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Dove mangiare a Cagliari: miniguida gastronomica alla città dei Bastioni

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Luccicante e ventosa, dalla storia antichissima, si erge maestosa su una delle coste più belle d’Italia. Una città in perenne fermento, erede di una tradizione gastronomica forte e sincretica. Oggi vi raccontiamo Cagliari, con i migliori indirizzi per mangiare, bere e prendere un ottimo caffè.

Cagliari, crocevia di culture

Girare per le vie di Cagliari è come fare un tuffo nella storia. Una città che ha accolto culture e popoli diversi che, passando di qui seguendo rotte commerciali e militari, si fermavano sedotti dalla bellezza della natura sarda. Dalla necropoli punica di Tuvixeddu all’Anfiteatro romano, dalla Basilica bizantina di San Saturnino al sistema di Bastioni dei pisani fino al piemontese palazzo Regio, Cagliari porta fieramente i segni delle comunità che l’hanno abitata dando vita a una cultura sincretica. Lungi da essere una “semplice” città di mare, è un centro urbano giovane e in perenne fermento, anche grazie alla sua storia.

La sua nascita si perde nel mito. La leggenda raccolta dallo scrittore latino Gaio Giulio Solino narra che Aristeo, figlio del dio Apollo e della ninfa Cirene, giunse sull’isola sarda dalla Beozia nel XV secolo a.C., accompagnato da Dedalo. Qui istruì le popolazioni su agricoltura e caccia, mise fine alle lotte delle varie tribù indigene e fondò Caralis (o Karalis), l’attuale Cagliari. Sempre secondo la leggenda fu proprio il compagno di viaggio di Aristeo a costruire le imponenti “opere dedalee”, ovvero i Nuraghe, le tipiche costruzioni coniche sparse per la Sardegna, tuttora fra le architetture più antiche e misteriose della storia europea.

 

 

Cosa vedere a Cagliari

Città di pietra, nuda e in salita, simile a una Gerusalemme bianca”, le parole dello scrittore inglese David Herbert Lawrence, che nel 1921 descrive così Cagliari, rendono bene l’idea dell’impatto che questa città ha sul viaggiatore. È il bianco delle mura e delle alte torri medievali a dominare la vista: alla lucentezza delle imponenti architetture militari si contrappongono i colori caldi dei vicoli di Castello, l’antica cittadella, il verde-blu del mare, il rosa delle saline.

Non è facile visitare Cagliari in poco tempo, densa com’è di palazzi, chiese e monumenti di stili ed epoche diverse. Per gli amanti dell’arte religiosa la chiesa più importante è la Basilica di San Saturnino, la più antica della Sardegna, dedicata al patrono della città. Eretta nel V secolo e in parte ricostruita in età romanica (X secolo circa), è inclusa una necropoli paleocristiana che si estende nella parte sottostante, fino alla vicina chiesa di San Lucifero. Inoltrandosi nei vicoli di Castello, Casteddu per i cagliaritani, si arriva alla Cattedrale di Santa Maria Assunta e di Santa Cecilia, che riunisce una serie di stili architettonici diversi: edificata in romanico nel corso del 1200, la parte del tempio venne ricostruita secondo i dettami del barocco nel corso del ‘700 e conclusa negli anni ‘30 del ‘900 con la facciata neo romanica ispirata al duomo di Pisa. Altre due importanti chiese, nel quartiere di Stampace, sono la chiesa di San Michele e la Collegiata di Sant'Anna, entrambe in stile barocco.

 

La cupola della CattedraleLa cupola della Cattedrale

Il Castello, le Torri, il Bastione Saint-Remy

Ma Cagliari è sede di splendide architetture militari, costruite in epoche diverse a difesa della città. Passeggiando per le vie di Castello è impossibile non notare le Mura e le Torri pisane, opere di fortificazione erette dai pisani a difesa dello storico quartiere fra XIII e XIV secolo: Torre dell'Elefante, Torre di San Pancrazio, Torre dello Sperone, Torre dell'Aquila. Oltre al Castello di San Michele, sull’omonimo colle, un’altra architettura nata per motivi militari e diventata un po’ il simbolo di Cagliari è il Bastione di San Remy, realizzato a opera dei piemontesi. Fu costruito alla fine del XIX secolo sulle mura antiche della città collegando fra loro i tre bastioni meridionali (Zecca, Santa Caterina e Sperone) in modo da unire Castello con i quartieri sottostanti di Villanova e Marina.

 

Bastione Saint-RemyBastione Saint-Remy

La spiaggia e il Parco delle saline di Molentargius

Cagliari gode di una splendida spiaggia abbastanza vicina al centro, nel quartiere Poetto. La costa si estende per 4 chilometri fra la Sella del Diavolo, promontorio la collega a Calamosca, e il quartiere di Quartu Sant’Elena. Se non siete amanti dei bagni di mare vi consigliamo di visitare comunque la zona: vi lascerà incantati la vista delle saline di Molentargius, dove al tramonto i fenicotteri rosa riposano protetti dal parco naturale.

 

I fenicotteri di Molentargius

Cosa mangiare a Cagliari

La gastronomia cagliaritana è influenzata dai numerosi scambi commerciali che il porto della città garantiscono da sempre, in particolare con pisani, genovesi e catalani. È una cucina povera e poco elaborata, in gran parte fatta dei prodotti del mare, ma in cui non manca qualche buona pietanza di carne.

Partiamo con il pesce. Per quanto riguarda i primi, uno dei piatti tipici di Cagliari è la fregula cun cociula (o cocciulas), la fregola con le arselle, chiamata anche cous cous sardo che consiste in piccole palline di grano duro e acqua, lavorate a mano e tostate nel forno. Sempre tra i primi, se visitate il Poetto non potrete non assaggiare gli spaghittus cun arrizzonis, gli spaghetti ai ricci di mare, che a volte vengono accompagnati anche da carciofi o asparagi selvatici. E poi ancora i malloreddus a sa campidanesa, i famosignocchetti sardi, conditi con un sugo a base di salsiccia di maiale e finocchietto.

 

Primo piatto o piatto unico, le zuppe, come la cassòla, preparata con il pescato del giorno, più crostacei e molluschi. Le cocciulas, che in sardo non indica solo arselle o vongole ma tutte le conchiglie, si ritrovano insieme alle cotzas cucinate a “sa schiscionera” (vongole e cozze in tegame). Un altro tipico piatto di mare della città è la burrida a sa casteddaia (burrida alla cagliaritana), a base di gattuccio marino condito con aceto e noci. Sempre a sa casteddaia si cucina l’aligusta, l’aragosta, appena sbollentata e insaporita con cipolle, sedano, carote, prezzemolo, olive, aceto, olio e limone.

 

Spaghetti con l'aragostaSpaghetti con l'aragosta

Un posto speciale nella cucina della città è dedicato all’anguilla, cotta con l’alloro e servita con il pecorino, ma anche al capitone, che si fa arrostito, o alla murena, impanata nella farina di semola e fritta. Sempre nella farina di semola e poi fritti ci sono gli orziadas, gli anemoni di mare.

In città si può mangiare anche dell’ottima carne, soprattutto di cavallo. Una volta considerato una carne povera, viene ancora cucinata sulla brace e condita con aglio e prezzemolo. Sempre dalla tradizione povera abbiamo sa cordula, stomaco e intestini d’agnello cotti in tegame con i piselli, e sa busecca, trippa di manzo lessata e poi cotta in una salsa di pomodoro e menta, infine cosparsa di pecorino, con una preparazione che richiama quella romana.

 

Sebadas o seadas

Infine, il capitolo dei dolci, che Cagliari ha in comune con altre zone dell’isola. Due su tutti: le pardulas, in italiano formaggelle, piccole tortine ripiene di ricotta o di formaggio, e le sebadas oseadas, preparato con due crepes non troppo sottili di farina di semola, riempite di formaggio, in genere pecorino fresco, e scorza di limone, fritte in olio e cosparse di miele.

 

CONSIGLI DALLA GUIDA RISTORANTI D’ITALIA 2017

Antica hostaria

Un indirizzo sicuro per chi ama la cucina di pesce strettamente legata alla tradizione sarda. Nel cuore del quartiere Marina, Antica hostaria propone piatti dalle linee pulite e dai sapori netti, utilizzando esclusivamente materie prime del territorio, ma senza dimenticare un pizzico di creatività. Interessante la selezione di formaggi locali. Buoni i dolci della casa. In carta etichette regionali e qualche piacevole sorpresa. Due Gamberi nella guida Ristoranti d’Italia 2017.

 

Cucina.eat

Un bistrot dal respiro internazionale a cura di Giuseppe Carrus e Alessandra Meddi, con lo chef Davide Boni che cucina in mezzo ai commensali. Un posto dove comprare anche oggetti di design e incontrare produttori e altri chef. La cucina è incentrata sui prodotti del mercato, che esalta le materie prime locali minimizzando sprechi e contenendo i prezzi. Qui si può fare la spesa, ci si può fermare per la colazione o un pranzo veloce, oppure optare per una tranquilla cena. Da qualche tempo, la cucina golosa di Boni è servita anche come street food, grazie all'ape targata Cucina.eat: il primo passo di un progetto che promette un'interessante evoluzione.

 

Dal Corsaro

Stefano Deidda prosegue nell’opera di modernizzazione di questo indirizzo storico, non solo per quanto riguarda il menu ma anche per il format. Una parte del locale è infatti Fork, un “easy restaurant” dedicato a una proposta gastronomica semplice e genuina. Il resto degli spazi resta invece legato alla cucina gourmet, servizio attivo solo a cena. Cura maniacale per la scelta degli ingredienti e per le tecniche sono gli elementi che contraddistinguono la cucina di Deidda. I dolci, creativi e leggeri, sono fatti a regola d’arte. Cantina in perenne evoluzione. Due Forchette nella guida Ristoranti d’Italia 2017.

 

La locanda dei buoni e dei cattivi

Un progetto di riqualificazione professionale per persone in difficoltà che diventa una trattoria di tutto rispetto: è la storia della Locanda dei buoni e dei cattivi. Nato per mano della Onlus Domus de Luna, negli anni si è distinto per qualità della cucina e per l’accoglienza. Il menu è costruito sui dettami della cucina tradizionale, con una predilezione per i piatti freschi e leggeri e un’attenzione particolare alla stagionalità. Proposte interessanti per vegetariani e vegani. Possibilità di soggiornare in una delle graziose stanze della locanda. Due Gamberi nella guida Ristoranti d’Italia 2017.

 

Luigi Pomata

Lo chef carlofortino Luigi Pomata è simbolo di creatività in continua espansione. Di recente a fianco del ristorante ha aperto Next, che sforna pizze, sfizi e panini sempre nel segno della qualità elevata a cui ha abituato i suoi clienti. La proposta del ristorante invece ruota intorno alla tradizione di pesce di Carloforte, ma con qualche incursione nel mondo della carne. Ma la cucina di Pomata è il regno del tonno, che si può assaggiare in mille varianti. Ottimi anche i dessert, golosi ma non pesanti. Carta dei vini ricca di etichette ricercate. Due Forchette nella guida Ristoranti d’Italia 2017.

 

CONSIGLI DALLA GUIDA PIZZERIE D’ITALIA 2017

Da Rita

Tre taglie per questa fragrante pizza dai condimenti creativi: piccola, media e grande. La pizzerie di Anna Rita De Maria è un indirizzo di riferimento, affollata ogni sera dell’anno. Le pizze sono croccanti fuori e morbide dentro, aromatiche e fragranti, tutte condite con prodotti locali. Ottimi i dessert della casa, semplici ma saporiti. Da bere birre artigianali. Prenotate, se volete evitare la coda. Uno Spicchio nell’a guida Pizzerie d’Italia 2017.

 

Framento

Il nome deriva da Su frammentu che in sardo vuol dire lievito madre. Dopo aver lasciato Oristano lo chef e pizzaiolo Pierluigi Fais ha deciso di aprire una pizzeria proprio nel capoluogo sardo. Gli impasti sono di qualità elevatissima, mentre i topping vengono realizzati in cucina per poi essere “posati” sulla pizza. La selezione di farine permette di creare un prodotto, dai bordi alti e morbidi, altamente digeribile, mentre gli ingredienti seguono le regole della stagionalità. Da bere solo bollicine, che siano vini, spumanti o champagne. Tre Spicchi nella guida Pizzerie d’Italia 2017.

 

Levante pizza e birra Rubiu

Distaccamento cagliaritano del brew pub Rubiu di Sant’Antioco, Levante propone una pizza fragrante e gustosa, con 4 tipi di impasto diverso fra cui scegliere. Il menu è suddiviso in una parte classica e una più creativa e, qua e là, si trova qualche proposta di cucina alternativa alla pizza, come taglieri di salumi e formaggi, insalate e crudi di mare. Da bere esclusivamente birra Rubiu. Si consiglia di prenotare. Due Spicchi nella guida Pizzerie d’Italia 2017.

 

CONSIGLI DALLA GUIDA STREET FOOD 2017

Bombas

Un'hamburgeria americana che sposa i gusti sardi. Le carni sono selezionate da allevamenti regionali, cotte al momento su piastre e griglie nella cucina a vista. Gli abbinamenti sono creativi e incentrati su prodotti locali di elevata qualità, il pane è soffice e fragrante. Ma qui non si fanno solo piatti salati: sono ottimi anche i dolci tradizionali.

 

La pizzetta d’oro

Da 40 anni in attività senza subire periodi di calo. La pizzetta d’oro è un punto di riferimento per chi vuole fare una pausa golosa in via della Pineta. Le pizzette tonde sono croccanti ma soffici al centro, sempre appena sfornate, con mozzarella filante di prima qualità. Non ci sono posti a sedere, ma potrete gustare la vostra pizzetta passeggiando, grazie al pratico incarto da asporto.

 

Pandemonio

Panini per tutti i gusti da Pandemonio, un locale frequentatissimo dai cagliaritani. Qui troverete prodotti locali selezionati con attenzione dei proprietari con cui “creare” il panino più adatto a voi, oppure potrete scegliere dal menu sulla lavagna, che cambia secondo le stagioni. L’ambiente è moderno e curato e, per mangiare il panino in tutta tranquillità, si può optare per uno dei tavoli interni al locale.

 

Stefino

Un indirizzo per gli amanti del gelato artigianale. La naturalità degli ingredienti e la stagionalità sono alla base della proposta di questo locale (che conta punti vendita anche fuori dalla Sardegna), che conquista i clienti anche con un servizio allegro ma professionale. Il gelato di Stefino è leggero e non eccessivamente dolce e, oltre ai gusti classici, sono diverse le varianti creative da assaggiare. Nei mesi estivi granite siciliane fatte a regola d’arte.

 

CONSIGLI DALLA GUIDA PASTICCERI&PASTICCCERIE 2017

Chez Les Negres

Una pasticceria di stampo classico per la famiglia Miceli, punto di riferimento della città da tanti anni. Qui troverete dolci tradizionali regionali e nazionali fatti a regola d’arte, con materie prime di alta qualità. Molte delle torte sono da ordinare, ma l’assortimento di mignon, lievitati e dolci non manca. Anche sul versante salato la proposta è varia: dagli snack ai tramezzini, dai soufflé alle pizzette. Disponibile anche per catering e servizi a domicilio. Due Torte nella guida Pasticceri&Pasticcerie 2017.

 

Origins

Un locale polifunzionale per il progetto di Gianluca Aresu, figlio di Giuseppe Aresu, noto proprietario della Pasticceria piemontese. La proposta parte dalla colazione e arriva fino all’aperitivo e alla cena, anche se è la pasticceria il punto di forza del locale. Le grandi vetrine al centro del locale mettono in mostra ottimi mignon, lievitati, praline, torte monoporzione e cioccolato. Al piano superiore una scuola di cucina per insegnare ad appassionati l’arte della pasticceria. Due Torte nella guida Pasticceri&Pasticcerie 2017.

