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Valtellina Casera’s Days.Scoprire il Valtellina Casera Dop nelle stazioni di Milano

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Un viaggio nelle stazioni ferroviarie milanesi alla scoperta del Valtellina Casera Dop. È la nuova campagna di comunicazione del Consorzio per la tutela dei formaggi Valtellina Casera e Bitto, che porta il prodotto valtellinese tra i viaggiatori, per far conoscere le sue caratteristiche al grande pubblico. Con un testimonial d’eccezione, lo chef Andrea Mainardi, e un ricettario creato appositamente.

 

Il Casera in viaggio, si parte dalla stazione di Milano Cadorna

È prevista per il 26 e 27 gennaio la prima tappa del viaggio che il Valtellina Casera Dop ha organizzato nelle stazioni di Milano e del suo hinterland. Durante ciascuna tappa, a cominciare da Milano Cadorna, i viaggiatori hanno l'occasione di conoscere, e assaggiare, i prodotti del Consorzio per la tutela dei formaggi Valtellina Casera e Bitto. Claim della campagna ideata da Sviluppo Creativo? “In Valtellina lo fanno tutti i giorni… Il formaggio naturalmente!”. Lo scopo è quello di valorizzare il formaggio valtellinese e modificare la percezione dei consumatori (che lo vedono più adatto alle grandi occasioni), facendolo entrare più nelle consuetudini alimentari. Durante i Valtellina Casera’s Days, così li hanno chiamati gli organizzatori, nelle varie stazioni coinvolte ci saranno degustazioni gratuite del Valtellina Casera Dop e dei piatti della tradizione valtellinese. Durante la prima tappa si ha la possibilità di seguire il cooking show dello chef Alessandro Bianucci, che mostra i migliori abbinamenti per il formaggio lombardo, e la performance dello chef Andrea Mainardi, testimonial della campagna. Ad animare le giornate del casera anche Charlie Gnocchi di Striscia la notizia, che coinvolge i viaggiatori in sketch legati allo slogan della campagna.

 

Il Valtellina Casera Dop

Il Valtellina Casera Dop è un formaggio ottenuto da latte vaccino parzialmente scremato, a pasta semicotta e semidura, prodotto lavorando il latte degli allevamenti della provincia di Sondrio. Ogni anno il Consorzio per la tutela dei formaggi Valtellina Casera e Bitto, produce nei caseifici di fondovalle circa 180 mila forme. Le origini del Casera risalgono al 1500, quando gli allevatori mettevano insieme il latte per produrre formaggio nelle latterie sociali, una filiera che sopravvive ancora oggi, dato che 12 aziende producono il formaggio con latte proveniente da oltre 130 soci del consorzio.

Il Valtellina Casera giovane, che stagiona minimo 70 giorni, ha trovato un perfetto sodalizio con il grano saraceno. Da qui i piatti della tradizione valtellinese come i pizzoccheri e gli sciatt. Con il prolungarsi della stagionatura, il sapore si fa più ricco e l’aroma più intenso, emergono note di frutta secca e foraggio, mentre la pasta diventa più consistente. In questo caso si mangia prevalentemente da solo oppure abbinato a mieli e confetture.

 

Il ricettario e le altre tappe della campagna

È proprio la versatilità del prodotto ad aver ispirato lo chef Andrea Mainardi, che ha realizzato un ricettario ad hoc, con tanti spunti interessanti e idee semplici che permettano a tutti di valorizzare un formaggio d’eccellenza come il Casera: dalla calamarata con carciofi e Valtellina Casera, alla tarte tatin di cipolle, fino al plumcake salato. Durante i Casera Days i partecipanti hanno l’occasione non solo di assaggiare il formaggio e portare a casa il libro, ma anche di provare qualcuna delle ricette ideate da Mainardi.

Ma la campagna di promozione del Valtellina Casera Dop continua con le altre tappe: Lambrate, Rogoredo, Bovisa, Porta Genova, Repubblica, Certosa e Garibaldi, con date ancora da definirsi. “Da tempo stavamo pensando a una campagna che valorizzasse questo prodotto incredibile e crediamo che questo sia il momento giusto - ha spiegato il presidente del consorzio Vincenzo Cornaggia - L’auspicio è che il Valtellina Casera, da tutti riconosciuto per la bontà, la genuinità e la tipicità, vera espressione del nostro territorio, si conquisti un posto sulla tavola dei consumatori tutti i giorni”.

 

Valtellina Casera Days | Milano | Stazione Cadorna | 26 e 27 gennaio 2017 | www.ctcb.it

 

a cura di Francesca Fiore

 

 


Madrid Fusión 2017 report. Terzo giorno: la lunga strada verso la creatività

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Giorno conclusivo per Madrid Fusión 2017, con l'America Latina a portare alta la bandiera dell'orgoglio nazionale, a partire dalle potenzialità dei prodotti autoctoni sulla strada tracciata già da Brasile e Perù. Per quanto riguarda gli esperimenti creativi, è la "barra", il bancone, l'elemento dominante nell'architettura dei ristoranti. È però Andoni Luis Aduriz a dettare le conclusioni teoriche di quello che dovrebbe essere il lavoro sulla creatività del cuoco di oggi.

Per la quindicesima edizione di MF, si rinnova il Premio al Cuoco Rivelazione 2017: negli anni molti talenti spagnoli sono stati messi in luce da questo riconoscimento, primo fra tutti David Muñoz. Stavolta, tra i sei finalisti, la scelta della giuria è ricaduta su Jesus Moral, 21 anni, enfant prodige della gastronomia spagnola, de La Taberna de Miguel di Bailen, in Andalusia. Il ragazzo, che sicuramente farà parlare di sé a lungo, attira i favori della critica grazie a una cucina fresca, leggera e già matura, che sta guadagnando sempre più spazio nel ristorante di famiglia.

 

cocinero_revelacion_jesus_moral.Jesus Moral

 

Tra le ponencias, apertura e chiusura della giornata affidate alla penisola iberica, all'insegna della creatività: si comincia con le nuove esperienze di fruizione dell'alta cucina al Mina di Bilbao. Come nei casi ascoltati nelle giornate precedenti, da StreetXo all'Atera di NY, anche qui il servizio ruota principalmente intorno a un banco, posto al centro del ristorante. A parte la tendenza architettonica, è facile concludere che la cucina voglia cercare un incontro vis-à-vis col cliente, trasformandosi in una jam session più intima e coinvolgente. Finiti i tempi delle grandi sale e del tavolo in cucina per pochi privilegiati, si abbattono sempre più spesso i confini fisici tra sala e fornelli (l'utilizzo del vetro è diffusissimo ormai) per stabilire un contatto visivo e mostrare il lavoro della brigata, con tutto il fascino che esso comporta. Alvaro Garrido propone piatti immediati, profondamente legati alle stagioni; nessuna mise en place a favore di un'estetica informale e di un tocco di improvvisazione che favorisce l'interazione con gli ospiti, senza protocollo o bon ton.

 

 

Alvaro GarridoAlvaro Garrido

100% locale

Si parte per il viaggio tra i continenti: dopo i vari approfondimenti sulla cucina argentina dei giorni precedenti, a prendere la parola è il colombiano Charlie Otero, del ristorante La Comunión di Cartagena des Indias. A seguito di una gavetta in grandi cucine europee, il cuoco, tornato in patria, ha trascorso cinque anni alla ricerca delle migliori materie prime nella straordinaria varietà ambientale della Colombia, dalla costa atlantica a quella pacifica, dall'Amazzonia alla Savana. Il risultato è una cucina moderna, ispirata alle tradizioni e alla cultura locali, che trae il massimo da prodotti prodigiosi, come l'enorme varietà di frutta (l'80% delle 400 piante autoctone del territorio). Una cucina capace di superare le sovrastrutture dell'eredità coloniale, al contempo valorizzando quella “mezcla” di cultura nera, araba, india e spagnola che è patrimonio fondamentale del paese.

I piatti presentati equivalgono a un grazie alla sua Colombia: omaggio alla montagna colombiana, con la coltura ancestrale del mais e l'enorme varietà di frutti della passione, è l'involtino di trota e mais con gulupa, granadilla e curuba (tre specie di passiflora); segue un elogio alla storia della caraibica Cordoba, con un dolce tipico della Settimana Santa, il mongo mongo, che si prepara con diverse varietà di frutta (platano maturo e verde, papaya, ananas, cocco, guava) e sciroppo di zucchero di canna.

 

Da ovest a est, né dolce né salato

Ancora sapori latini: dal Cile Kurt Schmidt e il pastry chef Gustavo Saez parlano dell'uso dei vegetali nel mondo del dolce. Anche la loro proposta, al 99restaurante di Santiago del Cile, è basata sul raro e prodigioso paniere dei prodotti locali; considerando che i due si sono formati al Noma e al Celler de Can Roca, si può anche dedurre quanto raffinata sia la tecnica con la quale rivisitano i sapori di prossimità.

 

99 RestaurantIl piatto del 99 Restaurant

Grazie a ingredienti intensi, spesso di tendenza zuccherina, come solo quelli tropicali sanno essere, Schmidt e Saez costruiscono una linea moderna e fuori dagli schemi, al di là delle classificazioni tradizionali del pasto dolce e salato. Contribuendo a fortificare la cucina cilena contemporanea.

 

Gustavo SaezGustavo Saez

 

Su questa linea senza confini e senza pregiudizi si attesta lo stile di Janice Wong, campionessa asiatica nella cucina dolce. Il suo ristorante, il 2am:dessertbar di Singapore, città notoriamente all'apice nella scena gastronomica del continente, è specializzato in pasticceria. Dopo una formazione attenta in Europa, la Wong ha abbinato la sua bravura tecnica a una forte attitudine estetica e creativa, che l'ha spinta a superare i tradizionali confini tra cucina dolce e salata, senza sovrastrutture di intoppo. Con la creazione anche di opere visive e di design in cui i colori e i materiali sono gli stessi ingredienti dei suoi piatti. Il menu del 2am presenta dessert creativi, rivisitazioni di classici, portate che incrociano il salato con il dolce e percorsi di degustazione in abbinamento a cocktail, sake, tè, in una mescolanza di sapori rara.

Stesso cognome, avventura differente per Andrew Wong: giovane inglese di origini cinesi, scoperta la passione per la cucina, ripercorre le sue radici con un lungo viaggio alla ricerca dei sapori del Grande Oriente. “Il futuro è delle nuove generazioni, che devono innovare e creare a partire dalla saggezza e l'esperienza dei loro anziani” sentenzia. Con il bagaglio di conoscenze acquisite in Cina e la creatività che compete a un giovane cuoco londinese, ecco che prende vita nella capitale inglese una cucina cinese moderna, radicata nelle millenarie tradizioni del suo popolo, ma smontata e interpretata senza pregiudizi. Una lezione attraente la sua, grazie al virtuosismo nel fare in diretta noodles (stirandoli a mano) e dumpling: a ulteriore conferma che, per volgere lo sguardo all'invenzione, sia necessaria la conoscenza perfetta del passato e delle tecniche di base della cucina.

 

Andrew WongAndrew Wong

 

I codici della creatività

Il discorso sull'aspetto più creativo della ristorazione trova il suo apice nella ponencia di uno dei rappresentanti più puri dell'avanguardia contemporanea: Andoni Luis Aduriz, tra i più influenti cuochi di Spagna e del pianeta, eterno buco nero della Michelin, che ogni anno tradisce pronostici e auspici che vorrebbero premiato finalmente con le Tre Stelle il Mugaritz di Errenteria, nei Paesi Baschi. “La cucina è figlia dell'azzardo”: così ha cominciato la sua ponencia Andoni, parlando di caso e di probabilità come compagni privilegiati della creatività, che spesso nasce dall'osservazione di fenomeni naturali puramente casuali, come l'impollinazione di un fiore. La chiave di volta, segnala lo chef, è lo sguardo con cui si guardano le cose, non le cose in sé stesse. E questo sguardo va allenato, come se si trattasse di un esercizio alla serendipità (termine ottocentesco di tendenza che indica la fortuna di fare scoperte positive per puro caso), con la convinzione che il focus stia nel domare l'azzardo, nel sottometterlo al talento.

Da sempre concentratissimo su strutture e consistenze, veicoli complementari al sapore per coinvolgere i sensi e le emozioni nella fruizione dell'alta cucina, presenta sul palco di Madrid l'ortensia secca di cacao, una riproduzione perfetta e impressionante di un elemento della natura, condensata in un dolce. In una riflessione che ricorda molto da vicino la filosofia kantiana, per cui attraverso il Genio - il talento naturale, la creatività - la natura dà regole all'arte. “La natura era bella, quando aveva apparenza d’arte; e l’arte può dirsi bella solo quando, pur essendo consapevoli che si tratta d’arte, ci appare come natura”.  

 

Luis AdurizAndoni Luis Aduriz

 

Non ricette, né tecniche, né sapori o materie prime, quindi, nell'intervento che suggella, dopo tre giorni, il palco principale di Madrid Fusión. Ha senso condividere le modalità teoriche dei processi creativi in un consesso del genere? Una risposta ha provato a darla ancora Andoni, quando ha detto: "Non è onesto adagiarsi su piatti facili che piacciono a tutti" e "Che si deve portare a un congresso? Cose che lasciano il segno o cose buone?". La domanda è retorica: lo chef del Mugaritz opta per la prima soluzione, perché di tecnica, di ingredienti, di territorio si è parlato a profusione e anche eccessivamente fino a ora. E mai come oggi è facile per gli chef di tutto il mondo conoscere il lavoro dei colleghi tramite social, cronache gastronomiche e format televisivi. Quindi i congressi gastronomici, per la loro natura professionale, possono permettersi di essere delle palestre di affinamento del pensiero nell'alta cucina. Sempre se di vero pensiero si tratta e non (come troppo spesso accade) di esercizio di stile.

 

Soprattutto in Spagna negli ultimi anni abbiamo assistito a una deriva scenica della figura del cuoco, in cui l'assenza di idee viene mascherata da corti e videoclip talmente ben fatti che nemmeno in un festival del cinema. Certo è che i numeri della XV edizione di MF ci dicono che i congressi gastronomici non sono morti, come si vaticina da anni (o almeno da quando Rafael Garcia Santos decretò la morte del suo congresso, il primo di tutti, Lo Mejor de la Gastronomia). Format e contenuti saranno pure in un momento di stallo e stanchezza, ma dal punto di vista della presa sul grande pubblico, sugli operatori professionali e sui media sono vivissimi. Per non parlare dell'indotto economico che questo e altri eventi internazionali riescono a catalizzare. Probabilmente sarà così ancora per qualche anno, almeno fino a quando non entreremo nell'era dei post-congressi e, in generale, in quella della post-gastronomia.

 

indirizzi

La Taberna de Miguel | Spagna | calle María Bellido, 120 Bailen

La Comunión | Colombia | Calle las Bóvedas #39 - 116 Cartagena

99 restaurante | Cile | Andrés de Fuenzalida 99 Providencia Santiago de Chile www.99restaurante.com

2am:dessertbar | Singapore | 21a Lorong Liput Holland Village Singapore www.2amdessertbar.com

A. Wong | Inghilterra 70 Wilton road, Victoria Londra www.awong.co.uk

Mina | Spagna | Muelle Marzana Bilbao www.restaurantemina.es

Mugaritz | Spagna Aldura Aldea, 20 Errentería www.mugaritz.com

 

 

a cura di Pina Sozio

 
 
 

Comptoir de France: a Roma chiude l'enoteca del vino francese

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Il vino francese? Fino a 15-16 anni fa a Roma lo conoscevano solo pochissimi appassionati, la nicchia della nicchia. Poi grazie a questo negozio le cose sono cambiate. Oggi la parabola di Comptoir de France si chiude.

C'era una volta, all'ombra del Colosseo, un avamposto del gusto transalpino e si chiamava Comptoir de France. Era a Via Giulia, in pieno centro storico: appena 16 metri quadrati e altrettante etichette, rigorosamente d'oltralpe. Una rarità per l'epoca che trovò presto il proprio spazio nel cuore del nascente popolo gourmet capitolino. L'indirizzo passava di bocca in bocca, in una Roma ancora poco avvezza alle potenzialità della rete, e ancor meno al buon cibo di Francia. Così, dall'apertura nel 2000 fino a oggi, e anche dopo il trasferimento in Prati, quel baluardo di cultura gastronomica ha portato sulle tavole de romani grandi e piccoli vini, formaggi rari, mostarde. E non solo dei romani, perché l'esperienza si replicò anche a Milano, dal 2006 al 2012. A Roma c'è tutt'oggi, a dire il vero, ma ancora solo per poche settimane: chiuderà entro la fine di marzo, molto probabilmente prima. La parabola di questo locale racconta una tipica storia italiana, fatta di impegno e passione e di infinite difficoltà.

