi, 8 | tel. 324 0842077 | https://www.facebook.com/tostoristorante/

 

a cura di Antonella De Santis

 

TinariPeppino e Arcangelo Tinari. Pancetta di maiale nero abruzzese

 

Identità Golose 2017, la forza della libertà sta nel viaggio. Chef senza frontiere: il programma

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Il congresso gastronomico di Milano celebra la tredicesima edizione con un appello alla condivisione di idee, culture, prodotti e cucine. E sul palco si alterna un parterre di chef internazionale (con tanti big di casa nostra) pronto a raccontare il valore della libertà. Il programma, dal 4 al 6 marzo. 

Insieme per la libertà

La libertà...In viaggio. È l'elemento spaziale il campo d'indagine che quest'anno orienterà il dibattito sul palco di Identità Golose, a Milano. Una pluralità di voci, non a caso in arrivo da tutto il mondo, per abbattere quelle frontiere che ancora una volta – corsi e ricorsi storici – tornano a farsi barriera, cercando di impedire la condivisione di idee, la circolazione di pensieri, e persone. E allora il grido di libertà che gli chef riuniti da Paolo Marchi al Mi.Co. sono pronti a intonare diventa un messaggio quanto mai attuale. Contro l'intolleranza, l'esasperazione, lo smarrimento di valori certi a cui appellarsi. Tutto questo è cucina? Certo, perché la cultura gastronomica si è sempre nutrita di contaminazioni, e così il lavoro e l'ispirazione degli chef, esploratori del mondo attraverso la tavola e la scoperta del territorio: “Tutto viaggia, e da sempre: viaggia l'uomo, viaggiano i prodotti, viaggiano le idee”, chiarisce Paolo Marchi nel manifesto dell'edizione alle porte. Il più celebre congresso gastronomico italiano si terrà a Milano dal 4 al 6 marzo prossimo, riunendo un parterre imponente di giornalisti e addetti ai lavori. Quando manca un mese all'apertura delle porte, passiamo in rassegna temi, programma e protagonisti della manifestazione.

 

Identità 2017. Primo giorno

La prima novità arriva con l'inversione tematica delle giornate di lavori: sabato 4 celebrerà la regione ospite, la Lombardia (nell'anno dell'East Lombardy capitale della gastronomia europea, con i big locali, da Giovanni Santini a Cesare Battisti, aDavide Oldani), per focalizzarsi nel pomeriggio sul Dossier Dessert, con tanti pastry chef di rilievo, da Andrea Tortora aMark Welker, da Gianluca Fusto aCorrado Assenza, che continua a non perdere un appuntamento con Identità, e un anno dopo l'altro torna a incantare la platea. Prima però l'omaggio a un'altra gloria della pasticceria italiana: Iginio Massari. Mentre le sale collaterali alterneranno i focus tematici: Identità di formaggio, Identità di gelato, Identità naturali. Ricchissima la scaletta dei relatori: Giuseppe Zen, Andrea Ribaldone, Francesco Apreda, Moreno Cedroni, Paolo Lopriore, Antonia Klugmann, Simone Salvini, i maestri gelatieri Simone Bonini e Paolo Brunelli, solo per citarne alcuni.

 

Il secondo giorno

Domenica 5 si entra nel vivo con il dibattito su La forza della libertà: il viaggio. A parlare in Sala Auditorium saranno gli chef che portano la propria esperienza di viaggio: Enrico Crippa, Christian Puglisi, i fratelli Alajmo, Umberto Bombana, Heinz Beck, Norbert Niederkofler, il pizzaiolo Franco Pepe con Sarah Minnick. Per gli appuntamenti collaterali, di pasta parleranno Cracco, Baronetto, Fantin, Scabin, Genovese, Zazzeri; largo alle giovani leve, invece, con La nuova cucina italiana protagonista in Sala Blu 2, da Luca Abbruzzino a Martina Caruso, a Michelangelo Mammoliti, ai fratelli Pellegrino.

 

Il terzo giorno

Si chiude lunedì 6, ancora sul viaggio, con un nuovo giro di interventi in auditorium: apre Carlo Cracco, seguono – tra gli altri – Paolo Lopriore, Massimo Bottura, Niko Romito, Rodolfo Guzman, Riccardo Camanini, Nino Di Costanzo, Angel Leon. Ma non mancheranno i focus tematici su Identità di Montagna da un lato, di Mare dall'altro (da Alfio Ghezzi ad Angelo Sabatelli, da Oliver Piras a Giulio Terrinoni), e il consueto appuntamento con la pizza e i maestri pizzaioli: Ciro Salvo, Renato Bosco, Gennaro Nasti, Massimiliano Prete (sul palco con Enrico Crippa). Appuntamento a marzo con la tredicesima edizione di Identità Golose e oltre 90 “lezioni” sul viaggio. E la libertà.

 

Identità Golose 2017 | Milano | Mi.Co., via Gattamelata | dal 4 al 6 marzo | www.identitagolose.it/sito/it/147/programma-2017.html

 

a cura di Livia Montagnoli

Casa Marchetti a Torino. Il nuovo progetto del gelatiere Alberto Marchetti

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Una gelateria, che è anche laboratorio e magazzino a vista, sala didattica e shop dedicato ai produttori di fiducia. Un omaggio alla tradizione dei gelatieri, tra assaggi e incontri con i maestri e con i fornitori. Vi presentiamo Casa Marchetti, il nuovo progetto del grande gelatiere torinese.

Alberto Marchetti

Figlio d'arte, Alberto Marchetti la passione per il gelato artigianale buono e sano l'ha conosciuta fin da piccolo e ne ha fatto un mestiere, diventando uno dei nomi di punta dell'arte gelatiera. Tant'è che si è comodamente posizionato nell'Olimpo della guida Gelaterie d'Italia del Gambero Rosso con i Tre Coni (massimo riconoscimento).

Le sue gelaterie sono un esempio di artigianalità che può viaggiare sul territorio nazionale senza intaccare la qualità, e senza rinunciare alla sua genuinità. Lo dimostrano i due punti vendita torinesi, quello di Alassio e la più recente apertura milanese. Senza però cedere al franchising, e con un'attenzione quasi maniacale verso le materie prime, lavorate secondo regole rigorosissime (ogni gusto è miscelato entro le 24 ore e mantecato al massimo ogni 3 ore). Partendo da queste basi, non c'è alcun dubbio che il nuovo progetto del gelatiere torinese sarà un successo.

Il rendering di Casa Marchetti. La location si trova nella piazza dove è stato girato Profondo Rosso

Casa Marchetti

Già, perché Alberto apre a fine marzo Casa Marchetti, un edificio su due piani tutto dedicato al gelato e ai protagonisti della filiera. “Un progetto nato dopo l'esperienza fatta con Slow Food, la Via del Gelato, in occasione dell'ultimo Salone del Gusto, dove ho incontrato tanti clienti e tanta gente curiosa. Mi sono reso conto che c'era la necessità di un luogo dove raccontare l'intera filiera del gelato”. Così, al primo piano di Casa Marchetti ci sarà la gelateria con il laboratorio e (soprattutto) il magazzino a vista, sotto uno spazio dedicato agli incontri con altri gelatieri e produttori. Dove? In piazza C.N.L. a Torino, proprio dove Dario Argento aveva voluto il Blu Bar di Profondo Rosso. “Una piazza per troppo tempo sottovalutata dai commercianti ma che oggi, grazie alle nuove aperture, tornerà a essere il vero salotto buono di Torino”. La mission principale del nuovo progetto è quello di divulgare la cultura del gelato: “Vorrei andare oltre il concetto di gelateria. Qui i clienti potranno, grazie al magazzino a vista, toccare con mano le materie prime, e potranno vedere come vengono lavorate nel laboratorio ben visibile. Avranno poi l'occasione di conoscere e incontrare i produttori, parlare con loro, farsi raccontare le loro storie e comprare i loro prodotti disponibili nello shop. Ci sarà il piccolo produttore di nocciole ma anche il coltivatore di barbabietola da zucchero, insomma vorrei affrontare tutte le fasi della filiera del gelato”. Casa Marchetti aprirà le porte anche la mattina, con eventi dedicati agli studenti. Marchetti conclude la telefonata con un altro sogno, che auspica possa avverarsi: “Ogni mese vorrei rifornirmi del latte fresco proveniente da vallate di volta in volta diverse”. C'è una data precisa per l'apertura? “Il 21 marzo, primo giorno di primavera, o l'1 aprile, così faccio un bello scherzo!”.

Entusiasta del nuovo progetto anche Alberto Sacco, assessore al Commercio del Comune di Torino: “Un’ottima notizia. Abbiamo bisogno di torinesi che credano in questa città e la aiutino a crescere sempre di più. Torino è riconosciuta, a livello nazionale e internazionale, come un punto di riferimento per il cibo. Sono tantissimi gli eventi che ci vedono protagonisti, tra questi nel 2018 la finale del Bocuse d’Or. Abbiamo bisogno della professionalità e del prezioso contributo che Maestri del Gusto come Alberto Marchetti possono dare”.

 

Gelateria Alberto Marchetti | Torino | Corso Vittorio Emanuele II 24bis | tel. 011.839 0879 | www.albertomarchetti.it

Gelateria Alberto Marchetti | Torino | Via Po 35bis

Gelateria Alberto Marchetti | Alassio | via XX Settembre 48

Gelateria Alberto Marchetti | Milano | Viale Montenero, 73

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

 

 

 

 

Carnevale d'autore. Le frittelle di Iginio Massari

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Carnevale è il momento dei dolci fritti: chiacchiere, lattughe, castagnole, ravioli e frittelle. Per fare frittelle perfette abbiamo chiesto niente meno che al maestro Iginio Massari.

Alla pasticceria Veneto il Carnevale è una ricorrenza da festeggiare a colpi di frittelle. Sono infatti diversi i dolci tuffati nell'olio bollente proposti da Iginio Massari, e insieme alle classiche frappe (o chiacchiere o lattughe che dir si voglia) tra i più richiesti ci sono quelli dall'impasto soffice, voluttuosamente ripieni di morbida crema, si tratti della pasticcera alla vaniglia, di quella al cioccolato, di zabaione o ricotta. In tutto ci sono 7-8 tipi diversi sul bancone della pasticceria Veneto.

Iginio MassariIginio Massari

 

Il Carnevale di tradizione

Quanto vale il Carnevale in termini di nuovi prodotti? “Non tanto, in realtà” risponde il pasticcere “si scelgono soprattutto i classici di questa occasione. Magari c'è la curiosità del momento per qualche cliente, ma non al punto da mettere in cantiere dolci nuovi”. Non che non gli sia accaduto negli anni di firmare qualche creazione ad hoc, “ma non c'è abbastanza interesse, tutto considerato”; insomma, i dolci tipici di questo periodo bastano e avanzano e per creare delle nuove tradizioni bisognerebbe insistere un po'. E non sempre c'è modo: “quando iniziamo con i dolci di Carnevale iniziamo anche la produzione delle uova di Pasqua”. È dunque un momento di lavoro intenso. Senza considerare una cosa: si tratta soprattutto di dolci fritti, il perché ce lo spiega lo stesso Massari: “Carnevale è il periodo precedente alla Quaresima, era il momento in cui si salutava la carne, da cui ci si sarebbe astenuti per 40 giorni. Le frittelle, così ricche e opulente, sarebbero andate a compensare questo alimento” portando allegria e grassi prima del periodo di penitenza. Una tradizione che registra varianti minime: “cambiano nomi e forme ma la sostanza nell'impasto è sempre la stessa” dice raccontandoci di come, un po' ovunque in Europa, esistano dolci fritti, più croccanti, come le frappe, o più morbidi, spesso arricchiti da uva passa o creme, come le frittelle. Ma devono essere per forza fritti, o anche le varianti al forno sono valide? Su questo non transige: “un fritto non fritto è come una donna di gomma” scherza.