 

Pasticceria piemontese

I cannoncini alla crema della Pasticceria piemontese sono un’istituzione per tutta la città. Malgrado l’aspetto un po’ retrò, questa pasticceria della famiglia Aresu non subisce mai flessioni, grazie agli standard elevati che garantisce. Il punto di forza è il cioccolato, dalle praline alle tavolette, dai dolci al cucchiaio alle sculture. Ma il resto dell’offerta non è da meno: ottimi lievitati e croissant al burro sfogliati perfettamente, fragranti krapfen, gustose conchiglie e brioches. Invitante anche l’offerta salata. Due Torte nella guida Pasticceri&Pasticcerie 2017.

 

Pasticceria Pirani

Un buon indirizzo per paste e torte d’asporto ma anche per la colazione. Ottime le frolle, le torte monoporzione, le crostate alla frutta. Sempre piacevoli i mignon, sia in versione dolce che salata, mentre nei primi mesi dell’anno le zeppole, fritte in maniera impeccabile, rubano la scena al resto della produzione. All’interno del locale qualche tavolo per sedersi a prendere un tè o una cioccolata calda. Una Torta nella guida Pasticceri&Pasticcerie 2017.

 

CONSIGLI DALLA GUIDA BAR D’ITALIA 2017

Antico caffè dal 1855

Ai piedi del Bastione Saint Remy, è un indirizzo sempre frequentato da cittadini e turisti. L’offerta sul caffè è di qualità, con prodotti aromatici e intensi, estratti al meglio. Buona anche l’offerta per la colazione, con lievitati e brioches profumati, sempre appena sfornati. Interessante l’offerta per il pomeriggio, sia sul versante dolce con tè, cioccolate calde, tisane e pasticcini, che sul salato con snack, panini e tramezzini. Possibilità di pranzare o cenare con piatti della tradizione locale. Due Chicchi e Due Tazzine nella guida Bar d’Italia 2017.

 

Caffè genovese 1838

Un bellissimo dehors esterno che da sulla Basilica di San Saturnino rende questo posto l’ideale per chi volesse godersi una pausa caffè o un momento di relax. L’espresso è elegante, con aromi di cioccolato e nocciola, il cappuccino avvolgente e cremoso. La pasticceria è il fulcro dell’attività e, insieme al gelato, uno dei punti forti del bar. Nel pomeriggio tè, tisane e cioccolate abbinate a pasticcini mignon e biscotteria classica. Interessante anche l’offerta per l’aperitivo con ampia scelta di calici e cocktail, oltre a sfizi salati di tutto rispetto. Due Chicchi e Due Tazzine nella guida Bar d’Italia 2017.

 

Caffè svizzero

Una location unica per questo locale all’interno di uno dei palazzi antichi più suggestivi di Cagliari. L’espresso, estratto alla perfezione, è equilibrato e aromatico, con un’elegante aroma di nocciola, il cappuccino vellutato e intenso. Da abbinare agli ottimi lieviti e alle paste che vengono da una pasticceria locale. Buona l’offerta anche per l’aperitivo, con un grande assortimento di specialità salate, numerosi vini alla mescita e una lunga lista di cocktail. Tre Chicchi e Due Tazzine nella guida Bar d’Italia 2017.

 

Les plus bon

Insegna frequentatissima con 3 punti vendita. Oltre alla classica colazione dolce qui potrete trovare fin dal mattino snack di ogni tipo: focacce, pani speciali, grissini. Il caffè, da accompagnare con ottimi lievitati, è intenso, il cappuccino cremoso e ben montato. A pranzo si continua con crostoni, bruschette, insalate, panini e piatti freddi, anche per vegani e vegetariani. Due Chicchi e Due Tazzine nella guida Bar d’Italia 2017.

 

Tramer

Uno dei locali storici più antichi, la sua nascita risale al 1857, ma che si rinnova ogni anno e garantisce standard qualitativi elevatissimi. Il caffè, unico per aroma, estrazione ed equilibrio, e i cappuccini, densi e vellutati, si abbinano ai lieviti dorati e soffici sfornati dalla pasticceria. Ma la vera specialità della casa è il dolce alla meringa con panna, da mangiare sia a colazione che a merenda. Interessante anche l’offerta salata, anche se non troppo ampia. Tre Chicchi e una Tazzina nella guida Bar d’Italia 2017.

 

indirizzi

 

Antico caffè dal 1855 | Cagliari | piazza Costituzione, 10/11 | tel. 070 658206 | www.anticocaffe1855.it

Antica hostaria | Cagliari | via Cavour, 60 | tel. 070 665870 | www.anticahostaria.it

Bombas | Cagliari | via Università, 37 | tel. 070 753 4511 | www.facebook.com/Bombas-hamburgeria-sarda-1548937982019107

Caffè genovese 1838 | Cagliari | via del Logudoro, 29 | tel. 070 654843

Caffè svizzero | Cagliari | largo Carlo Felice, 6 | tel.

Chez Les Negres | Cagliari | via S. Sonnino, 175 | tel. 070 654997 | www.chezlesnegres.it

Cucina.eat | Cagliari | piazza Galileo Galilei, 1 | tel. 070 099 1098 | www.shopcucina.it

Da Rita | Cagliari | via Pierluigi da Palestrina, 92 | tel. 070 498044 | www.facebook.com/pages/Pizzeria-Da-Rita/121522481236587

Dal Corsaro | Cagliari | viale Regina Margherita, 28 | tel. 070 664318 | www.facebook.com/Ristorante-Dal-Corsaro-297630203614168

Framento | Cagliari | corso Vittorio Emanuele | tel. 070 682013 | www.framento.it

Stefino | Cagliari | via Giovanni Maria Dettori, 30 | tel. 366 271 9187 | www.facebook.com/pages/Stefino-Gelateria-Artigiana/208500112508890

La locanda dei buoni e dei cattivi | Cagliari | via Vittorio Veneto, 96 | tel. 070 734 5223 | www.locandadeibuoniecattivi.it

La pizzetta d’oro | Cagliari | via della Pineta, 29 | www.facebook.com/pages/Pizzetta-DOro/164730550208104

Les plus bon | Cagliari | via Giolitti 13 | tel. 070.652976 | www.leplusbon.com

Les plus bon | Cagliari | piazza L’Unione Sarda | tel. 070.2099121 | www.leplusbon.com

Les plus bon | Cagliari | via Piemonte 2 angolo piazza Kennedy | tel. 070.498833 | www.leplusbon.com

Levante pizza e birra Rubiu | Cagliari | via Ottone Bacaredda, 101 | tel. 329 658 7545 | www.facebook.com/Levante-Pizza-e-Birra-Rubiu-861750697246261

Luigi Pomata | Cagliari | viale Regina Margherita, 18 | tel. 070 672058 | www.luigipomata.com

Origins | Cagliari | largo C. Felice, 16 | tel. 070 204393 | www.originis.it

Pandemonio | Cagliari | piazza Repubblica, 8 | tel. 070 800 2833 | www.facebook.com/pg/PandemonioPanini/about/?ref=page_internal

Pasticceria piemontese | Cagliari | via Cocco Ortu, 39| tel. 070 41365 | www.facebook.com/Pasticceria-Piemontese-128925650469005

Pasticceria Pirani | Cagliari | via Pacinotti,11 | tel. 070 493378 | www.facebook.com/pasticceriapirani

Tramer | Cagliari | piazza Martiri d’Italia, 11 | tel. 070 652828 | www.facebook.com/pages/Tramer-Caffé/576181969171358

 

a cura di Francesca Fiore

 

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TEDxTorino. Si parla di trattorie e del ruolo di TripAdvisor con Luca Iaccarino

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TED è una conferenza che si tiene ogni anno in California, a Monterey, e da qualche tempo, anche in altre città del mondo. Gli appuntamenti italiani sono a Torino, il prossimo 29 gennaio, e a Roma nel mese di aprile. E nel capoluogo piemontese c'è Luca Iaccarino che parla di trattorie.

Cos’è TED (Technology Entertainment Design)

È una conferenza che si tiene ogni anno in California, a Monterey, durante la quale vengono trattati una serie di argomenti, che comprendono scienza, arte, politica, temi globali, architettura, musica, con un’unica chiave di lettura: promuovere le idee che meritano di essere diffuse. Le lezioni migliori, poi, sono visibili gratuitamente sul sito web del progetto. In poche parole gli utenti hanno la possibilità di ascoltare premi Nobel, professori e reporter comodamente dal divano di casa. Ve ne avevamo già parlato qui. TED ha lanciato anche il programma TEDx, che consiste in una serie di eventi locali organizzati in modo indipendente. In Italia, i prossimi appuntamenti sono a Torino, il 29 gennaio al Centro Congressi Lingotto, e a Roma, il 4 aprile all'Auditorium Conciliazione.

TEDxTorino

Sull'edizione di Roma ancora non ci è dato sapere nulla, mentre per quanto riguarda il palinsesto torinese i giochi son svelati. Un titolo:This must be the place. Un tema: i Luoghi. E tre sessioni per svilupparlo: Le Persone, Il Cambiamento, Il Pianeta. Il 29 gennaio al Centro Congressi Lingotto sono 23 gli ospiti invitati sul palco, ciascuno dei quali ha tra i 5 e i 14 minuti per esporre la propria idea. È l'occasione per sentir parlare Luca Mercalli, Presidente della Società Meteorologica Italiana, di clima e di cambiamenti; Florinda Saievadel progetto che coinvolge la città siciliana di Favara, che ha saputo risorgere dall’abbandono e si è trasformata in una vera e propria opera d’arte; Gianluca Boggiadi carcere e lavoro o Guido Avigdor dicomunicazione oggi. Ovviamente si affronterà anche il tema food con Luca Iaccarino, giornalista gastronomico e food editor di EDT Lonely Planet.

TEDxTorino e le trattorie

Durante il suo intervento, Luca Iaccarino punta i riflettori sulla ristorazione quotidiana. “Scrivo di ristoranti e cibo da tanto tempo, occupandomi anche di locali siderali, ma la mia vera passione è per le trattorie. Ed è a loro che dedico il mio intervento sul palco di TED. Già, perché secondo un'indagine della Fipe sono ben 34 milioni gli italiani che pranzano fuori e 5 quelli che lo fanno almeno 3, 4 volte alla settimana, praticamente tutti i giorni feriali”. Il dato sui consumi 2016, uscito il 17 gennaio, preso singolarmente non dice nulla di nuovo. Ma si resta sorpresi ad ampliare l'orizzonte: “Solo questi, spendendo tra i 5 e i 10 euro, diciamo 7,5, sommano più di 37 milioni di euro al giorno, quasi 10 miliardi l’anno”. Va da sé che i giornalisti dovrebbero occuparsene maggiormente, perché è un settore molto più rilevante dell'alta ristorazione, nonostante quest'ultima sia più stimolante e divertente. “E non ci sarebbe bisogno di portare questi locali all'onore delle cronache se tutto andasse bene. Così non è: dalle tasse al costo del lavoro, passando per i concetti di territorio o tradizione, molto spesso sono abusati, sono molti gli ostacoli sul cammino. Se devo dire la mia, le trattorie di Torino che preferisco fanno cucina o abruzzese o toscana, ma essendo ormai storiche per me fanno parte della categoria“trattorie tradizionali e di territorio”.

Non le manda a dire, Iaccarino, neanche ai “maniaci dei prodotti di nicchia”: “Anche sul prodotto siamo diventati tutti maniaci. Da quando le realtà industriali di qualità dignitosa sono diventate inaccettabili? Per me uno spaghetto industriale buono, non eccellente sia chiaro, va benissimo per una ristorazione quotidiana”. Che magari deve fare i conti anche con il food cost.

Il ruolo di TripAdvisor

Evviva dunque le trattorie, che vanno difese e valorizzate. “Non aspettiamoci lo faccia la critica, che come giusto che sia si occupa di ristoranti blasonati. Lo dobbiamo fare noi clienti, scegliendole, ma anche comunicando la nostra soddisfazione. Ecco perché TripAdvisor, dato che esiste, dovrebbe essere usato da tutti. Non lasciamolo in mano solo a chi ne fa un uso sconsiderato”. Insomma, gettiamoci a capofitto anche noi consumatori assennati su TripAdvisor in modo da diluire il più possibile l'apporto dei dissennati. Chiude con un aneddoto esemplificativo: “Mi è capitato poco tempo fa di andare in una delle mie trattorie preferite. A fine pasto ho scambiato quattro chiacchiere con la vicina di tavolo che si è mostrata molto entusiasta e mi ha detto che tutte le volte che mangiava lì, lasciava una recensione su TripAdvisor. Ho pensato facesse bene, prima che finisse la frase con “ogni volta do un solo pallino, così le persone non vengono e non si rischia la calca. Allora proviamo ad allearci contro chi ne fa un cattivo uso, turiamoci il naso e lasciamo una recensione. Cercando di vedere TripAdvisor come un alleato scomodo per raggiungere un obiettivo lecito”.

 

TEDxTorino | Torino | Centro Congressi Lingotto | via Nizza, 280 | 29 gennaio |www.tedxtorino.it

TEDxRoma | Roma | via della Conciliazione, 4 | 4 aprile | tedxroma.com

 

a cura di Annalisa Zordan

Il gelato all'azoto. I pro e i contro di un gelato espresso

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Realizzato con l’azoto, ma senza nulla di chimico e con poco grasso. Il gelato all'azoto è un prodotto che in Italia ancora fa fatica ad ingranare, ma all'estero spopola. È quanto ci dice Corrado Sanelli, il primo gelatiere ad aver accettato la sfida azotata. 

Il gelato all'azoto

Si tratta di un gelato ottenuto aggiungendo, alla base prescelta, dell’azoto liquido, un gas innocuo e sicuro per la salute, a una temperatura di – 196° C. Amalgamando, l’azoto raffredda gli alimenti formando cristalli di ghiaccio piccolissimi e omogenei. Il risultato è un composto più cremoso del gelato classico, che dà una minore sensazione di freddo in bocca. Il procedimento è semplicissimo, pratico e veloce. Nonostante l'effetto scenografico, con una nuvola di fumo dovuto al freddo che accompagna la lavorazione, dietro non c’è nessuna diavoleria e nulla di ipertecnologico. Anzi, l'azoto permette di avere un gelato più naturale: non sono necessari addensanti e si possono usare meno grassi. In teoria, si può preparare un gelato da un’arancia appena spremuta davanti al cliente. Di questo gelato, come di quelli tradizionali, vi parleremo nella nuova guida Gelatieri e Gelaterie d'Italia del Gambero Rosso che verrà presentata a Sigep di Rimini lunedì 23 gennaio.

Un po' di storia

È stata la gelateria Sanelli di Salsomaggiore la prima a raccogliere, nel 2005, la sfida lanciata da Davide Cassi ed Ettore Bocchia. Furono infatti il fisico ed esperto di gastronomia molecolare dell’Università di Parma e lo chef di Villa Serbelloni, che da anni lavorano sugli aspetti scientifici del cibo, a presentare per la prima volta nel 2002 il “gelato estemporaneo”, frutto di anni di ricerche in laboratorio. “Cercavo un nome che lo differenziasse dal gelato che tutti conosciamo” spiega Cassi “In realtà già dall'800 gli scienziati sostenevano che si poteva fare il gelato con l’azoto liquido ma nessuno ci aveva mai provato, non avendo sufficienti conoscenze gastronomiche”. Poi pian piano, in molti si sono adeguati al progresso accettando la sfida. Come Claudio Torcé, pioniere capitolino, che aveva destinato al gelato all’azoto un angolo del suo locale in viale dell'Aeronautica. Ce lo immaginiamo, il grande artigiano romano, nel suo laboratorio a giocare con l'azoto, alla continua ricerca del gelato perfetto, naturale, soffice al punto giusto. Era il 2009Questa cosa mi ha appassionato tantissimo sono partito con acqua e zucchero, per vedere cosa succedeva. Ricordo che i risultati più interessanti li avevo con gli alcolici come il vino, la birra o anche i cocktail, cosa più difficile alle temperature comunemente raggiunte dalle normali mantecatrici”.