 

Gli inizi

Quando tutto è cominciato Roma era un terreno vergine, anche un po' chiuso, e il vino ancora una faccenda di nicchia. Le bottiglie francesi erano una rarità per pochi, la nicchia della nicchia, e perfino di Champagne non ne girava poi tanto, al massimo si trovavano, a caro prezzo, i marchi più noti e quelli commerciali. Insomma c'era spazio per una bottega di specialità francesi. Proporre piccole aziende era una scommessa: non le conosceva e non le voleva nessuno, e anche riguardo i prodotti alimentari non era tanto differente. Il foie gras? “Si vendeva solo quello di oca, perché c'era l'idea che fosse più pregiato” racconta Joël Hourticq ora invece lavoriamo quasi esclusivamente anatra, che ha un gusto più deciso”. E al fegato grasso si sono aggiunti formaggi straordinari, confetture e tantissime altre referenze. E poi i vini, oggi 500 etichette, con Champagne, Loira, Borgogna, Jura. “Abbiamo anche cose semi sconosciute persino in Francia”; i clienti oggi le conoscono, e il merito è anche loro: “credo che abbiamo fatto la nostra parte, anche se non siamo gli unici, ovviamente”.

 

Una storia italiana

Dai primi anni pionieristici e pieni di entusiasmo a oggi, in cui questo bel capitolo si chiude, sono passate 16 primavere. Cosa si farà, poi? “Progetti concreti al momento non ne abbiamo, chiudo perché mi sono esaurito. Lavoriamo tanto e alla fine non rimane nulla”. Joël vive all'estero, dove lo porta il lavoro della moglie alla Fao, l'agenzia sul cibo delle Nazioni Unite, in Malawi al momento. “Non siamo riusciti a retribuire il mio lavoro e a far girare il capitale, nonostante tutti gli sforzi e nonostante la clientela affezionata e sempre presente”. Tanti infatti lo hanno seguito, hanno dato ascolto ai suoi consigli e si sono affezionati ai quei prodotti che hanno imparato a conoscere col tempo. Qualcuno ha anche accarezzato l'idea di passare dall'altra parte del bancone “per molti è un sogno, ma appena cominciano a pensare in termini imprenditoriali, si rendono conto che dietro ci sono soldi da investire e tanto lavoro”. Ma magari qualcuno vorrà rilevare l'attività.

 

Somministrazione e vendita

L'idea che qualcuno possa subentrare nell'attività non è peregrina, “il mio consiglio sarebbe di trasferirsi in un'altra zona per fare anche somministrazione”. Comptoir de France è infatti un classico negozio di prelibatezze, una boutique del gusto, ma di sola vendita. E questo ha inciso: la somministrazione può fare la differenza nelle attività alimentari, come abbiamo visto recentemente (LINK). Insomma le gastronomie che servono anche da mangiare trovano una sostenibilità economica, quelle che rimangono tradizionalmente ancorate alla sola vendita vanno in difficoltà. “Dati i tempi è più difficile vendere una buona bottiglia, ma ci saranno sempre persone desiderose di bere un buon bicchiere”. E magari proprio a quell'assaggio, poi, compreranno o consiglieranno. La licenza di Comptoir però non lo consente. Nella zona, a un passo dal Vaticano, c'è da anni una stretta sui permessi per certi versi comprensibile per altri miope.. E dire che di tentativi per avere il permesso di somministrare ne sono stati fatti: “era lo stesso per il centro storico, ma quando McDonald's aprì a piazza di Spagna, godette di una deroga firmata dal Comune di Roma, per la divulgazione della cultura americana” racconta “saputo questo, dall'ambasciata di Francia cercarono di farci avere la stessa deroga; abbiamo preparato la pratica da presentare, insieme al Comune, ma ci è stata bocciata”. Il motivo? “la vicinanza al Vaticano, che imponeva un certo rispetto. Ho ancora, da qualche parte, tutta la documentazione”. A guardarlo col senno di poi, con lo stesso McDonald's pronto ad approdare proprio sotto San Pietro e un Hard Rock Cafè di prossima apertura a via della Conciliazione, fa un po' ridere questo slancio moralizzatore: una delle migliori enoteche della città è stata messa in difficoltà ed è stata portata alla chiusura pur di vietargli di servire ottimi calici di vino ai suoi clienti. Geniale.

Ma con il patrimonio di prodotti, fornitori e clienti che ha riunito in questi anni, non ha mai pensato di passare alla vendita online? “È un lavoro che non mi interessa: mi piace lo scambio con il cliente, vendo vino per abbinarlo al buon cibo e alla buona compagnia. Tutto questo passa attraverso il contatto diretto. Dialogare attraverso un computer, o in chat, non mi piace e non corrisponde allo spirito di questi prodotti”.

 

Una società cambiata

In 16 anni abbiamo visto crescere l'interesse per un certo tipo di vini” dice “ma abbiamo visto diminuire il potere di acquisto di tanta gente”. E quanto ha inciso sulla vostra attività? “Non molto: nel tempo la nostra clientela è cambiata” e aggiunge “Mi è dispiaciuto tanto, perché era bello poter dialogare con tutti, sia le persone benestanti che quelle più modeste che volevano avvicinarsi a prodotti come i nostri”. Giù la classe media, su i vini: “inoltre certe bottiglie hanno avuto aumenti importanti, a volte ingiustificati. Sono entrati nuovi compratori: asiatici, arabi, che possono spendere qualsiasi cifra. Così la cuvée dei fratelli Foucault da 50 euro è arrivata a oltre 250. E noi applichiamo sempre lo stesso margine, i nostri aumenti sono dovuti agli aumenti dei produttori. È lo stesso pure con vini che neanche in Francia conoscono... chi li compra proprio non lo so”. Così alcune bottiglie, dati i rincari, sono praticamente uscite dai loro scaffali: Borgogna di Armand Rousseau, Selosse, Clos Rougeard anche cose molto meno note, grandi vini che non avevano la fama dei premier cru di Bordeaux. “Non volevamo vendere certe etichette a tutti i costi, ma diffondere i prodotti francesi rimanendo su una fascia di prezzo avvicinabile”. Alcuni sono vini costosi, se si contano anche le spese di trasporto. Forse la soluzione sarebbe stata fare una politica diversa sui prezzi “volevamo portarli sul mercato italiano con prezzi coerenti a quelli che ci sono in Francia, per non snaturarli”. Ora la svendita (del 20-30%) procede fino a esaurimento della cantina e il pubblico fa la fila, scrive, “una cliente si è anche messa a piangere”.

Perché la clientela tutto sommato non è mai mancata. “Il fatturato è aumentato sempre fino a due anni fa. Poi abbiamo un po' calato, ma non tantissimo, intorno al 5%” spiega: “Non chiudiamo per quello, ma perché pur lavorando molto non rimane nulla. In 16 anni abbiamo messo tanta energia e soldi, ma il Comptoir si è sostenuto grazie al lavoro di mia moglie”. A un certo punto bisogna prendere una decisione e fare altre cose “per questo non ci spostiamo da un'altra parte per ripartire con la somministrazione”. Una decisione sofferta, ma l'esperienza, seppure bellissima, a un certo punto deve finire.

 

I motivi della chiusura

Fare impresa in Italia diventa sempre più difficile. La tassazione è altissima “ma in Francia è lo stesso”, la differenza è la sensazione di avere uno Stato che si pone come ostacolo, mentre altrove è a sostegno: “Non siamo delinquenti, sembra che lo Stato cerchi sempre di coglierti in castagna invece che esserti alleato. E in un'attività come la nostra, se uno vuole, potrà sempre trovare cose da multare”. A Roma la situazione è particolarmente delicata (lo si vede costantemente nei molti casi di malaburocrazia per esempio il caso di Barikamà), gli infiniti controlli, l'impossibilità di avere una risposta certa alle questioni che si pongono nello svolgere un'attività o di far valere i propri diritti in tempi brevi: “A volte sembrava venissero con l'obiettivo di trovare qualcosa che non andava, una brutta sensazione. A Milano era diverso: nelle ispezioni se emergevano cose da migliorare, suggerivano cambiamenti e ci davano il tempo per metterli in pratica”.

I racconti sono storie kafkiane che chiunque abbia avuto a che fare con regolamenti, controlli e amministrazione conosce. “Una volta, a via Vitelleschi, ci sono stati la Guardia di Finanza la mattina, la Asl il pomeriggio e la Dogana la mattina successiva. A furia di cercare magari qualcosa scappava pure fuori”. A volte anche ingiustamente: “a via Giulia una volta la Guardia di Finanza è stata per 2 giorni di fila: erano in 5 in 16 metri quadrati. 5 persone impreparate incaricate di fare dei controlli. Alla fine mi hanno fatto una multa: ho fatto ricorso e l'ho vinto”. Nel frattempo però sono passati anni. Tolta la sanzione, nessun rimborso per le spese sostenute nel frattempo e per la frustrazione e la stanchezza. Per questo poi si evita di far valere le proprie ragioni. “Negli ultimi anni la pressione sugli esercenti è diminuita” ammette “forse per la crisi. Ma ancora si perde tanto tempo a fare cose che non hanno senso”, che rappresentano un costo per gli imprenditori che stanno ore a occuparsi di una burocrazia pachidermica e frustrante, ma sono un costo per tutti in termini di stipendi e di forza lavoro. A quando un testo unico anche per gli esercenti come quello approvato per la vite e il vino? Sono cose che fanno passare l'entusiasmo e la forza di rimboccarsi le maniche.

Ma non è questo però il motivo per cui chiudiamo” conclude “Il motivo è che se la cosa non regge non può più andare avanti”.

 

a cura di Antonella De Santis

 

Comptoir de France | Roma | via Vitelleschi, 20 | tel.  06 68301516 | http://comptoirdefrance.com/

In viaggio. Ticino, la Svizzera più mediterranea

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Viste mozzafiato e paesaggi incantevoli: il Canton Ticino, il più meridionale della Svizzera, è a due passi dal confine con l’Italia. Qui, oltre che sciare, si può andare alla scoperta di vere chicche gastronomiche e di interessanti cucine d’autore. A Lugano, è lo chef Frank Oerthle a tenere alta la bandiera dell'alta cucina e a guidarci alla coperta dei sapori locali.

Una passeggiata lungolago tra palme e ulivi, una visita a Gandria, il romantico villaggio di pescatori ai piedi del Monte Brè, un giro in bicicletta per ammirare le montagne che si tuffano nel lago e i paesini incastonati sui pendii: sono solo alcune delle attività possibili in Canton Ticino, in particolare se la destinazione scelta è la città di Lugano. Anche se, nella stagione fredda, la neve e gli sport invernali sono le attrattive maggiori.

 

Lugano

Weekend sulla neve

Bosco Gurin, Carì, Airolo, Nara e Campo Blenio: sono le principali destinazioni degli sportivi nel Cantone, le mete più gettonate dagli amanti dello sci ma anche dello snowboard. Fra queste, la stazione di Airolo-Pesciüm, fra i 1175 e i 2250 metri di altitudine, affacciata sul massiccio del San Gottardo, è il luogo ideale per tutti, dai principianti ai professionisti. Tre tipologie di pendii, 30 km di piste, sentieri studiati per le passeggiate con le racchette e uno snowpark: l'offerta della stazione sciistica è ampia, e in grado di rispondere alle diverse esigenze. Per chi volesse provare l'emozione dello sport sotto le stelle, invece, la stazione di Lüinadispone di apposite installazioni per lo sci notturno e soluzioni ad hoc per i più piccini.

 

Canton Ticino

Il ristorante

Dopo le escursioni o le piste da sci, per la cena è d'obbligo una sosta alla Galleria Arté al lago, fiore all’occhiello del Grand Hotel Villa Castagnola. Qui, si possono assaggiare i piatti dello chef Frank Oerthle: tedesco di origine, ma svizzero di adozione, da anni rappresenta l’alta cucina luganese nel mondo. E lo fa attraverso la lavorazione delle prelibatezze locali, valorizzando ogni singolo prodotto frutto del territorio che da 23 anni lo ospita. Proprio allo chef abbiamo chiesto di farci da guida per conoscere gli indirizzi più validi per la classica spesa ticinese: prodotti tipici e grandi botteghe.

 

Artè

“Una cucina che non esiste!”

Il Canton Ticino è terra di tradizioni e di ricche contaminazioni gastronomiche. Dal pesce di lago alla polenta di mais, dai salumi al miele di castagno, dal riso ai formaggi d’alpeggio: i prodotti delle valli di questo Cantone, la Svizzera con l’animo più mediterraneo, sono molteplici e tutti da scoprire attraverso i piatti locali. Una cultura del cibo, quella ticinese, che affonda le sue radici culturali nell’antica cucina prealpina lombarda, ma anche in quella piemontese. Influssi che hanno creato col tempo una cultura solida e ben radicata, e che hanno permesso a un gruppo di chef preparati di sviluppare una cucina di ricerca in grado di rappresentare il gusto di un intero territorio.

Ne parliamo con Frank Oerthle, grande interprete di questa terra. Intanto, cosa è la cucina ticinese? “Di per sé non esiste”sorride lo chef. “È il risultato di una sovrapposizione di tradizioni differenti. I prodotti spaziano dal pesce di lago, come il lucioperca– originario dell’Europa centro-settentrionale e orientale – alla ricotta fiordilatte realizzata con latte vaccino dei pascoli delle valli di Airolo. E poi ci sono le carni, le farine, il cioccolato e i marroni”. Questi ultimi, sono un irresistibile richiamo per gli amanti del dolce. Tappa imperdibile,in questa zona, Giglia, una bottega aperta sin dal 1921 e famosa per i marrons glacés, che oggi CinziaStuppia-Bervini prepara secondo la ricetta tradizionale tramandata dal fondatore GiuseppeGiglia. Il negozio propone, però, anche altre golosità: pralinès speciali con ciliege e uva fresca macerate in alcol e spezie e ricoperte di cioccolato, e alchechengi glassati.

 

Castagne

I piatti tipici

Una ricetta tipica di qui? La polenta con lo spezzatino di vitello, che si trova in tutti i ristoranti di tradizione”. Un piatto corroborante, adatto anche alle basse temperature. Poi c'è la raclette, termine che indica sia il tipico formaggio a latte vaccino e pasta semidura del Canton Vallese, che una tecnica di cucina che prevede la cottura del formaggio (metà forma) e la sua “raschiatura” (dal francese racler, raschiare, scrostare) quando inizia a sciogliersi. Generalmente viene accompagnato da patate cotte al cartoccio e sottaceti, e abbinato a tè o altre bevande calde. Un piatto povero, che nasce dall'esigenza dei pastori di portare con loro un pasto semplice e nutriente durante il periodo della transumanza.

 

Artè

È anche il preferito di Frank? “Io in realtà amo la pasta, in particolare la carbonara. Mi piace molto quella fatta in casa, che sia all’uovo o semplicemente acqua e farina. Io la preparo in tanti modi”. Anche conla farina bona della Valle Onsernone,“una farina di mais tostato che conferisce alla pasta un sentore che ricorda i pop corn: è una nota aromatica particolare che trovo molto intrigante e che può essere abbinata a diversi ingredienti. Per esempio, recentemente ho preparato dei cavatelli con ragù di selvaggina, funghi e mirtillo rosso”.

Dove fare la spesa

Ma la cucina ticinese non è solo di carne: anche il pesce ricopre un ruolo rilevante nei piatti tipici. “Io lo acquisto sempre da Gastromarina, una pescheria molto ben rifornita del comune di Losone. Qui, si possono trovare prodotti ittici del lago, ma non solo: c’è anche la possibilità di acquistare pesce di mare freschissimo proveniente dalla Francia”. Invece un consiglio per acquistare della buona carne? “La mia macelleria di fiducia è Traitafinaa Lugano, nel quartiere di Carabbia. In particolare, sono squisiti il loro maiale e il filetto di manzo magadino, che vengono da animali allevati allo stato brado nei pascoli della parte interna della Svizzera”. E le verdure? “Ci sono diversi piccoli agricoltori, in particolare nella Val Colla: attraversata dal fiume Cassarate, si distingue per la singolare bellezza dei suoi paesaggi e per la natura incontaminata. Qui è tutto biologico o biodinamico”. Un buon vino è l'indispensabile accompagnamento per una cena tra amici. “Io scegliereiil Mosaico Doc della cantina Tamborinidi Lamone, un blend di merlot (vitigno principale della zona) e chardonnay. Oppure il merlot in purezza di Montidi Cademario”.