 

I segreti di un fritto perfetto

Certo, friggere richiede abilità, e qui è la mano del pasticcere a fare la differenza. “Sono cotture rapide, bisogna starci sempre sopra” spiega. E ci dice anche un trucco per avere sotto controllo la frittura che, ricordiamo, deve essere fatta ad alta temperatura ma senza che si raggiunga il punto di fumo, che varia secondo il tipo di olio usato, sostituendo l'olio se si scurisce: “se la forza di spinta del vapore è forte va bene, se al contrario è lenta il dolce si inzupperà di olio” ci vogliono occhio e molta cura. “Friggere non è facile” aggiunge. Bisogna fare molta attenzione alle temperature, cuocendo di preferenza pezzi piccoli perché così si forma più velocemente la crosta e si limita il rischio che assorbano troppo olio. E una vota cotti conservare i dolci, ben scolati e asciugati, a temperatura ambiente.

 

frittelleFrittelle di Pierrot

 

Frittelle di Pierrot

 

Ingredienti

per il purè di patate

280 g. di patate lessate e passate al setaccio

200 g. di latte

30 g. di burro

5 g. di sale

 

per la biga

20 g. du farina bianca 00

30 g. di lievito di birra

30 g. di latte a 30 °C

4 g. di zucchero

 

per l’impasto

purè

biga

400 g. di farina bianca forte 00

80 g. di zucchero

50 g. di burro

1 scorza di limone grattugiata

200 g. di uova

130 g. di uvetta passa macerata in un buon Marsala

 

Procedimento

Prendere le patate, già bollire per circa 20 minuti, poi passate al setaccio o passaverdura. Trasferirle in un tegame, cuocerle con latte, burro e sale mescolandole in continuazione con un cucchiaio finché si formerà un purè. Fare raffreddare avendo cura di lasciarlo asciugare per bene.

Realizzare la biga mixando tutti gli ingredienti con un frullino a immersione per un minuto.

Formare una massa omogenea e lasciare lievitare finché avrà triplicato il suo volume. Reimpastare in planetaria a media velocità il purè freddo con la farina, la biga già lievitata, lo zucchero, il burro, la scorza di limone grattugiata e aggiungere metà delle uova, poi le altre, poco per volta. Alla fine della lavorazione, quando cioè la pasta sarà liscia e si staccherà dalle pareti della bacinella, incorporare l’uvetta sultanina macerata il giorno prima nel Marsala.

Lavorare a bassa velocità per non rompere l’uvetta e disperderla omogeneamente. Fare raddoppiare il volume della pasta, formare poi formare con un sac a poche con bocchetta liscia delle palline di pasta del peso di circa g 10, tagliandole con un coltello sulla bocchetta. Cuocerle in olio di girasole a 176°C. Quando sono ancora calde spolverarle con zucchero velo vanigliato. 

 

Pasticceria Veneto | Brescia | Via Salvo D’ Acquisto, 8 | tel. 030.392586 – 030.392586 | www.iginiomassari.it/

 

a cura di Antonella De Santis

Nasce Città d'Orti, un nuovo modello formativo per l'agricoltura urbana

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Sono 18 milioni gli orti urbani stimati in Italia, un fenomeno in crescita che, se portato avanti con criterio e impegno, potrà portare un giorno al recupero di aree verdi abbandonate e all'educazione ambientale di tutti i cittadini. Il nuovo progetto Città d'Orti si propone di raggiungere questi obiettivi. 

Il progetto

Sono LifeGate, Slow Food Italia e Comart gli artefici dell'ultimo progetto di agricoltura urbana made in Italy, tre colossi del settore da sempre impegnati sul fronte della sostenibilità ambientale e la lotta allo spreco. Dalla collaborazione fra queste realtà nasce Città d'Orti, un'iniziativa che si propone di divulgare il modello degli orti domestici (al momento se ne contano 18 milioni in tutta Italia) su larga scala. Si tratta, nel dettaglio, di una scuola itinerante nella quale i partner di progetto mettono a disposizione indicazioni e suggerimenti sulle colture più adatte e metodi di coltivazione per poter realizzare un orto. Un'idea che era già nell'aria da tempo, precisamente dal 2004, anno di nascita di Orto in Condotta, un progetto di educazione alimentare e ambientale a cura di Slow Food che ha coinvolto oltre 500 scuole in tutta Italia per un totale di 40mila alunni. Oggi, è ancora una volta l'educazione e la sensibilizzazione ambientale dei cittadini l'obiettivo da raggiungere, come ha specificato Enea Roveda, Ceo di LifeGate: “Trovo sia necessario diffondere stili di vita e di alimentazione più sostenibili sia per il pianeta che per noi. Soprattutto, c’è bisogno di strumenti che ci aiutino a maturare una consapevolezza più profonda e diretta della connessione tra le nostre scelte quotidiane e gli effetti sulla nostra salute e quella del nostro ambiente”.

 

La formazione

Coinvolte nel progetto diverse aziende italiane, i cui dipendenti potranno imparare a dar vita a un orto attraverso specifici moduli formativi organizzati dai referenti dell'Ufficio Educazione di Slow Food Italia. E tutte queste attività saranno a Impatto Zero grazie al lavoro di LifeGate, che si impegna a ridurre e compensare le emissioni di CO2. Ma il percorso formativo non si ferma qui: sul portale di LifeGate è infatti possibile trovare tutte le informazioni per creare e curare il proprio orto in città, disponibili in una speciale sezione del sito. Così, anche chi non può prendere parte personalmente alle lezioni, potrà comunque partecipare attivamente al progetto e seguire il piano di studi ideato dai tre partner. Inoltre, tutti i cittadini interessati (e non solo le aziende) potranno mettere in piedi il loro primo orto, cercando sul sito i terreni assegnati dall'amministrazione comunale. “Espandere la cultura e la pratica degli orti urbani” lavorare perché le nostre città siano disseminate di orti non potrà che accelerare questo tipo di consapevolezza ‘attiva’ e, allo stesso tempo, favorire la rigenerazione di spazi naturali in ambito urbano”, questo lo scopo dell'iniziativa.


a cura di Michela Becchi


La Basilicata in 9 biscotti e la ricetta dei taralli glassati della pasticceria Tiri 1957

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Proseguiamo il nostro giro d'Italia sui biscotti regionali  con una panoramica sulle specialità della Basilicata. 9 biscotti gustosi biscotti lucani, dolci che la cui tradizione si tramanda di generazione in generazione, e un regalo: la ricetta dei taralli glassati della pasticceria Tiri1957.

Biscotti dal sapore intenso e robusto, come la regione da cui vengono. Sono le specialità lucane, che vi raccontiamo per la rubrica sui biscotti regionali. 9 tipologie da assaggiare e una ricetta in regalo, quella dei taralli glassati della pasticceria Tiri1957, premiata con Una Torta nell’edizione 2017 guida Pasticceri& Pasticcerie.

 

Anginetto di Lauria

Partiamo da dolcetti che si fanno nel comune di Lauria, in provincia di Potenza, ma che si trovano, con le dovute varianti, anche in altre regioni (sono celebri gli anginetti di Castellammare di Stabia). Sono preparati con farina 00, zucchero, uova, lievito e olio. Spesso si trovano aromatizzati con semi di anice o finochietto. Per tradizione avevano due cotture: prima lessati e poi passati nel forno, ma quasi tutte le ricette moderne prevedono la sola cottura in forno. Una volta pronti e raffreddati, i biscottini vengono cosparsi di una glassa a base di zucchero e limone.

 

Anginetti di LauriaAnginetti di Lauria

 

Ficculi

Sono simili per forma e ingredienti ai taralli dolci, ma privi di glassatura: sono i ficculi, dolcetti croccanti aromatizzati all’anice selvatico con la particolarità, nelle versioni più tradizionali, di essere cotti in forno a legna. Si mangiano spesso a colazione, anche se sono adatti a qualsiasi momento della giornata. Per prepararli servono farina 00, uova fresche, zucchero, olio d’oliva, strutto, anice, un po’ di liquore e semi di anice.

 

Friselle dolci

Si fanno nel territorio di Acerenza, in provincia di Potenza, ma anche in alcuni comuni in provincia di Matera dove, in alcuni casi se ne produce anche una versione più rustica con la farina di semola. Si tratta di vere e proprie friselle, ma in versione dolce, la loro particolarità sta nell’aggiunta delle mandorle all’impasto, cosa che regala loro un aroma intenso. Si fanno con farina 00, zucchero, burro, uova, mandorle tritate grossolanamente, lievito o ammoniaca per dolci, buccia di limone, un pizzico di sale. 

 

Ficculi del forno PaleseFicculi del forno Palese

 

Dolcetti alle noci

Tipici di Trecchina e Maratea, entrambe in provincia di Potenza, sono i biscotti che tradizionalmente i contadini portavano con sé per placare la fame durante il lavoro nei campi. Sono dolci semplicissimi, fatti con 3 soli ingredienti - uova, noci e zucchero - più una glassa al limone che si stende sui dolci prima di infornarli, cosa che assicura una maggiore croccantezza nella parte superiore. Una volta impastati gli ingredienti si formano dei filoncini da cui si tagliano i pezzetti che si mettono sulla teglia e si spalmano della glassa preparata con albuni, succo di limone e zucchero.

 

Pastarelle

Biscotti morbidi da prima colazione, chiamati localmente anche biscotti da latte, soffici e digeribili, per questo adatti anche ai bambini molto piccoli. Sono i classici dolcetti sfornati in grandi quantità dalle nonne, prevalentemente in ambito casalingo. Si preparano con farina, olio d’oliva, uova, zucchero, scorza di limone, latte e un pizzico di lievito (nelle ricette moderne sostituito dall’ammoniaca per dolci). Una volta amalgamati gli ingredienti l’impasto risulta particolarmente liquido, ed è per questo che è necessario usare la sac à poche per formare i biscotti. Le pastarelle sono diffuse anche in Puglia, dove all’olio d’oliva si sostituisce spesso lo strutto.

 

Pastarelle

 

Scorzette

A base di pasta di mandorle originari di Bernalda e Marconia, due paesi in provincia di Matera, sono biscotti che abitualmente si mangiano per accompagnare dal caffè oppure alla fine del pasto, insieme all’amaro. Il loro nome deriva dal dialetto bernaldese, dove l’espressione a scorz’ d’ l’arvl vuol dire “corteccia di albero”, e in effetti la forma delle scorzette è arcuata e, anche per il colore dato dalle mandorle, ricorda dei pezzi di corteccia staccati dagli alberi. Con una particolarità: quella di essere ricoperti di cioccolato fondente su un lato. La ricetta fu messa nero su bianco nel 1977 dal pasticcere bernaldese Vincenzo Spinelli: fino a quel momento non esisteva nessun documento che riportasse ingredienti precisi e proporzioni. Per fare le scorzette servono albumi, mandorle non pelate, zucchero e cioccolato fondente al 60% minimo.

 

ScorzetteScorzette

 

Strazzate materane

Biscotti duri e croccanti provenienti da Matera, di solito preparati per le feste natalizie. Il nome deriva da strazzet, in dialetto locale “strappate”, e fa riferimento al modo in cui i pasticceri prendono i pezzi dall'impasto, con un movimento deciso. Si preparano con farina 00, cioccolato, mandorle, uova, zucchero, noce moscata, buccia di limone, cacao, aroma di liquore e bicarbonato. La tradizione materana vuole che siano cotti nel forno e che si consumino la sera, insieme a un bicchiere di un buon vino dolce. Se ben conservati, durano fino a 3 mesi.