Corrado SanelliCorrado Sanelli

Le attrezzature necessarie

E da lì siamo ripartiti: andando a sfogliare il mensile di luglio 2009 del Gambero Rosso, dove in un articolo di Luciana Squadrilli si parlava proprio di gelato all'azoto, per capire quali attrezzature venissero utilizzate agli inizi. C'era chi, come Torcè, si serviva di un montapanna modificato (per ottenere una velocità minore). E chi, come Corrado Sanelli, aveva rimesso in funzione le vecchie mantecatrici verticali aperte. Oggi le cose non sono cambiate poi tanto, almeno a detta di Sanelli, che attualmente oltre a seguire la sua gelateria, tiene dei corsi dedicati a questa tipologia di produzione: “Io uso ancora le vecchie mantecatrici, i più moderni, soprattutto all'estero, utilizzano la KitchenAid. La cosa bella di questo gelato è che lo si può fare ovunque, noi per esempio lo facciamo anche fuori dalla gelateria per attrarre i passanti con i fumi. È un bello spettacolo no?”  e aggiunge “Finalmente dopo una decina di anni di vagabondaggio il gelato all'azoto sta prendendo piede, molto più all'estero che in Italia, perché ci si è resi conto dell'enorme comodità garantita dall'azoto: è come avere la brace sempre calda per un fabbro”.

Un gelato che ha fatto breccia nel cuore degli stranieri

All'estero hanno colto con più entusiasmo quest'opportunità: “Esistono in Nord Europa delle gelaterie con una decina di montapanna, per garantire a ciascun cliente un gelato sartoriale: uno decide il gusto o la quantità di zucchero e il gelato è pronto in dieci secondi. È una preparazione live”. Da noi invece? “In Italia è pura utopia un gelato espresso: mentre all'estero usano un'unica base bianca alla quale vengono poi aggiunti degli estratti, in base al gusto che uno vuole, qui si dovrebbe di volta in volta preparare la base con gli ingredienti scelti dall'avventore. In poche parole, gli italiani sono (per fortuna) più esigenti in tema di gelato. Ma non è detto che un giorno io non riesca a realizzare il sogno del gelato espresso”.

Claudio Torcè

I vantaggi

Ricapitolando: uno dei maggiori vantaggi è la rapidità di preparazione, “si può fare una torta gelato a tre strati senza utilizzare per tre volte l'abbattitore”, ma anche il fatto di poterne fare delle piccole quantità è un grande valore aggiunto che lo rende ideale anche per la ristorazione ma non solo: “capita a volte che di sabato rimanga senza un gusto, con l'azoto preparo solo il gelato che mi viene richiesto, senza sprechi”. Non male, considerando che con il metodo tradizionale si è obbligati a preparare minimo un chilo di gelato alla volta.

Un altro punto a favore è la facilità di realizzazione - bastano l'azoto e un recipiente - la consistenza soffice, e il fatto che consente di apprezzare di più i gusti dato che non gela il palato, e di conseguenza non lo anestetizza. E il food cost? “L'azoto va da 1 a 3 euro al litro, il costo dunque è più elevato rispetto a un gelato tradizionale ma posso garantire che quantificando i vantaggi, conviene”.

La diffidenza degli italiani

Allora perché non ha riscosso successo in Italia? Principalmente a causa della diffidenza dei clienti. Lo conferma anche Torcè: “Nonostante mi piacesse un sacco preparare il gelato con l'azoto, mi sono reso conto che i clienti non si fidavano. Mi è dunque sembrato inutile voler innovare in una città come questa, restia alle novità, quindi smisi di farlo. Peccato, mi divertivo...”. Oltre alla diffidenza degli italiani, questo gelato deve affrontare un altro problema nel Bel Paese: “È ancora difficile reperire l'azoto. Io mi approvvigiono direttamente in fabbrica”.

Nonostante questo, però, ci sono alcune gelaterie che hanno raccolto la sfida ed è possibile in Italia testare questo prodotto. Questi laboratori solo all'apparenza del piccolo chimico sono stati recensiti, insieme alle gelaterie tradizionali, nella nuova guida Gelatieri e Gelaterie d'Italia del Gambero Rosso che verrà presentata a Sigep di Rimini il 23 gennaio 2017.

 

Sanelli | Salsomaggiore Terme (PR) | Piazza del Popolo 2/l | tel. 0524 574261

Torcè Gourmet | Roma | viale dell'Aeronatica, 105 | tel. 06 94366517

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

 

Gualtiero Marchesi. L'intervista al padre della cucina italiana moderna

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Con lui è nata la moderna cucina italiana, con lui è nata l'idea di una cucina totale, che include il contenuto ma anche il contenitore, le posate, il corredo concettuale dei piatti e l'aspetto salutare.

Gualtiero Marchesi è lo chef che a cavallo degli anni '70 e '80 del secolo scorso ha riscritto la cucina italiana. Nella prima edizione della guida del Gambero Rosso, il suo ristorante milanese era al primo posto assoluto. Con lui inizia la moderna ristorazione italiana. È con un’intervista a lui che comincia il racconto della rinascita della gastronomia italiana come la conosciamo oggi.

 

Risotto con lo zafferano con foglia di oro

 

Cominciamo dal futuro… Marchesi propone una sorta di brand della cucina italiana e dell’Italian Style legati al benessere e al buon gusto da esportare nel mondo. Cosa è maturato, oggi, che non era maturo prima?

Fin dall’inizio, la mia scelta è stata di rendere le ricette essenziali, di pulire, attualizzando la tradizione, svecchiando la cucina italiana, dandogli quel po’ di virilità, di composizione e di leggerezza in più rispetto alle sue origini matriarcali. Origini che rispetto profondamente se non altro per il fatto che le donne in cucina ci mettono anche l’amore. Così facendo, ho potuto esaltare la materia. Rispetto alla consapevolezza di che cosa sia una buona materia prima, credo, che siano stati fatti molti passi avanti. Il brand Marchesi rappresenta l’alta cucina all’insegna della semplicità, dai prodotti ai ristoranti, l’essenza dell’italianità. Vent’anni fa i grandi alberghi mi offrivano la sala colazioni per rappresentare la cucina italiana, oggi il ristorante più esclusivo.

 

Marchesi a Milano ha fatto il primo vero ristorante moderno di qualità. E in quegli anni ha cominciato a codificare la tradizione gastronomica italiana e a darle una forma che potesse identificarla. Ci può raccontare qualcuna delle principali tappe di quel percorso?

Il ristorante di Bonvesin de la Riva non nasce all’improvviso, è la conseguenza di alcuni fatti, di certi incontri e del mio carattere curioso. Se dovessi elencare le cause più o meno remote, partirei dai miei genitori, dalla lezione dell’Albergo Ristorante Al Mercato. Lì, attraverso il loro stile, la scelta di avere solo cuochi che si fossero fatti le ossa nelle cucine dei grandi alberghi, a contatto quindi con una tradizione di stampo internazionale e quindi francese, si è formato un gusto aperto alla novità e all’idea di eleganza.

 

E dopo questo imprinting iniziale?

Poi, c’è stata l’affinità intellettuale e la frequentazione di Eugenio Medagliani, amico d’infanzia, con cui ci siamo divertiti moltissimo, sperimentando insieme e realizzando la pentola giusta per ogni situazione. Intanto, però, leggevo, preferendo i testi stranieri – l’Escoffier tanto per citarne uno – diversi dai classici italiani, perché più concentrati sulla tecnica.

 

Poi ci fu il passaggio Oltralpe...

Sì, infine ci furono la partenza per la Francia, i mesi passati insieme alla famiglia Troisgros, con cui si stabilì un rapporto autentico, fatto di simpatia e di stima reciproca. Tornai in Italia e a quarant’anni sapevo che il mio obiettivo sarebbe stato di cucinare nella semplicità, secondo il precetto che la materia è forma, evidenziando la relazione esistente tra il bello puro e il vero buono.

 

Quando e come è scattata nella sua testa (lei è un figlio d’arte) la chiave con cui ha sempre affrontato il percorso gastronomico nella sua vita? il legame tra cultura materiale e cultura spirituale, tra cibo e arte, tra cucina ed estetica...

Il rispetto profondo per la materia prima e la conoscenza puntigliosa delle tecniche ti permettono, contemporaneamente, di non sbagliare e di avvicinarti alla verità delle cose, per riconoscere, alla fine, che l’etica è contenuta nella parola estetica. Detto ciò, penso che il senso del bello – ma aggiungerei anche il desiderio di fare le cose per bene, di esprimersi con garbo, di essere in fondo modesto e al tempo stesso intransigente nel perseguire lo scopo prefissato – esistevano già in me come risultato dell’educazione e della personalità.

 

E l'arte che ruolo ha avuto?

Bisogna ricordare che il locale in via Bezzecca dove sono nato era frequentato da artisti e intellettuali e che ero naturalmente portato per il disegno. Purtroppo, anziché a Brera, mia madre mi iscrisse a un Istituto professionale. L’arte l’ho vissuta attraverso la musica, quando per tre anni andai a lezione di piano da un’insegnante che sarebbe poi divenuta mia moglie e vivendo intensamente la vita culturale, andando a teatro, visitando mostre e atelier di artisti. La cucina ha permesso di esprimermi fino in fondo, l’ho considerata alla stregua di un linguaggio artistico.

 

Dalla sua cucina-fucina sono usciti la gran parte dei giovani talenti di oggi. Come è stato il rapporto con le nuove generazioni? Come l’interazione tra lei e i suoi allievi ha portato la stessa cucina italiana ad evolversi?

Ho sempre riconosciuto l’importanza del rapporto tra chi sa e chi sta imparando qualcosa. Quando mi è toccato imparare, facevo continuamente domande fino a quando non ricevevo una risposta esauriente. La stessa cosa è avvenuta con i giovani cuochi che ho avuto accanto. Con alcuni di loro si è instaurato un rapporto di immedesimazione tale che non saprei dire quale dei due sia il vero padre di un piatto. A volte, è stata anche una decisione a determinare il loro futuro personale. Mi ricordo un giovane cuoco della mia brigata che un giorno fece un commento a un cameriere ed essendo presente gli dissi che, da qual momento, sarebbe andato lui in sala. Visto quanto è riuscito a fare, ho la pretesa di pensare che quell’invito a mettersi nei panni di chi sta a contatto del pubblico sia stato utile.

 

La Nouvelle Cuisine è arrivata in Italia attraverso la sua interpretazione. Ci può dire come è stata?

Coglierei l’occasione per sottolineare un passaggio importante nella mia storia. Mi sono affermato come cuoco nel momento in cui si diffondeva la Nouvelle Cuisine, ma al tempo stesso ne ho percepito i limiti quasi subito, ripristinando il servizio in sala. In questo modo, oltre a rivalutare la figura del maître da cui dipende moltissimo il successo di un ristorante, ho ribadito l’importanza di non trasformare troppo la materia, di non “giocare” col piatto, di consegnare alla vista la bellezza in sé del cosciotto, della fagianella, addirittura di un cavolfiore romano, oltre allo spettacolo dell’arte di tranciare e dell’uso del torchio per lo Chateubriand, l’anatra, i crostacei.

 

Passando da Milano a Erbusco, cosa ha significato fare una grande cucina d’autore in una delle più prestigiose cantine italiane? L’esperienza ha influenzato positivamente le due realtà, vino e cucina?

La Franciacorta ha rappresentato un ritorno alla campagna, un momento di creatività e per certi versi di liberazione dagli schemi metropolitani. Una bella occasione, un bel locale e della magnifica clientela. È lì che ho dato vita al menu degustazione sulla falsariga dei kaisekigiapponese, dove un maestro mostra fin dove è arrivata la sua arte. Un menu che servivamo su grandi tavoli kauri di legno fossile, prodotti dal mio amico Riva. Nel frattempo, continuavo a disegnare posate, piatti e bicchieri, andando nella direzione di una cucina totale, dove il contenitore aveva la stessa importanza del contenuto. Il vino, visto il luogo, era una realtà importante. Nei primissimi anni Sessanta, Al Mercato, ero stato forse il primo a proporre una lista di vini con duecentocinquanta etichette. La Franciacorta celebra soprattutto le bollicine e trovo che queste rappresentino bene la gioia di vivere, il modo di essere italiani.

 

Come definirebbe la cucina italiana, se dovesse spiegarla a un cinese? E a un giapponese? A un americano?

La cucina italiana è grande se eseguita bene, quando cioè rispetta la pluralità di microclimi che distingue la Penisola. Tradizione e innovazione sono i cardini da cui non si può prescindere. La nostra cucina è una cucina che esalta, con quasi un eccesso di offerta, l’incredibile varietà di prodotti e di maniere di cucinarli. Quando gli italiani si renderanno veramente conto di questo – come diceva Bocuse – la cucina francese tramonterà. A un giapponese, a un cinese, a un americano, descriverei questa grandiosa dispensa di sapori e di conoscenze, cercando di non tradirla per il gusto di strafare o di dar spazio alle mode esterofile.

 

Oltre sedici anni fa in un’intervista, alla domanda su quale fosse la cosa più goduriosa, per lei, legata alla gastronomia, mi confessò: chiudermi da qualche parte e mangiare a morsi con le mani una mozzarella di bufala appena fatta. Oggi come risponderebbe?

La stessa cosa, con la differenza che adesso, nel mio ristorante, può ordinare una mozzarella da cinquanta grammi che le verrà servita in un quadrato nero, al centro di un piatto bianco, da gustare con le mani.

 

Come pensa che l’Italia possa e debba costruire la sua forza enogastronomica all’estero? Vale più esportare format e modelli (e prodotti ed etichette) o importare turisti-gourmet che facciano esperienza sul territorio di produzione? O entrambe e come?

La visione più corretta e più efficace è quella di costruire una strategia che includa sia l’esportazione di cultura gastronomica e culinaria sia l’importazione di palati che facciano esperienza di cosa sappiamo offrire. Non dimentichiamoci che la forza della cucina italiana sta nella tradizione e nei prodotti; dobbiamo riappropriarci dell’italian soundinge batterci per fare squadra. Non abbiamo saputo difendere il Parmigiano o l’Aceto balsamico tradizionale; la pizza per un americano è stata inventata da Pizza Hut.

 

In che modo si possono creare strategie di valorizzazione della cucina italiana?

Un produttore italo-americano sta realizzando un film documentario sulla mia vita, Gualtiero Marchesi: The great italian, grazie alla partnership di illy, Ferrari Trento, San Pellegrino, Parmigiano Reggiano, Maserati e altri, da distribuire in tutto il mondo, partendo dagli Stati Uniti. Questo è un buon esempio di cosa vuol dire lavorare in squadra.

 

Oggi il made in Italy si fa sentire anche nel fast food. Lei ha firmato anche dei panini per McDonald’s. Come giudica quell’esperienza?

Le ricordo che, allora, il mio intervento permise di inserire, per la prima volta, in un panino MacDonald’s, delle verdure per loro off-limits quali melanzane e spinaci. Un gesto, se mi permette, rivoluzionario e di massa. È stata un’occasione straordinaria per mostrare come può essere interpretato un semplice hamburger, coinvolgendo 700mila clienti al giorno, un terzo dei quali avevano meno di 26 anni. Un panino richiamava la Norma, melanzane e ricotta salata, l’altro con spinaci e maionese alla senape in grani rendeva particolarmente appetitoso un ingrediente fondamentale per l’alimentazione, ma poco amato dai più giovani. Ricordiamo che in America la diffusione dei cartoni di Popeye (Braccio di Ferro) fece aumentare del 33 per cento la vendita di spinaci! Se si riuscisse, puntando alla qualità e ai numeri, a promuovere nel mondo il gusto italiano, sarebbe una buona cosa. Se fatto bene, non ha senso demonizzare il fast food.

 

Se dovesse dare dei consigli a giovani chef per il futuro, cosa direbbe loro? Come consiglierebbe di strutturare un ristorante o comunque un luogo dove si fa gastronomia? La qualità paga?