GLI INDIRIZZI

Antica Osteria del Porto | Lugano | via Foce, 9 | tel. +41 9197142 00 | anticaosteriadelporto.ch

Galleria Arté al lago | Lugano | viale Castagnola, 31 | tel. +41 919732555 | www.villacastagnola.com/it/

Grand Café al Porto | Lugano | via Pessina, 3 | tel. +41 9191051 30 | www.grand-cafe-lugano.ch

Osteria Grotto Piccolo Vigneto | Viganello | via al Roccolo, 19 | tel. +41 919723985 | www.piccolovigneto.ch/

COMPRARE

Bottega Gastromarina | Losone | via Zandone, 7 | tel. +41 917805868 | www.gastromarina.ch/uc/index.html

Bottega Rapelli | Stabio | via Laveggio, 13 | tel. +41 916407300 | www.rapelli.com

Caseificio Lati | Lugano | via Gorelle, 7 | tel. +41 918502727 | www.lati-sa.ch

Giglia | Lugano | via A. Ciseri, 15 | tel. +41 919220830 | www.giglia.ch

Macelleria Traitafina | Lugano | via Ceresolo, 34 a | tel. +41 91 8401530

www.ticino.ch| www.ticinoperbambini.ch| ticinosport.wordpress.com

a cura di Michela Becchi

Articolo uscito sul numero di gennaio 2017 del Gambero Rosso

Per le Colline del Prosecco passo decisivo verso l'Unesco. La candidatura per Conegliano e Valdobbiadene

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 L'Italia ha deciso di presentare la candidatura a Patrimonio dell'Umanità della grande area tra Conegliano e Valdobbiadene. Zaia parla di giornata storica e avverte: "Ci manca l'ultimo miglio". La decisione di Parigi entro luglio 2018. 

 Le Colline del Prosecco "paesaggio culturale"

Nel luglio 2018, l'Italia potrebbe aggiungere un nuovo tassello al lungo elenco di siti (ad oggi 51 i beni materiali, 7 quelli immateriali) tutelati dall'Unesco. In quell'estate sapremo, infatti, se le Colline di Conegliano e Valdobbiadene potranno fregiarsi del marchio “World Heritage Unesco”. La Commissione nazionale italiana Unesco ha deciso all'unanimità di approvare e di inviare a Parigi il dossier, che il ministro per le Politiche agricole, Maurizio Martina, ha firmato due giorni fa. Un'occasione storica per i 15 Comuni della provincia di Treviso e per un territorio di circa 20 mila ettari, cinquemila dei quali vitati e coincidenti con l'area produttiva del Prosecco Docg, su cui vivino circa 3 mila agricoltori.

Quattro gli aspetti principali che hanno consentito a questo dossier di posizionarsi tra i primi nella lista italiana: la dimostrazione dell'eccezionale valore universale del sito, emblema di 'paesaggio culturale'; lo studio dettagliato del valore mondiale della coltura della vite e dell’impronta antropica dell’uomo; le condizioni di integrità, autenticità e conservazione del paesaggio e, infine, l’esistenza di validi strumenti di tutela urbanistica, ambientale e culturale.

"Con questa candidatura" sottolinea il ministro Martina "vogliamo affermare il grande valore culturale e ambientale che la nostra agricoltura riveste in special modo in territori eccezionali come le colline di Conegliano e Valdobbiadene. Allo stesso tempo, rafforziamo il posizionamento a livello di mondiale di una delle produzioni vitivinicole più pregiate e apprezzate del nostro Paese".

L'esultanza del Veneto

Di "giornata storica" parla il governatore del Veneto, Luca Zaia, che da ministro dell'Agricoltura, avviò nel 2009 questa candidatura: "Un'altra porzione di Veneto sta dunque per entrare nell’olimpo dei grandi siti dell’umanità. Ora ci manca l'ultimo miglio per raggiungere il risultato. La tutela Unesco rappresenterà l'inizio di una nuova era, che affida una grande responsabilità al Veneto e ai veneti, e motiverà l'intero territorio".

Il processo di valutazione inizierà il 1 febbraio 2017 e l'esito finale arriverà nel 2018, a dieci anni esatti dall’inizio del percorso, quando fu firmata l'intesa tra la provincia di Treviso e i 7 comuni delle ‘terre alte’ della Marca (Cison di Valmarino, Follina, Miane, Revine Lago, Tarzo, Valdobbiadene e Segusino) per la salvaguardia paesaggistica e ambientale dell’area collinare, contestualmente alla prima richiesta di ingresso nella tentative list Unesco da parte dell'allora ministro Zaia. L'ultimo step, indispensabile a questa candidatura delle Colline del Prosecco, è stato il riconoscimento, a metà 2015, nel Registro nazionale dei paesaggi rurali storici presso il Mipaaf.

Sono solo nove in tutto il mondo i paesaggi vitivinicoli iscritti nella Lista Unesco su un totale di 1.052 tutelati. E il logo Unesco, come ha fatto notare il consigliere presso la Commissione nazionale Unesco, Pier Luigi Petrillo, rappresenta "un marchio di eccellenza, di unicità" e soprattutto è il "criterio di scelta dei grandi flussi turistici".

 

a cura di Gianluca Atzeni

Pastifici a Bari. 5 indirizzi per comprare la pasta fresca

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La seconda tappa della rubrica sui migliori pastifici italiani fa tappa a Bari. Nel capoluogo pugliese troviamo tantissime specialità, tutte da gustare e raccontare. Ecco 5 indirizzi di riferimento, aziende quasi sempre di famiglia, che producono non solo pasta tradizionale ma anche formati più creativi e sorprendenti.

La tradizione della pasta fresca a Bari

Le orecchiette sono il formato di pasta più noto della Puglia, nella classica abbinata con le cime di rapa. Ma non è l'unico: la tradizione della pasta fresca ha un grande rilievo nella cucina di questa regione. E i laboratori artigianali, nel tempo, si sono specializzati con un'offerta sempre più ricca, che si muove tra formati tipici locali, tagli diffusi in tutta Italia e proposte più innovative, frutto della fantasia e della ricerca di ogni artigiano. Per il nostro ciclo sui pastifici artigianali, oggi arriviamo a Bari, per trovare i migliori indirizzi di pasta fresca della città e della provincia.

 

Bottega del Tortellino

Partiamo da un indirizzo di riferimento per Bari, situato nel quartiere Madonnella, un po’ fuori dal centro storico. La Bottega del Tortellino è saldamente guidato dalla signora Assunta Piccione, erede di una famiglia che produce pasta artigianale dai primi del ‘900.

I prodotti sono lavorati a mano, gli ingredienti scelti fra quelli dei migliori produttori locali, le farine selezionate dalla titolare. La proposta spazia dai formati classici baresi ai tortellini bolognesi – non solo nella versione originale - passando per ravioli, agnolotti, tagliatelle e gnocchi. Inoltre piatti pronti come lasagne alle verdure, al pesto o al ragù bolognese, cannelloni di carne oppure con ricotta e spinaci, crêpes ripiene di prosciutto e formaggio, ma anche dolci come le cartellate fritte. Da provare due specialità della casa: i tagliolini al cacao e i tortellacci alla cernia. I prezzi variano dalle 6,50 euro al chilo dei formati più semplici ai 20 euro al chilo delle paste ripiene speciali.

Bottega del Tortellino | Bari | via Cardassi, 81 | tel.  080 554 2873 | www.facebook.com/pg/bottega.deltortellino

 

Bottega del tortellinoBottega del tortellino

 

Lady Grazia (Valenzano)

Un indirizzo di riferimento a pochi chilometri da Bari: il pastificio Lady Grazia a Valenzano. Nato nel 1983 dagli sforzi di Giovanni e Grazia Polide, produce pasta fresca seguendo i metodi tradizionali, senza coloranti o conservanti, con un'offerta che va dalle orecchiette agli agnolotti, passando per cannerozzi, strozzapreti e trofie. La pasta fresca è proposta in diverse tipologie, grazie a una rigorosa selezione sulle farine: oltre alla semola di grano duro (anche con farine biologiche e integrali) si possono provare paste al farro, al kamut, al grano arso, al grano saraceno, alla farina di castagna. La pasta ripiena è il punto di forza del negozio  grazie agli accostamenti dello chef Lorenzo Lacriola, che si occupa di creare nuovi ripieni e abbinamenti. La pasta secca viene prodotta con trafile di bronzo ed essiccata in maniera naturale, con un processo che dura almeno 50 ore. Inoltre qui troverete anche piatti pronti da portare a casa. I prezzi variano fra i 5,50 euro al chilo dei formati più semplici fino ai 25 euro delle paste ripiene.

Lady Grazia | Valenzano (Bari) | via Bari, 152b | tel. 320 8128572 | https://www.facebook.com/pastificio.ladygrazia?fref=ts

 

Cuoricini robiola e bresaola - Lady GraziaCuoricini robiola e bresaola - Lady Grazia

 

Pastificio Ancora

Giorgio e Rosalia Ancora hanno aperto il loro pastificio nel 1970, senza sapere che Marco, il figlio, avrebbe proseguito l’attività di famiglia, dando al punto vendita maggiore modernità pur rimanendo fortemente legati a un tipo di lavoro artigianale e molto tradizionale. Per esempio nella decisione di mantenere la trafilatura in bronzo, in un momento in cui molti si convertivano alla laminatura (un metodo alternativo alla trafilatura o trafilazione in bronzo, in cui l’impasto viene passato attraverso serie di cilindri contrapposti dalla distanza decrescente fino a ottenere la sfoglia, cosa che permette di tenere sotto controllo temperatura e pressione, ndr). Oggi, in questo pastificio l'offerta è molto ampia: gnocchi, lasagne, orecchiette, tagliatelle, pasta di grano secca, ravioli, tortellini. La specialità della casa è la pasta al nero di seppia, ma qui potrete anche trovare, oltre alla pasta al kamut, anche altri prodotti coloratissimi e sorprendenti. I prezzi vanno dai 4 euro al chilo della pasta secca ai 25 euro dei tortelloni variegati al nero di seppia.

Pastificio Ancora | Bari | via Giulio Petroni, 53/b | tel. 080 557 5503 | www.facebook.com/pg/Pastificio-Ancora-Di-Marco-Ancora-421523964606961

 

 

Tortellini variegati, pastificio AncoraTortellini variegati, pastificio Ancora

 

Pastificio Ancora&Fiore

Situato nel quartiere San Pasquale, è un laboratorio che propone tutti i formati più classici, ma anche qualche specialità da altre regioni e paste più fantasiose. Qui potrete comprare orecchiette, cavatelli, strozzapreti ma anche paccheri, tagliatelle, agnolotti e tortellini. Tutte le paste sono prodotte sia con farina di semola che con farine di grano saraceno, di grano arso, biologiche e integrali. Inoltre ogni giorno sono disponibili una serie di piatti pronti da cuocere, come lasagne, crêpes e rollè. La loro specialità? Il fagottino al caprino, ma anche i tortelloni con stracciatella, bresaola e rucola. I prezzi variano dai 4,50 dei formati più semplici ai 17 euro delle paste ripiene.

Pastificio Ancora&Fiore | Bari | via Re David 67/B | tel. 0805423290 | www.pastificioancoraefiore.it

 

Orecchioni, pastificio D'AgostinoOrecchioni, pastificio D'Agostino

 

Pastificio D’agostino (Giovinazzo)

Dalla fabbrica al pastificio, passando per la musica: così si potrebbe sintetizzare il percorso che ha portato Michele D’Agostino a diventare un produttore di pasta fresca di qualità a Giovinazzo, a pochi chilometri da Bari. Operaio per professione e musicista per hobby, nel 1983 decide di cambiare vita e aprire la sua gastronomia dove produrre pasta nei tipici formati locali: orecchiette, orecchioni, capunti, e minuitti di Bari vecchia. Oltre a questi, nel locale si trovano anche pasta secca e fresca (tagliolini, pappardelle, spaghetti alla chitarra) e ripiena (tortelloni, mezzelune, quadrotti). Qui l'inventiva gioca un ruolo da protagonista, con paste dai colori intensi e originali: mezzelune di farro decorato, cappello del prete al nero di seppia, margherite dai colorati petali rosa. Ma nella sua gastronomia D’Agostino propone anche prodotti più classici come taralli (al grano arso, ai cereali, all’olio d’oliva), panzerotti, focaccine, biscotti ai cereali. I prezzi? Dai 4,50 euro al chilo dei formati più semplici ai 22-24 euro delle proposte più elaborate.

Pastificio D’Agostino | Giovinazzo (Bari) | via Marconi Guglielmo, 74 | tel. 080 394 3437 | www.pastadagostino.it

 

 

a cura di Francesca Fiore

Leggi anche Pastifici a Bologna. 11 indirizzi per comprare la pasta fresca

Più frutta e verdura al ristorante con la campagna #Nonsoloananas e la ricetta di Oliver Glowig

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Piatti gourmet ricchi di frutta e verdura. Belli, buoni e soprattutto nutrienti. È la campagna “Nutritevi dei colori della vita” che, con lo slogan #nonsoloananas, vuole promuovere l'uso di vegetali e frutta al ristorante. Ma è possibile? Per convincervi ci siamo fatti regalare una ricetta 100% vegetariana da Oliver Glowig, chef di La Tavola, Il Vino, La Dispensa del Mercato Centrale di Roma.

La campagna #nonsoloananas

Se è vero che sia buona regola mangiare ogni giorno frutta e verdura, è altrettanto vero che questa norma non sempre viene rispettata nella dieta quotidiana, men che meno quando si va al ristorante. Ma se in menu ci fossero diversi alternative gourmet a base di vegetali, in quanti le sceglierebbero? #nonsoloananas è lo slogan e l'hashtag della campagna “Nutritevi dei colori della vita” promossa da Unaproa (Unione Nazionale tra le Organizzazioni dei Produttori Ortofrutticoli, Agrumari e di frutta in Guscio) e cofinanziata da Unione Europea e Stato italiano, a cui aderisce anche Fipe. L‘obiettivo è promuovere una maggiore offerta di frutta e verdura di stagione nei ristorante e, di conseguenza, un incentivarne il consumo da parte dei clienti. “L'ortofrutta è un patrimonio del nostro Paese” ha spiegato Antonio Schiavelli, presidente Unaproa,"un maggior consumo di ortofrutta fa bene all'economia dell'Italia, fa bene alla salute dei consumatori, contrae la spesa sanitaria e realizza profilassi con gusto, dolcezza e sapidità. Per noi è importante anche chiarire l'interesse comune dei produttori e di coloro che facilitano il consumo di ortofrutta attraverso la ristorazione”.

 

Frutta e verdura nei ristoranti

Che frutta e verdura stiano vivendo un periodo di rinnovata gloria è noto: negli ultimi anni sono tanti i ristoranti vegetariani e vegani che scommettono su una cucina creativa che non dimentica il gusto e non ha nulla da invidiare alle proposte per onnivori. Ma in un ristorante che non si professi come vegetariano, quanta offerta di frutta e verdura viene utilizzata? Quanti sono gli chef che rinunciano a qualche proteina per inserire in carta piatti a base di vegetali? “Saper proporre in maniera innovativa prodotti espressione dei nostri campi - ha sottolineato Aldo Cursano, vicepresidente Fipe -  significa anche comprimere costi di approvvigionamento, valorizzare la freschezza e la qualità del prodotto e certamente incidere positivamente sui margini dell'operatore economico”.

 

Il Cotto e crudo di frutta e verdura di Oliver Glowig

Per convincervi della validità della proposta, anche nel contesto della cucina d'autore, ecco la ricetta di Oliver Glowig, attualmente in menu al ristorante La Tavola, Il Vino, La Dispensa che conduce al Mercato Centrale di Roma.

 

Cotto e crudo di frutta e verdura

 

Ingredienti:

 

verdure crude tornite, tagliate sottilissime (carote, finocchi, sedano, asparagi, ravanelli...)

verdure cotte (carote, zucchine, asparagi, fave, piselli...)

fiori eduli per guarnire (cappuccini, viole...)

frutta di stagione

una cialda di sedano rapa fritta

aceto stravecchio di Balsamico

 

Per il caviale di melanzane:

 

2 kg di melanzane tonde

1 testa d’aglio

4 rametti di timo al limone

1 cipolla rossa

mezzo mazzo di prezzemolo

8 petali di pomodoro candito

5 g di capperi

20 ml di aceto di Barolo

sale, pepe e olio d’oliva extravergine q.b.

 

 

Preparazione

 

Per il caviale di melanzane:

Tagliare le melanzane a metà e inserire uno spicchio d’aglio all’interno. Aggiungere il timo, un filo d’olio e chiuderle nella carta alluminio formando un cartoccio. Cuocere nel forno a 180 gradi per un’ora. Ridurre la cipolla rossa in brunoise e sbollentarla leggermente. Lavare e tritare il prezzemolo finissimo, quindi strizzarlo in un torcione. Tagliare i petali di pomodoro a brunoise e conservare il tutto. Separare la polpa delle melanzane dalla pelle e lasciarla asciugare in uno chinoise (pentola per fonduta con colino, ndr) a fuoco basso. Tritare finemente buccia e polpa al coltello, mischiando bene il tutto. Togliere dal fuoco le melanzane e aggiungere capperi, pomodori, prezzemolo, cipolle, olio e aceto di Barolo.

 

Assemblare il piatto:

Condire la frutta e la verdura con l’aceto di Barolo, l’olio extravergine, il sale e il pepe. Disporre alla base uno strato di caviale di melanzane (aiutandovi con un coppapasta per una presentazione più ordinata, ndr), e adagiarvi frutta e verdura secondo gradimento. Guarnire con fiori eduli.