 

Strazzate materane

 

Stozze

Un altro biscotto della tradizione natalizia, molto simile ai cantucci toscani. Per prepararli servono farina 00, uova, zucchero, mandorle, cannella, scorza d’arancia. Come per i cantucci si crea l’impasto e si formano i filoncini da informare per intero. Una volta cotti in superficie, si tagliano in tante fettine oblique e si rimettono in forno fino a doratura completa.

 

Stozze del forno PaleseStozze del forno Palese

 

Taralli glassati

Ciambelle dalle forme irregolari e dalle grandi dimensioni, friabili, leggere e ricoperte di glassa. Sono dolci molto antichi: le prime versioni pare risalgano al II secolo dopo Cristo. Tradizionalmente offerti alla fine dei banchetti di nozze nelle famiglie più agiate, la loro preparazione era essa stessa parte del rito, quando tutte le donne della famiglia si riunivano e impastavano i biscotti sotto i consigli e lo sguardo attento della mstazzulara. la pasticcera più anziana ed esperta. La ricetta prevede farina 00, zucchero, uova, olio, anice in semi o liquore all'anice, lievito e un pizzico di sale. Una volta cotti vengono cosparsi la glassa preparata con zucchero e acqua. Sono particolarmente celebri i taralli glassati di Avigliano, in provincia di Potenza, dove vengono chiamati anche lu mstazzuol cu ru zucc’r’ oppure lu mstazzuol cu ru naspr’

 

Ricetta dei taralli glassati della pasticceria Tiri1957

 

Ingredienti

1,7 kg di farina

400 g di uova

200 g di zucchero

200 ml di acqua

20 ml di liquore all'anice

170 g di olio extravergine d'oliva

 

Per la glassa

1 kg di zucchero di canna

250 g di acqua

 

Procedimento

Amalgamare la farina con l'acqua, le uova, lo zucchero e l'olio, dopo aver impastato per qualche minuto aggiungere il liquore. Il composto deve risultare né troppo compatto né troppo morbido.Formare delle ciambelle e tuffarle in acqua bollente per alcuni secondi, poi scolarle. Posizionare i taralli su una teglia e infornare per circa 15 minuti.

Nel frattempo preparare uno sciroppo di acqua e zucchero e portarlo alla temperatura di 112/115° C dopodiché versarlo subito sul tavolo di marmo e lavorarlo immediatamente con una spatola finché ridiventa bianco. Una volta freddi cospargere i taralli con questa glassa e fare asciugare.

Tiri 1957 | Acerenza (PZ) | via Antonio Gramsci, 2/4 | tel.  0971 749182 | www.facebook.com/Tiri1957

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

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“Nutrizione e sicurezza specializzate”, il marchio dell’Aiipa per il Baby Food. Il parere dell’esperto

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Un marchio di garanzia per gli alimenti destinati ai bambini, promosso dall’Associazione italiana industrie prodotti alimentari (Aiipa). Si chiama “Nutrizione e sicurezza specializzate” ed ha già fatto scoppiare polemiche fra pediatri e nutrizionisti: l’accusa? Far marketing sulla pelle dei più piccini.  

Il marchio per il baby food e la campagna dell’Aiipa

“Nutrizione e sicurezza specializzate”, il marchio Aiipa per il baby food, ha l’obiettivo di “fare chiarezza sulle caratteristiche e sulla qualità nutrizionale degli alimenti specifici per la prima infanzia”. È destinato agli alimenti per bambini fino ai 3 anni di età e sarà dato in licenza alle aziende che si impegnano a sottoscrivere il codice deontologico dell’associazione “Alimenti prima infanzia”. Ma l’operazione ha fatto scoppiare le polemiche nel mondo dei pediatri, che si sono divisi sul senso della campagna e sulla qualità del marchio: da un lato la Società italiana di pediatria (Sia) e la Federazione italiana medici pediatri (Fimp) hanno accolto con favore e hanno appoggiato l’iniziativa, dall’altro l’Associazione culturale pediatri (Acp) ha criticato duramente l’Aiipa. Con un comunicato, i pediatri Acp si sono dissociati dal parere positivo delle altre associazioni, invitando i colleghi medici a non aderire all’iniziativa.“Gli alimenti in commercio sono già controllati per legge – ha spiegato Sergio Vicario Nibali, dell’associazione culturale pediatri – e la filiera del prodotto fresco è validata dai ministeri dell’Agricoltura e della Salute: i medici non si facciano portavoce dell’industria, creando confusione nei genitori. No al marketing sulla pelle dei bambini”

 

Il parere dell’esperto

Noi abbiamo chiesto alla dottoressa Sara Farnetti, specialista in medicina interna e malattie del metabolismo affiliata all'Università di Miami, cosa ne pensa del marchio. “Ben venga un’attenzione particolare a categorie sensibili come bambini e anziani. Ma l’Italia” ha spiegato la dottoressa,“è uno dei paesi al mondo che ha meno residui chimici nel cibo e che effettua i controlli più serrati sugli alimenti, insieme al Giappone. Partendo dal presupposto che il cibo che mangiamo è sano, un marchio del genere non ha senso di esistere, non aggiunge nulla, rischia piuttosto di generare confusione”.

Nello specifico, l’operazione dell’Aiipa “attribuisce un marchio ad alimenti prodotti industrialmente, che di base hanno una vocazione ‘di massa’ e non tengono conto di tanti parametri specifici, come il livello degli zuccheri e il carico glicemico, per fare un esempio fra tanti. Si mette l’accento su qualità come le proprietà nutrizionali, senza considerare tutta una serie di altri elementi, come la parte funzionale-ormonale, ma anche quella nutrigenetica”. Un marchio che si basa su proprietà nutrizionali standard e che rischia di offuscare la validità del parere del nutrizionista e del pediatra: “ 'L’intelligenza del cibo’ non si misura solo sulle qualità nutrizionali, cioè sul contenuto calorico, zucchero, grassi, vitamine aggiunte, ci sono tanti altri aspetti da considerare, e un bollino non può sostituirsi alla valutazione dell'esperto”.

 

I pericoli dell’operazione Aiipa

Ma qual è il pericolo che un marchio di qualità sul cibo destinato ai bambini comporta? “Il bollino rischia di creare un alibi per bypassare i consigli di pediatri e nutrizionisti. Dovremmo essere noi operatori del settore a proporre ricette e soluzioni all’industria e non il contrario”. E allora come devono comportarsi i medici di fronte alle paure di un genitore? “Un metodo che utilizzo per spiegare ai genitori come regolarsi con l'alimentazione del figlio si basa su strategie associative. Spiego al genitore quali sono i prodotti da non associare, oppure quelli che insieme invece aumentano il plusvalore del pasto, in modo che abbiano una bussola per regolarsi. E poi spiego bene come si leggono le etichette, non bisogna essere terrorizzati di fare scelte sbagliate”.

 

a cura di Francesca Fiore

 

Sigari e Chianti. La degustazione che non ti aspetti tra le colline toscane

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“Alianza” consolidata quella tra Consorzio Vino Chianti e Habanos, tra le kermesse più prestigiose per gli amanti dei sigari di qualità, dal Cohiba all'Habanos Montecristo. E l'abbinamento con il Chianti Riserva e i formaggi Dop made in Italy sorprende. Il racconto di una curiosa degustazione. 

Metti un giorno a pranzo tra formaggi, sigari e Chianti: è la proposta davvero insolita che il Consorzio del Chianti ha deciso di far testare a un gruppo di giornalisti in preparazione della cena di gala che chiuderà il Festival Habanos, previsto a L’Avana dal 27 febbraio al 3 marzo,  la kermesse che vede protagonisti gli operatori di sigari premium. La collaborazione fra il Consorzio Vino Chianti e Habanos nasce nel 2014. Nel 2015 inizia la prima 'alianza' con Habanos Sa e la scelta del Consorzio come partner ufficiale per condurre il seminario più rilevante della manifestazione. Nel 2016 una prima degustazione di Vin Santi del Chianti con il Cohiba, il sigaro più prestigioso, in occasione del suo 50°esimo anniversario. Quest’anno il sigaro prescelto è l’Habanos Montecristo, i formaggi appartengono alle migliori DOP Italiane e il vino è il Chianti Riserva, per far capire la capacità di essere protagonista grazie alla versatilità che lo rende adatto ad una cucina internazionale e “mariages” eccellenti ma non scontati.

 

Sigari, formaggio e vino. Matrimonio d'autore

L'abbinamento fra Chianti Riserva, formaggi e sigaro, è studiato come un climax di intensità e complessità e dunque le consistenze, le trame, gli aromi e i sapori sono pensati per compensarsi ed esaltarsi reciprocamente.” Così presenta il progetto  Luca Alves, responsabile eventi del Consorzio: “Esattamente tre fasi, perché accademicamente la fumata di un sigaro si divide virtualmente in tre terzi, detti “tercios”, durante i quali l’evoluzione e la combustione del manufatto varia e cresce di intensità. Sinteticamente la prima è abbastanza semplice e morbida, la seconda dal volume piuttosto pieno e robusto, la terza intensa e persistente”.

Ma come si procede  per centrare l'abbinamento perfetto? “Montecristo è una marca dal gusto tradizionalmente medio forte. Abbiamo scelto di abbinare Il Chianti Riserva, inteso come categoria, che ha per qualità, caratteristiche organolettiche, versatilità, la virtù di potersi abbinare con una vasta gamma di formaggi ed esaltare certe triangolazioni col sigaro cubano.

Lo scopo è quello di trovare alternative divertenti e fuori degli schemi classici dell’abbinamento. E alla prova, i risultati sono indubbiamente accattivanti: la lentezza della fumata, circa un’ora e un quarto per un sigaro, che si può tranquillamente allungare, permette di trovare combinazioni organolettiche delle più varie, con una temperatura che ben si sposa a quella degli alimenti, senza creare accostamenti azzardati ma in perfetta armonia. Ecco che il sigaro potrebbe diventare, in cene a tema, l’ingrediente che non c’è di un piatto, ad accompagnarlo appunto come se fosse un vino abbinato.

 

a cura di Leonardo Romanelli

Foto di Alessandro Fibbi

Da Pinerolo a Torino, passando per il Marocco. Ecco Hafa Storie nuovo progetto di Christian Milone

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L'approdo a Torino di Christian Milone è di pochi giorni fa, nel quartiere multietnico di Porta Palazzo, in un locale che, a sorpresa, mescola tradizione piemontese e marocchina.

Se ne parlava da un po’, e ora finalmente il talentuoso chef della Trattoria Zappatori di Pinerolo, Christian Milone, Due Forchette nella Guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso e nuova Stella Michelin, è arrivato nel cuore di Torino. Con una formula che interpreta alla perfezione la doppia anima della città: tradizionale e multietnica

 

Hafa StorieHafa Storie

Il locale

Il luogo, per cominciare. Il più segreto e fascinoso fra i passagesdella vecchia Torino, la Galleria Umberto I, trait d’union fra la piazza del mercato all’aperto più grande d’Europa, Porta Palazzo, e le viuzze del Quadrilatero Romano. Qui Mill iPaglieri, architetto innamorata del Marocco, che nel 1998 ha fondato proprio del Quadrilatero l’Hafa Cafè, nome ricavato dal leggendario locale di Tangeri amato dagli artisti della Beat Generation, ha aperto un secondo locale, HafaStorie.Un bel posto, grandi vetrine affacciate sulla galleria, i tavolini marocchini, l’esposizione di oggetti e prodotti che diventa lo scenario di un suk metropolitano e contemporaneo, fra grandi tende-parete e scaffali design. Ed è proprio qui che Christian Milone da un paio di giorni di numero, in sordina (“bisognarodarsi”)propone la sua cucina. Il risultato è un mix perfetto fra specialità come il couscous o la tajne e il vitello tonnato, i tajarin, gli agnolotti del plin. Per la cronaca l’incontro fra i due avviene due anni fa, e l’idea è proprio mescolare le culture, e ora è diventato una realtà.