Il primo dovere è imparare la tecnica, conoscere le cotture, le possibilità insite in ogni tipo di cibo. Fai che questo sia la tua medicina, diceva Ippocrate. Il bravo cuoco è un presidio per la salute pubblica. Altrettanto importante è farsi una cultura, leggendo molto, viaggiando altrettanto. Il terzo consiglio è di prestare la massima attenzione alla sala, non solo dal punto di vista estetico, ma da quello del servizio. È dall’incontro con il cliente, dalla cura nel servirlo, nel rispettarlo, nel conoscerlo che discende molto più della metà del successo di un ristorante. La qualità, solo quella, permette di ripagarti degli sforzi fatti in senso economico e spirituale. Tutti temi che vengono affrontati nell’attività e nei corsi organizzati dall’Accademia Marchesi, inaugurata due anni fa proprio in via Bonvesin de la Riva. Un ritorno al futuro.

 

Ristorante Marchesi alla Scala | Milano | piazza della Scala | tel. 02 72094338

Ristorante Teatro alla Scala - Il Marchesino | Milano | via Filodrammatici, 2 | tel. 02 72094338

Grand Hotel Tremezzo | Tremezzo - Lago di Como | via Regina, 8 - 22016 Tremezzo | tel. 0344 42491

Club Thirty-nine | Monte Carlo – Monaco| 39, Avenue Princess Grace|info@39montecarlo.com 

http://www.marchesi.it/

 

Accademia Gualtiero Marchesi | Milano | via Bonvesin De La Riva 5 | tel. 02 36706660 | http://www.accademiamarchesi.it/

 

a cura di Stefano Polacchi

 

Articolo uscito sul numero di Dicembre 2016 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui

 

 

FoodreLOVution, il film documentario sugli effetti delle scelte alimentari

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Tutto ciò che mangi ha una conseguenza. Con questo proposito è stato presentato per la prima volta da Eataly Smeraldo FoodreLOVution, il film documentario che pone l'accento sugli effetti delle nostre scelte alimentari e abitudini di consumo.

La consapevolezza dei consumatori

Ciò che mangiamo può fare la differenza: su noi stessi, sull'ambiente e gli animali. Ecco perché compiere la scelta giusta in ambito alimentare rappresenta una vera rivoluzione. Un concetto che è sempre più spesso sotto la lente d'ingrandimento di medici nutrizionisti ed esperti del settore, e richiama ogni giorno di più l'attenzione di consumatori. È in costante aumento indubbiamente una consapevolezza alimentare generalizzata che spinge a ricercare con più cura e attenzione prodotti di qualità. In crescita anche l'attenzione verso i metodi di coltivazione, biologico e biodinamico in primis, la sostenibilità dei prodotti e la tracciabilità e trasparenza della filiera. Perché ogni singola scelta alimentare, ogni acquisto, ogni preferenza ha una conseguenza sulla nostra salute e sull'ambiente che ci circonda. È questo il tema di uno dei film a sfondo enogastronomico di recente uscita. Presentato pochi giorni fa negli spazi di Eataly Smeraldo, il documentario FoodreLOVutionsi propone di spiegare quali possono essere i danni di un'alimentazione scorretta e, in particolar modo, eccessivamente ricca di proteine animali.

Il film

Prodotto da Bluma Lab, il film è stato interamente realizzato con i fondi raccolti attraverso una campagna di crowdfunding. Regista del documentario è Thomas Torelli, che si affretta a specificare: “L'ambizione del film non è quella di avere un mondo di vegani, piuttosto quella di fornire alle persone strumenti per capire che quello che scegliamo di mangiare è determinante per una serie di equilibri”. Nel documentario si susseguono una serie di scene che mostrano le conseguenze degli allevamenti intensivi di carne, dalla deforestazione allo spreco di acqua utilizzata per produrre una bistecca, fino a trattare la sofferenza degli animali. A spiegare quali possono essere i danni di una dieta ricca di proteine animali sono i medici e gli esperti come Franco Berrino, epidemiologo dei tumori e dirigente del Dipartimento di medicina preventiva dell'Istituto nazionale dei tumori di Milano, T. Colin Campbell,autore di The China Study, una delle più importanti ricerche sul rapporto tra alimentazione e patologie, il fondatore di Slow Food Carlo Petrini e il premio Nobel, attivista e scienziata VandanaShiva.

"Non voglio essere un talebano per quanto riguarda la carne”, continua Torelli, “il mio è solo un messaggio di consapevolezza per le persone che possono decidere cosa mangiare". Ma perché mangiare meno carne? Per noi stessi, per l'umanità, per la terra, per gli animali. Questo il messaggio principale del trailer del film. Perché “se la vita è la base di tutto, il cibo è la condizione essenziale affinché questa prosperi”. E questa necessità di condividere i principi di una dieta sana e sostenibile è il risultato di una serie di riflessioni del regista a seguito della nascita della figlia: “Mi sono ritrovato a pensare: come crescerò mia figlia e in che tipo di mondo sarà costretta a vivere? In tempi come questi, anche fare la spesa settimanale con un senso di coscienza in più, sapendo cosa stiamo comprando e cosa stiamo mangiando è il primo fondamentale passo verso un mondo migliore”. Un concetto che Torelli ha fatto suo in maniera profonda, “perché il mondo cambia se le persone cambiano, iniziando dai piccoli gesti quotidiani”. E perché pensare in grande è possibile, “basta volerlo”.

www.foodrelovution.com/

a cura di Michela Becchi

Il Cappuccino sospeso conquista Roma. La bevanda a base di latte e caffè combatte il freddo per chi ha bisogno

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L'iniziativa solidale, ispirata al caffè sospeso napoletano, nasce dall'impulso dell'Esercito della Salvezza, e nei giorni scorsi ha raccolto l'adesione di quattro bar del quartiere San Lorenzo. Ma ora arriva anche a Tor Bella Monaca, e presto alla Garbatella. Per i senza tetto un cappuccino pagato che conforta il corpo e lo spirito. 

Il cappuccino. Le origini leggendarie tra Vienna e l'Italia

Che il nome del cappuccino sia stato ispirato dal colore della tonaca di un monaco dell'ordine omonimo l'avrete già sentito dire da molti. E del resto l'occhio non inganna: per citare Eduardo De Filippo (nella commedia Questi Fantasmi) la celebre bevanda calda a base di latte e caffè è indubbiamente “color del manto del monaco”, marrone chiaro, per essere precisi, come la divisa che identifica l'ordine dei Cappuccini. Più complicata è la questione quando si tratta di rintracciare le origini certe del cappuccino, probabilmente inventato nella Vienna degli Asburgo (con buona pace dei campanilisti più indomiti) e poi decisamente sdoganato dall'uso di casa nostra, tanto che presto il kapuzinerkaffe di lingua tedesca ha lasciato il posto all'italianissimo cappuccino in tutti i bar del mondo. Difficile invece dare credito alla leggenda che proprio in un frate cappuccino vissuto nella seconda metà del Seicento, tal Marco da Aviano (tra l'altro beatificato nel 2006 per il suo ruolo salvifico contro la minaccia turca), vedrebbe l'inventore della bevanda, peraltro per un rocambolesco scambio con il cameriere di un bar viennese, che all'insolita richiesta di aggiungere un po' di latte al caffè per addolcirne il gusto apostrofò il nuovo intruglio con un sonoro “Kapuziner!”, ispirato dal cliente che lo stava sorseggiando. E ancor più strampalata è la teoria che attribuisce l'invenzione a un soldato austriaco, che per primo avrebbe aperto una caffetteria a Vienna (il Fiasco blu si chiamava, e proprio qui sarebbe capitato un giorno il nostro Marco da Aviano: storie che si intrecciano nel mito) dopo aver scongiurato il pericolo turco nel 1683.

Dalla panna al latte. Ai giorni nostri

Leggende pittoresche certo, che non aggiungono molto a quella che è la realtà dei fatti; e cioè che in terra austriaca i primi cappuccini fossero frutto di un mix tra caffè e panna, sostituita dal latte solo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, quando appunto il latte assunse una propria autonomia di consumo. E al 1901 risale l'invenzione della prima macchina espresso per il cappuccino, a opera di Luigi Brezzera. Un italiano stavolta, come italiano è lo stile di vita che ha fatto conoscere la bevanda nel mondo, marchiandola con l'appellativo del made in Italy. Più prosaicamente, l'ultima vicenda che rende il cappuccino “eroe” dei giorni nostri è ambientata a Roma. E della bevanda mette in luce soprattutto le qualità nutrizionali (è meno digeribile di un caffelatte, per esempio, ma più saziante, e per questo ottimo per spezzare la fame), e corroboranti, specie quando si tratta di far fronte all'ondata di gelo che ha sorpreso una Capitale sempre troppo impreparata ad affrontare l'emergenza. Caldo e nutriente – 25 millilitri di caffè e circa 150 millilitri tra latte vaccino intero (più saporito e più proteico, per favorire la cremosità) e schiuma in parti uguali, servito alla temperatura di 65/70 gradi, con cappello di schiuma alto fino a 1 cm e non di più, secondo le prescrizioni per realizzarne uno perfetto – il cappuccino è protagonista dell'ultima iniziativa romana dell'Esercito della Salvezza, il movimento internazionale evangelico protestante che nel quartiere di San Lorenzo gestisce tutto l'anno un centro di accoglienza per il ricovero e l'assistenza di oltre 300 senza tetto.

Il cappuccino sospeso a Roma

E da qualche giorno, per correre ai ripari di fronte alla morsa del freddo, l'EdS ha stretto un accordo con quattro bar del quartiere, che hanno deciso di sposare l'iniziativa solidale del Cappuccino sospeso. Ispirata alla più celebre tradizione del caffè sospeso partenopeo, l'idea offre l'opportunità di lasciare pagato un cappuccino caldo per chi non se lo può permettere, e ha raccolto l'appoggio del Comune di Roma, che promuove l'iniziativa tramite i suoi canali ufficiali. A San Lorenzo la tazza per le offerte (tramite scontrino e non in contanti, per non prestare il fianco all'evasione fiscale) dell'Esercito della Salvezza è già comparsa sul bancone del bar dei Sanniti, del bar Marani, di Sicilia Food&Chips e di Gente di San Lorenzo, al motto di “il calore di una comunità in una tazza”. Ma il movimento ha intenzione di estendere l'iniziativa anche al quartiere della Garbatella. E intanto anche in un'altra periferia popolare della città, a Tor Bella Monaca, ci si attrezza per replicare l'idea. Da un paio di giorni anche il Max bar di via Parasacchi offre il “servizio” del cappuccino sospeso. E mentre nella Capitale si diffonde la voce tra i senza fissa dimora in cerca di un po' di conforto, l'intenzione dell'EdS è quella di prolungare l'iniziativa (che ora potrebbe espandersi fino a Ostia) per tutto l'anno, anche quando il freddo sarà scongiurato, perché di un po' di calore, quello umano, c'è sempre bisogno. Solidarietà diffusa, la chiamano gli ideatori del progetto. E allora che la diffusione sia capillare, questo è l'auspicio.

 

a cura di Livia Montagnoli

Borough Plates, il nuovo ristorante pop up al Borough Market di Londra

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È uno dei mercati gastronomici più popolari nel mondo, sicuramente il più apprezzato nella capitale britannica, e da oggi vanta un nuovo ristorante pop up. Il Borough Market, punto di ritrovo di tutti i gourmet della zona sud di Londra, ora scommette sulla ristorazione di qualità.

Il mercato

Si va al Borough Market per fare la spesa, assaggiare prodotti nuovi, cercare ingredienti di nicchia e scoprire sapori diversi. Perché quello del distretto di Southwark è uno dei mercati più riforniti e popolari della città e tra i più celeberrimi al mondo. È infatti fra i più conosciuti in tutta Europa, tanto da essere spesso una delle tappe preferite dagli appassionati gourmet in vacanza. Profumi, colori, sapori da tutto il mondo si mescolano all'interno degli spazi del mercato, fra i banchi di latticini, salumi, verdure, pesce, carne, cereali e molto altro ancora. Ma si va al Borough Market anche per mangiare, fra degustazioni guidate, eventi, street food di qualità, piccoli caffè e locali interni.

Il pop up

E ora un nuovo ristorante pop up va ad aggiungersi alla lista dei punti di ristoro del mercato. Si chiama Borough Plates e, a partire dal 17 gennaio, proporrà per due mesi una cucina basata sui prodotti stagionali dei vari banchi, lavorati con cura dagli chef professionisti degli altri ristoranti. I cuochi si alterneranno a rotazione ogni settimana per creare piatti sfiziosi e originali con quello che offre il mercato. Punto di forza del locale è il rapporto qualità/prezzo: il costo dei piatti infatti andrà dalle 6 alle 16 sterline, un prezzo ragionevole ed economico, se paragonato a quello medio degli altri box e caffè.

Salumi di Cannon & Cannon (azienda londinese specializzata negli affettati di qualità), triglie rosse di Sussex Fish (miglior banco di pesce del mercato, che si rifornisce direttamente dalle coste del Sussex, al Sud dell'Inghilterra) e latticini di Mons Cheesemongers (esperti affinatori di formaggi francesi): queste alcune delle specialità che saranno utilizzate in cucina dagli chef. Fra i primi piatti disponibili, taglieri di salumi, triglie rosse con capesante scottate e bietola, sedano rapa cotto sotto sale con ravanelli e formaggio Beaufort e, dulcis in fundo, una pannacotta a latte crudo di Hook and Son, un caseificio dell'East Sussex che produce latte, burro e panna non pastorizzati. Borough Plates si presenta dunque come un punto d'incontro delle varie eccellenze del mercato, un locale che consente ai visitatori di assaggiare il meglio dei banchi con una sola sosta. E non solo: in questo modo, i consumatori hanno anche la possibilità di vedere come uno chef professionista tratta ed elabora materie prime di qualità, e possono inoltre prendere spunto per ricette da replicare a casa. Un'occasione da non perdere, quindi, per assaggiare ingredienti nuovi e imparare qualcosa in più sulla loro lavorazione.

Borough Plates | Londra | Borough Market – 8, Southwark St| tel. +44 2074071002 | boroughmarket.org.uk/

a cura di Michela Becchi

Milano, ieri, oggi, domani. Conversazione con Aimo Moroni

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Un luogo, anzi il Luogo, che ha cambiato le sorti della cucina contemporanea, con piatti che, dopo quasi 50 anni, sono ancora in carta. Signature dish, certo, ma anche espressione di una cucina intelligente, gustosa, ragionata, incredibilmente contemporanea. Quella di Aimo e Nadia, oggi interpretata dalla coppia Negrini-Pisani che è riuscita nel difficile compito di raccogliere il testimone.

In via Montecuccoli, a Milano, Aimo insieme alla sua Nadia ci stanno da 50 anni. Quando uscì la prima guida del Gambero Rosso, l’edizione del 1991, insieme a quella di Milano, non era immediatamente comprensibile la maniacalità di Aimo Moroni nei confronti della qualità degli ingredienti che usava in cucina. L’elemento prezzo faceva da contrappeso all’esperienza più che positiva della sua cucina. “Ma io, da sempre, fin da quando ho iniziato a lavorare a Milano, nel ’46, prima di aprire il ristorante che ancora c’è, ho sempre e con tutte le mie energie puntato alla qualità delle materie prime”racconta Aimo, che da qualche anno ha lasciato il testimone a sua figlia Stefania e al duo di cucina, Fabio Pisani e Alessandro Negrini, che ancora (da oltre dieci anni) è lì. “Ho fatto quel che ho fatto solo per vedere i miei ospiti soddisfatti: erano loro a darmi la mia gratificazione, quando si alzavano contenti, felici dell’esperienza trascorsa a tavola. In cucina ci sono la tecnica, la tecnologia, l’esperienza, il talento… ma quel che per me conta davvero è la qualità del cibo. C’è chi, davanti a diverse cipolle o risi, non sa quale usare per fare un’insalata o un risotto. Io ho girato in lungo e in largo per imparare questo, per saper scegliere la cosa giusta nel momento giusto”.