 

La Tavola, Il Vino, La Dispensa | Mercato Centrale | Roma | via Giovanni Giolitti, 36 | tel. 06 9293 9569 | www.mercatocentrale.it/roma

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

 

 

 

 

La nuova vita degli “chef del terremoto”. Eataly per Giuseppucci, Porto Recanati per il Tiglio in Vita

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Danni ingenti, dichiarazione di inagibilità, chiusura obbligata. Stessa sorte a una cinquantina di chilometri di distanza, uno a Tolentino l'altro a Montemonaco, per La Gattabuia di Andrea Giuseppucci e il Tiglio di Enrico Mazzaroni. Ma dopo la prova del sisma, c'è un tempo per la rinascita: Giuseppucci ospite di Eataly, Mazzaroni con una nuova sfida, in riva al mare. 

La Gattabuia di Tolentino. Danni e progetti per il futuro

La Gattabuia, l'aveva chiamata, in ricordo dello spazio che un tempo aveva ospitato il carcere di Tolentino, poi rinato a nuova vita come mercato della città, e ristorante gourmet, al secondo piano del complesso. Un'insegna fresca e coraggiosa, soprattutto per la giovane età di Andrea Giuseppucci (all'epoca dell'apertura, nel 2014, appena 22enne), nel cuore dell'entroterra marchigiano. Quel territorio che qualche mese fa ha conosciuto lo strazio del sisma, una, due, tre volte...E il ristorante di Andrea, che ha saputo attestarsi in pochi anni tra gli indirizzi gastronomici più interessanti del Centro Italia (pur tra mille difficoltà, in primis quella di portare a Tolentino un pubblico attento alla sua proposta), non ha retto: a novembre 2016 la chiusura per inagibilità, con danni ingenti soprattutto in magazzino e cantina. Da allora il talento di Andrea (a tal proposito ecco la nostra intervista del 2015) si è messo a disposizione del miglior offerente, che nel caso specifico non è un modo per sottolineare un ridimensionamento delle ambizioni, piuttosto la capacità di reinventarsi altrove, chef itinerante fino a quando il progetto Gattabuia potrà rinascere, magari in trasferta in una nuova città, prima di riaprire lo spazio di Tolentino, puntando però su una proposta più semplice e trasversale (ecco cosa ci raccontava a caldo, a pochi giorni dal terremoto del 31 ottobre)

Il sodalizio con Eataly

Ma intanto è bene concentrarsi sul piano b, che si concretizza col il supporto di Eataly: un sodalizio inedito che porterà Giuseppucci a cucinare, nell'ordine, a Firenze, Torino e Milano, ospite con un pop up studiato per l'occasione nelle diverse sedi cittadine dello store di Farinetti. Tre mesi in viaggio, a partire da febbraio, quando lo chef marchigiano sarà a Firenze per proporre una cucina marchigiana semplice e alla portata di tutte le tasche, nella cucina di via dei Martelli. Poi, a marzo, l'esperienza da Eataly Lingotto, sempre all'insegna delle cucina regionale, ma più elaborata. La chiusura del tour si consumerà da Eataly Smeraldo, a Milano, con la tappa più ambiziosa di tutte, e l'opportunità di presentare alla città una proposta affine a quella della Gattabuia (e chissà che proprio nel capoluogo lombardo non possa farsi strada la possibilità di un trasloco).

Il nuovo Tiglio in Vita di Enrico Mazzaroni. Sul mare

Stessa sorte, e possiamo finalmente registrare analogo lieto fine, per Enrico Mazzaroni. Anche lo chef del Tiglio di Montemonaco, arroccato sui Monti Sibillini, aveva dovuto arrendersi ai danni del terremoto qualche mese fa. E ricominciare come cuoco itinerante, ospite di amici e colleghi in diverse città d'Italia (qui alcune delle occasioni passate), in attesa di poter tornare nella sua cucina. Ma ora è la Repubblica ad anticipare la riapertura del ristorante in trasferta, in versione costiera, sul mare di Porto Recanati. Il progetto, significativamente, è stato ribattezzato Il Tiglio in Vita, e nasce sotto l'ala protettrice di un imprenditore locale, che ha voluto scommettere sulla caparbietà e l'esperienza in cucina di Enrico Mazzaroni. I lavori di ristrutturazione sono già in corso, per essere pronti al più tardi per la metà di marzo, quando il ristorante rinascerà a tutti gli effetti, e non come parentesi temporanea, aprendo di fatto un nuovo capitolo nella carriera dello chef. Ma anche lo spazio di Montemonaco, quando sarà possibile, dovrebbe riaprire i battenti per ricordare la storia del Tiglio, e le sue origini, tra i monti che Mazzaroni ha deciso di portare con sé in riva al mare. E la terra del brodetto, che vanta tante eccellenze della ristorazione italiana, ora è pronta per accoglierlo.

 

a cura di Livia Montagnoli


New York. World Trade Center sempre più gourmet. Arrivano pure Daniel Humm e Will Guidara

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Dopo Eataly, Boulud, Shake Shack al Westfield Trade Center di Calatrava approda un'altra gloria della ristorazione cittadina: Daniel Humm, e il suo braccio destro Will Guidara, progettano l'apertura di un ristorante entro il 2018. Ma i lavori in corso per il team dell'Eleven Madison Park non finiscono qui. 

L'offerta gastronomica intorno all'Oculus di Calatrava

Fino allo scorso agosto, quand'è stato ufficialmente inaugurato, New York aspettava con trepidazione l'apertura del Westfield Trade Center, per il valore simbolico del complesso sorto a celebrare le ceneri delle Due Torri, certo, ma anche per l'indubbia capacità statunitense di trasformare un momento di riflessione e rinascita in motivo di business. All'opera valorizzata dall'apertura centrale del cosiddetto Oculus ha lavorato l'archistar Santiago Calatrava, gli spazi commerciali sono letteralmente andati a ruba. Qui, tra gli altri, Eataly ha sancito la propria affermazione in città con l'inaugurazione del secondo, ambizioso punto vendita (Torre 4, terzo piano con vista). E, per restare sul versante made in Italy, anche il gelato di Grom ha conquistato una vetrina importante nel complesso. Ma il richiamo dell'Oculus non ha risparmiato neanche un'eccellenza gastronomica cittadina come Daniel Boulud, che tra i negozi del mall ha replicato l'Epicerie che porta il suo nome. Per non parlare di un tempio dello street food newyorkese come Shake Shack, presente con i suoi mitici burger nell'area del Fulton Center. Tra i molti coming soon in previsione per il 2017, uno promette di conquistare il pubblico gourmet, con una sorpresa decisamente inaspettata, che Daniel Humm e Will Guidara rivelano in anteprima al New York Times. Gli ideatori dell'Eleven Madison Park e del NoMad sono già al lavoro sul progetto che entro il 2018 li porterà al pian terreno della torre numero 3 (con vista sull'Oculus) con un nuovo format di ristorazione ancora avvolto nel mistero.

Il ristorante di Humm-Guidara. Una nuova sfida

Ancora da definire il nome dell'insegna e il designer che curerà l'allestimento degli spazi, ma l'accordo con la Make It Nice – società che fa capo al duo Humm-Guidara – c'è. E i diretti interessati già si dicono entusiasti delle opportunità offerte da un indirizzo tanto prestigioso, che per la prima volta li porta fuori dai confini di Midtown, dove hanno decisamente rimodulato l'offerta gastronomica, facendone uno dei distretti gourmet più ambiti di New York. Nel frattempo il team continua a lavorare all'apertura di Made Nice, che presto proporrà al pubblico del NoMad district una nuova idea di ristorazione veloce e informale a cura di uno chef abituato a ben altre platee (ma Humm è solo l'ultimo di una serie di personalità dell'alta cucina che stanno trasformando il concetto di fast food, cimentandosi con progetti pop, in America, come nel resto del mondo). E più in là – la data di fine cantiere è prevista per il 2019 – si profila anche l'apertura del “Four Seasons on steroids”, annunciata da tempo, la più ambiziosa di tutte: un fine dining su due livelli all'interno dell'esclusivo grattacielo al 425 di Park Avenue, con la firma dell'architetto Norman Foster. Collaborazioni celebri e obiettivi mirati che spingono a riporre grandi aspettative nel progetto che prenderà forma al World Trade Center: chi sarà coinvolto stavolta? E cosa proporrà Daniel Humm al pubblico numeroso di newyorkesi e turisti che ogni giorno affolla il complesso? Un'operazione da seguire.  

 

Eataly New York Downtown | Westfield Trade Center | Tower 4, terzo piano | www.eataly.com

Epicerie Boulud | Westfield Trade Center | Oculus, C2 | www.epicerieboulud.com

Grom New York | Westfield Trade Center | West Concourse, C2 | www.grom.it

Shake Shack | Westfield Trade Center | Fulton Center, secondo piano | www.shakeshack.com

Made Nice | New York | 8 W 28th Street | prossima apertura 

 

a cura di Livia Montagnoli

Anteprime 2017. Che Amarone ci aspetta?

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È di nuovo tempo di Anteprime e come di consueto è il rosso veronese ad aprire le danze. Appuntamento nell'ultimo fine settimanadi gennaio al Palazzo della Gran Guardia: sotto i riflettori l’annata 2013 e i consumi nel mercato Usa

All’epoca l’annata 2013 fu considerata di buona qualità, mentre il vino, secondo il parere di molti, sarebbe stato caratterizzato “più dalla finezza che dalla potenza”. Questo ultimo fine settimana di gennaio darà a tutti la possibilità di verificare i giudizi e le previsioni. Come di consueto, per molte aziende sarà il millesimo già in vendita – quindi relativamente anteprima – mentre per altre, essendo il vino ancora in corso di affinamento, sarà soltanto un campione da botte. Le possibilità di assaggiare, comunque, saranno numerose: 78 le cantine partecipanti, 150 i vini presentati oltre a qualche annata storica. Inoltre, per la prima volta ci sarà una giornata, il 30 gennaio, interamente dedicata agli operatori del settore (enoteche, ristoranti, ecc.). Il 29 il programma prevede un talk show sul vino e l’arte, e la presentazione del bicchiere, appositamente disegnato, per bere e degustare nelle migliori condizioni l’Amarone.

 

Lo stato di salute dell’Amarone della Valpolicella

Per il grande rosso veronese, gli indicatori economici continuano a essere ampiamente positivi: rispetto al 2015 il giro d’affari ha raggiunto 330 milioni di euro (+5%), l’export ha toccato il 65% (+3%) e la crescita del mercato domestico, che rappresenta il 35% del totale, è stata di un importante 10%. All’estero l’Amarone consolida la sua posizione nei mercati di riferimento quali Germania (18%), Usa e Svizzera (entrambi 11%), Uk (10%), Canada e Svezia (7%). In particolare, mentre nel 2005 si esportava il 54% della produzione, nell’ultimo anno si è raggiunto l’80%, grazie soprattutto a una sempre maggiore propensione all’export delle aziende medie (da 20.000 a 500.00 bottiglie) e grandi (oltre 500.000 bottiglie). Le piccole aziende, invece, sono sempre più portate alla vendita diretta, che in qualche caso rappresenta anche il 50% del fatturato. Nel 2016 rispetto al 2015, anche nella Gdo, secondo Wine Monitor che ha elaborato i dati IRI, la variazione in valore delle vendite ha situato l’Amarone in testa alla classifica (18,5%) con il Brunello al secondo posto (14,1%), Barolo al terzo (8,9%) seguito dal Chianti Docg (8,5%). Peccato che anche in quest’edizione non siano stati comunicati i dati relativi al valore di riferimento di ognuno dei vini presi in esame, ma solo il posizionamento in classifica. Basti pensare alle differenze di valore sullo scaffale tra l’Amarone e il Chianti Docg per capire quanto la forbice del valore possa essere larga, mentre si ignorano le reali distanze con i veri competitor, quali Bunello o Barolo.

 

Il lavoro di razionalizzazione della filiera

Un altro elemento importante è la crescita e la razionalizzazione della filiera produttiva avvenuta nell’ultimo decennio. Se nel 2005 le aziende produttrici di uve della Valpolicella erano 2646 delle quali 209 imbottigliatrici, nel 2016 sono diventate 2286, mentre le seconde ora sono 286. Anche i fruttai in attività – locali per l’appassimento delle uve per l’Amarone e il Recioto - adesso sono 478. Dati che si riflettono anche sulla produzione generale. Se gli ettari vitati, nel 2005 erano 5719, nel 2016 sono diventati 7844; i quintali di uva erano complessivamente 598.600 e ora sono 926.420 (+327.820 q.li).

Dal punto di vista del vino imbottigliato, il numero delle fascette di Stato distribuite nel 2016, illustra la crescita generale (degli ettari vitati, della produzione di uve e del numero delle aziende imbottigliatrici/trasformatrici, ecc.) Infatti, quelle per Amarone della Valpolicella Docg sono state 14.553.752; per il Recioto della Valpolicella Docg: 389.535; per Valpolicella Ripasso Doc: 27.619.594; per il Valpolicella Doc: 18.253.128. Da mettere in luce la stabilizzazione del distacco, ormai definitivo, della tipologia Ripasso sul Valpolicella Doc, un fenomeno che negli ultimi anni si è andato accentuando. Anche il Consorzio di tutela, sul fronte degli associati, ha visto dei cambiamenti: dai 1743 iscritti del 2005 ai 1677 di oggi. Le 66 aziende di meno sono in parte dovute a scorpori a causa di successioni, oppure a cessione e acquisti di piccole proprietà, ma anche alla fuoriuscita di aziende per motivi di dissenso sulla gestione della denominazione, come nel caso degli aderenti alle Famiglie dell’Amarone d’Arte che infatti non partecipano all’Anteprima.

 

La crescita sul mercato domestico

A fronte di un mercato domestico spesso asfittico, l’Amarone porta a casa un incremento medio, tra tutti i canali, del 10% in valore. Soprattutto in HoReCa, che rappresenta il 25% delle vendite Italia di cui una quota (32%) è dei grossisti, i quali a loro volta rivendono proprio a ristoranti ed enoteche che non vogliono appesantire la cantina. Considerato marginale l’apporto della Gdo. Secondo IRI, nel 2016 sono state vendute in iper, super e negozi a libero servizio, meno di 470.000 bottiglie di Amarone e cioè circa il 3% del prodotto. In linea con le presenze di altri vini dello stesso lignaggio, quali Barolo (3,3%) o leggermente inferiore al Brunello (5%). “L’aumento in valore delle vendite di Amarone in Italia” commenta Olga Bussinello, direttore del Consorzio “è particolarmente lusinghiero vista la staticità del nostro mercato interno. Nella Gdo, è molto significativa la crescita in valore del 18,5% nel 2016 rispetto al 2015 dell’Amarone della Valpolicella, perché superiore a quella degli altri rossi blasonati che, probabilmente, sono stati più spesso oggetto di promozioni”.

 

L’indagine sui consumatori Usa

L'indagine 2016 dell'Osservatorio vini Valpolicella commissionata dal Consorzio di tutela a Wine Monitor-Nomisma, quest’anno è dedicata alle denominazioni della Valpolicella. Il campione di 750 consumatori di vino rosso, tra i 21 e i 65 anni, residenti in California, New York, Texas e Washington - aree rilevanti per consumo pro capite o per le dinamiche d’importazione di vino imbottigliato - hanno evidenziato che l’Amarone viene scelto perché “è italiano, è classico e versatile, tanto da essere perfetto sia per le cene con parenti e amici, sia per festeggiare le occasioni importanti anche tra le mura domestiche”.

L’indagine evidenzia una percezione assolutamente positiva dei nostri vini presso i consumatori di vino rosso statunitensi” sottolinea Christian Marchesini, presidente del Consorzio “se ben il 25% del campione associa le caratteristiche distintive di questo vino alla ‘qualità’ e un ulteriore 14% allo ‘stile italiano’, ci sono margini per aumentare le performance del nostro vino di punta”. Il direttore Bussinelloosserva che “gli Usa sono un mercato in cui la competizione con gli altri Paesi è molto agguerrita. Se allarghiamo lo sguardo all’export su tutti i mercati, l’Italia si posiziona al secondo posto dopo la Francia, in valore e volume. Un risultato a cui contribuiscono i vini della Valpolicella: se il 10% della produzione di Amarone raggiunge gli Usa, le percentuali salgono al 14% per il Valpolicella e al 21% per il Ripasso”.

Posto di fronte a un elenco di vini rossi italiani, l’11% del campione Usa riconosce e dichiara di aver consumato almeno una volta il Valpolicella nell’ultimo anno. Ben il 10% ha bevuto Amarone negli ultimi 12 mesi, mentre il tasso di penetrazione del Ripasso e del Recioto è leggermente inferiore: rispettivamente 9% e 6%. Complessivamente, il 17% dei consumatori americani ha bevuto almeno una volta i vini della Valpolicella. Prosit.