 

vitello tonnatoVitello tonnato

Ecco come ce lo ha raccontato Christian, appena finito il pranzo del sabato (giorno di gran mercato, e c’erano 40 ospiti da servire quando la norma sono 25 posti): “L’idea di aprire a Torino l’avevo da un po’, mi avevano proposto qualcosa in centro, ma io cercavo un posto proprio qui, a Porta Palazzo, a un passo dai banchi del mercato. L’Hafa è stata l’idea giusta”. Racconta infatti Christian che è qualcosa di più di una semplice consulenza: "Credo molto nel portare la cucina tradizionale alla contemporaneità", che si espone personalmente. "Credo molto in questo luogo: stare in galleria è magico" e aggiunge: "E il locale è molto informale con i rumori della cucina a vista che ti avvolgono con le persone che passano".

 

 

Come si integra la tua cucina con la cucina marocchina che è la tradizione dell’Hafa?

Convivono, ma non si mescolano. La carta etnica dell’Hafa rimane, accanto c’è la mia carta. Ho portato qui le proposte della tradizione: il vitello tonnato, gli agnolotti, il brasato con la polenta, la cipolla al forno, il bunet. E ognuno può comporre il suo menù, scegliendo magari un piatto etnico e uno della tradizione piemontese.

 

Una sintesi dello stile di vita torinese, soprattutto in questo quartiere

Certo, Porta Palazzo è il quartiere della multietnicità per definizione, basta fare un giro al mercato per rendersi conto di una realtà meticcia. Qui la si può praticare anche a tavola, bella soluzione anche per una cena fra amici con gusti gastronomici diversi.

 

Novità particolari?

Abbiamo introdotto le mezze porzioni, per ora è un esperimento, le lasceremo per certi piatti più importanti (il vitello tonnato per esempio) e sono comunque una bella formula per assaggiare più portate.

 

Porterai anche il tuo menù più creativo e di sperimentazione?

No, quello rimane nel ristorante gastronomico di Pinerolo. Ma naturalmente varierò spesso le proposte, in modo da far sperimentare la tradizione nel modo più vario. Sono molto legato alla cucina della tradizione piemontese, è quella in cui sono cresciuto, in trattoria con mio padre.

 

Diviso fra Pinerolo e Torino, insomma

Abito a metà strada… comodo! Ora la Trattoria Zappatori è chiusa per ferie e mi concentrerò qui, bisogna rodare la macchina della cucina. Poi sarò presente sempre in alcuni giorni e lascio qui Marco Valentini della mia brigata, che ha sempre lavorato con me.

 

Sogni e progetti?

Qualche altro progetto c’è, ma preferisco non parlarne ancora… e magari Milano, fra dieci anni, chissà… Sono uno con i piedi per terra che vuole far le cose per bene e con calma.

 

Parli da cuoco o parli da capo azienda?

Entrambe le cose. Oltre che chef mi sento imprenditore. E punto anche a far quadrare i conti.

 

Sentiamo anche l’altra metà del cielo sopra Torino, Milli Paglieri. Contenta di questo insolito sodalizio Piemonte/Marocco?

È una bella sfida, per me e la mia socia Stefania Codecà, ma mi pare un locale giusto per questo spazio e questo quartiere. Amo molto, da sempre, il centro storico e questa galleria, splendida, deve tornare a rivivere, a essere animata a tutte le ore. Noi siamo aperti a pranzo e a cena, ma anche per l’aperitivo- con vini, e pure dei cocktail in stile marocchino, come il Casablanca Sour - o per un tè alla menta nel pomeriggio.

 

La formula?

Alla carta, ma soprattutto funziona bene la colazione di lavoro a 15 euro, compresa acqua, caffè e un calice di vino, che offre la scelta fra due piatti, marocchini o piemontesi, oppure metà e metà. Le mezze porzioni di cui parlava Christian sono una bella idea, un po’ faticosa da gestire, e non vogliamo perderla, semmai ridurla. Con le mezze porzioni l’aperitivo può diventare un modo per scivolare in una cena un po’ informale… Vogliamo che sia un posto dove ci si sente a proprio agio sempre, a tutte le ore. Il sabato, giorno di gran mercato, saremo aperti già dalle 9 del mattino, per la colazione. E la domenica faremo il brunch marocchino, altro appuntamento conviviale.

 

Chi si occupa della cucina marocchina?

I piatti li prepara una cuoca marocchina, Aicha. In futuro abbiamo in progetto anche un take away per i piatti del menù. Tutto vuole essere piacevolmente in divenire e informale: una scatola sul tavolo per autoapparecchiare, un blocchetto per ordinazioni fai da te. Stoviglie e accessori li ho disegnati io con Gianluca Canizzo e sono realizzati in Marocco o dal laboratorio La Zanzara (vedi box sotto), che ha fatto la scatola, le tovagliette con il pesce. Il lampadario con mille bicchieri marocchini lo ha disegnato l’architetto Jeannot Cerutti. Insomma un bel lavoro collettivo.

 

I posti non sono poi tanti, il successo prevedibile… qualche idea?

Sopra c’è uno spazio della stessa dimensione, con le collezioni di mobili e di oggetti, dove penso di ospitare anche mostre, ma che può diventare l’estensione del locale per una cena fra amici o un incontro di lavoro più riservato, una festa, un aperitivo marocchino. E poi avremo i tavoli fuori, qui la “terrazza”in galleria, molto parigina come spirito, è praticabile sempre, anche se piove.

 

Insomma un altro curioso tassello nel variegato mosaico della Torino del gusto, che si muove, e non poco, sempre con quel tocco di understatement subalpino che fa parte del suo DNA, ma anche con una discreta propensione alle novità insolite, da città creativa quale è. E l’Hafa Paglieri+Milone, inedito binomio fra uno chef stellato e una architetto innamorata del Marocco, è una di quelle novità da testare.

 

 

Laboratorio Zanzara

Laboratorio Zanzara è una cooperativa sociale Omlus che ha come finalità l'integrazione di persone con disagi mentali attraverso la creatività. Si occupa di design, grafica, comunicazione in collaborazione con professionisti dell'arte, della comunicazione visiva, del design e dell'educazione; l'obiettivo è valorizzare le abilità e le attitudini dei singoli, assecondare la loro espressività, cercando di raggiungere risultati apprezzabili e con un loro potenziale commerciale.

Laboratorio Zanzara | Torino | via Franco Bonelli 3| tel. 011 026 8853| http://www.laboratoriozanzara.bigcartel.com/

 

Hafa Storie | Torino | Galleria Umberto I 10/13 | tel. 011/19486765- www.hafastorie.it

Trattoria Zappatori | Pinerolo (TO) | Corso Torino, 34 | tel. 0121 374158 

 

a cura di Rosalba Graglia

 

 
 

Soulgreen e Casa Maioli. I nuovi investimenti del gruppo Percassi, aspettando Starbucks e Wagamama

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Il gruppo bergamasco continua a scommettere sul food&beverage e dopo le ambiziose partnership firmate nella seconda metà del 2016 si dedica al lancio di nuovi format nel Nord Italia. A Milano la cucina plant-based di Soul Green, a Bergamo l’esordio di Casa Maioli, con i fratelli della piadina.

Percassi Food&Beverage. Gli investimenti nella ristorazione

Che la divisione Food&Beverage del gruppo Percassi – realtà imprenditoriale bergamasca altrimenti nota per l’attività immobiliare e la presidenza calcistica dell’Atalanta – fosse intenzionata a posizionarsi sul mercato italiano della ristorazione con una politica di investimenti ambiziosi si era già capito l’estate scorsa, quando a distanza di pochi mesi l’annuncio dell’esordio di due grandi catene internazionali a Milano aveva visto direttamente coinvolta la holding fondata a novembre 2015 e guidata da Matteo Percassi, uno dei sei figli del patron Antonio. I primi passi nel settore, per dir la verità, il gruppo li ha mossi promuovendo il verbo di un’eccellenza locale, la polenta, prendendo le redini dell’insegna Da30polenta, fast food all’italiana che presto ha conquistato una vetrina nei principali centri commerciali lombardi e milanesi. Ma gli investimenti seri, quelli che il nome di Percassi l’hanno portato sulla bocca di tutti, si sono concentrati negli ultimi mesi del 2016, quando prima Starbucks e poi Wagamama hanno legato il proprio nome alla mediazione del gruppo bergamasco.

Aspettando Starbucks e Wagamama

Del colosso americano del caffè oggi si sa che aprirà in piazza Cordusio, con vista sul Duomo (finanziando peraltro una nuova aiuola di palme e banani in accordo col Comune), tra la primavera e l’autunno, in data ancora da definirsi. L’arrivo di Wagamama, invece, era stato annunciato entro la fine del 2016, ma la pagina italiana del sito ufficiale continua a recitare la formula “prossimamente in Italia”: la catena informale improntata alla cucina orientale – tra ramen, teppanyaki, domburi – è stata fondata a Londra nel 1992, e oggi conta punti vendita in 18 Paesi del mondo, dalla Nuova Zelanda alla Svezia, tutti uniti nel segno di una proposta asiatica realizzata con ingredienti freschi e attenta al benessere. Una proposta che sicuramente conquisterà il capoluogo lombardo, dove impazzano ramen bar e nuove insegne asiatiche, non ultima la sfida del gruppo Toridoll, che a Milano inaugurerà tre locali solo nel 2017. Ma il riposizionamento del gruppo Percassi – finora coinvolto soprattutto nel settore della moda – a favore del cibo si intuisce anche dagli ultimi progetti sbarcati sul mercato, ancora una volta concentrati su Milano e sul polo bergamasco.

Soulgreen a Milano

E del resto il percorso intrapreso in precedenza nel mondo dell’abbigliamento, dal primo accordo con Benetton nel 1976 al retail di molti celebri brand di settore italiani e internazionali, preannunciava l’intenzione di scandagliare uno degli ambiti di investimento più redditizi del momento, quello della ristorazione, in più direzioni. E infatti, in attesa dei big, nelle ultime settimane il nome di Percassi si lega all’esordio di due nuove realtà. La prima, a Milano, è a battesimo per la prima volta proprio con l’inaugurazione del locale di piazza Clotilde, ma destinata a trasformarsi in un ariete di sfondamento internazionale. La nuova sfida, affidata stavolta alla supervisione di Stefano Percassi, si chiama Soulgreen, ed è dedicata alla cucina vegana e priva di glutine, senza utilizzo di prodotti animali e derivati, plant-based, com’è definita dal sito; in menu vegan burger, verdure saltate, zuppe thai e minestrone di stagione, formaggi vegani e chips di cavolo nero, dolci senza burro e farine raffinate, smoothie alla frutta e soul juice, una fornita cantina di vini biodinamici, con apertura da mattina a pomeriggio, per colazione, brunch, merenda, dalle 8 alle 16 (e da fine febbraio ci si allunga fino alle 23). Con tanto di consulenza nutrizionale per l’elaborazione di un menu bilanciato e finalità solidali, attraverso il finanziamento del progetto Proud to give back: tre pasti al giorno per gli orfani cambogiani ospiti del centro Our Village di Mission Bambini in una zona rurale del Paese.