 

Aimo e NadiaAimo e Nadia. Foto Brambilla Serrani

La Milano di ieri

La Milano di qualche decennio fa non era ancora la capitale del pesce, si mangiava ancora una cucina sostanzialmente di carne… “Sì, era la Milano dei nervetti caldi, del piedino di maiale bollito in salsa verde, del riso con la coratella… La mortadella non la chiamavano mortadella, ma jambon di magutt (prosciutto del manovale, in milanese) perché era il pranzo dei muratori… Nelle macellerie c’erano gli scarti, in un vassoio sotto il banco e si chiamava proprio sottobanco, così come nei panifici c’era il pane raffermo avanzato, al mattino presto”ricorda Aimo ancora fiero di quei tempi che un po’ nostalgicamente ripercorre col suo racconto.

 

La ricerca

Ricordo che andavo a Borgotaro a prendere i porcini… Proprio qualche giorno fa un mio ex sommelier che lavorava qui nei primi anni ’70 ed è rimasto per oltre dieci anni, Francesco Brussolo, è passato a salutarmi e mi ha portato dei funghi secchi dalla Sila. Sì, perché lì hanno una grande produzione di funghi e i porcini non hanno invece una vita molto lunga per cui vanno essiccati: erano eccezionali. Ogni tanto Francesco passa per farmi assaggiare ciò che trova e che secondo lui vale la pena” racconta, e aggiunge:“Questo per dire che la ricerca è continua, è la mia vita. In quei primi anni milanesi, andai a trovare un macellaio di Boves, in provincia di Cuneo, tal Martini: beh, la sua carne è ancora la mia carne, da mezzo secolo. Ora anche lui è diventato famoso. La costante della mia vita professionale è stata la ricerca della qualità in tutto, dalle farine all’olio, dal pesce alle verdure. Ed è ancora così!”

 

Una cucina di prodotto in una Milano da bere

Ma cosa pensavano i milanesi, allora, di questa cucina tutta di prodotto? “Qualcuno la definiva una cucina povera, ma non esiste una cucina povera o una cucina ricca. L’elemento che fa davvero al differenza è il sapore, la freschezza… Mi chiedevano come fosse possibile che in un ristorante come il mio non si trovasse il caviale. Io allora portavo al tavolo il mio, di caviale: pomodoro secco di Sicilia, capperi e olio extravergine di oliva. Una cosa stupenda”. Perché la tua cucina era particolare? “In realtà, con una grande varietà di materie prime di eccellenza a disposizione, in via Montecuccoli ho sempre cercato di privilegiare gli ingredienti e di fare una cucina per alcuni versi semplice. Per alcuni anche disarmante”. Tutto nasce da come si guarda alla cucina, che è passione, ricerca, studio: “Per fare la differenza ci vuole curiosità, serve l’esperienza delle materie prime con cui ci si rapporta” dicee poi spiega: “la cucina non nasce sui libri, nasce da un’altra parte” e conclude: “Non mangia bene solo chi mangia il filetto, le ostriche o le aragoste: la mia zuppa e i miei spaghetti sono forse molto più buoni e sani”.

 

Zuppa etruscaLa zuppa etrusca. Foto Brambilla Serrani

 

I piatti storici

Qualche piatto di allora? “La mia cotoletta milanese era una entrecôte selezionata da Martini cotta al giusto rosa in leggerissima crosta di pane. C’è chi ancora me la chiede” e poi passa ai signature dish del Luogo, quei piatti che hanno accompagnato negli anni i tantissimi, milanesi e no, che si sono seduti alla sua tavola: “il mio minestrone, che si chiamava e si chiama zuppa etrusca, è ancora in carta: nacque 44 anni fa, fatto con tre legumi e cereali, verdure dell’orto e un filo di olio a crudo, cotto nel coccio. Non c’è nessun grasso in cottura, il risultato è di un sapore incredibile”. E i più famosi, immediatamente riconducibili al locale di via Montecuccoli, ormai un simbolo del locale: “Anche gli spaghetti al cipollotto (foto di copertina di Brambila Serrani), nati anni e anni fa, sono ancora un classico: vermicelli di Benedetto Cavalieri, cipollotto di Tropea, olio extravergine di oliva e basilico di Pra e peperoncino di Diamante o peperone di Senise”. Ingredienti semplici. La loro storia? È semplice anch'essa: “Volevano essere il mio aglio e olio: ma un piatto di spaghetti aglio e olio, pure buonissimo, rischia di anestetizzare le papille gustative per le due ore seguenti e non si apprezzerebbe più nulla delle portate successive. Così invece il sapore è deciso e intenso, ma allo stesso tempo delicato, non aggressivo”.

 

E poi c'è anche la coda di bue, un altro piatto storico:“l’ispirazione di questo piatto nasce dal bue grasso di Carrù e viene cotta a fuoco dolcissimo, per almeno 4 ore, nel Barolo Chinato di Cappellano (e solo in questo!), poi si disossa, si aggiunge un po’ di tartufo al succo di cottura e si pone accanto un purè fatto solo con buon burro e ottime patate. Anche questo è un piatto richiestissimo. Può sembrare un piatto povero, ma alla fine costa come un filetto, visto il prezzo al chilo (oltre i 20 euro) e l’osso che si butta via!” Soddisfazioni? Tante: “Un grande medico, forse il più grande che abbiamo (e non voglio fare nomi) dopo aver mangiato la zuppa e gli spaghetti, mi disse: Aimo, tu rendi sapore e salute. Ecco, il miglior complimento che potessi ricevere”.

 

La nuova Milano e il passaggio del testimone

È sereno Aimo, da qualche anno“felicemente pensionato”come si definisce lui. “Parlo di queste cose col cuore, ora nel Luogo di Aimo e Nadia ci sono i giovani, c’è una gioiosa ventata di novità”dice, e poi parla anche di come è diventata la “sua” Milano “Oggi è cambiata: ci sono tanti etnici, tante possibilità di scelta. Una volta il pesce era la sogliola alla mugnaia. Oggi c’è di tutto. È anche un bene, mi piacerebbe provare cose diverse. Ad esempio una battuta di carne cruda con sette spezie. Nella mia c’era solo olio di oliva: forse io son rimasto a quella, ma assaggerei volentieri anche quella alle spezie”.

C’è Stefania, però, a raccontarci gli ultimi anni di un Luogo che da tempo ha cominciato a costruire il suo futuro. “Daquando”sorride la figlia di Aimo e Nadia “abbiamo deciso di prendere in cucina non un cuoco, ma due cuochi: Alessandro Negrini (valtellinese) e Fabio Pisani (pugliese). I due ragazzi uscivano da un’esperienza comune dal Pescatore dei Santini e non volevano separarsi nel lavoro. Così abbiamo accettato di provare a lavorare con loro”. Come è andata lo possiamo intuire vedendoli ancora oggi, affiatati al comando di questo locale. Ma non è stata una cosa subitanea, c'è voluto del tempo: “Sono stati almeno sei anni prima di poter dire la loro. C’era ancora Aimo, c’era Nadia… Loro sono rimasti nell’ombra, ma sono cresciuti, hanno assimilato la lezione di una vita: perché più che di ricette, questa cucina è fatta di esperienze, di metodo, di rapporti. Siamo una famiglia, una squadra: si condivide e si prova tutti tutto, si parla, si riflette, si critica e si ripensa. Questo è l’insegnamento di una cucina di famiglia, vera”.

 

images/LUOGO/Negrini_Pisani_dellAgnolo_Moroni_Piras_credits_S__Magni.jpgAlessandro Negrini, Fabio Pisani, Nicola dell'Agnolo, Stefania Moroni, Alberto Piras. Foto: S. Magni

L'era Negrini-Pisani

Domanda difficile per Stefania, dovendo raccontare la storia di Aimo e Nadia attraverso dei piatti, cosa ti viene in mente? “Quello che ti ha raccontato Aimo, in realtà, è proprio la base del nostro lavoro, l’idea di una cucina che partiva, in tempi non sospetti, dal rapporto con il prodotto, da processi di lavorazione rispettosi” e racconta di questa cucina che non è mai stata regionale: né lombarda, né toscana. Ma fatta di percorsi intorno a prodotti e idee”. E di , volendo inseguire le tracce di questi percorsi, tornano i piatti simbolo del Luogo: il “piatto dell'origine” come lo chiama lei, la zuppa etrusca, ma anche gli spaghetti al cipollotto“ricette non ha senso descrivere: si capiscono solo assaggiandole”. Ma aggiunge altre voci a questo ideale menu del cinquantennale: “Un altro piatto strepitoso era il risotto con le primizie: ma se non l’assaggiavi non potevi capire quel piatto che andava in carta solo per un mese l’anno, legato a doppio filo a quei particolari ingredienti che erano così solo in quel mese”.

 

Maialetto di Cinta. Foto Brambilla Serrani

Si avvicina a grandi passi all'oggi, con un piatto che unisce il passato al futuro: il maialino croccante e morbido in diverse cotture. “Qui ogni cottura racconta cose diverse del prodotto: la gamba, la costoletta e la testina, presi da maiali allevati in Umbria e lavorati poi interamente da noi”.

La seppia, invece, può essere il futuro: “un futuro che recupera i gesti antichi come il massaggio della seppia per ammorbidirla (che ora facciamo con un aggeggio meccanico inventato dal padre del nostro Fabio); viene farcita con interiora e pane raffermo e nero, accompagnata da una scamorza affumicata passata nel latte che riprende la morbidezza della seppia; quindi, marmellata di limoni fatta da noi a freddo e con lunga macerazione, olive che passiamo noi in salamoia, le nostre mostarde e il lampascione candito da noi”. Un piatto ricco, molto armonico e personale.“Ogni elemento ha dentro un pezzetto della nostra storia”.

 

Il Luogo di Aimo e Nadia | Milano | via R. Montecuccoli, 6 | tel. 02 416886 | www.aimoenadia.com

 

a cura di Stefano Polacchi

 

 

Articolo uscito sul numero di Dicembre 2016 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui

 

 


Gambero Rosso e Cia insieme per promuovere l'agroalimentare made in Italy. Si parte da Copenaghen

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L'accordo tra Gambero Rosso e Cia-Agricoltori Italiani si tradurrà in un calendario di eventi promozionali e attività di valorizzazione dell'eccellenza agroalimentare italiana nel mondo, per contrastare l'italian sounding e scommettere sulle potenzialità dell'export enogastronomico. Dopo Copenaghen, Los Angeles e Miami. 

L'alleanza Gambero Rosso-Cia. Da Copenaghen

A Copenaghenl e celebrazioni del caso sono già in corso. Oggi, 20 gennaio 2017, ospiti della capitale danese per una delle tappe del tour Top Italian Food & Beverage Experience e Vini d'Italia Experience, Gambero Rosso e Cia sanciscono la nuova partenrship strategica per la promozione dell'eccellenza agroalimentare italiana nel mondo. E proprio da Copenaghen, alla presenza del Consorzio Nazionale Olivicoltori e di sei imprese associate alla Cia-Agricoltori Italiani, prende le mosse il tour che nel corso del 2017 vedrà il made in Italy gastronomico di qualità protagonista di una serie di eventi, attività di promozione nelle fiere nazionali ed estere, piani di formazione e valorizzazione delle competenze gestionali, comunicative e strategiche delle imprese agricole associate, per valorizzare quell'eccellenza che Gambero Rosso si è sempre impegnato a far conoscere e tutelare, Prossime tappe Los Angeles e Miami. Ora però è il momento della vetrina danese, all'interno del Moltkes Palae, dove a tenere banco è l'Oil Bar con la degustazione e le prove d'assaggio di cinque etichette selezionate dal Cno. In affiancamento, sei aziende in arrivo dalla Penisole, realtà top del made in Italy: la Drusian di Treviso, produttrice di Prosecco, presente con tre etichette; l’azienda agricola Fabio Girometta di Piacenza con il pomodoro trasformato; la Fattoria Biò di Mario Grillo di Cosenza con assaggi di formaggio e salumi; Apofruit di Forlì-Cesena con le sue mele verdi per assaporare l’olio e il panificio La Maggiore di Bari, che con il suo pane di Altamura Dop e i suoi taralli accompagna le degustazioni di vino, olio, pomodoro, formaggi e salumi per l’intera manifestazione, mentre l’azienda Bio Vio di Albenga fornisce l’origano da utilizzare sul pomodoro.

 

Per l'eccellenza agroalimentare e contro l'italian sounding

L'obiettivo dichiarato è puntare all'internazionalizzazione delle aziende Cia con il contributo fondamentale di Gambero Rosso, punto di riferimento per aziende e realtà che vogliono superare i confini nazionali, rappresentando all'estero l'eccellenza dei cibi tradizionali italiani. Del resto le ultime indagini di mercato, sul versante internazionale, confermano che la richiesta è alta, e gli stranieri dimostrano di apprezzare il “sistema del cibo” italiano, senza però conoscere il 95% dei nostri prodotti di nicchia e di qualità, che potrebbero fruttare al Paese 70 miliardi di euro di fatturato potenziale: 4 consumatori stranieri su 10 giudicano la qualità dei nostri cibi superiore rispetto a quella locale, il 43% degli statunitensi chiede più Made in Italy nei supermercati e ben il 74% dichiara di essere disposto a riconoscere un prezzo maggiorato sui prodotti, a patto che siano 100% italiani.Lo conferma Dino Scanavino, presidente Cia: “L’Italia non ha mai messo in campo una strategia organica per aggredire i mercati stranieri. Con questo piano di promozione, il nostro impegno è quello di rafforzare e accompagnare le nostre aziende nella sfida dell’internazionalizzazione. L’obiettivo è quello di favorire la crescita e conquistare nuovi spazi all’estero, contrastando l’italian sounding”. E gli fa eco Paolo Cuccia, presidente di Gambero Rosso: “Gambero Rosso è costantemente a fianco delle aziende italiane per la promozione del Made in Italy di qualità nei maggiori mercati internazionali. Siamo quindi lieti di collaborare a questo importante progetto strategico nato dalla sensibilità della Cia per sostenere lo sviluppo delle aziende associate sui mercati stranieri, sempre più indispensabili per la crescita dimensionale e per la redditività del settore agricolo e agroalimentare italiano”.

 

 

 



 

Tendenze gastronomiche del 2017 secondo TheFork. Gli italiani a tavola: tradizionalisti, ma curiosi

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Frequenterà pizzerie e ristoranti di pesce, di carne e specialità regionali. Senza disdegnare la cucina veg o la pizza gourmet. Il sondaggio condotto sui propri utenti da TheFork traccia il profilo di un consumatore amante delle tradizioni e allo stesso tempo curioso.

Il 2017 dei ristoranti italiani

Nessun dubbio per quanto riguarda le tappe fisse dei clienti italiani, che prevedono di frequentare soprattutto pizzerie, ristoranti di pesce, di carne e di specialità regionali. Ciononostante le tendenze gastronomiche saranno orientate verso una cucina biologica, possibilmente veg, e una pizza gourmet. Secondo il sondaggio condotto sui propri utenti da TheFork, applicazione per la prenotazione online dei ristoranti che conta 12 milioni di visite al mese, il consumatore italiano nel 2017 spenderà come l’anno scorso, sarà più attento nella scelta, restando possibilmente fedele alla tradizione. Ma sarà sempre più digital.

Le previsioni per il 2017. Al ristorante sì, ma con parsimonia

Metà degli italiani intervistati prevede di andare al ristorante da 2 a 5 volte al mese, mentre il 15,5% pensa di consumare un pasto fuori casa e con servizio al tavolo ogni 30 giorni. Il 36% stima di spendere meno di 10 euro alla settimana per i pranzi al ristorante, mentre il 45% è un po' meno ottimista con una spesa prevista che va dai 10 ai 30 euro. Per le cene il budget si alza, ma di poco: il 78% degli interpellati è disposto a spendere nell’arco di una settimana dai 10 ai 50 euro. Quel che non cambia rispetto al 2016 è la spesa destinata al mangiar fuori casa, che quasi sempre coincide con un appuntamento romantico oppure un pasto in famiglia o tra amici. Il tempo delle “colazioni” aziendali sembra ormai tramontato.