 

a cura di Andrea Gabbrielli

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 26 gennaio. Abbonati anche tu se sei interessato ai temi legali, istituzionali, economici attorno al vino. È gratis, basta cliccare qui.

Sulle strade della California. Un viaggio a più tappe tra assaggi e racconti. Vol. 1

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Il futuro green del cibo parte dalla California, tra le coltivazioni zen nella Bay Area e le tendenze fusion di Koreatown, suggestioni italiane e le molte vite che, con percorsi differenti, si incrociano qui. In un diario di viaggio un po' sui generis ci siamo presi il lusso di raccontare queste storie. Questa è la prima puntata: in viaggio dalla Bay Area.

La cultura dell’organic qui non fa più notizia, è abitudine consolidata. Non più solo una tendenza o una moda passeggera, ma un must, e non solo per quanto riguarda il cibo: la rivoluzione green nasce e continua a rinnovarsi dalla fine degli anni ’60 quando il nuovo cibo si chiamava ‘hippy food’. Incontrare i testimoni diretti di questo cambiamento, eredi della cultura etico-gastronomica esplosa in quegli anni, è molto più emozionante di quanto si possa immaginare, e va ben oltre il piacere di un piatto di erbette fresche o di un dolce lievitato per ore in laboratori di provincia, oggi scuole di alta cucina e pasticceria.

 

Gary RulliGary Rulli

I dolci italiani made in Usa

A Larkspur nella Mill Valley incontriamo Gary Rulli all'Emporio, il suo quartier generale. A San Francisco, è a Union Square e Chestnut, di là pasticceria di qua ristorante gourmet, senza contare i terminal dell'aeroporto di San Fracisco. Gary, sguardo aperto ed energia infaticabile anche dopo 15 ore passate in laboratorio a inventare, ha una passione filologica per la pasticceria italiana: la sua ricerca va alle origini della tradizione. Lavorare con i lievitati è la sua ragione di vita, raggiungere il massimo possibile della leggerezza e del sapore più autentico, la sua sfida quotidiana: “non mi accontento di un prodotto già buono, mi sforzo di migliorarlo, la ricerca di una variazione impercettibile del palato diventa la ragione della mia giornata”. L’Emporio a Larkspur è un forum gastronomico della migliore rappresentanza regionale italiana, onorata in ogni dettaglio: dalla provenienza certificata dei prodotti, ai dettagli della presentazione estetica.

La cialda MontecatiniLa cialda di Montecatini

Un esempio? Per la cialda di Montacatini, Gary ha cercato uno stampo fiorentino originale dell’800. Gary è il primo artigiano statunitense membro dell’Accademia Italiana Maestri Pasticceri, il suo panettone è una leggenda, meta di pellegrinaggi dall’intera Bay Area e a Larkspur realizzerà presto un laboratorio didattico di pasticceria. Testimone in Italia della sua scuola e della sua generosità di antico stampo italiano è un suo allievo di qualche anno fa, Giovanni Gilberti, oggi pasticcere chef al Pavè di Milano.

 

AlfredoAngelino

Una storia nata in Italia

Ci spostiamo di poco, in California le distanze sono relative, e giungiamo a Sausalito, alla ricerca di un approdo ancora una volta di chiara ispirazione italiana. La tappa obbligata è Angelino, tavoli fronte mare con vista su North Beach. La storia di questo locale inizia in Italia, tanti anni fa, quando il nonno di Alfredo, l'attuale chef e figlio di Pasquale, il fondatore di Angelino, vide una ragazza in spiaggia, a Castellammare di Stabia, area termale di tempi andati. Pensò che fosse la più bella e volle portarla con sé a San Francisco, in aereo. Era l’epoca degli sbarchi collettivi a Ellys Island. La storia comincia lì. La nonna di Alfredo oggi, a 90 anni, è ancora bella, il suo umorismo napoletano seduce ancora, negli anni è diventato arte. Ora a occuparsi del ristorante c’è Alfredo, chef d’alta formazione con esperienze tra New York e l’Italia.

 

AngelinoUn tavolo vista mare di Angelino

La sua cucina è fragrante, con odori e spezie in equilibrio perfetto come solo chi ne conosce l’origine sa fare. Per Alfredo esistono solo prodotti locali, sostenibili e stagionali, preferibilmente consegnati direttamente dal produttore, il pesce, poi, è freschissimo, come a casa di un pescatore napoletano bordo mare.

Tony TuttoTony Tutto

La pizza e la musica di Tony Tutto

Di nuovo in auto, alla volta di Tony Tutto che è la sintesi della summer revolution. La pizzeria di Tony Tutto non è solo pizza, è – un po' come dice il nome - tutto. È un pezzo d’America degli anni '70, il racconto di come in questa terra la vita possa cambiare mille volte, e rinascere continuamente. Con attitudine da surfer, dove il trucco è saper prendere l’onda, attenderla, scorgerla da lontano, comprenderne la potenza; poi il resto avviene. La pizza è l’ultimo dei progetti di Tony, nato da una passione e poi spinto in alto da una nuova onda. Nessuno sa il suo vero cognome: Tutto gli è stato appioppato dalla sua gang di amici, in un periodo in cui “tutto” significava “provarle davvero tutte”. Si sa solo che, come per tanti in California, c’è un’origine italiana, con nonno abruzzese per parte di padre. Condizione più che sufficiente a giustificare l’amore di Tony per l’Italia.

 

Tony TuttoI cd di Tony Tutto

La sua pizzeria ha molte anime, ma Tony non ne appare del tutto consapevole. Si trova un po’ fuori dal centro di Mill Valley, sulla strada principale, è una sorta di deposito risistemato in un parcheggio a bordo strada, tra un centro commerciale e un capannone abbandonato. L’ingresso è circondato da piante ad altezza d’uomo. La vetrata d’ingresso dà l'idea di una salumeria anni ’70: nient’altro che vetro e profili in alluminio; l’interno è uno scenario postmoderno d’autore: pochi tavoli in formica, di quelli vintage, sulla sinistra il banco pizza e il forno, a destra, sul banco e sulla parete, una raccolta di innumerevoli cd. Quattro frigoriferi a vista sono lo scrigno di birre da collezione di provenienza locale o planetaria, vini rari quanto pregiati, una carrellata di etichette di Champagne.

Tony Tutto a Mill Valley è un’istituzione: premiatissimo, è il punto di ritrovo di cui ogni comunità ha bisogno. C’è l’habitué che arriva sempre alla stessa ora, siede allo stesso tavolo e ordina la stessa pizza da anni. C’è chi fa la scorta di pizza take away, ma non va via senza un saluto speciale a Tony con aggiornamenti sulla giornata trascorsa, come fosse un parente. Ci sono gli ospiti festanti ai tavoli in cortile per il brunch domenicale, appuntamento fisso con tanto di liste d’attesa. E pazienza se la lista è solo indicativa: finiti i panetti previsti per la giornata, Tony di pizze non ne fa più. Vendite, numeri e fatturato non cambiano le sue abitudini “ho sempre curato la pizza, non l’attività della pizza!”. Rientra perfettamente nel personaggio: Tony è quello che all’inaugurazione nel 2008, non fece altro che alzare la saracinesca e aspettare che qualcuno entrasse a chiedere una pizza. Voleva un inizio morbido, senza pubblicità né insegne di richiamo. Chissà per quale magia passò di lì Bob Weir dei Grateful Dead, conosciuto in una delle feste tra amici. Bob gli ordina sei pizze e la birra, gli dà 20 dollari e Tony non sa cosa dargli di resto: si accorge di non aver prezzato nulla di nulla. Va alla cassa e non sa come farla funzionare, Bob gli lascia i 20 dollari. E la pizzeria comincia la sua storia.

TOny TuttoIl giradino esterno

Pochi sanno del passato di Tony come manager nell’industria musicale, al fianco di gente del calibro di Carlos Santana e Michael Walden, dai tempi di John McLaughlin a quando Walden diventa uno dei produttori discografici più ricercati degli Stati Uniti. Per Santana ha prodotto alcuni degli album più importanti, fino al successo planetario di Supernatural del 1999. Carlos ama raccontare che senza l’aiuto di Tony quel prodigio da 9 Grammy Awards e 30 milioni di copie vendute, non sarebbe stato possibile.

Con l’avvento della tecnologia e il declino delle case discografiche Tony ha cambiato strada. La sua passione per la pizza era nota a tutti, ne preparava di ottime nelle reunion settimanali tra amici, familiari e musicisti famosi. Decise di progettare la migliore ricetta possibile per il brevetto della pizza Tony Tutto e partì per un tour gastroesplorativo in giro per l’America, alla ricerca dell’ispirazione giusta. Rimase via mesi.

La sua pizza è vegetariana, leggerissima, fatta solo di ingredienti bio di provenienza locale e certificata, Tony ne cura ogni dettaglio, dall’impasto alla selezione dei gusti, pochi. Carlos Santana e sua moglie Deborah sono tra i clienti più assidui insieme a Jerry Garcia dei Grateful Dead, che abita lì vicino.

Tony ha lo sguardo lungo dei saggi e sorriso dolce d’altri tempi, a 63 anni conserva gli occhi sorpresi di un bambino, le cose sembrano accadergli intorno come fuori da un vetro che lo circonda invisibile. Dalla zona musicale del banco prende alcuni cd di musica italiana. Ci mostra Mina, Roberto Murolo e Lucio Battisti. Abbozza un motivo, “non comprendo i testi ma li adoro, non trovate che siano fantastici?”. Onnivoro di musica di ogni genere ne discetta da esperto conoscitore con la stessa naturale disinvoltura con cui impasta la pizza e riceve i clienti. Ma lui non si accorge di quanto tutto sia speciale.I saluti non sono formali, nel suo abbraccio adulto c’è un mondo intero, di chi il mondo lo ha attraversato, Tutto.

 

Ripartiremo da qui per spostarci verso San Francisco e Santa Barbara, Los Angeles e i panorami mozzafiato di questo angolo d'America.

 

Emporio Rulli | Usa | California | Larkspur | 464 Magnolia Ave | Http://Www.Rullistore.Com/Italian_Bakery_S/12.Htm

Angelino| Usa | California | Sausalito | 621 Bridgeway | Http://Www.Angelinorestaurant.Com/

Tony Tutto Pizza | Usa | California | Mill Valley | 246 E Blithedale Ave | Http://Www.Tonytuttopizza.Com/

 

a cura di Emilia Antonia De Vivo

Yuzuya a Bologna. La rosticceria-bistrot che regala un'esperienza autentica del Giappone

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Due mamme imprenditrici dal Giappone, esperienze di catering alle spalle e grande voglia di far scoprire a Bologna che oltre al sushi c'è di più. E il locale aperto alla Bolognina lo scorso luglio le ripaga dell'impegno: code e grande apprezzamento per le specialità in arrivo dalle case giapponesi, all'insegna dell'equilibrio, del benessere e della qualità degli ingredienti. 

Teishoku. Equilibrio e benessere alla giapponese

Teishoku è la parola magica. Quasi un codice di comportamento a tavola che appartiene alla sfera più casalinga della cultura gastronomica giapponese, banalmente inteso all'occidentale come un pasto leggero. Ma se è vero che ogni termine del vocabolario giapponese è in grado di racchiudere il senso profondo di un'attitudine, di un costume culturale, anche in questo caso dietro alla volontà di approntare una tavola che non appesantisca il corpo e lo spirito bisogna leggere una tradizione più autentica, che lungi dal confondersi con la moda del benessere a tutti i costi, racconta uno stile alimentare comune a molti giapponesi. Teishoku dunque come alternanza di pietanze tradizionali servite in piccole quantità, che privilegiano materia prima, varietà e armonia dei sapori, offrendo al commensale l'opportunità di sperimentare tante specialità diverse, bilanciate sotto il profilo nutrizionale e semplici per cottura e presentazione. Come accade ogni giorno in tante case giapponesi. E chi varca la soglia di Yuzuya, quartiere Bolognina a pochi metri dalla stazione del capoluogo emiliano, non ha bisogno di sorvolare l'Asia per provare l'esperienza in prima persona. Nel piccolo locale dall'atmosfera informale inaugurato lo scorso luglio da Tsuruko Arai e Takako Kawaho, le pietanze del teishoku arrivano in tavola su un vassoio, ogni giorno (domenica esclusa) dalle 12 alle 14.30.

La rosticceria giapponese della Bolognina

Quando quella che le due socie giapponesi definiscono una “rosticceria casalinga” ha aperto per la prima volta i battenti a Bologna, l'intenzione era quella di far scoprire alla città una cucina nipponica che non si fermasse ai primi traguardi raggiunti: sushi, sashimi e tempura hanno fatto il loro tempo, ora l'Italia sembra curiosa di scoprire altro, come testimonia la diffusione capillare di ramen bar o il fiorire di esperienze alternative che scommettono sulle specialità meno patinate della gastronomia giapponese. E Yuzuya rientra in pieno nella seconda categoria (ma si confronti anche la storia di Maido a Milano). Ciò che colpisce, nel progetto di queste “imprenditrici” che hanno cominciato con piccoli catering e lezioni di cucina, è il desiderio di attenersi alla cultura casalinga, senza stravolgere un approccio alla cucina e al servizio che funzione perché è familiare, autentico, e non si monta la testa: “Vogliamo che il nostro spazio sia una sala da pranzo per pochi ospiti, che coccoliamo come una mamma farebbe con i propri figli”. Ma in pochi mesi, con soli 25 coperti, vuoi per la formula – ideale per la pausa pranzo di chi lavora nei vicini uffici del Comune – vuoi per l'intuizione che regala a Bologna un'esperienza inedita, la cucina di Yuzuya è riuscita a conquistare un pubblico di clienti affezionati.

Pranzo, cene e cenette

Molti hanno cominciato a presentarsi per cena già verso le 19, per essere sicuri di trovare posto (si può prenotare solo il venerdì sera, quando l'orario d'apertura si allunga fino alle 23, ndr)”. Dal lunedì al giovedì, e il sabato, oltre al servizio del pranzo, Tsukuro e Takako hanno inventato la formula della “cenetta”: dalle 18.30 alle 22, ma la cucina chiude alle 21, per un aperitivo o una cena leggera a base di pesce crudo, vino, birra artigianale giapponese e qualche specialità del giorno in arrivo dalla cucina. La cena come la intendiamo noi, per rilassarsi al tavolo fino a tarda sera, da Yuzuya si consuma solo il venerdì: “Del resto in Giappone siamo abituati a cenare presto, spesso mangiando qualcosa di volante in una tavola calda sulla strada per casa. È anche un discorso fisiologico: mangiare oltre una certa ora rende più difficile la digestione. Ma anche i bolognesi si stanno affezionando all'idea della cenetta”. E molto, a giudicare dall'attesa che spesso si deve mettere in conto per aggiudicarsi un tavolo.

Le specialità di una casa giapponese

A pranzo la proposta si compone, secondo il principio dell'Ichi-ju-San-sai (una diretta emanazione del Teishoku: piccole porzioni, curate nella presentazione e molto varie nel gusto), di una ciotola di riso, una zuppa di miso, una pietanza principale che cambia quotidianamente (pesce cotto o carne) e due ciotole piccole con contorni e specialità d'accompagnamento, come gli tsukemono, i sottaceti giapponesi. Tra le proposte nel vassoio la cotoletta di maiale o ali di pollo fritto alla moda di Nagoya, le polpette di gamberi, il salmone marinato alla soia e succo di limone scottato alla piastra, lo sgombro in salsa di miso, il tofu fritto con verdure, il brodo di pesce con soba di grano saraceno e tempura. Ma dalla carta è possibile scegliere anche polpette di polpo (takoyaki), gyoza di maiale, un ramen molto semplice, yaki soba; il sushi solo il venerdì (“non è una preparazione che facciamo spesso in casa”), mentre è sempre disponibile la combinazione Yuzuyamaki, 7 differenti tipologie di maki, con salmone marinato allo yuzu (l'agrume giapponese da cui il locale prende il nome), funghi shitake, frittata, anguilla. E la sera si arricchisce la proposta di pesce crudo, ideale da accompagnare con un calice di vino (italiano) o una birra giapponese, in cinque tipologie artigianali. Ma anche la carta dei sake è ricca e articolata in collaborazione con un fornitore milanese, che permette al piccolo locale di gestire una carta con 30-40 referenze diverse, da abbinare a tutto pasto per suggerire un percorso fedele alla cultura nipponica: “Stiamo cominciando a sperimentare anche qualche cocktail a base di sake per la sera, in attesa di avere anche un whisky giapponese di qualità”.