Casa Maioli. La piadina romagnola a Bergamo

In tutt’altra direzione vira invece l’ultimo accordo raggiunto con i fratelli Maioli, quelli della piadina sdoganata da Eataly. La realtà romagnola ha firmato recentemente con Percassi un sodalizio che già restituisce i primi frutti all’Oriocenter di Bergamo, con l’apertura del primo punto vendita Casa Maioli; e il brand è destinato a espandersi rapidamente nel Nord Italia (8 entro il 2017) e all’estero, ispirato ai chioschi della Riviera romagnola, con piatti caldi della tradizione e prodotti tipici del territorio, secondo l’esperienza maturata dalla famiglia Maioli a partire dal 1952. Cavallo di battaglia, neanche a dirlo, la piadina.

 

Soulgreen | Milano | piazzale Principessa Clotilde, angolo via Amerigo Vespucci | www.soulgreen.com

Casa Maioli | Orio al Serio (BG) | Orio Center, via Portico, 71 | www.casamaioli.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Take In. Il ristorante senza cucina per un take away in compagnia. Dalla Finlandia il social eating alternativo

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Si è appena concluso l’esperimento promosso da American Express a Helsinki con la collaborazione di un servizio di food delivery online. E il successo del ristorante senza cucina nel cuore della città potrebbe incentivare l’apertura di analoghi pop up in altre città d’Europa. Ecco come funziona. 

Take away in compagnia

Arriva dalla Finlandia l’ultima frontiera del mangiar fuori casa, che sovverte le regole per assecondare un fenomeno in aumento. Se il take away è l’espediente a cui nessuno sa più rinunciare per ottimizzare tempi e spesa, non è detto che tutti siano disposti a privarsi della convivialità del pasto o delle comodità che offre una cena seduti al tavolo del ristorante. E allora il pop up aperto all’inizio di gennaio e operativo fino a qualche ora fa a Helsinki ha cercato di offrire un’opportunità in più agli avventori che di consumare un’insalata sul divano di casa davanti alla tv proprio non hanno voglia. In collaborazione con un servizio di food delivery online che porta in dote un nutrito circuito di ristoranti locali, Take In – come si chiama il locale senza cucina ideato nella capitale finlandese – ha messo a disposizione uno spazio attrezzato per consumare cibo take away al ristorante. Come usufruirne? Semplice e senza costi aggiuntivi, nonostante la sala fosse servita da uno staff attento alle richieste dei clienti, che porta il cibo a tavola e aiuta i commensali a orientarsi in questa insolita esperienza. E il progetto è stato in grado di raccogliere consensi trasversali: anche le quattro insegne fine dining più acclamate in città – Atelje Finne, Komm, Muru, Pastis – hanno deciso di studiare uno speciale menu take away pensato per essere consumato da Take In, aperto con orario continuato dalle 15 alle 22 durante la settimana, dalle 13 alle 20 il sabato. Vantaggiosa e ben concertata anche l’ubicazione del locale, nel centro della città e non distante dalla stazione ferroviaria e dal National Theatre, studiata per favorire una rapida affermazione del format, peraltro facilmente replicabile.

Mangiare da Take In. Come funziona

Al momento, il primo esperimento della serie è stato disegnato per accogliere una cinquantina di commensali per volta, e pur non avendo cucina mette a disposizione stoviglie e posate su richiesta; oltre al servizio bar, per le consumazioni alcoliche e non. L’idea insomma è quella di ricreare un salotto aperto a tutti nel cuore della città, incoraggiando una forma alternativa di social eating tra le mura di un locale pubblico, mentre tanto si discute sulla legittimità degli home restaurant (specialmente in Italia, dove qualche settimana fa è stata approvata una controversa legge in materia). Tanto che ogni tavolo è stato pensato per un minimo di due commensali, conosciuto o meno che sia il compagno di merende. Ma come si ordina un pasto da Take In? È sufficiente accomodarsi al tavolo – non è richiesta la prenotazione – e ordinare via app (Wolt è la rete di riferimento) dal ristorante preferito. Il pasto arriverà nel più breve tempo possibile direttamente tra le mani di chi l’ha ordinato, che nel frattempo potrà intrattenersi bevendo un calice di vino o conversando con i propri vicini. Risolutiva per chi è in cerca di compagnia, l’idea ben si addice anche agli indecisi che non sanno proprio mettersi d’accordo su dove prenotare per cena: che si tratti di cucina etnica, pizza o specialità della tradizione locale, la possibilità di pescare dal menu di oltre 20 ristoranti di vario genere seduti allo stesso tavolo è una bella comodità per gruppi d’amici e famiglie che rivendicano esigenze e gusti diversi.

Dietro all’iniziativa c’è la supervisione di American Express, e questo lascia pensare che, se il bilancio dell’esperimento appena concluso darà esito positivo, presto potrebbero aprire ristoranti senza cucina in altre città d’Europa e del mondo.

Data Kitchen a Berlino. Il ristorante automatico

Ma formule alternative di ristorazione arrivano anche da Berlino, dove Data Kitchen ha aperto sul finire del 2016 per valorizzare le potenzialità dei big data, inaugurando di fatto una nuova frontiera del self service che punta sulla “digitalizzazione umanizzata”. In sala nessun cameriere, l'ordine avviene via app e online, il cibo viene consegnato al cosiddetto Muro del cibo, nel box indicato sul display del telefono. Il ritiro è facilitato dalle indicazioni luminose proiettate sul box in questione, ma in sala c'è pure un responsabile dell'accoglienza pronto a rispondere a qualsiasi domanda. Chi rende possibile tutto ciò è la Sap, specializzata nella produzione di software, che in partnership con Ars Electronica Futurelab e Cosmocode ha ideato il ristorante automatico di Rosenthaler Strasse.

La cucina c'è, ma non si vede, e lavora al servizio della funzionalità e dei tempi ridotti di una pausa pranzo, senza rinunciare alla qualità della proposta gastronomica. Ingredienti selezionati, stagionalità, e un cuoco, Alex Brosin, che vanta esperienze importanti.

 

Data Kitchen | Berlino | Rosenthaler Strasse | https://datakitchen.berlin/en/

 

a cura di Livia Montagnoli

Registro telematico del vino. Il prezzo del cambiamento

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Da gennaio le aziende vitivinicole sono tenute ad annotare tutte le operazioni di cantina per via telematica (attraverso il portale Sian-Sistema informativo agricolo nazionale) e non più cartacea, come avveniva prima. Una dematerializzazione alla quale tutte le cantine devono adeguarsi entro tre mesi. Chi ha già provveduto ci racconta come è andata.

Favorevoli, contrari, preoccupati, speranzosi, arrabbiati, soddisfatti: lo spettro delle reazioni tra le cantine italiane alla prova della dematerializzazione è ampio, in molti casi proporzionato alle dimensioni aziendali. Dopo un mese dell'entrata in vigore del registro telematico (che sostituisce quello cartaceo per le operazioni di cantina) e a tre mesi dalla data ultima per adeguarsi (30 aprile 2017) abbiamo provato a fare un sondaggio per capire, dai grandi gruppi ai più piccoli, come gli interessati se la cavino col nuovo sistema e come stiano vivendo questo particolare periodo di transizione. Prima, però, cerchiamo di capire cosa sia il registro telematico e quali operazioni devono esservi registrare. Se fino al 31 dicembre 2016 tutte le operazioni di cantina - entrata di mosti, vendita, ma anche spumantizzazione, dealcolizzazione, certificazione, invecchiamento, e tanto altro ancora - andavano inserite in un registro cartaceo, adesso, come previsto dal decreto attuativo Campolibero n. 293 del 20 marzo 2015 e dalla circolare ministeriale n. 1114 del 30 dicembre 2015, queste stesse informazioni andranno trasferite in forma esclusivamente telematica sul sito del Sian-Sistema informativo agricolo nazionale. Per adeguarsi c'è tempo fino al 30 aprile: chi non lo farà incorrerà nella sanzioni stabilite per legge.

Le cantine alla prova del digitale

Partiamo da un grande gruppo, che è stato tra i primissimi, lo scorso anno, a sperimentare il sistema, già dalla fase test per dare dei feedback e segnalare in tempo reale le criticità all'Icqrf (Ispettorato centrale repressione frodi).“Il sistema è complesso” spiega il direttore generale Fabio Maccari di Mezzacorona ma può dare tantissimi vantaggi nella semplificazione. Chiaramente, per aziende con le nostre dimensioni può essere complicato, vista la mole di registrazioni da fare, ma proprio per questo eravamo già abituati ai sistemi gestionali di cantina: per passare al registro telematico abbiamo solo dovuto far dialogare quello della nostra software housecon quello del Sian. Ci hanno lavorato i nostri tecnici senza bisogno di ampliare i nostri uffici e non mi risulta che ci siano stati momenti di vero impasse”. Dal primo gennaio, quindi, Mezzacorona è passato interamente al nuovo sistema senza alcuna difficoltà, d'altronde, chiosa Maccari: “Si tratta di un percorso ineludibile: il mondo – non solo l'Icqrf – sta andando in questa direzione. Le vie sono due: si può dominare il processo o subirlo. Noi preferiamo la prima opzione”.

C'è già dentro anche il gruppo Duca di Salaparuta (che riunisce i tre storici marchi, Duca di Salaparuta, Corvo e Florio), ma il giudizio non è così positivo come quello del gruppo trentino: “Noi abbiamo già ufficializzato il passaggio al nuovo sistema e ci stiamo lavorando” dice la responsabile della comunicazione Benedetta Poretti “Nella nostra esperienza, questo nuovo sistema va ad agire su un settore che era già sottoposto a rigidi controlli, quindi l’unico effetto significativo che registriamo è, in realtà, un aumento della burocrazia. L’aspetto amministrativo è aumentato a tal punto che abbiamo dovuto destinare una risorsa interna dedicata per ogni sito produttivo, con un conseguente aumento dei costi. Capiamo quindi che le aziende più piccole si trovino in difficoltà”.

 

Digitalizzare tutto?

E passiamo a un altro segmento. Cosa ne pensano i produttori della cosiddetta fascia media? “Io la vedo in maniera positiva” dice Luca Ferraro della cantina di Asolo Bele Casel (produzione di circa mille ettolitri) “Sono cose che prima o poi andavano fatte: nel 2017 non è più pensabile lavorare con la carta. Certo, il tutto deve essere una semplificazione, non una complicazione. Una soluzione? Invece di 100 giorni previsti da dedicare alla burocrazia, fare in modo da arrivare a 30, o per lo meno decidere di fare esclusivamente i controlli online, eliminando quelli in azienda. Questa sarebbe la vera rivoluzione”. Approfittando dell'urgenza registro telematico, Ferraro ha deciso di rivoluzionare un po' tutto il sistema di registrazione in cantina, per cui ha acquistato un programma che gestisce la contabilità, la vinificazione, i trattamenti in vigneto. Una digitalizzazione completa, la cui applicazione si aggira sui 10 mila euro (ci sono anche programmi da 1200 euro, ma ovviamente non è necessario averli per registrarsi al Sian). “Il vantaggio” spiega “è che, tramite applicazione, i dati si possono trasferire automaticamente al Sian”. Soluzioni alternative in ottica 2.0 che richiedono anche un cambio di mentalità, oltre a degli sforzi economici che non tutti sono pronti a fare. Soprattutto i piccoli produttori, per i quali l'investimento può non valere la candela.

Come se la cavano i piccoli?