La scelta del ristorante

I criteri più significativi nella scelta del ristorante saranno la presenza di promozioni, le recensioni online, la prenotazione online (trattandosi di utenti TheFork non poteva essere altrimenti) e la trasparenza, ovvero la pubblicazione dei menu e dei prezzi in carta sul web. Per quasi la metà degli intervistati i giudizi di critica e guide gastronomiche restano molto influenti. Al contrario di quanto ci saremmo aspettati, non influisce la possibilità di pagamento mobile. Ne risulta un utente che si documenta sempre di più su piatti, prezzi, offerta gastronomica e giudizi, di esperti e non, prima di decidere dove mangiare. Quanto a tipologia di ristoranti, la pizzeria rimane la meta gastronomica preferita del pubblico italiano, seguita dai ristoranti di pesce, di carne e di specialità regionali. Tra le cucine etniche, sono sul gradino più alto del podio il sushi e in generale la cucina asiatica.

I dati 2016 nel mondo

Ma TheFork, padrone di notevoli big data, ha analizzato anche l’andamento dei suoi principali mercati nel 2016: Francia, Spagna, Italia, Olanda, Svizzera, Portogallo, Belgio, Danimarca, Svezia e Turchia. In questi Paesi resta il sabato la giornata dedicata al ristorante, con l'unica eccezione della Svizzera dove si va a mangiare fuori di venerdì. Il servizio più prenotato è sempre la cena: in Italia si concentra soprattutto dalle 21 alle 22 e riguarda oltre l’86% delle prenotazioni. Solo gli spagnoli amano andare a mangiare fuori sia a pranzo sia a cena (il 55% delle prenotazioni è per la cena, il restante 45% per il pranzo). Ma quanto si è disposti a spendere? Il prezzo medio per coperto durante l’anno è stato di circa 30 euro, una media di poco inferiore quella italiana con 27,86 euro. Quanto alle cucine più prenotate, quella italiana si conferma tra le più apprezzate al mondo posizionandosi nella top 3 in Francia, Olanda, Svizzera, Svezia e Danimarca. Gli italiani invece preferiscono la mediterranea, la toscana e la cucina di pesce. La prenotazione online del ristorante, soprattutto dai dispositivi mobili, si conferma uno strumento sempre più diffuso tra gli utenti. E Italia e Portogallo sono i paesi europei più dinamici in tal senso con tassi di crescita che superano i 400 punti percentuali (c'è da dire che in Italia si partiva proprio da zero!). È interessante notare che solo il 28% degli utenti italiani di TheFork prenota esclusivamente ristoranti in promozione a dimostrazione di un’abitudine di consumo che prescinde dai prezzi dell’offerta.

I trend gastronomici nel mondo

Dalla rete e dalle ricerche di settore emergono altre tendenze food, più o meno originali. Secondo Mintel, azienda che si occupa di ricerche di mercato,“ci sarà più spazio per novità veggie, con un impatto salutista, visto che nell'ultimo anno è cresciuta molto l'idea di benessere”. Che si traduce in piatti veg e biologici nel senso più ampio del termine: saranno sempre di più i ristoranti che sceglieranno ingredienti prodotti in modo etico. Segue la stessa filosofia un'altra tendenza, quella di una cucina basata su scarti e avanzi di cibo. Da non confondere con la cucina circolare del grande Igles Corelli, che va ben oltre questo approccio. Secondo il rapporto sui trend culinari dell'agenzia pubblicitaria Sterling Rice Group i drink e i cocktail analcolici troveranno sempre più spazio sulle carte dei ristoranti. Un altro trend (non proprio una novità, a essere sinceri) segnalato dall'agenzia di consulenza Baum+Whiteman è quello delle macellerie con ristorante. Invece tra le tendenze individuate dai food blogger si segnalano i ristoranti che valorizzano i tagli meno nobili degli animali, come trippa, lingua, midollo, lattume, e un prodotto che arriva direttamente dall'Australia: i freakshakes, ovvero dei frullati giganti composti da gelato, ciambelle, torte, sciroppi, biscotti, crema, cioccolato, topping e dolcetti. Decisamente belli da fotografare - e infatti sembrano pensati per la generazione millennial - , ma da gustare? Si vedrà.

 

 

 

 

A Torino Peyrano chiude la pasticceria e si concentra sul laboratorio del cioccolato. Ma la storia continua

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In attività dal 1962, il celebre negozio Peyrano-Pfatisch di Corso Vittorio Emanuele chiude per far fronte ai tempi che cambiano: affitto troppo alto e incassi in calo. Nel futuro del marchio centenario il cioccolato prodotto nel laboratorio di Corso Moncalieri, dai gianduiotti per Casa Savoia alle ultime creazioni. 

Peyrano. Cent'anni di storia e le ultime difficoltà

Un ritorno alle origini. Di una “presa di posizione strategica a ragionata” parla chiaramente Bruna Giorgio in Peyrano quando le si chiede che ne sarà ora della storica azienda – in attività da oltre cent'anni – che  gestisce insieme al marito Giorgio, erede di uno dei marchi d'eccellenza della tradizione cioccolatiera piemontese. Non di chiusura repentina quindi, né di avvisaglie pericolose che portano subito alla memoria gli ultimi trascorsi burrascosi del marchio, nel 2010, quando la cattiva gestione di altri portò alla dichiarazione di fallimento per bancarotta. Allora Giorgio e Bruna avevano saputo riprendere in mano le redini di un'attività troppo preziosa per essere lasciata in balia delle cronache giudiziarie. Con l'obiettivo di riportare il cioccolato di Peyrano, il laboratorio fondato nel cuore di Torino da Antonio Peyrano nel 1915, tra i brand del made in Italy che conta. Del valore di una produzione artigianale che perpetra la tradizione di famiglia con precisione e costanza avevamo parlato proprio con i diretti interessati poco più di un anno fa, per celebrare il centenario del marchio. E così passavamo in rassegna i prodotti storici e le nuove creazioni a firma Peyrano, dai mitici After Eight con menta piperita allo zenzero candito ricoperto di cioccolato, dal classico gianduiotto Antica Formula al Sogno di Bruna, crema spalmabile alla gianduia che è simbolo dell'amore di una vita, quello che unisce Giorgio e Bruna. Al primo cioccolatino entrato in produzione, il mitico Alpino ripieno di liquore, dal 1935. Da qualche giorno però i riflettori sono tornati ad accendersi sulla proprietà per una vicenda ancora una volta meno lieta, finanche con un certo allarmismo che non fa bene alla verità. Peyrano non chiude, non come hanno scritto in tanti.

 

Addio Peyrano-Pfatisch. Chiude la pasticceria dei portici

Ad abbassare le saracinesche, in modo definitivo e “banalmente” per affitto troppo elevato, è il negozio di corso Vittorio Emanuele, al civico 76, Peyrano-Pfatisch; che non è l'insegna storica di corso Moncalieri, pronta a continuare l'attività meglio di prima grazie alla decisione di concentrare gli sforzi su un unico punto vendita. Perché gli anni passano, e al di là dell'aspetto economico, dividere tempo e risorse per due rischiava alla lunga di non rendere giustizia alla qualità del brand. A livello concreto la decisione si rifletterà su un ridimensionamento della produzione in termini di varietà dell'offerta: basta torte e pasticceria da banco (che i torinesi andavano a cercare nel negozio di corso Vittorio dal 1962, “negli domeniche degli anni Sessanta avevamo bisogno di due registratori di cassa” ricorda la signora Bruna sulla Stampa “la gente sempre in coda per i bignè”), per concentrarsi soprattutto sul cioccolato, “ciò che ci riesce meglio”. Anche perché, e in casa Peyrano non fanno fatica ad ammetterlo, i tempi non sono più quelli di una volta, e per “botteghe di questo tipo” c'è sempre meno spazio.

Il futuro del laboratorio e la proposta di Bunet

E mentre il laboratorio di corso Moncalieri continuerà a difendere il buon nome del cioccolato della Casa Reale, anche per i dipendenti del negozio che ha appena chiuso i battenti arriva una buona notizia, a firma Luigi Vadalà. L'imprenditore torinese è proprietario del bar-pasticceria Bunet di piazza Sabotino, e ora si dice disposto a ricollocare il personale licenziato presso la propria attività, in virtù dell'ammirazione che ha sempre nutrito nei confronti di un'insegna storica della città. Non solo per etica professionale e buon cuore però, ma pure – con abile mossa di marketing – per sopperire alla difficoltà di rintracciare manodopera di pasticceria qualificata, che possa supportare lo slancio di un'insegna relativamente giovane, aperta nel 2013 nel quartiere San Paolo. E chi meglio del personale che ha respirato l'aria di casa Peyrano, espressione della “torinesità” come poche altre insegne in città? La storia continua. Lunga vita ai cioccolatini del re.

Peyrano | Torino | corso Moncalieri, 47 | www.ilgiustodelcioccolato.it

 

a cura di Livia Montagnoli

I primi congressi gastronomici del 2017. Care's, Meet in Cucina Abruzzo, LSDM Milano. Aspettando Identità Golose

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L'anno dei congressi gastronomici in Italia si apre con l'appuntamento tra le montagne dell'Alta Badia e gli chef etici di Care's. Poi, il 30 gennaio sarà la volta dell'orgoglio abruzzese, con i cuochi d'Abruzzo riuniti a Chieti per Meet in Cucina; mentre il 1 febbraio la Campania va in trasferta a Milano, per la prima tappa di LSDM. 

Gli chef etici di Care's

Il 2017 è appena cominciato, ma il calendario gastronomico già si fa notare per la varietà e la frequenza degli incontri che riuniranno gli addetti ai lavori per discutere del presente, e del futuro, del settore. E mentre a Madrid è tutto pronto per l'apertura della XV edizione del congresso Madrid Fusion (dal 23 al 25 gennaio, qui il programma), l'Italia risponde con un'infilata di appuntamenti che accenderanno i riflettori sul lavoro degli chef, degli artigiani e dei produttori che non si limitano  a fare bene tra le mura di una cucina, ma sperano di contribuire fattivamente alla riflessione sul ruolo del settore enogastronomico. A cominciare dai protagonisti di Care's, 30 chef da cinque continenti e 16 nazioni che hanno risposto alla chiamata di Norbert Niederkofler e Paolo Ferretti. La seconda edizione del congresso dedicato all'etica e alla sostenibilità – che ai momenti di confronto alterna lezioni di cucina e cene a più mani di grande valore gastronomico – si protrarrà dal 22 al 25 gennaio tra le montagne altoatesine dell'Alta Badia, in attesa di ritrovarsi a Salina nel mese di giugno per il primo appuntamento estivo della serie. Su ospiti, finalità e calendario degli appuntamenti in programma ci siamo già occupati un paio di mesi fa, a seguito della presentazione milanese dell'edizione 2017.

 

Meet in  Cucina Abruzzo. Con Crippa e Colagreco

Qualche giorno dopo, nel Centro Italia tristemente sotto la lente delle cronache di questi giorni di neve e terremoti, si tornerà a celebrare l'esperienza dei cuochi d'Abruzzo. Anzi, le esperienze al plurale, quelle degli ospiti della terza edizione di Meet in Cucina Abruzzo, che il 30 gennaio riunisce a Chieti gli alfieri della cucina d'autore regionale e diversi protagonisti del panorama della ristorazione nazionale e internazionale, per un'intensa giornata di lavori che si protrarrà dalle 9 della mattina al tardo pomeriggio. L'appuntamento è presso la Camera di Commercio della cittadina abruzzese, con l'idea di condividere buone idee e buone pratiche con i relatori che si avvicenderanno sul palco: Daniele D'Alberto, Gianni Dezio, Cinzia Mancini, Peppino, Angela e Arcangelo Tinari, Marcello, Bruna e Mattia Spadone e il più celebre degli chef d'Abruzzo, Niko Romito. Ospiti oltreconfine Enrico Crippa e il suo sous chef abruzzese Antonio Zaccardi e Mauro Colagreco con Luca Mattioli chef de partie del Mirazur in arrivo da Francavilla al Mare). La platea attesa è quella degli operatori del settore, per sostenere il miglioramento della proposta gastronomica e dell'accoglienza regionale attraverso il trasferimento delle conoscenze e delle esperienze tra cuochi che operano sul territorio. Con l'idea di esportare il modello, così come l'ha ideato l'organizzatore Massimo Di Cintio, in altre regioni del Centro Italia.

LSDM Milano. Pizza e Campania d'amare

E a proposito di valorizzazione dei prodotti regionali e dell'agroalimentare italiano, risalendo la Penisola il 1 febbraio ci si ritroverà a Milano, per il primo appuntamento del 2017 con LSDM. L'occasione è ghiotta e si sdoppierà tra il Lentini's Pizza&Restaurant di Brera (nel corso del pomeriggio, dalle 14 alle 18.30) e il Baglioni Carlton Hotel di via Senato, dalle 20 in poi per la cena (su invito) Campania d'amare con gli ambasciatori della tradizione campana: Pasquale e Gaetano Torrente con i loro fritti, Giovanni Sorrentino e i suoi mezzanelli allardiati, il babà di Agostino Iacobucci con il gelato al latte di bufala di Enrico Rizzi. Il pomeriggio (solo previo accredito, per addetti ai lavori) al Lentini's, invece, sarà dedicato alla regina della gastronomia partenopea, la pizza napoletana. In compagnia dei pizzaioli Gino Sorbillo (che Milano la sta conquistando un'apertura dopo l'altra, ultima, in ordine di tempo, Olio a Crudo), Cristian Brescia, Ciro Oliva e Francesco Martucci. In attesa di ritrovarsi ancora una volta a Milano, un mese dopo, per Identità Golose 2017, in scena dal 4 al 6 marzo al Mi.Co. sul tema del Viaggio, ulteriore declinazione de La forza della libertà. Ma avremo modo di parlarne nel dettaglio.

 

Care's | Alta Badia | dal 22 al 25 gennaio | www.care-s.it

Meet in Cucina Abruzzo | Chieti | il 30 gennaio | www.meetincucina.it

LSDM Milano | Milano | il 1 febbraio | www.lsdm.it

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Il gelato crudista. Cos'è, che senso ha, cosa ne pensano i gelatieri

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Il gelato crudista rappresenta un'alternativa per allergici o intolleranti, dato che esclude l'uso di alcuni ingredienti. Ma che cos'è? Lo abbiamo chiesto ai patron di Grezzo, valida pasticceria crudista a Roma.   

Raw: è il diktat di chi solitamente pratica uno stile di vita sano e naturale, che si basa su precise indicazioni riguardo la temperatura con cui vengono preparati gli alimenti sotto i 42°C. Non parliamo solo di pesce, carne, frutta o verdura, o altre materie prime: nell'alimentazione crudista entrano in campo molti altri prodotti elaborati, come il cioccolato o il gelato. Del primo vi abbiamo parlato qui. Ora tocca al dolce freddo per eccellenza, al quale abbiamo dedicato un'inedita guida: Gelatieri e Gelaterie d'Italia del Gambero Rosso, che verrà presentata a Sigep di Rimini lunedì 23 gennaio.

Crudo vs cotto. Il parere della nutrizionista

Senza entrare nel merito delle origini di questa dieta, abbiamo voluto chiedere alla nutrizionista Sara Farnetti quali sono i vantaggi, se ce ne sono, della dieta crudista: “Partiamo dal presupposto che qualsiasi metodo assolutista è sbagliato per il nostro corpo” ci ha risposto, spiegando che “noi siamo onnivori in tutti i sensi, quindi il nostro organismo ha bisogno di tutto. Detto questo è vero che alcune verdure sono più funzionali se mangiate crude, perché con la cottura perdono molte sostanze, tra cui le vitamine”. Un esempio? “I cavolfiori crudi sono ricchissimi di calcio, le mandorle e in generale la frutta secca hanno un effetto positivo sull'espressione genica (ndr: gli alimenti possono influenzare l’espressione dei geni cioè il modo in cui l’informazione contenuta nel DNA viene trasformata in in una macromolecola funzionale, tipicamente una proteina, che esercita un’azione biologica)oltre ad essere funzionali anche a livello ormonale perché stabilizzano l'insulina. Tutto questo se le si mangia crude, né cotte né tostate”.