Materia prima di qualità e atmosfera familiare

La selezione delle materie prime, in effetti, sembra essere una priorità della casa: i fornitori sono selezionati con cura nel quartiere della Bolognina, per il pesce il riferimento è una famiglia di pescatori siciliani, che pesca in proprio a importa a Bologna un prodotto certificato e di qualità (abbiamo provato il salmone così come l'anguilla, sempre con risultati eccellenti). Sicuramente un punto di forza, insieme alla capacità di trasmettere ai clienti la passione di una piccola realtà, solo due persone in cucina e un ragazzo italiano che serve in sala. Ma si lavora anche su ordinazione, a domicilio e per il take away con formula bento a 12.50 per 5-6 proposte diverse secondo la disponibilità del giorno. Chi ama la cultura giapponese, e il paese del Sol Levante l'ha visitato almeno una volta, ha subito intuito l'opportunità: per tutto il mese di febbraio le prenotazioni del venerdì sera sono esaurite. E la città sta velocemente accorgendosi di questa bella novità.

 

Yuzuya | Bologna | via Niccolò Dall'Arca, 1 | tel. 051 0415021 | www.yuzuya.it 

 

a cura di Livia Montagnoli

Siddi Wine Festival 2017. La cultura del buon bere in Sardegna tra vitigni autoctoni e biodiversità

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Torna il festival dedicato al patrimonio vitivinicolo sardo con la quinta edizione del Siddi Wine Festival in scena il 29 e 30 gennaio. In Marmilla, a Siddi, si prospetta una due giorni alla scoperta dei vitigni autoctoni del territorio.  

L'evento

Dibattiti, laboratori, degustazioni, seminari: a fine mese in Marmilla, a Siddi, si celebra il gusto dei vitigni autoctoni locali e della tradizione sarda. Giunto alla quinta edizione, il Siddi Wine Festival è la manifestazione che ogni anno si propone di promuovere e valorizzare le eccellenze enologiche regionali, dando spazio anche ad altre specialità nazionali e europee. Focus principale dell'evento è la salvaguardia ambientale e la tutela del territorio: il legame fra i prodotti e la loro terra d'appartenenza è infatti il cuore pulsante di questa due giorni – 29 e 30 gennaio – all'insegna della riscoperta delle proprie radici. A organizzare il festival, la Fondazione Accademia Casa Puddu e il ristorante S'Apposentu di Casa Puddu di Roberto Petza (Tre Forchette della guida Ristoranti d'Italia 2017), con il contributo di Banca Intesa San Paolo e in collaborazione con il comune di Siddi. È di nuovo l'ex pastificio Puddu a ospitare l'evento, che inizia la mattina di domenica con la tavola rotonda sulla biodiversità, “Coltivare la diversità per raccogliere lo sviluppo”.

Il tema

Perché è proprio l'ampia e variegata gamma di vitigni sardi il tema centrale di quest'edizione, che vuole far riscoprire agli appassionati, addetti ai lavori ma anche ai consumatori comuni il complesso universo della viticoltura sarda, che è molto di più di Cannonau e Vermentino.“La filosofia che ha ispirato il festival 2017”, spiega l’ideatore Roberto Petza, “parte da un assioma storico che in tema di vini identifica la Sardegna con Cannonau e Vermentino. Ottimi e di grande qualità, ci mancherebbe, ma in questa occasione abbiamo voluto sfatare questo mito e rivolgerci alla riscoperta della grande ricchezza rappresentata dai vitigni autoctoni”. Sono infatti oltre 150 i vitigni dell'isola, tutti caratterizzati da sostanziali differenze a seconda delle zone nelle quali sono prodotti: molto spesso, si tratta di “territori vicinissimi tra loro ma che portano ad avere sempre caratteristiche diverse che rappresentano una peculiarità positiva”. Un obiettivo, quello di promuovere la biodiversità del territorio, che la manifestazione continua a perseguire sin dalla prima edizione: “Dalla prima edizione a oggi, siamo riusciti a stimolare la cultura del bere bene”.

Il programma

Diversi gli appuntamenti del festival, fra degustazioni guidate, seminari e workshop. C'è la Palestra delle idee, con circa 100 stand suddivisi per oltre 50 cantine sarde, 20 nazionali e 30 tra vari espositori della gastronomia locale. Perché Siddi Wine Festival non è solo dedicato al vino, ma anche a tutti i prodotti che caratterizzano la ricca cucina sarda, dalla carne al pesce. Appuntamento imperdibile è poi la presentazione del libro Wild Mixology con Giuseppe Carrus, Roberto Petza e i due autori Enrico Vignoli e Valeria Margherita Mosca Caglio. A seguire, le degustazioni “Viaggio tra i vitigni d'Italia” e “Autoctono e territorio: binomio perfetto” con Giuseppe Carrus. Spazio anche all'arte bianca, immancabile ormai in qualsiasi evento enogastronomico che si rispetti, con la partecipazione del maestro Gianfranco Iervolino, che per l'occasione terrà una lezione gratuita sulla pizza.

Siddi Wine Festival | Siddi | 29-30 gennaio 2017 | www.facebook.com/events/1623120591327707/

 

a cura di Michela Becchi

 

Caffeine. Storia della rivista inglese dedicata al caffè di qualità

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Una rivista britannica interamente focalizzata sulla bevanda calda più consumata a tutte le latitudini: il caffè. Nello specifico il caffè di qualità. È proprio questo il cuore di un bimestrale da 40mila copie a numero. La storia di Caffeine.

La rivista

C'è Standart, la rivista slovacca edita in lingua inglese e poi c'è Barista Magazine negli Stati Uniti, ma anche la storica Bargiornale a Milano. Insomma: esiste una piccola parte dell'editoria che comincia a dedicarsi al caffè di qualità. Fra questi (e altri) nomi, c'è anche Caffeine, un periodico bimestrale inglese con sede a Londra che si propone di fare luce sul settore degli specialty coffee e, più in generale, del caffè artigianale di livello. Una rivista in grado di fornire al lettore informazioni e indicazioni preziose sulle caffetterie più buone, su caffè particolari, torrefazioni di ricerca e sugli ultimi sistemi di estrazione. Ma anche sui macchinari, sulle innovazioni tecnologiche e tutte le novità del settore. Una guida sicura per gli addetti ai lavori ma anche per chi sta iniziando ora ad approcciarsi all'universo del caffè, e per i consumatori più avveduti che hanno voglia di capire qualcosa in più sulla bevanda che consumano quotidianamente.

 

Caffeine

L'idea

Caffeine nasce da un sentimento di frustrazione”: comincia così a raccontarsi Scott Bentley, fondatore della rivista. “Frustrazione di non poter avere nessuna informazione utile sulle caffetterie specialty e più in generale sul caffè di qualità. Tutto era basato sul passaparola. Sentivo l'esigenza di mettere nero su bianco le notizie del settore”. Vent'anni nell'editoria, esperienze presso redazioni ben strutturate come quelle di Elle, Glamour, Men's Health, FHM e GQ e una passione per l'oro nero: questi i presupposti che hanno spinto Scott a creare il periodico. “Circa cinque anni fa, mentre lavoravo a Soho, mi sono imbattuto in Flat White e Fernandez and Wells, caffetterie di ricerca in cui per la prima volta ho provato delle bevande dal gusto e consistenza completamente diversi da quelli a cui ero abituato”. Decide così di lanciare una sua rivista indipendente, “per contrastare la lenta morte dell'editoria tradizionale a cui stavamo assistendo”. È il 2012 e il primo numero di Caffeine vende 4000 copie in tutto. Oggi, “stampiamo circa 40mila copie per numero”.

Italia e Regno Unito a confronto

E non è un caso che una rivista così di nicchia abbia avuto successo nel Regno Unito. L'Inghilterra, Londra in particolare, è uno dei terreni più fertili per i caffè specialty, dove la famosa Third Wave Coffee (movimento che si propone di diffondere un nuovo modo di approcciarsi al caffè) è riuscita ad attecchire e svilupparsi meglio che in qualunque altro luogo. “Nel Regno Unito le torrefazioni di qualità sono così tante che è impossibile nominarle tutte. Una menzione speciale va a Square Mile, Hasbean e Monmouth per essere stati i primi ad aver intrapreso questo percorso e spianare la strada per gli altri che sono venuti in seguito. Ma poi ci sono tante altre realtà, alcune molto giovani, che stanno facendo un lavoro straordinario”. Situazione ben diversa invece è quella italiana: “Non sono un amante del caffè italiano, che è quasi sempre tostato troppo scuro”. Elemento fortemente legato alle tradizioni e le usanze più antiche, “che sono fondamentali per la cultura del caffè in Italia ma che limitano molto il lavoro dei torrefattori. Sembrano esserci, infatti, molti pochi progressi nel campo della tostatura in Italia”. Una tendenza a rimanere ancorati alle vecchie abitudini,“fortemente in contrasto con il settore delle macchine espresso italiane, che sono sempre le più innovative dal punto di vista tecnologico”.

E a proposito di espresso, “non è una bevanda per tutti”, perché ha un gusto “troppo intenso, molto diverso da quello che si ottiene con altri sistemi di estrazione in filtro”. Bere un buon espresso è un'esperienza unica, un'abitudine che non va abbandonata, ma che non deve escludere altre alternative: “Credo che alcuni degli aromi e sentori più affascinanti possano essere trovati solo con il caffè filtro come il v60 o un aeropress. Sarebbe un vero peccato se i consumatori decidessero di non provare l'ampia gamma di aromi di un buon caffè monorigine estratto in filtro”. Perché il caffè “non è solo cioccolato, caramello e nocciola”, ma ha in sé una serie articolata e complessa di profumi, note aromatiche, nuance e retrogusti. Ma qualche torrefattore italiano valido dovrà pur esserci, no? “Mi vengono in mente solo Rubens Gardelli e Pompeo Cardaropoli della Torrefazione Terrone”. Per noi la lista è, fortunatamente, molto più lunga. Ma torniamo a Scott.

La risposta del pubblico

Quarantamila copie per numero è un risultato notevole, ma è sufficiente? “Il caffè di qualità ha ancora molta strada da fare. I consumatori non sono interessati a questo prodotto, che vedono semplicemente come un rituale quotidiano, per il quale sono disposti a spendere pochi soldi”. Il pubblico deve invece cominciare a considerare il caffè “come un prodotto gourmet al pari di altri, e solo allora potremo pensare a un cambiamento di prezzo”. Perché la qualità di questa bevanda è ancora “un argomento lontano dall'esperienza dei consumatori, che raramente sono interessati al tema”. Un modo intelligente per incuriosirli? “Instagram”. Su questo social network infatti sono diversi gli utenti appassionati che postano foto di caffè e cappuccini decorati ad hoc, “ma l'interesse del consumatore medio finisce dopo qualche scatto di latte art fatta bene”.

La scelta editoriale

Un motivo in più per leggere Caffeine? “La nostra rivista è completamente gratuita, proprio perché - a parte gli appassionati – sono poche le persone che sarebbero disposte a pagare per leggere di caffè”. Un magazine a costo zero per gli utenti, dunque, basato sul modello di riviste come Shortlist, Stylist “e tutte quelle realtà gratuite che si sostengono vendendo pubblicità”. Proprio come fa Caffeine. Un modo per attirare i lettori, dunque, “dal consumatore comune a quello che inizia a interessarsi all'argomento”.

 

Caffeine

La grafica e la scelta della carta

Il team di Caffeine, composto da cinque persone fisse più vari collaboratori freelance da tutto il mondo, continua comunque il suo progetto di informazione in Inghilterra e non solo. Perché una parte di pubblico interessata c'è e non solo a Londra. “Distribuiamo la rivista in tanti paesi europei e poi in Cina e Taiwan”. È inoltre possibile abbonarsi al periodico tramite il sito internet, ma l'intenzione di Scott è di offrire ai consumatori un materiale da sfogliare seduti comodamente ai tavoli delle caffetterie: “Caffeine si trova in tanti bar di ricerca non solo inglesi. Mi piace l'idea che i clienti possono leggere di aromi, sentori, caffè e metodi di estrazione che in quel preciso istante stanno assaporando”. Ecco perché la scelta della rivista cartacea, per il fascino intramontabile della carta stampata e per la passione di Scott per la grafica. “Sono un direttore artistico, e tutti i concetti e le illustrazioni della rivista sono opera mia”. La fotografia invece è a cura di Gary Smith, “un mio vecchio amico e grande professionista”, ma ci sono anche tante foto scattate dai vari collaboratori. “Io e Gary abbiamo lavorato insieme per tanti anni, e continuiamo ancora adesso anche al di là di Caffeine. Sono stato fra i primi a produrre riviste digitali per Ipad per realtà come Glamour e GQ, ma la carta resta un qualcosa di unico, difficile da battere”.

 

Caffeine

www.caffeinemag.com/

a cura di Michela Becchi

La Liguria in 9 biscotti tradizionali e la ricetta degli anicini della pasticceri Tagliafico

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Canestrelli, amaretti di Sassello, biscotti del Lagaccio, baci di Alassio. Sono i biscotti liguri: specialità tutte da scoprire, che vi raccontiamo nella quarta puntata sui biscotti tradizionali italiani. Con la ricetta degli anicini della pasticceria Tagliafico di Genova.

Proseguiamo il nostro viaggio alla scoperta dei biscotti regionali, raccontando la tradizione ligure. 9 diverse delizie, tutte da provare, con in più una ricetta da fare a casa, quella degli anicini della pasticceria Tagliafico di Genova, premiata dalla guida Pasticceri&Pasticcerie 2017 con Due Torte.

 

Amaretti di Sasello

Partiamo da un biscotto diffuso in molte regioni d’Italia: l’amaretto. Ne abbiamo già parlato quando abbiamo raccontato i biscotti piemontesi ma questa volta tocca alla versione ligure, l’amaretto di Sassello. Originario di un comune della provincia di Savona, rispetto al classico amaretto di Saronno o a quello piemontese risulta più morbido e friabile. La ricetta risale al XIX secolo, ma ogni pasticceria della zona di Savona giura di averne una versione differente dalle altre e segreta. Gli ingredienti di base sono mandorle dolci, albume d’uovo, zucchero e armelline amare. Nella versione originale, messa per iscritto da Pellegrino Artusi, le mandorle vengono pestate nel mortaio. Sono invece le chiare d’uovo montate a neve a donare all’amaretto di Sassello la sua morbidezza: all’occorrenza, infatti, le dosi di base possono essere aumentate aggiungendo altro albume, in modo da creare un impasto molto soffice. Una volta infornati i biscotti vengono cosparsi di zucchero a velo, lasciati raffreddare e poi serviti.

Altre versioni degli amaretti liguri, meno diffusi di quelli di Sassello, sono gli amaretti di Vallecrosia e gli amaretti di Gavenola, una frazione di Borghetto d'Arroscia, entrambi della provincia di Imperia.

 

Amaretti di SasselloAmaretti di Sassello

 

Anicini

Biscotti “da inzuppo”, gli anicini sono dolci friabili e leggeri, anche grazie all’assenza di burro. Una volta erano i protagonisti delle merende nelle famiglie più importanti, spesso in coppia con il rosolio. Attualmente sono prodotti quasi esclusivamente da forni artigianali o in casa. Come si evince dal nome, il sapore che più spicca è quello dell’anice, che dona un carattere robusto ai biscotti. Per farli servono uova, farina, zucchero, acqua aromatica ai fiori d’arancio e burro esclusivamente per ungere la teglia. Sono veri e propri bis-cotti: l’impasto viene diviso in filoni che, una volta cotti, vengono suddivisi in tanti piccoli pezzi poi di nuovo infornati fino a completa doratura.

 

Baci di Alassio

Alassio è una cittadina in provincia di Savona nota sia per la sua invidiabile posizione, che la rende una delle più belle località di mare della regione, sia per questi gustosi biscotti che l’hanno fatta entrare di diritto nel “club del cioccolato” (riconoscimento dell’Associazione italiana amatori cioccolato - Chococlub, una realtà associativa italiana che conta oltre 12.000 iscritti); le due cose vanno di pari passo. È infatti all’inizio del ‘900 che piemontesi, lombardi, ma anche tedeschi e inglesi “scoprono” le località balneari del Ponente Ligure, fra cui appunto Alassio. In pochi anni il comune diventa una località frequentatissima. È qui che nasce l’azienda Balzola, biscottificio tuttora in attività, che brevetta i baci nel 1919, con la ricetta originale di Rinaldo Balzola, pasticcere personale di Vittorio Emanuele III, Re d’Italia dal 1932 al 1938. Come i baci di dama, anche i baci di Alassio sono formati da due mezze sfere che vengono però farcite con una crema al cioccolato. Per farli servono nocciole tostate, zucchero, cacao amaro, miele, uova, albumi, più panna e cioccolato fondente per la crema.