Vediamo a tal proposito, l'esperienza negativa di Gabriele Succi dell'azienda agricola Costa Archi di Castel Bolognese (200 ettolitri l'anno per 15 mila bottiglie), che da 12 anni ha sempre compilato in autonomia il suo registro cartaceo. E adesso cosa cambierà? “Mi sono iscritto al Sian a fine dicembre” ci spiega “ma dopo le prime due operazioni ho lasciato perdere. Primo intoppo: all'inizio l'iscrizione non è andata a buon fine perché il sistema per un errore suo non aveva riconosciuto la mia azienda. Da lì perdita di tempo a contattare il Mipaaf per vedere, infine, sbloccata la mia posizione. Ma questo sarebbe il minimo. Il vero problema è che, invece, di trovarmi davanti un fac-simile del registro cartaceo, con la classica partita doppia a cui ero abituato, mi son ritrovato un sistema per nulla intuitivo. Ogni pagina ha dei menu a tendina e bisogna compilare ogni voce singolarmente. Ci sarà anche chi calcola gli integrali in due minuti, ma io sono un produttore di vino. Tra l'altro, visto il sistema così complicato non ho intenzione di rinunciare al cartaceo, se non altro per avere la situazione sotto controllo e per non stare col timore di aver commesso errori. Quindi, si tratterebbe veramente di un lavoro doppio”.

E se, come molti produttori hanno già denunciato, il sito del Sian è andato più volte in crash, le preoccupazioni di Succi sono rivolte soprattutto al periodo della vendemmia quando potrebbe esserci un sovraccarico del server: “Ok, la legge me lo impone, ma se mi imponesse di andare sulla luna io mica ci andrei. Cosa succederebbe se per una volta tutti noi piccoli produttori ci mettessimo d'accordo per non farlo? Già durante l'anno ci è imposto di fare il corso anticendio, il corso per guidare il trattore, quello per la sicurezza, ma io quando ci sto in vigna?Senza retorica, credo che si tratti solo di una mossa politica per poter dire che l'Italia è la prima in Europa ad aver dematerializzato. Sulle spalle dei viticoltori, però. Tra l'altro vorrei ricordare che, ad esempio in Francia, per i piccoli produttori non è previsto neppure un registro, ma solo una denuncia di produzione annua con la specifica delle vecchie giacenze, che va fatta annualmente e con calma. Perché qua dobbiamo complicarci la vita?”

 

Fivi: “Esenzione per i piccoli produttori”

E di fronte alle perplessità dei piccoli produttori, non potevamo non chiamare in causa anche la Fivi-Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti.“Non ho ancora esperienza personale” dice la presidente Matilde Poggi “perché, per il momento, mi sono limitata solo ad iscrivermi al Sian. Ci sarebbe comunque piaciuto che il ministero ci avesse dato una risposta sulla richiesta di esenzione sotto i 300 hl. Il nostro pensiero e auspicio è che la dematerializzazione non sia una penalizzazione per i piccoli, che non li obblighi cioè a rivolgersi ai CAA (centri assistenza agricola; ndr) per poter inviare i movimenti in telematico”.

Gli fa eco il consigliere Fivi Gaetano Morella: "Secondo me è stata un'occasione un po' persa, perché si poteva fare di meglio. Per alcuni versi il registro telematico è migliorativo perché i dati da inserire sono meno rispetto al registro cartaceo, ma ha diversi aspetti negativi. Per prima cosa non è proprio intuitivo: si vede che è stato pensato dal punto di vista del controllore, non da quello di chi lo deve usare. Per molti risulta difficile la compilazione da soli, per cui nasce l'esigenza di affidarsi ai centri di assistenza agricola o di acquistare programmi (con relativa assistenza) che costano dai 1500 euro in su. In questo sembra un affare più per chi vende programmi che per semplificare il lavoro del vignaiolo”. In poche parole: aumento dei costi, aumento dei tempi. Almeno per i piccoli, tiene a precisare Morella: “Le realtà più grandi hanno già chi si occupa solo di amministrazione e di registri. Il piccolo produttore, specie quello che produce sotto i 200 ettolitri, che fa tutto da sé o in famiglia si trova, invece, penalizzato”.

 

Dal nostro sondaggio sembrerebbe, quindi, che i pareri siano molto contrastanti. Probabilmente a soffrire di più sono le piccole aziende che molto difficilmente riusciranno a cavarsela da sole e che quindi dovranno per lo meno fare un investimento, a scelta tra una risorsa in più, un consulente esterno o un programma di gestione. Meglio le medie aziende che, potranno cavarsela contando già su un loro “ufficio-burocrazia”. Bene, ma non troppo, le grandi che hanno sì una struttura articolata, ma anche un carico di attività notevole a cui corrisponde un numero spropositato di registrazioni. Ma, forse, la vera notizia è un'altra: chi si occupa di software house non può certo non aver fiutato l'affare. Ancora pochi mesi e il mercato sarà pieno di programmi di gestione digitale della cantina. Ma questa è un'altra storia: c'è tempo fino al 30 aprile per entrare nel business.

 

a cura di Loredana Sottile

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 2 febbraio
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Salon du Chocolat a Milano, la fiera che celebra il cibo degli dei

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Torna, dal 9 al 12 febbraio a Milano, il Salon du Chocolat, la manifestazione nata in Francia e dedicata al cibo degli dei. Eventi, laboratori e naturalmente tanti assaggi all'insegna della qualità.

Il Salon du Chocolat

Sono trascorsi 21 anni dal primo Salon du Chocolat, la fiera parigina che, nel tempo, ha riscosso successo in tutto il mondo. Una manifestazione che raduna maitre chocolatier, pasticceri, produttori e tutti gli esperti del settore per promuovere e valorizzare questo prodotto, consumato da molti, ma conosciuto ancora da pochi. L'evento si rivolge a tutti, dai professionisti agli appassionati, ai principianti che vogliono addentrarsi in questo ambito. Tre giorni alla scoperta dell'intera filiera da cui il cioccolato prende vita, dalla fava al prodotto finale. Un weekend goloso per cogliere le diverse sfumature aromatiche e imparare a distinguere un buon prodotto artigianale da uno industriale. Ernst Knam, Davide Comaschi, Roberto Rinaldini, Marcello Ferrarini, Guido Castagna, Gianluca Fusto, Iginio Massari, Davide Oldani, Gualtiero Marchesi: questi sono solo alcuni dei professionisti del settore coinvolti nel programma della manifestazione, che per questa seconda edizione si arricchisce di appuntamenti.

Il programma

Un evento che abbraccia anche altri settori, come quello della moda, con il Chocolate Fashion Show, che apre la manifestazione con una serata di gala, in cui stilisti e cioccolatieri presenteranno le loro nuove creazioni. E poi pastryshow, chocoshow e tanti laboratori pratici per mostrare al pubblico il processo produttivo che c'è dietro una pralina. Non mancheranno, inoltre, attività dedicate ai più piccoli, che potranno imparare a realizzare dolci a base di cioccolato semplici e gustosi. E non finisce qui: la merenda per i bambini al Salon du Chocolat si fa vegan con la collaborazione dello chef Stefano Broccoli e di FunnyVeg, agenzia di comunicazione impegnata nella promozione dello stile di vita vegano e da poco attiva anche nel campo della formazione con la neonata Funny Veg Academy. Ancora, presso il palco della Chocosphere, il focus sarà sull'analisi sensoriale e degustazione dei pregiati cacao, in purezza e in abbinamento a bevande e distillati. Non può mancare poi un angolo dedicato a San Valentino, la festa degli innamorati che da sempre vede fiori e cioccolatini fra i regali più gettonati: per celebrare l'amore, Davide Comaschi, maestro pasticcere e vincitore del World Chocolate Master di Parigi nel 2013, realizzerà un cuore di cioccolato dedicato a Lilt, Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori.

Da non perdere, infine, il talk show “Una storia infinita: allievi e maestri a confronto tra tradizione consolidata e esperienza contemporanea” con Gualtiero Marchesi, Iginio Massari, Davide Oldani e Davide Comaschi, che domenica 12 cercheranno di definire insieme un punto d'incontro fra presente e passato della pasticceria italiana. E poi workshop sulle creme spalmabili, seminari sull'utilizzo del cacao in cucina, focus sulla gianduia, gelato al cioccolato e molto altro ancora in questa edizione ricca di appuntamenti golosi.

A ospitare la manifestazione, MiCo – Milano Congressi, situato nei pressi della stazione metropolitana di Portello. Il prezzo dell'ingresso giornaliero è di 15 Euro per gli adulti e 10 per ragazzi dagli 11 ai 15 anni, con diverse promozioni disponibili per famiglie e i gruppi.
Salon du Chocolat | Milano | Porta Nuova Varesine | dal 13 al 15 febbraio 2015 | www.salonduchocolat.it/ita/2015/
 

a cura di Michela Becchi

A Roma nasce Altrove: dal terzo settore alla buona tavola

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Quand'è che un ristorante è davvero buono? Quando è buono il suo cibo o quando è buono anche il suo intento? Noi crediamo che alcuni progetti abbiano un valore in più a partire dal loro obiettivo. Come Altrove, costola aziendale della onlus Cies, che promette di dare sostenibilità all'intero progetto e integrazione sociale e lavorativa per rifugiati e giovani che vivono condizioni di disagio.

La storia di Altrove inizia molto lontano, nel tempo e nello spazio, è un racconto che è fatto di tanti racconti: quelli di persone che a loro volta arrivano da lontano. Oltre l'Italia. Da terre difficili, zone di conflitto o di povertà assoluta, ma a volte anche da un altrove geograficamente molto vicino, quello delle zone disagiate delle nostre città. Perché la storia di questo ristorante che sta scaldando motori e fornelli a un passo dall'Eataly di Roma, è la storia di un progetto molto grande. Che include formazione e inserimento al lavoro, integrazione sociale e autosufficienza economica. È un'impresa ristorativa a tutti gli effetti e come tale deve stare sul mercato secondo criteri commerciali, ed è lo sbocco imprenditoriale di una Onlus impegnata proprio a mettere in circolo dignità attraverso il lavoro. E coinvolge rifugiati, minori non accompagnati, giovani che hanno trascorsi difficili e che trovano in questo progetto una via di sbocco.

Altrove

 

Il progetto

Dietro Altrove, che ha come claim Porte aperte sul mondo (e il richiamo alle porte è un contrappunto costante nel grande bancone e in tutto il locale) c'è Matemù: un centro di aggregazione giovanile gestito dal Cies (Centro Informazione ed Educazione allo Sviluppo), che si occupa di sostegno allo studio, attività ricreative, insegnamento della lingua italiana, avviamento al lavoro con corsi professionali come i due già fatti nel settore della ristorazione (e in programma ce ne sono altri due, ognuno per 15 persone, ma si potrebbe anche superare l'obiettivo). “La Onlus Cies conta su alcuni finanziatori che sostengono le attività e coprono i costi dei tirocini fatti alla fine dei corsi presso i ristoranti” spiega Elisabetta Melandri, presidente del Cies. Con alcuni locali si è consolidata una collaborazione e si è creata una rete: “la formazione è mirata in base alle loro effettive esigenze per agevolare l'inserimento professionale”. Insomma: inutile formare un pasticcere se al momento c'è bisogno di un pizzaiolo, e viceversa. Molti hanno dimostrato particolare sensibilità alle tematiche del Cies e gradimento per il lavoro svolto: “alcuni hanno tenuto con loro i ragazzi dopo lo stage, anche con contratti a tempo indeterminato – e noi monitoriamo che si tratti contratti equi- apprezzando molto il valore aggiunto della tradizione gastronomica che ognuno porta con sé”. Ci sono belle storie, e sarebbero tutte da raccontare: c'è Khoudia che viene dal Senegal che a luglio ha iniziato un percorso professionale presso Yugo Fusion Bar; Sarah, nata in Italia da genitori filippini, oggi al Korean BBQ Galbi, o Mohammed dall'Egitto che lavora alla pizzeria Al Ferro. Alcuni, poi, sono coinvolti a loro volta nelle docenze.

 

Altrove

 

Il passaggio successivo è stato aprire un ristorante sulla spinta dell'esperienza di Matemù, dove far confluire la forza lavoro formata nei corsi e dove ospitare i futuri percorsi di formazione. Si tratta di un'azienda come tutte le altre, e come tutte le altre dovrà essere competitiva e allettante, per proposta gastronomica, piacevolezza dell'ambiente, filosofia.