Ma è altrettanto vero che alcune verdure è preferibile mangiarle cotte, come le carote: “I carotenoidi, che sono liposolubili, si assorbono meglio quando le carote sono cotte, ancor meglio se cucinate con olio, che diventa conduttore e ne facilita l'assorbimento”. In poche parole il miglior modo di mangiare le carote è farle a rondelle, così la maggior parte della superficie è a contatto con l'olio, su una pentola tipo wok. Così sono più funzionali, sia rispetto alle carote crude che bollite, “se le si prepara bollite, tutti i carotenoidi vengono persi nell'acqua”. Come uscire da questo ginepraio? “Imparando a utilizzare al meglio ciascun alimento, sapendolo associare e cucinare per renderlo funzionale”.

Le proprietà nutrizionali del gelato crudista

Ritornando al gelato crudista, gli aspetti positivi sono principalmente da individuarsi non in evidenti vantaggi nutrizionali rispetto al tradizionale, ma nella valida alternativa che rappresenta per allergici o intolleranti che non vogliono rinunciare al gelato. “Parlare di gelato crudista in generale non ha molto senso, lo ha solo per un discorso di allergie dato che non utilizza né latte né uova. Bisognerebbe analizzare ciascun gusto: prendendo per esempio il cioccolato, quello crudo è ricco di polifenoli ma in realtà lo è anche il cioccolato fatto con fave di cacao appena tostate. In questo caso, la differenza la fa la qualità dell'impasto usato per confezionare la barretta di cioccolato, che solitamente se crudo dà meno adito a sofisticazioni alimentari”. Ma come viene realizzato il gelato crudista?

Gelato crudista vs gelato tradizionale. La lavorazione

Prima però, un breve ripasso sul gelato tradizionale. Dopo la selezione delle materie prime, il dosaggio e la miscelazione degli ingredienti, la preparazione del gelato artigianale tradizionale non può prescindere dalla pastorizzazione (alla quale seguono l'omogeneizzazione, la maturazione e la mantecazione). Già qui troviamo la principale differenza con il gelato crudista, che proprio perché “crudista” può ricevere un trattamento termico con una temperatura massima di 42°C.

Come fare a meno della pastorizzazione, una delle fasi più delicate nella realizzazione artigianale del gelato, dato che il suo scopo è di diminuire il numero di batteri presenti normalmente nella miscela? Rispondono Nicola Salvi Vito Cortese, della pasticceria Grezzo: “La sfida è proprio quella di creare un prodotto dolce, buono e allo stesso tempo nutriente in modo sano. Il processo produttivo è stato semplificato al massimo: si frullano gli ingredienti e poi si mettono nella macchina del gelato. Tutto qui. Il risultato è frutto dell’equilibrio della ricetta e del nostro obiettivo di lavorare il meno possibile gli ingredienti, soprattutto come messaggio culturale in quest’epoca in cui il cibo viene maltrattato”. Nessun problema da parte dell'Asl? “Fortunatamente gli ingredienti che utilizziamo non sono fonte di preoccupazione per le autorità, quindi non abbiamo incontrato ostacoli particolari. All’inizio è stato difficile spiegare agli addetti al settore come riuscivamo a fare il nostro gelato, nessuno voleva crederci! Anche la macchina del gelato è stata appositamente programmata per venire incontro alle nostre esigenze”.

Gli ingredienti

Passiamo poi agli ingredienti basilari del gelato tradizionale, ovvero zucchero e latte: il primo non è ammesso nella dieta crudista – i cui principi sono: usare materie prime di origini vegetali, nello stato integrale, biologiche e lavorate sempre al di sotto dei 42°, temperature limite per la vita vegetale sul pianeta - e il secondo non può essere utilizzato dai gelatieri crudisti in quanto, per legge, anche se il latte crudo è ammesso, è obbligatoriamente da pastorizzare. Stesso discorso per le uova: si possono usare fresche ma solo dopo la pastorizzazione.

Di conseguenza il gelato crudo è necessariamente senza latte e senza uova. Che cosa rimane?“La base che compone ogni gusto è realizzata con latte vegetale autoprodotto, come ad esempio il latte di mandorla preparato in laboratorio a partire da mandorle biologiche siciliane. Il procedimento prevede passaggi molto semplici: mandorle in ammollo, frullatura e filtraggio. Il latte così ottenuto non viene pastorizzato bensì utilizzato entro 24 per la preparazione del gelato. Allo stesso modo prepariamo il latte di nocciole e di pistacchio”. Il latte vaccino però aggiunge al gelato il lattosio e i grassi fondamentali per la cremosità della miscela, voi la cremosità come la ottenete? “Alla base del latte vegetale si aggiungono anacardi e cocco”.

Al posto dello zucchero invece? “Si usa quello derivato naturalmente dal cocco a basso indice glicemico, in quanto contiene l'inulina che ne rallenta l'assorbimento, quindi adatto anche ai diabetici”. Poi ci sono gli altri ingredienti, tutti di origine vegetale e biologici. “Uno degli ingredienti principali è il cacao crudo della varietà Criollo, derivato da fave non tostate, bensì esclusivamente essiccate al sole, particolarmente ricco di anti-ossidanti e magnesio. Il particolare equilibrio della ricetta, frutto di oltre due anni di ricerca, non prevede l’utilizzo di ulteriori ingredienti semilavorati o di derivazione chimica”.

Il parere di due grandi gelatieri tradizionali

Simone Bonini - Carapina: “Il gelato si presta a molte preparazione, ma secondo me bisognerebbe andare per gradi, cercando prima di tutto di far conoscere il gelato tradizionale e artigianale per davvero, dato che la grande massa mangia ancora quello industriale. Poi a mio avviso bisognerebbe concentrarsi di più sul contenuto e non tanto sul contenitore...insomma magari il gelato crudista è l'idea del secolo ma io devo ancora capirlo, per ora è solo questione di marketing.

Alberto Marchetti: “Il gelato è fatto con latte, zucchero, panna e frutta per i sorbetti. Per me è semplicemente impensabile togliere il latte”.

 

Grezzo | Roma | via Urbana, 130 | tel. 06 483443 | www.grezzoitalia.it

Carapina | Firenze | Piazza G. Oberdan, 2r | tel. 055 676930 | www.carapina.it

Carapina | Firenze | via Lambertesca, 18r | tel. 055 291128

Carapina | Roma | via dei Chiavari, 37 | tel. 06 6893843

Alberto Marchetti | Torino | Corso Vittorio Emanuele II, 24bis | tel. 011 8390879 | www.albertomarchetti.it

Alberto Marchetti | Torino | via Po, 35bis | tel. 011 8141160

 

a cura di Annalisa Zordan

 

La Campania in 9 biscotti tradizionali

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Eccoci alla terza tappa del nostro viaggio alla scoperta dei biscotti regionali. Oggi è la volta della Campania, con 9 tipi di biscotti tradizionali tutti da scoprire e sperimentare.

Affocagatte

Iniziamo con dei biscotti veri e propri, inteso in senso letterale, ovvero cotti due volte. Gli affocagatte sono fra i più antichi della tradizione campana: una ricetta molto simile a quella attuale, che i latini chiamavano panis biscotus, era già diffusa già nel X secolo a.C. Il nome deriva da affucà, termine che in napoletano vuol dire “soffocare”, usato dai pescatori per indicare i pesciolini più piccoli che, impossibili da vendere, venivano elargiti ai gatti.

L’impasto prevede farina, uova, zucchero e un pizzico di bicarbonato con cui si realizzano delle ciambelline che vengono lessate per qualche minuto in acqua bollente e, una volta affiorate, si incidono leggermente con la punta del coltello, seguendo la forma del biscotto. Dopo averle infornate si cospargono con la glassa, tradizionalmente fatta con il miele, oggi sostituito dallo zucchero.

 

Biscotto all’amarena

Se vi trovate a Napoli, entrando in un qualsiasi bar o pasticceria, non potrete non notare i biscotti all’amarena. Questi dolci sono infatti una presenza costante nei banconi e nelle vetrine dei locali partenopei, simbolo di una storica arte del riciclo dei pasticceri napoletani. I biscotti all’amarena sono nati proprio per evitare di buttare rimasugli di pasta o dolci imperfetti che non venivano messi in vendita: un po’ di ritagli di pan di Spagna, la pasta frolla in eccesso, un dolcetto avanzato dal giorno prima. Il tutto amalgamato con l’amarena sciroppata e il cacao. Oggi la ricetta è più codificata e prevede per l’impasto farina, burro, zucchero, uova, scorza di limone grattugiata e un pizzico di sale. Il ripieno è fatto con pan di Spagna, confettura di amarene, cacao e rum (o alchermes). Infine, la decorazione a strisce perpendicolari che rende i biscotti all’amarena così caratteristici, è fatta con albume d’uovo, zucchero a velo e un altro po’ di confettura di amarene.

 

Biscotti all'amarenaBiscotti all'amarena

 

Biscotto di Castellammare

 

Inutile dire da dove vengano questi dolcetti: sono stati creati a Castellammare di Stabia, cittadina dalla vista mozzafiato al confine fra la zona vesuviana e l'inizio della Penisola Sorrentina. Furono i fratelli Giovanni e Francesco Riccardi che, nel 1848, misero a punto la ricetta di questi biscotti, già da tempo diffusi in zona. Intorno a questi dolcetti c’è però un alone di mistero: pare che Donna Concetta, figlia di Francesco Ricciardi e ultima erede della ricetta originale, morì avvelenata proprio perché si era rifiutata di vendere la formula dei biscotti. Per fortuna, prima di morire, la pasticcera aveva confidato al nipote Mariano ingredienti, tempi e dosi, così da poter continuare la tradizione di famiglia. Naturalmente, questi sono racconti da prendere con le molle: è probabile però che questa storia abbia contribuito ad aumentare la fama dei biscotti. Per la ricetta si utilizzano farina 00, burro (tradizionalmente quello di Agerola), lievito, acqua, zucchero e vanillina.

 

Biscotti di Castellammare

Biscotti di Castellammare

 

Morselletti cilentani

Prodotti soprattutto nel comune di Castellabate, i morselletti o muzellettisono chiamati anche viscuotti ccu ‘i mènule (biscotti con le mandorle). Una volta preparati in occasioni importanti come i matrimoni, sono diventati i tipici biscotti da prima colazione. Il nome potrebbe derivare dal francesemorceau, ossia boccone, ma potrebbe anche essere legato a “morzare”, cioè tagliare il biscotto dal filone intero già cotto. Si preparano con farina, zucchero, strutto (o burro nelle versioni moderne), uova, latte, mandorle, ammoniaca e un pizzico di sale. Ne esiste anche una variante al miele, prodotto che abbonda nell’area cilentana: in questo caso sostituisce le mandorle, donando al biscotto un sapore più delicato.

 

Morselletti cilentaniMorselletti cilentani

 

Mustacciuoli

Pochi dolci in Italia hanno avuto una diffusione trasversale come i mustacciuoli, o mostaccioli, biscotti diffusi in Sicilia, Puglia, Calabria, Sardegna, Lazio, Campania, Abruzzo e Lombardia. Ogni regione ha le sue varianti e i mustacciuoli partenopei, dalla tradizionale forma a rombo e ricoperti di glassa al cioccolato, sono forse i più famosi. L’origine dei biscotti è incerta, ma le prime tracce di un antenato di questi biscotti si trovano già nel “De Agricoltura” di Catone. La ricetta nei secoli è cambiata e così anche l’ingrediente principale, il mosto, è stato sostituito, almeno nella versione campana.

Ne esistono numerose varianti, ma noi ci rifacciamo alla versione del pasticcere Antonio Castaldo, presidente dell’Associazione pasticceri napoletani. Questa versione prevede farina, zucchero, miele, marmellata di albicocche, cacao, vino moscato, mandorle tritate, acqua, bicarbonato, buccia d’arancia, cioccolato per la glassa e il pisto, un mix di spezie già pronte all’uso (con cannella, noce moscata, chiodi di garofano e coriandolo) che si trova in tutte le botteghe di Napoli, oppure si può comprare on line. 

 

Mostacciuoli napoletaniMostacciuoli napoletani

 

Raffiuoli

A metà fra un biscotto e un dolce, il raffiuolo richiama un primo piatto tipico del nord Italia, i ravioli. Le monache benedettine del Convento di San Gregorio Armeno si ispirarono infatti ai ravioli ripieni per creare una versione dolce per Natale. Ci sono due varianti della ricetta, quella tradizionale e quella alla cassata. La prima vuole farina, zucchero, uova, buccia di limone grattugiata e confettura di albicocche. I dolcetti cotti vengono ricoperti prima con la glassa e poi con un velo di marmellata. In alcune versioni della ricetta tradizionale è contemplata anche una parte di pasta reale, da mischiare alla glassa con cui ricoprire il dolce.

La variante alla cassata aggiunge ricotta di pecora e cedro, lasciando da parte la marmellata. Dopo aver cotto i raffiuoli seguendo la ricetta tradizionale, un una terrina si amalgamano ricotta di pecora, zucchero, cannella e gocce di cioccolato fondente. Con questo composto si ricoprono i raffiuoli fino a formare una sorta di cupolina, sulla quale si mette una striscia di cedro candito. Infine, altra glassa bianca viene versata a filo sopra i biscotti che, prima di essere serviti, devono essere raffreddati fino alla completa solidificazione della copertura.

 

RaffiuoliRaffiuoli

 

Roccocò

Come molti altri biscotti della tradizione campana e italiana, la ricetta dei roccocò è legata a un convento, il Real Convento della Maddalena. Fu qui che nel 1320 si mise per iscritto per la prima volta la ricetta di questi biscotti dall’aroma inconfondibile. Il nome roccocò deriva dal termine franceserocaillee sottolinea la forma, un po’ barocca, del dolce, simile a una conchiglia arrotondata. Ritorna in questa ricetta - come più avanti nei susamielli- il pisto, il mix di spezie tipico dei dolci napoletani. La versione originale prevede un impasto fatto con mandorle, farina, zucchero, canditi e pisto. Tradizionalmente si preparano in grandi quantità in occasione della Madonna dell’Immacolata, l’8 dicembre: è usanza dei campani mangiarli a fine pasto durante tutto il periodo natalizio ammorbiditi nel vino, nel vermouth o nel marsala.

 

RoccocòRoccocò

Susamielli o biscotti sapienza

Di dolci a forma di S ne esistono molti in Italia: ma chiedendo a un campano quali siano, risponderà inevitabilmente i susamielli. Tipici del Natale, pare derivino dai biscotti greci con miele e sesamo preparati in onore delle dee Demetra e Core. In Campania sono conosciuti anche con il nome di biscotti sapienzao sapienzeperché, nel ‘600, le suore Clarisse del Convento di Santa Maria della Sapienza erano specializzate nella preparazione di questi dolci.

Nella tradizione campana esistono 3 diverse varianti: i susamielli dello zampognaro, con farina grezza e impasti residui di altre preparazioni, destinati in origine appunto agli zampognari; isusamielli del buon cammino, con un ripieno di marmellata di amarene, preparati per preti, frati e pellegrini; i susamielli nobili, più pregiati e destinati alle famiglie più in vista. Ci rifacciamo proprio a quest’ultima versione, fissata nel 1788 dal cuoco e letterato Vincenzo Corrado, che prevede farina, miele, mandorle, zucchero, frutta candita, ammoniaca e anche qui, come per mustacciuoli e roccocò, il pisto.