 

Baci di Alassio, pasticceria TagliaficoBaci di Alassio, pasticceria Tagliafico

 

Biscette di Solva

Tipiche di Alassio, per la precisione dalla frazione di Solva, le biscette legano la loro origine a una leggenda secondo la quale la Madonna ascoltò le suppliche di un eremita che la pregava di liberare il piccolo centro da un'invasione di vipere avvenuta intorno al 1200. Da allora ogni anno, in occasione della festa della Madonna, si celebra l’accaduto preparando questi gustosi e croccanti biscotti fritti. Biscette, infatti, è un termine che fa riferimento alla biscia e anche nella forma, questi biscotti, ricordano i serpentelli. Per prepararli servono farina, acqua, zucchero, scorza di limone grattugiata, semi di finocchietto, lievito e olio per friggere. Una volta creato l’impasto si lascia riposare per un’ora circa, poi si ricavano delle strisce modellandole per far assumere ai dolci la forma di piccoli serpenti. Infine si friggono nell’olio bollente e si servono caldi.

 

Biscette di SolvaBiscette di Solva

Biscotti all’olio d’oliva

Anche in questo caso biscotti che la Liguria condivide con altre regioni, soprattutto con la Lombardia e il Piemonte. La ricetta di base viene dall’entroterra di Imperia, in particolare da un piccolissimo centro chiamato Borgomaro che conta 865 abitanti ed è famoso per i suoi frantoi. L’ingrediente principale è infatti l’olio extravergine d’oliva che determina il loro sapore in maniera netta. Ovviamente, in Liguria, l’olio usato è quello di oliva taggiasca. Per farli servono farina, olio evo, zucchero, uova, tuorli, lievito in polvere, scorza di limone, un pizzico di sale. In alcune versioni della ricetta è previsto anche il miele, cosa che rende più delicato il sapore dei biscotti.

 

Biscotti del Lagaccio

A metà fra un biscotto e una fetta biscottata, portano il nome di un quartiere di Genova e in dialetto sono chiamati genovese bescheutti do Lagasso. Spesso vengono confusi con altri dolcetti molto diffusi nella zona di Ovada, chiamati biscotti della salute, anche se in realtà si tratta di due prodotti distinti, entrambi provenienti dalla tradizione dolciaria del basso Piemonte. La loro nascita risale al 1593, a opera di un forno di quartiere: in origine erano fette di pane biscottate da mangiare durante le traversate in mare in sostituzione delle gallette. Per farli servono farina, burro, lievito di birra e zucchero. Con il tempo la ricetta di base è stata parzialmente modificata e si possono trovare versioni diverse di questi biscotti, arricchiti ad esempio con i semi di finocchietto o qualche goccia di liquore all’anice. Anche questi dolcetti vengono cotti due volte: come per gli anicini, viene prima infornato il filone per intero e poi i singoli biscotti per completarne la cottura.

 

Biscotti del Lagaccio, pasticceria TagliaficoBiscotti del Lagaccio, pasticceria Tagliafico

 

Canestrelli

Diffusi in diverse zone d’Italia, dal Piemonte e Valle d’Aosta, i canestrelli liguri, riconosciuti a livello nazionale come Prodotto agroalimentare tradizionale italiano (PAT), si trovano in diverse versioni, ma la ricetta di base prevede, farina, zucchero, burro, tuorli d’uovo e zucchero a velo. Tra le varianti più particolari ci sono i canestrelli di Taggia (Imperia): ciambelle larghe e salate, simili ai taralli pugliesi. Molto più simili alla ricetta originale sono invece i canestrelletti di Torriglia (Genova), biscotti a marchio registrato con disciplinare di produzione, simili nell'aspetto alle margheritine di Stresa. Nella riviera di Levante e nella zona al confine con quella di Ponente si trovano diverse versioni a base di pasta frolla al limone: i canestrelli di Santo Stefano d'Aveto (Genova) e i canestrelli dell'Acquasanta (Genova).

 

Canestrelli liguriCanestrelli liguri

 

Chifferi di mandorla

L'ipotesi più accreditata è che chifferi derivi dal termine kefir, che in arabo significa “luna”. Questi biscotti, creati alla fine dell'800 da Benedetto Ferro, si ispirano infatti alle tradizioni gastronomiche arabe che Ferro conobbe attraverso i prodotti che la sua famiglia riportava dai lunghi viaggi. Erano infatti noti navigatori di Savona. Lui non seguì le orme familiari, e nel 1872 fondò la pasticceria Ferro a Finale Ligure, ancora in attività, e pochi anni dopo creò i chifferi. La ricetta prevede mandorle da pestare nel mortaio e mandorle a lamelle con cui verranno guarniti i biscotti, albumi d’uovo, acqua di fiori d’arancio, zucchero semolato e zucchero a velo per guarnire.

 

Chifferi di mandorla

 

Gobbeletti

Il nome deriva da cobeletti (ma vengono chiamati anchecobeletti o cappelletti): i doppi stampi con cui erano preparati un tempo in occasione della festa di S. Agata che si tiene il 5 febbraio nella Val Bisagno, vicino Genova. Creati dalla pasticceria Canepa di Rapallo, in provincia di Genova, sono biscottini di pasta frolla ripieni di marmellata, tradizionalmente di cotogne, ma oggi sono diffusi un po’ in tutta la regione e farciti con vari tipi di marmellate. Si preparano con farina, zucchero, uova, burro, latte, marmellata di cotogne (pesche o albicocche in alternativa) e un po' di marsala.

 

GobbelettiGobbeletti

 

La ricetta degli anicini della pasticceria Tagliafico di Genova

Ingredienti:

1,5 kg di farina

1,5 kg di  zucchero

550 g di fecola      

65g di tuorli d'uovo

65g di albumi a neve con 350 g di zucchero

semi di anice a piacere

 

Procedimento:

Emulsionare zucchero e tuorli, aggiungere l'anice e, lentamente, unire prima farina e fecola, quindi gli albumi montati a neve con lo zucchero. Sulle teglie unte e infarinate formare grossi filoni larghi circa 3 cm. Infornare i filoni a 210 gradi per 15 minuti. Una volta cotti, staccarli e riporli su un piano. Tagliare il filone a fette trasversali e sulle teglie già utilizzate tostare i biscotti da ambo le parti finché non risultano dorati.

Pasticceria Tagliafico | Genova | via Via Galata, 31r | tel. 010 565714 | www.pasticceriatagliafico.it

 

 

a cura di Francesca Fiore

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10 anni di Eataly. Il compleanno a Torino con Massimo Bottura e tanti chef. Guardando al futuro

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Il 27 gennaio Eataly Lingotto ha festeggiato in grande stile l’anniversario più importante, i primi 10 anni di attività da quando Oscar Farinetti ebbe l’idea di concentrare in un unico, grande spazio dedicato all’intrattenimento, all’educazione e al commercio tutto il meglio del made in Italy enogastronomico. Il racconto della festa. 

È stata una grande festa, quella che si è celebrata venerdì sera a Torino a Eataly Lingotto, nell’ex fabbrica Carpano dove tutto è cominciato il 27 gennaio 2007, esattamente 10 anni fa. Una festa di popolo, cominciata già nel pomeriggio con il taglio della torta e continuata fino all’ultimo con le code infinite per conquistarsi un carnet o i voucher e degustare i piatti dei 10 chef stellati presenti all’evento. E la festa di Oscar Farinetti e di tutti quelli che sono stati al suo fianco in questi 10 anni di progetti visionari diventati realtà e sospesi fra tradizione e futuro, secondo l’head line delle celebrazioni.

Lo ha detto Farinetti con una di quelle frasi un po’ epiche che gli piacciono tanto: “Sono smemorato, l’unica cosa che ricordo è il futuro.”

10 anni di Eataly. La parola agli chef

La conferenza stampa di fine pomeriggio è stata un po’ il clou della festa, cominciata con un video di dichiarazioni di soci fondatori e collaboratori sullo “spirito Eataly” e continuata con una parata sul palcoscenico della Sala dei 200 di quelli che c’erano 10 anni fa e quelli che ci sono ancora oggi, orchestrata con sorniona leggerezza da Farinetti e dal suo braccio destro Andrea Guerra.

Ma prima di loro è andata in scena la parata dei 10 chef stellati, ed è stato un bell’impatto veder schierato sul palco il Gotha della cucina italiana, a cominciare da Massimo Bottura per continuare con Moreno Cedroni, Enrico e Roberto Cerea, Pino Cuttaia,Gennaro Esposito, Philippe Léveillé,Claudio Sadler, Davide Scabin, Luigi Taglienti, più il pasticciere Luca Montersino e il pizzaiolo Ciro Salvo. E più Aimo Moroni, il grande chef del Luogo di Aimo e Nadia, che compiva 83 anni.

A fare da portavoce è stato delegato Scabin che ha elogiato il lavoro di Eataly e di Farinetti per esportare nel mondo il cibo e la cucina italiana: “Ha fatto più lui per l’immagine italiana di tanti altri” (e ognuno ci metta il riferimento che crede). Ma ovviamente non poteva non parlare anche il n.1 Bottura che ha ricordato l’apertura di Eataly N.Y.e il carisma di Farinetti, elogiando lo spirito degli Eataly “cattedrali del cibo del XXI secolo” e invitato tutti ad essere più consapevoli e fieri “di quanto il mondo ama le nostre materie prime e la nostra cucina”.

Una lezione permanente. Idee e obiettivi

Dopo di che naturalmente è toccato a lui, Oscar, nomen omen, con quel destino di successi racchiuso già nel nome, che ha spiegato la “filosofia della pesca” (nocciolo, polpa e pelle=progetto, idee, marketing) e i quattro obiettivi-people che sono stati e saranno il leit motiv dell’azienda: “creare nuovi posti di lavoro, restaurare immobili dimenticati risparmiando suolo, celebrare la biodiversità italiana nel mondo, offrire qualità ad un numero di persone sempre maggiore.”

A raccontare la propria esperienza a fianco di Eataly e di Farinetti si sono succeduti sul palco in tanti, da Sergio Capaldo “inventore” del progetto della Granda a Piumatti e Bordese di Slow Food (non Petrini, a Roma, e tutti a dire direttamente dal papa, probabilmente), dall’ex sindaco Fassino al governatore Chiamparino, agli assessori di oggi Parigi eSacco,e ancora Teo Musso di Baladin, Luca Gargano di Velier, guru di distillati e vini, Franco Roi, patron dell’olio, il rettore dell’Università di Pollenzo Piercarlo Grimaldi e lo scrittore Alessandro Baricco, preside della Scuola Holden. Tutti a sottolineare la grande “lezione permanente” e l’iniezione di autostima che è stata e sarà Eataly.

 

Il futuro di Eataly

Il futuro, appunto. Dove andrà Eataly nei prossimi 10, 20 30… anni? C’è già un progetto sulla sostenibilità insieme a Slow Food. E soprattutto - inaugurazione fissata per il 4 ottobre 2017 - un grande progetto molto fico (inevitabile il voluto gioco di parole) ovvero FICO Eataly World, il parco dell’agroalimentare di Bologna che racchiuderà in un luogo unico la biodiversità del cibo italiano, dal campo alla forchetta. FICO (acronimo di Fabbrica Italiana Contadina) sarà “un luogo unico al mondo, dove si coltiva e si produce, e in cui conoscere e vivere le filiere delle eccellenze enogastronomiche italiane”. Location il mercato ortofrutticolo all’ingrosso della città, 80.000 mq su cui stanno sorgendo 40 sedi di grandi aziende italiane che realizzeranno quotidianamente dal vivo i più importanti prodotti d’eccellenza italiani: pasta, olio, salumi, formaggi, carni e via declinando. Ci saranno un ettaro e mezzo di campi e allevamenti con le principali cultivar dell’agricoltura italiana (uliveti, vigneti, tartufaia, e altro) e le razze animali autoctone (le bovine piemontesi e la chianina, la pecora sarda e la capra ciociara, 7000 stalle). 25 ristoranti tra tematici, chef stellati, osterie, street food. Infine, 9.000 mq di mercato e botteghe gastronomiche, percorsi educativi, didattica, aree multimediali, 2000 aziende coinvolte, 3000 occupati nell’indotto, una previsione di circa 6 milioni di visitatori l’anno dall’Italia e dal mondo… Insomma una Farinettiland del food, apoteosi di quei progetti visionari che sono nel dna del Nostro, che continua a sostenere l’importanza delle “tre c”, coraggio, caparbietà e culo, quel po’ di fortuna che non guasta mai.

Nell’attesa, l’ultima novità, che da oggi sarà la firma di tutti gli Eataly, come ha spiegato Piero Alciati con il corporative chef di Eataly Mondo Enrico Panero: lo spaghetto di Eataly, sfida alla difficoltà somma in cucina, quella di essere semplici.

Brindisi finale con Ferrari, e poi aperitivo dei 10 anni con un Barolo riserva Mirafiore del 2007 e un parmigiano di 120 mesi, ovvero 10 anni, chapeau

Prima di sfidare le folle per aggiudicarsi un tataki di tonno di Moreno Cedroni, il merluzzo all’amatriciana dei Cerea o gli ineffabili tortellini in crema di parmigiano di Bottura. E vedere lo chef numero 1 al mondo servire di persona il suo piatto di culto al ristorantino della pasta non ha prezzo.

 

Buon compleanno Eataly.

 

a cura di Rosalba Graglia

Foto di Andrea Guermani

 

Roma. Casetta Rossa, Erri De Luca e Chef Rubio lanciano il “pasto sospeso” per migranti e bisognosi

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Offrire un pasto da 5 euro a chi non può permetterselo. È la catena di solidarietà messa in piedi da Casetta Rossa e Fondazione Erri De Luca a Roma, destinata ai migranti ospitati da Baobab Experience e a tutti quanti vivono in condizioni di disagio e povertà, riprendendo la pratica del caffè sospeso napoletano. Ai fornelli, insieme allo scrittore, anche Chef Rubio. 

Il caffè sospeso di Napoli

Il caffè sospeso, ‘o ccafè suspes per i napoletani, è una pratica solidale un tempo molto in uso nel capoluogo partenopeo. Consisteva nel pagare al bar due caffè bevendone solo uno, lasciando la seconda consumazione a chi non poteva permetterselo. Un’usanza che faceva parte di un sistema più articolato di pratiche di mutuo soccorso fra concittadini e che è ritornata in voga da qualche tempo. Così il caffè sospeso ha trovato terreno fertile non solo in diverse zone d’Italia, ma anche in paesi come Spagna, Francia, Belgio, Russia e Argentina, dov’è diventato perfino un gesto diffuso, chiamato empanada pendiente.

Nella Capitale, un’iniziativa simile è stata sperimentata proprio nelle ultime settimane dall’Esercito della salvezza, che ha proposto il cappuccino sospeso per combattere il freddo.

 

Il pasto sospeso di Casetta Rossa A Roma

Il mondo della ristorazione, dal canto suo, non è nuovo a progetti di solidarietà verso persone in condizioni di indigenza, basti ricordare per tutti l'impegno di Massimo Bottura con il Refettorio Ambrosiano a Milano, Modena e Rio de Janeiro. Così anche Casetta Rossa, che già da tempo organizza eventi in favore dei migranti accolti dal Baobab Experience, centro multiculturale della Capitale, permetterà a coloro che vorranno fare un gesto di solidarietà (non solo nei confronti dei migranti, ma di tutte le persone che hanno necessità) di lasciare un pasto sospeso pagato, al costo di 5 euro. E per la presentazione dell’iniziativa prevista per il 2 febbraio, lo scrittore Erri De Luca e Chef Rubio si cimenteranno in un pranzo a due mani per circa 20 migranti. “L’idea” hanno spiegato gli organizzatori, “è di trasformare questa pratica di solidarietà e mutualismo nel dono di un vero e proprio pasto, con l’obiettivo di contribuire a migliorare le condizioni di vita delle migliaia di persone in transito che attraversano Roma”.

Chi si trova nella Capitale può partecipare recandosi al pranzo a due mani, in programma per  giovedì 2 febbraio alle 12 a Casetta Rossa, nel quartiere della Garbatella. In alternativa si può optare per un gesto di solidarietà a distanza, donando il pasto attraverso un bonifico bancario.

 

Pasto sospeso, pranzo a due mani | 2 febbraio 2017 | Associazione di promozione sociale Casetta Rossa | Roma | via Giovanni Battista Magnaghi 14 | tel. 06 89360511 | www.casettarossa.org/

a cura di Francesca Fiore

 

La Napoli che verrà. Bar e locali per piazza del Plebiscito e la terrazza con ristorante sul porto

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Tra un paio di settimane il Comune di Napoli bandirà 12 spazi commerciali sotto il colonnato della Basilica di San Francesco di Paola. Obiettivo: rilanciare piazza del Plebiscito come salotto della città, sul modello di piazza San Marco a Venezia. Precedenza alla qualità e alle eccellenze gastronomiche. E anche al Porto di Napoli si preannunciano novità. 