Emerge in modo sempre più evidente che il futuro delle cooperative sociali è la loro sostenibilità economica: devono produrre reddito così da uscire da un'ottica puramente assistenzialista. Difficile, ma non impossibile, se pensiamo alle molte imprese di cui vi abbiamo già parlato, come quelli nelle carceri, quello di Venezia con gli immigrati, con i disabili a Torino.

 

Il locale

253 metri quadrati su due piani firmati dall'architetto Giuseppe Pellei, con un grande bancone per la colazione e la proposta veloce del pranzo, e di fronte tavoli, sgabelli, divani e un angolo più riservato. “Per ora sarà aperto dalla 10 alle 16 dal lunedì al giovedì e la domenica, il venerdì e sabato fino a dopo cena” dice Elisabetta “con l'obiettivo poi di estendere il servizio della cena. Ma solo quando saremo pronti”. Al piano terra il laboratorio di panificazione e pasticceria, al piano interrato la cucina e gli spazi di servizio. Operativi anche per accogliere, nel pomeriggio, i 15 allievi dei prossimi corsi: 5 per la cucina, 5 per la pasticceria, 5 per la sala. Ma i fondi per aprire questo locale? “Abbiamo delle sponsorizzazioni: Costa Crociere per il percorso formativo e alcune attrezzature, Fondazione Banca d'Italia, Fondazione della Tavola Valdese, Fondazione Terzo Pilastro” dice Elisabetta “e poi abbiamo sostenuto noi personalmente delle spese e acceso un mutuo con un finanziamento agevolato di Banca Prossima”. Non esistono altri sostegni alle imprese sociali, per ora, perché si è in attesa di definizione del pacchetto più ampio della riforma del terzo settore. È stata costituita una Srl con obiettivi sociali; nello statuto c'è scritto che tutti i proventi del ristorante saranno devoluti a sostenere il centro Matemù e le altre attività del Cies.

 

Altrove

Un dolce

 

La proposta gastronomica

In questa struttura ci sono un direttore (Sandro Balducci), deitutor e sous chef, questi ultimi, come il resto del personale, usciti dai corsi di Matemù, come Benedetto Falcioneche è anche impegnato nella formazione, Alina e Haithem, lavapiatti e aiuto pasticciere. Tre diverse linee: la pasticceria e la panificazione sono firmate da Valerio Parisi, che qualcuno ricorderà nella bellissima esperienza di Dall'Anto, quella panetteria del rione Monti che ha portato a Roma, per un paio di anni, alcuni tra i migliori pani d'Italia. Per la cena l'head chef per l'avviamento è Lorenzo Leonetti di Grandma Bistrot (che è anche formatore) mentre la linea del pranzo è di Claudia Massara, altro volto noto nelle cucine capitoline, che è stata nell'organigramma di posti come Convivio Troiani e Tricolore Monti ai tempi di Franco Palermo.

Nei piatti c'è un continuo, ma sobrio, riferimento alle tradizioni che ognuno dei ragazzi porta con sé. “perché l'obiettivo è quello di insegnare e di imparare, lasciandoci contaminare e senza sradicare la loro cultura di origine” quindi spezie e prodotti esotici si inseriscono su una base che più italiana non si può, originale ma con misura. “Interpretiamo il menu come se fosse un viaggio ed ogni singolo piatto come una delle mete e delle tappe. Ci piace conoscere ingredienti nuovi, scoprire come si usano nel mondo, trovarne utilizzi diversi e inventare un nuovo linguaggio con cui comunicare”. A volte si tratta di qualche riverbero appena accennato, altre di richiami decisi: ai 16 piatti della cena che, in osservanza sia alle suggestioni straniere sia al cambiamento dei consumi, sono suddivisi solo in antipasti e piatti principali fa eco una proposta più ampia, appena meno creativa del pranzo, con una varietà di cereali, verdure, e proteine da scegliere dal bancone, insieme a panini originali in diverse misure, ovviamente con il pane che Valerio Parisi sforna ogni giorno.

 

Altrove

Un piatto di Altrove

 

La cucina di Altrove ha un'anima. Rispetta le persone e le materie prime usando metodi di cottura antichi ed elementari”. In piena coerenza anche la scelta dei fornitori, con una preferenza a quelle aziende che hanno un contenuto etico, come Libera, Barikamà (la cooperativa di immigrati reduci di Martignano che produce frutta e yogurt) e altre aziende impegnate direttamente nella difesa dell'ambiente e rispettose delle regole tipiche di un sano e onesto rapporto di lavoro”. Ma cosa si mangia da Altrove? Polpo rosticciato in panura al timo con cannellini piccanti con taihina, limone e cipolla rossa di Tropea; Polpette speziate di pecora con carote e pastinaca al forno e salsa piccante di feta e pistacchi; Spaghettone artigianale con sgombro, curry, carciofi, noci e cipollotto. Da provare, possiamo scommetterci, anche pane e dolci: “La preparazione dei dolci è un vero e proprio gesto di amore verso gli altri”.

 

Altrove | Roma | via Girolamo Benzoni, 32 | www.altroveristorante.it | a partire dal 15 febbraio 

 

a cura di Antonella De Santis

 

Massimo Bottura è Dottore in Direzione Aziendale. La laurea ad honorem dell'università di Bologna

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Annunciato alla fine del 2016, il prestigioso riconoscimento assegnato dall'Alma Mater di Bologna è stata consegnato qualche ora fa al “laureando” Massimo Bottura, durante una cerimonia affollata in Aula Magna Santa Lucia. Ecco com'è andata. 

La laurea per l'imprenditorialità

Il contesto è quello di rigore: un'Aula Magna gremita – presente anche il ministro Maurizio Martina e tanti colleghi chef, da Ciccio Sultano a Massimiliano Alajmo - i cortei decorati, dietro la cattedra un'infilata di personalità del mondo accademico, dal Magnifico Rettore dell'Alma Mater di Bologna Francesco Ubertini al professore di organizzazione aziendale Max Bergami (che questa cerimonia l'ha ispirata e fortemente voluta), al direttore del Dipartimento di Scienze Aziendali Carlo Boschetti. E l'ambito di pertinenza tradisce subito la peculiarità della laurea ad honorem che l'ateneo bolognese ha deciso di assegnare al “laureando” Massimo Bottura, emozionato e bardato di tutto punto, stretto tra i professori. Imprenditore esemplare, prima ancora che chef in vetta alle classifiche mondiali. Almeno stavolta, per il tempo di ricevere il riconoscimento in Direzione Aziendale: non più abile cuciniere alla guida della Francescana, né promotore di un'iniziativa solidale che ha letteralmente conquistato il mondo, o ambasciatore per eccellenza dell'alta ristorazione italiana all'estero... O meglio, tutto questo insieme, perché “il percorso di Massimo Bottura si colloca all’incrocio tra imprenditorialità, cultura e tecnica e rappresenta un esempio per la diffusione della cultura italiana e per lo sviluppo del Made in Italy a livello internazionale”, spiega il rettore Ubertini. E la motivazione che legittima la consegna di uno dei riconoscimenti “tra i più solenni di tutta la vita accademica”, non lascia adito a dubbi: “Massimo Bottura rappresenta un caso esemplare di gestione di una piccola impresa familiare italiana, raggiungendo in pochi anni un successo senza precedenti e una notorietà a livello globale. Dal punto di vista aziendale ha realizzato una deliberata strategia di crescita, volta allo sviluppo della qualità e alla visibilità internazionale, mediante visione, capacità imprenditoriale, creazione e gestione del team, innovazione di prodotto e raggiungimento di un livello di servizio molto elevato”.

 

Bottura: esempio concreto di eccellenza italiana

E di più, un inequivocabile “esempio di innovazione”, in cui si fanno confluire la valorizzazione della tradizione e del territorio, l'ispirazione all'arte contemporanea e alla musica jazz, tutto al servizio di una creatività che genera successo, reddito, crescita professionale, “inesauribile desiderio di scoperta”. Del resto, conferma il Magnifico Rettore aprendo la cerimonia, “Bottura incarna un tipo di esperienza culturale connessa con l'Italia, e nello stesso tempo la sua storia personale va in molteplici direzioni: in lui la sapienza del cibo è unita alla capacità dell'imprenditore”. La sua è “una saggezza antica applicata ai nostri giorni”, che attribuisce “un valore specifico ai gesti”, perché per Massimo Bottura “la tradizione è una conquista lunghissima”. E questo non è scontato. Poi c'è l'impegno sociale, che più volte tornerà nei discorsi del pomeriggio bolognese: “Bottura non è solo un creativo, ma un uomo che sa condividere con la società i risultati della sua azione, e agisce nei punti nevralgici del nostro tempo”. E per tutto questo, chiosa il rettore, “un esempio concreto di eccellenza italiana”. Quando la parola passa a Max Bergami la platea ha modo di ripercorrere la lunga carriera dello chef, imprenditore alle prime armi ai tempi del Campazzo e più tardi guida sicura della Francescana, “un approccio da imitare per visione, focalizzazione strategica, identità comunicativa, persistenza”, e non solo un modello per la ristorazione, ma per tutte le piccole imprese. Anche se, e Bergami si prende il tempo per sottolinearlo, “questa è una laurea a tutta la cucina italiana , ai produttori e ai distributori dei prodotti italiani all'estero”, a chi persegue progetti impossibili perché crede nella possibilità di riuscire. E il sentimento in cui sfuma la Laudatio è quello della gratitudine. Sincera.

 

È bello essere patata

Quando dopo la consegna del diploma prende la parola il laureato, per la sua Lectio Magistralis, l'emozione è palpabile. E il primo ricordo è per la mamma che non c'è più. Bottura si muove abile su e giù attraverso la storia sua e della squadra che è sempre al suo fianco, anche a Bologna, sugli spalti dell'Aula Magna. E la sua realtà, quella costruita insieme a loro, la paragona a una bottega rinascimentale, un laboratorio di idee dove si condividono stile e cultura. E di più un movimento, capace di creare insieme il turismo gastronomico: “Siamo gli imprenditori del bello e del buono”, afferma convinto. Parla di energia, positività, meraviglia, motivazione. E dubbio. “A noi piace sempre vincere”, e per questo è importante giocare “con il cuore e con la mente”. Ma pure contemplare “la capacità di saper sbagliare, inciampando sull'inaspettato per guardare il mondo da un'altra prospettiva”. È il momento di citare Ops!, la mitica crostatina. Poi però arriva il momento delle patate di Montese, quella che sognano di diventare “un glorioso tartufo”. Ma in fondo sono “solo” patate. È il dessert della “nuda verità”, squisito nella sua realtà, “perché non tutti possiamo essere tartufi, per la maggior parte siamo patate. Ed è bello essere patata”. Applausi.

 

a cura di Livia Montagnoli

Pasticceria Simona: la bottega delle frappe di Ostia che apre solo a Carnevale

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Febbraio, tempo di frappe e castagnole. Sul litorale romano, nel quartiere di Ostia, si trova un piccolo laboratorio che apre solamente nel periodo di Carnevale per preparare i dolci della tradizione. Si chiama Pasticceria Simona e questa è la sua storia.