Il rilancio di piazza del Plebiscito

Qualche mese fa la bellezza di piazza del Plebiscito, salotto bene di Napoli e cerniera tra il lungomare partenopeo e via Toledo, entrava nelle case degli italiani grazie al nuovo spot della Ferrero, che per promuovere i suoi cioccolatini più celebri, conclusa la saga di Ambrogio, sceglieva i luoghi più rappresentativi delle città d'arte della Penisola e del buon vivere  all'italiana. E la piazza napoletana, una delle più grandi d'Italia, col suo colonnato che abbraccia lo sguardo a enfatizzare la cupola della basilica di San Francesco di Paola, entrava di diritto nel novero dei panorami urbani più suggestivi di casa nostra. Tanto che il Comune di Napoli, che sul rilancio della città sulla scena del turismo internazionale sta scommettendo da qualche tempo a questa parte con buon riscontro da parte di chi la vive e del pubblico numeroso che arriva per visitarla ogni giorno, sembra finalmente intenzionato a valorizzarla. Come? Con un progetto di riqualificazione che vede collaborare il Comune, l'Agenzia del Demanio e il Fondo edifici di culto, grazie all'accordo siglato solo qualche giorno fa nella sede della Prefettura cittadina. Il recupero degli spazi si concentrerà in particolar modo sui locali affacciati sul colonnato, che presto (entro un paio di settimane) saranno messi a bando perché la piazza torni a essere il salotto di Napoli, secondo un modello che molti hanno paragonato alla Venezia di piazza San Marco dove affacciano locali del calibro del Caffè Quadri degli Alajmo, nel rispetto del decoro e della storia del luogo, ma pur sempre votato al commercio – di qualità – con tavolini affacciati sulla piazza al riparo del colonnato, nuovi locali, bar e botteghe, assegnati secondo pertinenza e valore del progetto.

Bar e botteghe sotto il colonnato

L'obiettivo comune, infatti, è anche quello di valorizzare e promuovere i prodotti del territorio e la cultura gastronomica e artigianale partenopea; dodici gli spazi commerciali da assegnare secondo i requisiti stabiliti dalla Prefettura, che ora si impegna a velocizzare la procedura dopo un'attesa che si è protratta negli ultimi quattro anni, sin da quando, nel 2013, il progetto approdava per la prima volta nei palazzi amministrativi. E ora molti, a Napoli, sperano che l'approdo di nuove attività possa rivelarsi efficace per contrastare la desolazione che affligge la piazza dopo il tramonto, quando solo qualche passante frettoloso si appresta ad attraversarla per raggiungere il lungomare. Al contempo anche gli spazi ipogei accessibili dal colonnato torneranno a vivere grazie all'approntamento di un percorso archeologico nella Napoli sotterranea, con esposizioni interattive, conferenze, mostre e manifestazioni culturali. Un bel traguardo per l'artigianato locale, in primis quello gastronomico, che potrà sperare di accedere in piazza già dalla prossima primavera, quando i primi locali dovrebbero essere pronti per aprire i battenti. All'insegna di una progettazione di qualità che valorizzi l'eccellenza. Banditi quindi bar di dubbio gusto e insegne senz'anima. Ma per averne certezza bisognerà aspettare la pubblicazione del bando.

 

Il museo del Mare al porto. Con ristorante in terrazza

Intanto anche un altro spazio storico della città è pronto a beneficiare del vento di novità che spira sul Golfo di Napoli. E il progetto di ristrutturazione dei Magazzini Generali del porto partenopeo – un grande complesso di 9000 metri quadri progettato negli anni Quaranta da Marcello Canino che si avvia a diventare il museo del Mare e dell'Emigrazione, sul modello dell'Ellis Island di New York, nell'ambito del rilancio dello scalo marittimo cittadino – comprenderà anche la realizzazione di un polo commerciale con locali e bar affacciati sul mare, oltre all'apertura di una terrazza panoramica sul Golfo, destinata probabilmente a ospitare un ristorante di cucina mediterranea. L'iter progettuale, a cura della Lega Navale, è appena all'inizio. Presto scopriremo cosa sarà.

 

a cura di Livia Montagnoli

Pizzerie d'Italia 2017. Domenico Martucci di Perbacco

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Il gusto della pizza napoletana in Piemonte: è Domenico Martucci l'artefice di questo tempio dell'arte bianca a La Morra, in provincia di Cuneo, dove è possibile degustare tante eccellenze campane. Ma anche piemontesi e pugliesi, tutte abbinate a un impasto da maestro, che guadagna per la prima volta i Tre Spicchi nella nostra guida Pizzerie d'Italia 2017.

Madre campana, padre pugliese e una vita passata in Piemonte: la pizza di Domenico Martucci (Tre Spicchi della guida Pizzerie d'Italia 2017) è il risultato di una seria di influssi e contaminazioni geografiche di varie zone d'Italia. L'impasto però è quello campano, leggermente modificato dal pizzaiolo per rispondere alle esigenze dei piemontesi.

Come nasce l'attività?

La mia è una famiglia di pizzaioli. Negli anni '70 mio padre ha aperto una pizzeria a Torino e da allora sono stato sempre a contatto con farine e lieviti. Nel 2004 ho inaugurato la prima pizzeria a La Morra e tre anni dopo, nel 2007, è nato Perbacco.

Quanti siete nel team?

7 in inverno e 13 durante la stagione estiva.

Che tipo di pizza proponi?

Una pizza napoletana leggermente rivisitata. I miei genitori hanno sempre fatto pizza all'italiana, ma io mi sono specializzato con Gennaro Esposito sull'impasto tradizionale partenopeo. Oggi faccio parte dell'Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN), per la quale sono fiduciario. I piemontesi però sono consumatori molto diversi dai campani: qui, la pizza viene gustata lentamente, per cui l'impasto deve essere modificato per rimanere croccante più a lungo possibile.

Come è stata recepita la pizza napoletana in Piemonte?

Bene. Oltre alla pizza, negli ultimi dieci anni nella nostra regione si sono diffusi molto i prodotti tipici campani, mozzarella di bufala in primis. È un po' una moda che ha spianato la strada per gli addetti ai lavori come me, che propongono questo tipo di cucina.

Dove acquisti le materie prime?

La maggior parte sono campane ma ne utilizzo anche molte piemontesi, come la toma o la fontina, la salsiccia di Bra e il tartufo (bianco o nero a seconda della stagionalità), e altre ancora pugliesi, come la burrata e il capocollo di Martina Franca.

Che farine utilizzi?

Dipende, ne provo sempre di nuove. Solitamente, uso quelle di Molino Caputo o Molino Dallagiovanna.

E per la lievitazione?

Minimo 24 ore in estate e dalle 36 alle 40 in inverno. Utilizzo sia lievito di birra che pasta madre, ma la scelta varia sempre in base alle temperature.

In che modo?

La presunta superiorità del lievito madre per me è un po' una bufala. Quello che intendo dire è che va benissimo utilizzarlo, ma non può essere l'unica alternativa valida. Ci sono dei luoghi, come il Piemonte o altre regioni fredde, in cui le temperature d'inverno arrivano anche sotto lo 0: in questi casi è impossibile pensare di ottenere un buon impasto senza utilizzare un po' di lievito di birra.

Qual è la pizza che va per la maggiore?

Quella al tartufo (bianco o nero a seconda della disponibilità) con salsiccia di Bra e poi la Cheese con pomodorino del Piennolo, blu di capra e capocollo di Martina Franca.

Cosa offri da bere?

Abbiamo una selezione di vino che conta 150 etichette, perlopiù piemontesi, e poi diverse birre artigianali italiane.

Progetti per il futuro?

Mi piacerebbe un giorno aprire all'estero. Abbiamo già ricevuto diverse offerte, ma dobbiamo valutarle con attenzione. Per ora resto qui, ma se qualcuno mi proponesse di aprire un locale a New York non ci penserei due volte...

Perché proprio New York?

Perché è una bella piazza per chi vuole fare qualità. Non tutte le città sono pronte ad accogliere una realtà gastronomica di nicchia, con prodotti di ricerca e materie prime selezionate. New York vanta un pubblico ampio e variegato, in grado di ricevere con entusiasmo stimoli diversi.

Com'è il panorama della pizza italiana all'estero?

Ancora mediocre. In Italia invece è un settore che si sta sviluppando sempre di più. Specialmente a Napoli, i pizzaioli stanno crescendo e migliorando molto.

In cosa sono migliorati?

Nell'ordine e nella gestione del locale. Più in generale, nel modo di lavorare.

Un consiglio per un aspirante pizzaiolo?

Studiare tanto, ricercare di continuo. La pizza è sempre più al centro dell'attenzione di appassionati ed esperti del settore e si sta avvicinando gradualmente al mondo della cucina. Essere un pizzaiolo oggi equivale a fare lo chef, solo con un prodotto diverso. Bisogna conoscere bene le materie prime, la loro lavorazione e occorre saper abbinare bene aromi e sapori per ottenere un buon prodotto, bilanciato e armonico. Per esempio, spesso vengo chiamato dall'AVPN per tenere dei corsi appositi sui condimenti, dei focus sul pomodoro e così via. Ogni ingrediente gioca un ruolo fondamentale per il risultato finale.

Perbacco | La Morra (CN) | via Roma, 30 | tel. 0173 50609 | www.facebook.com/Pizzeria-osteria-per-bacco-la-morra-403155393185184/?fref=ts

a cura di Michela Becchi

Pizzerie d’Italia del Gambero Rosso 2017 | pp 352 | euro 8,90 | La guida è acquistabile in edicola, libreria e on line.

Pizzerie d'Italia 2017 del Gambero Rosso. Ecco i risultati

Pizzerie d'Italia 2017. Guglielmo Vuolo di Eccellenze Campane

Pizzerie d'Italia 2017. Marzia Buzzanca di Percorsi di Gusto

Pizzerie d'Italia 2017. Francesco Martucci de I Masanielli

Pizzerie d'Italia 2017. Giovanni Santarpia di Santarpia

Pizzerie d'Italia 2017. Giovanni Mandara di Piccola Piedigrotta

Pizzerie d'Italia 2017. Pierluigi Fais di Framento 

A Verona, Anteprima dell’Amarone annata 2013

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Anche quest’anno Verona si è trasformata nella capitale dell’Amarone. Le sale del palazzo della Gran Guardia, nel cuore della città scaligera, hanno ospitato dal 28 al 30 gennaio la presentazione in anteprima dei vini dell’annata 2013. La manifestazione è stata organizzata dal Consorzio Tutela Vini della Valpolicella e ha visto protagoniste 78 aziende, che oltre a presentare il millesimo 2013, hanno portato in degustazione anche qualche vecchia annata di particolare pregio.

Un successo senza crisi

Il successo dell’Amarone della Valpolicella non sembra risentire della crisi economica di questi anni. Secondo i dati di mercato dell’Osservatorio Vini Valpolicella, nel 2016 le esportazioni sono aumentate del 3% rispetto all’anno precedente ed è cresciuto anche del 5% il giro d’affari complessivo delle imprese del “sistema Amarone”. L’estero continua a rappresentare una componente fondamentale del mercato dell’Amarone. Circa il 65% del prodotto imbottigliato viene esportato, soprattutto in Germania (18%), USA (11%) e Svizzera (11%). Questi tre paesi da soli assorbono circa il 40% delle bottiglie destinate ai mercati esteri, seguono UK (10%), Canada (7%) e Svezia (7%), tutti in forte crescita. Nonostante l’export verso i mercati asiatici sia cresciuto nel 2016 in doppia cifra rispetto al 2015, Cina e Giappone rappresentano oggi meno del 5% del totale delle esportazioni, segno che c’è ancora spazio per un ampio margine di crescita. Confortanti anche i dati del mercato nazionale, che assorbe circa il 35% della produzione, con un incremento del 10% in valore nel corso dell’ultimo anno. Il canale Horeca rappresenta circa il 25% delle vendite interne, mentre è ancora marginale il peso della GDO, che si attesta attorno al 3%, in linea con quanto accade per i grandi vini italiani di alta gamma come Barolo o Brunello di Montalcino. Le basse vendite in GDO, oltre alla soglia del prezzo, sono anche dovute alla particolare struttura del tessuto produttivo della Valpolicella. Circa il 40% delle bottiglie proviene da piccole aziende, che non hanno i numeri e la forza commerciale, per essere presenti sugli scaffali delle principali catene della Grande Distribuzione.

Amarone della Valpolicella: terroir e identità

L’Amarone della Valpolicella è un vero vino di terroir, una parola spesso abusata nel linguaggio corrente, ma che in questo contesto trova una precisa ragion d’essere. Non è un caso che il nome del vino sottolinei il legame con il proprio territorio. Tuttavia non si tratta di una semplice provenienza geografica, la tipicità dell’Amarone deriva anche dall’utilizzo di soli vitigni autoctoni, da sempre coltivati nell’area del veronese, come la corvina, il corvinone, la rondinella e altre varietà minori. Anche il metodo di produzione, basato sull’appassimento delle uve, rispecchia l’uso di pratiche vinicole già utilizzate da secoli per la produzione del Recioto e che si possono far risalire addirittura al vino Acinaticum degli antichi Romani. Quindi, anche se l’Amarone è nato per sbaglio, come Recioto scapà,non è certo nato per caso e racchiude in sé una forte impronta territoriale, che fonde ed esalta le migliori qualità della Valpolicella. Proprio per quanto sopra detto, ci si aspetta di trovare in un calice di Amarone quella sintesi perfetta di territorio, vitigni, tradizione e tecniche di produzione, da farne la punta di diamante della Valpolicella. Tuttavia anche la degustazione dell’annata 2013 ha evidenziato una certa disomogeneità. Certo l’Amarone è un vino giovane, ha alle spalle solo una settantina d’anni di storia, ma sembra che non abbia ancora raggiunto una precisa identità e ci sono ancora troppe etichette che propongono versioni eccessivamente sovrabbondanti e barocche. Vini che esprimono la ricerca di una struttura opulenta, di un bouquet che sconfina nell’eccessiva morbidezza della confettura, con un residuo zuccherino troppo elevato. Un profilo di Amarone un po’ internazionale e americaneggiante, che sicuramente riceve consensi e apprezzamenti sui mercati esteri, ma che tende ad allontanarsi un po’ troppo dalla sua tipicità. Non dobbiamo dimenticare che si tratta sempre di un vino della Valpolicella e se pensiamo ai vini Classici della zona, troviamo dei rossi piacevolmente scorrevoli, di facile beva e buona freschezza. L’Amarone, seppur figlio di pratiche enologiche diverse, è pur sempre il fratello maggiore di questi vini e dovrebbe conservare e richiamare alla memoria le sue radici. Non dovrebbe essere un vino “altro”,ma una diversa interpretazione di quel terroir, senza tradirne le origini, ma anzi esprimendole nel segno di una maggior complessità, struttura e profondità aromatica. Anche nella tradizione dell’enogastronomia veronese, l’Amarone è un grande vino da tavola, da abbinare a carni stufate, come la pastissada de caval, lo stracotto d’asino o la selvaggina. E non un vino da incasellare nella discutibile categoria dei vini da meditazione. Per accompagnare dei brasati importanti, un vino deve conservare tannini, acidità, bevibilità e non essere troppo sbilanciato sulle suadenti morbidezze.

L’annata 2013

L’annata 2013 è stata caratterizzata da un inverno lungo, ma non molto freddo e da una primavera piovosa, con temperature sotto la media stagionale. Tuttavia l’estate calda e la presenza di buone escursioni termiche, soprattutto nel mese di settembre, hanno portato in vendemmia uve sane e dal profilo aromatico intenso. Il dolce clima autunnale, con una scarsa umidità, ha poi consentito un appassimento lento e ottimale dei grappoli. Le condizioni climatiche dell’annata hanno regalato vini di qualità elevata, contraddistinti da un buon equilibrio tra componente fruttata, polifenolica e acida. La buona presenza di tannini e la freschezza, fanno pensare a un’annata particolarmente longeva e capace di regalare interessanti evoluzioni nel corso dell’invecchiamento.

Molti gli assaggi interessanti, anche se quasi tutti prelevati direttamente dalla botte, con vini che non hanno ancora completato l’invecchiamento e mancano di quell’armonia che solo l’affinamento in bottiglia potrà dare. Ci sono piaciuti in particolare l’Amarone della Valpolicella di Ca’ Rugate, elegante, dal sorso fresco e dinamico; l’Amarone della Valpolicella di Secondo Marco, intenso e raffinato; l’Amarone della Valpolicella Capitel della Crosara di Montresor,dal profilo classico e leggermente speziato; l’Amarone della Valpolicella Le Guaite di Noemi, di grande equilibrio, con bella trama tannica e piacevole freschezza; l’Amarone della Valpolicella Acinatico di Stefano Accordini, che coniuga perfettamente intensità espressiva ed eleganza.Più fruttato e fresco, ma con un bel potenziale, l’Amarone della Valpolicella dei Vigneti di Ettore.Chiudiamo con l’Amarone della Valpolicella Morar di Valentina Cubi, essenziale e quasi etereo nella sua raffinata eleganza. Sempre all’altezza della tradizione le versioni di Bertani, Tenuta Sofia, Cesari, Gamba, Monte Dal Fra’, Degani, Viviani e Zymé.

a cura di Alessio Turazza

 

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