Pasticceria Simona

Questo è il racconto di un'amicizia, di una famiglia, dell'amore per la campagna e per il buon cibo. È la storia di due amici campani, Lorenzo Russomanno e Giuseppe Gifoli, avellinese il primo e salernitano il secondo, che dopo il diploma alla scuola alberghiera decidono di trasferirsi a Roma per trovare fortuna. Un'amicizia solida, fondata su una passione comune (quella per la tavola), che continua ancora oggi, ora che la loro avventura culinaria ha avuto talmente tanto successo da consentire loro di aprire solamente un mese l'anno. È la storia della Pasticceria Simona, una bottega dedicata interamente alla produzione di frappe a Ostia Lido, quartiere periferico capitolino affacciato sul mare, che è riuscita a farsi conoscere non solo nella zona ma in tutta Roma. Ma come sono arrivati a questo successo? A raccontarci la storia è proprio Simona, la figlia di Lorenzo.

Gli inizi

Partono verso la fine degli anni '70 dall'Hotel Shangri La di Roma, in zona Eur, papà Lorenzo e quello che Simona, dopo tanti anni, chiama affettuosamente “zio”, lavorando come camerieri. “Sono sempre stati entrambi appassionati di cucina, ma trovare lavoro come chef non era semplice. E così hanno iniziato dalla sala”. Vivono ad Acilia, frazione di Roma non distante da Ostia, e nel frattempo cominciano a cercare un laboratorio disponibile nella loro zona per dare sfogo alla loro creatività. Pur lavorando come camerieri, nel tragitto sala-cucina e a fine serata sostano fra i fornelli, a osservare gli chef e i pasticceri all'opera, apprendendo tecnica e manualità. Prestano attenzione a ogni gesto, agli ingredienti utilizzati e la loro lavorazione e memorizzano tutto. Così, non appena trovano uno spazio libero a Ostia, si lanciano nell'avventura che ancora oggi continua in via delle Repubbliche Marinare, a pochi passi dal lungomare.“Nell' '82 hanno preso in gestione il locale, dapprima in affitto e poi come proprietari, proponendo dolci classici della tradizione: mignon, biscotti, torte e crostate”.

Le frappe

Fin da subito hanno proposto frappe e castagnole per il periodo di Carnevale “senza tante pretese o aspettative”, e invece il successo è stato immediato. “La risposta della clientela è stata davvero inaspettata per loro: tutti sono letteralmente impazziti per le frappe e si è iniziata a spargere la voce per il quartiere”. Così hanno continuato, anno dopo anno, a produrre queste specialità “puntando sempre più sulla qualità che sulla quantità”, cominciando a farsi conoscere gradualmente in tutta Roma. Niente social network o sito web o pubblicità di alcun tipo: siamo alla fine degli anni '80 e il mezzo più potente per promuovere un'attività è il passaparola dei clienti. E così è stato. La fama della bottega delle frappe di Ostia è cresciuta in maniera smisurata, tanto da spingere i due soci ad aprire esclusivamente nel periodo di Carnevale.

 

Frappe

Una scelta insolita

Nel 2009 hanno deciso di tenere aperta la pasticceria solo in occasione della festa. Stare aperti tutto l'anno in realtà non comportava un grande vantaggio per gli affari: c'erano dei clienti abituali che venivano per mignon e torte di compleanno, ma il vero guadagno si aveva con le frappe”. Andando avanti con l'età, Lorenzo e Giuseppe scelgono così di dedicarsi alla loro prima passione, “la campagna”. Quando la pasticceria chiude i battenti, i due tornano ognuno nella loro terra di origine per curare l'orto e gli ulivi di famiglia. E lo fanno solo come hobby: “Si tratta di piccole produzioni per la famiglia, niente vendita”.

Le code infinite e la preparazione

Quando apre, dunque, il laboratorio? “Solitamente pochi giorni dopo la befana, a partire dal 9 gennaio, per poi chiudere alla fine del Carnevale”. Non ci sono date fisse, perché queste variano ogni anno a seconda del calendario. E questa insolita scelta comporta code molte lunghe, e spesso vane: “Purtroppo capita che alcuni clienti aspettino in fila per molto tempo e poi rimangano a bocca asciutta. In laboratorio sono solo in due a lavorare, più un collaboratore esterno che dà loro una mano, per questo la produzione è limitata”. E non solo: “le frappe vengono preparate artigianalmente ogni giorno, senza l'utilizzo di macchine o altri strumenti. Fanno ancora tutto a mano e friggono più volte al giorno, per garantire la massima freschezza del prodotto”. Ma il loro principio è da sempre lo stesso: qualità e non quantità, per cui una volta terminato il ciclo di produzione, ci si ferma per ricominciare il giorno dopo. Particolari anche gli orari di apertura, dalle 15.30 alle 19.00 dal lunedì al sabato, con l'apertura mattutina straordinaria solo di domenica. Ma questo non ferma i consumatori, che si recano da ogni parte di Roma e non solo: “Una volta sono venuti dei clienti da Frosinone! Un loro amico gli aveva fatto assaggiare le nostre e sono tornati appositamente per acquistarle”.

 

Pasticceria Simona

La ricetta

Ma cosa hanno di speciale queste frappe per far accorrere golosi da tutta Roma (con il rischio di non trovarle)? “Gli ingredienti sono quelli che potete trovare in etichetta, i classici elencati in qualsiasi ricetta. Il segreto sta nella lavorazione”. La ricetta è quindi quella tradizionale, testata dapprima da zio Giuseppe, “il più portato per i dolci”, e poi in seguito modificata. Come? “Questo non lo so neanche io”, sorride Simona. Perché in questa bottega così particolare è impossibile assistere alla lavorazione del prodotto. “Sta tutto nella manualità, nel modo in cui la pasta viene maneggiata”. E nella frittura, che deve essere “molto veloce” e deve avvenire “sempre in olio pulito”. L'olio migliore? “Quello di arachidi, perché ha un punto di fumo abbastanza alto e non conferisce sapore e sentori troppo forti al prodotto”.

Gli altri prodotti

Un format inconsueto che però dà spazio anche ad altre specialità dolci della tradizione. Ci sono i cornetti la domenica mattina e poi i biscotti da tè, i mignon, i bavaresi e i montblanc, “il prodotto più richiesto dopo le frappe”. Immancabili anche le castagnole, disponibili nella versione classica, aromatizzate al rum oppure ripiene di crema pasticcera, “per me, queste ultime sono le migliori”.

 

Frappe e castagnole

Dolci semplici e gustosi, che ripropongono il sapore delle classiche pastarelle di una volta: “Mio padre e mio zio sono entrambi molto legati alle tradizioni. In pasticceria non ci saranno mai prodotti particolari o nuovi: è parte del fascino del nostro laboratorio”. Nostro perché anche Simona ormai fa parte della squadra, lavorando come cassiera. E anche il fratello, che gestisce la pagina Facebook e il sito web “nato per volontà di mia madre, proprio per poter tenere aggiornati i nostri clienti sugli orari e il periodo di apertura”.Nel frattempo però, Simona porta avanti la sua passione per il cake design, “in cui spero di specializzarmi al più presto”.

Pasticceria Simona | Ostia (RM) | via delle Repubbliche Marinare, 50 | frappesimona.altervista.org/

a cura di Michela Becchi

Pipero. Il nuovo ristorante nel centro di Roma nel racconto del patron e di Luciano Monosilio

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Alessandro Pipero si appresta a tornare da protagonista sulla scena gastronomica capitolina: dopo il trasloco, tra pochi giorni apre il nuovo ristorante affacciato su piazza della Chiesa Nuova. Lo visitiamo in (video)anteprima, con il racconto del maitre e dello chef Luciano Monosilio. 

Il nuovo Pipero

Roma centro, Corso Vittorio Emanuele angolo via Larga, proprio dirimpetto alla Chiesa Nuova disegnata da Francesco Borromini. Alessandro Pipero e la città barocca a confronto, una nuova piazza da conquistare per il maitre più celebre della Capitale, uno dei più stimati in Italia, che all'alta ristorazione ha saputo conferire una cifra stilistica personalissima e originale. Un'impronta difficilmente replicabile, che l'asticella delle aspettative, all'inizio di una nuova sfida, la fa schizzare decisamente verso l'alto. Qualche giorno ancora (sicuramente entro il 14 febbraio) e il nuovo Pipero, un bel ristorante elegante da 400 metri quadri su due livelli concepito in società con Edoardo Narduzzi, sarà pronto per accogliere i clienti di sempre – tanti stranieri in visita alla città e i fedelissimi che non smettono di far squillare il telefono, nella speranza che l'attesa sia finalmente finita – e chi avrà voglia di scoprire per la prima volta l'universo della ristorazione d'autore capitolina alla maniera dello scanzonato maitre di Albano Laziale e del suo braccio destro in cucina, lo chef Luciano Monosilio. Dietro al trasloco più atteso degli ultimi mesi, dal Rex all'Esquilino alla volta del rione Parione per cominciare un'avventura in solitaria, frutto di investimenti importanti e altrettanto ambiziosa in quanto a obiettivi auspicati (“Puntiamo alla seconda stella, le aspettative sono alte e noi ci mettiamo la faccia: ora si fa sul serio”), c'è il desiderio di fondare “una grande tavola”, qualcosa che manca in città e possa conquistare i riflettori europei, in vista, chissà, di una futura espansione internazionale.



Una grande tavola per Roma

Una tavola dove la cucina conta, e tanto, ma è supportata da tutto il resto, l'accoglienza e il servizio che si fanno intuizione e psicologia, buon senso, tatto e professionalità, capacità di mettere al centro il cliente. E le sue esigenze. Una grande tavola tra grandi tavole, il Pagliaccio di Anthony Genovese, Per me e la cucina di Giulio Terrinoni, la tradizione di Roscioli poco più in là. E ora Pipero, introdotto dalla bella targa dorata all'ingresso, a rinsaldare un quadrilatero gastronomico che cammina a testa alta. Pur con tutti i limiti del caso: “Roma professionalmente ha i numeri per fare bene, poi ti scontri con la burocrazia, i tempi, il bigottismo all'italiana”. Ma Pipero, la sua città, la ama. Con lui c'è la squadra di sempre, oltre a Luciano e al suo secondo (Davide Puleio) anche Achille Sardiello, il giovane casertano che lo affianca in sala. Lo spazio invece è tutto da scoprire, luminoso, rilassato, mise en place elegante e arte contemporanea alle pareti, per ospitare il percorso dell'artista romana Cecilia Luci (una sorta di antologica al ristorante, che diventa così galleria): il colpo d'occhio dal soppalco in fondo, sopra la zona bar, conquista al primo sguardo. Ma pure la disposizione dei tavoli, solo 45 coperti per una sala così ampia, conferma che la soddisfazione del cliente, da Pipero, viene prima di tutto: “Qui si spende tanto (i prezzi subiranno un leggero rialzo, con la sostenibilità economica dell'impresa bisogna fare i conti, ndr), è giusto che il nostro obiettivo non sia quello di macinare numeri a scapito della qualità. Ma ci vogliono le palle, quelle vere, per farlo”.
 

La cucina. I menu

Dalla cucina le altre novità: un menu per raccontare la storia degli ultimi anni, Radici, e un percorso degustazione più lungo, 13 portate che sono i Rami del Pipero che verrà. Poi la carta, 12 piatti in tutto, fuori la mitica Carbonara (ma la sorpresa trovatela nelle parole di chef Monosilio!). Per un totale di 45 piatti circa, uno diverso dall'altro, e una ricerca che promette di regalare soddisfazioni. Si mangia al tavolo, al banco del bar (solo per due), in cantina, al piano di sotto, al tavolo da 8 circondati da etichette prestigiose. Il morale è alto, lo spirito di squadra invariato, tutti pronti a prendersi meriti ed (eventuali) colpe. Del resto, “quelli come noi hanno ricevuto un dono, molte cose sono cambiate, ma certe altre non si possono cambiare. La nostra identità resta”. E, ci sentiamo di dire, è una garanzia.

 

Pipero | Corso Vittorio Emanuele, 246 | Roma | www.piperoroma.it

 

a cura di Livia Montagnoli

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