 

SusamielliSusamielli

Taralli dolci di Pasqua

Un altro biscotto che nasce dal reimpiego dei rimasugli della pasta frolla e di altre preparazioni di pasticceria, un tempo prodotti sono nel periodo pasquale, ma oggi reperibili in tutti i periodi dell’anno e utilizzati soprattutto come biscotti da prima colazione. Per farli servono farina, zucchero, strutto o la sugna di maiale - spesso sostituito con il burro - uova, liquore Strega, scorza di limone, ammoniaca.Nella zona di Napoli c’è una variante di questi biscotti dal gusto più deciso e intenso, che è una versione dolce dei classici taralli ‘nzogna e pepee prevede nell’impasto, oltre alla sugna o lo strutto (abbiamo spiegato la differenza nell’Abc della cucina campana), anche il pepe. Secondo la ricetta del pasticcere Raffaele Pignataro servono farina, acqua, mandorle (sia per l’impasto che per la decorazione), strutto, lievito di birra, zucchero, miele, pepe nero e un pizzico di sale.

 

 

a cura di Francesca Fiore

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Momofuku Las Vegas. David Chang apre nella capitale delle slot. E scommette sul pollo fritto con caviale

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Nella capitale del gioco d’azzardo l’arrivo di Chang è solo l’ultimo di una serie di investimenti che disegnano un nuovo profilo gourmet per Las Vegas. E Momofuku porta al Cosmopolitan un concept ben rodato che sta conquistando l’America, in attesa dell’apertura al Pier 17 di New York. 

Las Vegas gourmet

Casino, slot machine e luci al neon che illuminano le notti dei giocatori d’azzardo, nel bel mezzo del deserto del Nevada. È così che Las Vegas si presenta agli occhi del mondo che l’ha eletta capitale dell’intrattenimento senza inibizioni, metropoli statunitense dell’eccesso e dello sfarzo allineato lungo la celeberrima Strip. Un luna park di alberghi extra lusso, centri commerciali, club e tavoli verdi assemblati per dimostrarsi all’altezza della fama che attira ogni giorno dell’anno un gran numero di americani e turisti stranieri. Oltre il luccichio di paillettes e lustrini, però, anche Las Vegas sta cambiando, ben disposta a riscoprirsi centro culturale e creativo, come vi raccontavamo qualche mese fa soffermandoci sulla nuova Las Vegas gastronomica, accattivante e sorprendete per varietà e qualità dell’offerta. Sono molti i grandi gruppi alberghieri che prestano il fianco alle ambizioni di chef di fama internazionale in cerca della dimensione ideale per cimentarsi con un side project di successo: al The Venetian Daniel Boulud ha aperto la sua brasserie, al resort Ariadel la premiata ditta Torrisi-Carbone-Zalaznick ha riadattato il format italiano che ha conquistato New York con Carbone. Ma ci sono anche l’Atelier di Joel Robuchon al The MGM, Pierre Gagnaire e il suo Twist al Mandarin Oriental, Guy Savoy al The Caesar Palace, dove più di recente ha aperto pure il colosso Mr Chow. Ed entro il 2018 il gruppo MGM porterà in città anche una rivisitazione de NoMad Restaurant di New York e un nuovo punto vendita di Eataly America all’interno del faraonico resort Park MGM in via di realizzazione.

David Chang a Las Vegas

Intanto nella capitale del Nevada è arrivato anche David Chang, con la prima apertura del gruppo Momofuku sulla West Coast (dopo New York, Washington, Sydney, Toronto), presso l’hotel The Cosmopolitan. Atteso a lungo e preceduto dall’inaugurazione del Milk Bar di Christina Tosi, Momofuku Las Vegas è stato progettato dalla Design Agency di Toronto per coniugare lo stile metropolitano di New York, dove il progetto è nato, con l’atmosfera frizzante di Las Vegas, tra luci al neon e murales che decorano le pareti della sala principale da 200 coperti (cui si aggiunge una saletta riservata con vista sulla Strip, ma si può anche cenare al banco apprezzando il lavoro che ferve nella cucina a vista), al secondo piano del celebre hotel con casino.

Momofuku. Presente e futuro

La cucina, invece, è un mix delle idee vincenti di casa Chang, affidata alle cure di Michael Chen, già attivo nel panorama gastronomico locale da molti anni. E il menu alterna specialità del noodle bar e panini col pollo fritto sdoganati da Fuku, invenzioni più raffinate del primo Momofuku e dessert in arrivo dall’adiacente Milk Bar. Ma anche zuppe orientali e uno speciale pollo fritto con caviale in omaggio allo sfarzo di Las Vegas. E così, mentre per la città delle roulette si profila un futuro sempre più gourmet, l’impero di David Chang cresce, confermandosi solido nonostante qualche piccolo inciampo, come il flop del fusion italo-coreano Nishi, che a New York non molti sembrano aver compreso. Eppure proprio nella Grande Mela Chang si appresta a intraprendere l’ennesimo progetto ambizioso: l’inaugurazione di un nuovo Momofuku nell’ambito del progetto di ristrutturazione del molo Pier 17, tra i cantieri più chiacchierati di New York.

 

Momofuku Las Vegas | Las Vegas Boulevard South | www.cosmopolitanlasvegas.com/restaurants/momofuku

 

a cura di Livia Montagnoli


Foodgraphia. A Milano la mostra che si ispira al cibo per raccontare un mondo di forme, colori e sensazioni

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Fino al 28 gennaio Palazzo del Senato ospiterà la rassegna dedicata alla food photography, che al cibo affida differenti suggestioni artistiche e sensoriali. Una riflessione grafica su colori, forme, linee e pensieri scaturiti dagli alimenti rappresentati. Con tanti nomi noti del settore a il collettivo ShootFood per Food Colors. 

Il cibo in mostra

Il cibo come soggetto della rappresentazione fotografica. In un mondo che sembra non poter più fare a meno di parlare, raccontare, immortalare, condividere esperienze gastronomiche fin quasi all'esasperazione, dove sta la novità? Nello spostamento del punto di vista, direbbero i curatori della mostra Foodgraphia, di scena a Palazzo Senato di Milano fino al 28 gennaio. E cioè nell'opportunità di smettere di guardare al cibo come oggetto devozionale, raccontandolo in fotografia semplicemente per quello che è, elemento di rappresentazione artistica come potrebbe essere un nudo d'accademia o una natura morta sotto il pennello di un pittore d'altri tempi, che dell'oggetto esalta colori, linee, forme, suggestioni. Ma non per questo svuotato del suo senso più profondo, e anzi svincolato da significati accessori, perché sia la sua forza espressiva a far scaturire la riflessione. Nulla di troppo filosofico, per carità, parliamo pur sempre di una mostra fotografica che dev'essere apprezzata con gli occhi, e i sensi: una collettiva dedicata alla Food Art & Photography che allinea scatti, illustrazioni, installazioni selezionate tramite bando pubblico nei mesi scorsi.

Alessandra Paraboschi, Mediterraneo

La rassegna. Linee, colori, forme, iperrealismo e sogni

Cibo onirico, iperrealistico, primordiale. E tecniche molto diverse per veicolare il messaggio. Organizzata da ShootFood (che riunisce molti fotografi del food italiani), Formapensiero e Starring, con la collaborazione di volti noti del settore come Maurizio Galimberti, fotografo di fama internazionale, la rassegna propone un percorso tra immagini concettuali, still life e variazioni sul tema frutto di una raffinata ricerca artistica, purché concentrate sulla rappresentazione del cibo. In mostra anche il contributo di grandi firme del settore, Maurizio Galimberti in primis (con il suo collage de La Vucciria), e poi Renato Marcialis (che deve la sua fama all'applicazione della luce caravaggesca nella food photography, presente con due opere della serie Caravaggio in Cucina), Giancarlo Maiocchi in arte Occhiomagico, Franco Losvizzero, Andrea Bertani; e, rassegna nella rassegna, il collettivo di ShootFood partecipa all'esposizione dello Spazio Paganini con il progetto Food Colors, esaltando – e lo rivela chiaramente il titolo – i colori degli alimenti, in un gioco (foto)grafico di contrasti e consonanze cromatiche: dieci artisti per dieci scatti che raccontano il senso del cibo attraverso il colore.

Tatiana Mura, Food Painting

Così si passa dalla Scorpacciata di nuvole di Tiziana Barbaro al Mai dire mais di Francesco Bellesia, dalle Forme (di frutta e ortaggi) di Andrea Bertani al Pesto di Claudio dell'Osa, al Pacchero solitario di Rodolfo Pompucci, ispirato all'Infinito di Leopardi. Il catalogo della mostra, acquistabile presso Palazzo del Senato, è disponibile anche online su Issuu.

Rodolfo Pompucci, Pacchero Solitario

Andrea De Simone, Po.Pa.Po.Ol.

Foodgraphia | Milano | Palazzo del Senato | dal 19 al 28 gennaio 2017 | www.shootfood.it/foodgraphia/il-progetto

Il catalogo della mostra su Issuu

 

a cura di Livia Montagnoli

Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventottesima tappa: Caffetin di Candelù

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Candelù, in provincia di Treviso, conta 1300 anime e una micro roastery con annessa caffetteria dove non si servono tè e altre bevande: solo grande caffè tostato in casa ed estratto in vari modi. Una bella sfida. È il Caffetin di Michele Carisi. E questa è la sua storia.

Ho iniziato a interessarmi di caffè circa 5 anni fa, e più approfondivo la materia, più me ne innamoravo”. Inizia così il percorso di formazione che ha portato Michele Carisi ad aprire, nel gennaio 2014, la sua torrefazione a Candelù, in provincia di Treviso. Fin da subito, Michele ha deciso di puntare tutto sui chicchi altamente selezionati, proponendo solo specialty. Insieme, abbiamo ripercorso la storia dell'attività, che compie tre anni proprio in questi giorni.

Come nasce l'attività?

La torrefazione (con annessa caffetteria) nasce da un'intuizione che ho avuto cinque anni fa. Ho sempre fatto il barman, lavorando molto di notte, con orari stressanti e mai fissi, e a un certo punto ho sentito l'esigenza di cambiare vita. E così ho pensato di approfondire il settore del caffè, un prodotto che da sempre amo e consumo.

E come è nato questo interesse?

Non saprei definire il momento esatto in cui è nata questa passione. Sono sempre stato un gran consumatore di caffè e un giorno ho iniziato a informarmi e cercare qualcosa in più. È stato allora che mi sono reso conto che in Italia mancava qualcosa, quella spinta in più verso la qualità che in un bar può fare la differenza.

E così hai cominciato a studiare.

Sì, mi piace essere preparato sugli argomenti che mi interessano. E col tempo mi sono reso conto che più approfondivo la materia, più me ne innamoravo.

Come hai imparato il mestiere del torrefattore?

Seguendo gli eventi, le fiere di settore e poi leggendo, guardando documentari e video. Ho trascorso una giornata con Gabriele Cortopassi (trainer SCAE per Espresso Academy di Firenze e una con Mariano Semino della scuola di formazione 9bar. Infine ho conosciuto Alberto Polojac, trainer Scae e responsabile acquisti per la Imperator di Trieste, azienda di importazione di caffè crudo, con il quale è nato un rapporto di amicizia e professionale. È da lui, infatti, che compro i caffè crudi ed è sempre lui il mio punto di riferimento quando ho bisogno di un aiuto.

Hai seguito anche dei corsi specifici di formazione?

Sì. Sono arrivato al livello professional per il roasting (tostatura), e poi al modulo intermediate per il sensory (assaggio), green (caffè crudo) e brewing (estrazione con metodo filtro). Mi ha insegnato tutto Alberto, tranne la parte del brewing che ho approfondito all'Umami (scuola di formazione di Scandicci) con Andrej Godina, trainer Scae e presidente Umami Area.

Che caffè utilizzi?

Compro solo specialty, da sempre. Ho tutti monorigini e poi un blend, che cambia a seconda delle singole origini che ho al momento.

Come sei riuscito a far accogliere dei caffè così particolari in un piccolo centro di provincia?

Non è stato affatto facile. La strada da fare è ancora lunga e io sono molto rigido nella selezione delle materie prime; non scendo a compromessi. Però sono anche un buon oste, è questo il mio punto di forza: faccio sempre provare più bevande ai miei clienti per incuriosirli e invogliarli a sperimentare aromi e gusti diversi.

Che cosa proponi nella tua caffetteria?

Il bar è aperto solo di mattina ed è focalizzato esclusivamente sul caffè: ho tutti i metodi di estrazione e non offro da mangiare, a parte qualche brioches e biscotto per la colazione. E poi niente tè o bevande diverse. È un format molto estremista, me ne rendo conto, ma alla lunga paga.

Quanto costa un espresso da te?

I prezzi variano in base al caffè scelto (e al metodo di estrazione); un espresso comunque non costa meno di 1,20 euro.

Vendi anche online?

Non ancora, ma voglio organizzarmi con un sito web al più presto.

Rifornisci qualche bar o ristorante?

Ho solamente un cliente, sempre in provincia di Treviso. Ho avuto altre proposte ma ho dovuto rifiutare.

Perché?

Avere degli specialty in un ristorante è impegnativo: non si tratta solamente di una questione economica, ma anche e soprattutto etica. Quello che intendo dire è che scegliere di proporre questi caffè implica un'attenzione e una ricerca per la qualità costante, che non tutti i locali purtroppo sono in grado di garantire.

Quanti siete in laboratorio?

Solamente io, che gestisco sia la caffetteria che la torrefazione.

Come fai a destreggiarti fra le varie attività?

È difficile, infatti sto cercando personale. Il caffè è un argomento particolare, ma per fortuna ci sono diversi giovani che si stanno iniziando a interessare sempre più a questo prodotto e spero di poter fare affidamento su qualche ragazzo al più presto.

Partecipi ancora agli eventi del settore?

Quando posso, sì. Le fiere sono fondamentali per aggiornarsi e confrontarsi con i colleghi.

Progetti per il futuro?

Tanti. Primo fra tutti, aprire un punto vendita in città, dove posso contare su una fetta di clientela più ampia e variegata. E poi viaggiare tanto e ricercare di continuo.

Caffettin | Candelù (TV) | via G. Verdi, 29 | www.facebook.com/caffettin/?fref=ts

a cura di Michela Becchi

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Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Quarta tappa: Caffè Piansa di Bagno a Ripoli clicca qui

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Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Diciottesima tappa: His Majesty the Coffee di Monza clicca qui

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Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventesima tappa: Manifattura Caffè di Verona clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventunesima tappa: Little Bean di Rivanazzano Terme clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventiduesima tappa: Caffè Verrè di Cellole clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventitreesima tappa: Coffeel di Ventimiglia clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventiquattresima tappa: Mondi Caffè di Roma clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Venticinquesima tappa: Loscuro di Sinalunga clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventiseiesima tappa: Nero Scuro di Bassano del Grappa clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventisettesima tappa: Bocchia Caffè di Avegno 

Il caffè: glossario essenziale per conoscere il caffè

 

Care’s 2017. Verso la prima giornata: la promozione del territorio secondo Norbert Niederkofler

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Fino al 25 gennaio, in Alta Badia, 30 chef in arrivo da tutto il mondo e tanti ospiti qualificati animeranno il dibattito della seconda edizione di Care’s. Si parla di etica, sostenibilità, territorio, benessere e futuro. I primi assaggi e le riflessione di Norbert Niederkofler, patron dell’evento. 

Care’s 2017. Si comincia

E siamo a due. In Alta Badia è tutto pronto per ricominciare a parlare di etica e sostenibilità, non solo in cucina, ma allargando lo sguardo a nuovi orizzonti, con il coinvolgimento di relatori in arrivo dal mondo dell’economia e della scienza, della medicina e dell’architettura. Perché dopo l’edizione pilota di un anno fa, ora a Care’s tutti sembrano più preparati ad affrontare il dibattito (qui il programma). E desiderosi di farlo, per dimostrare che la cucina può essere punto di incontro, stimolo per riflettere sul futuro che verrà, sulle esigenze del territorio e sulla necessità di fare sistema perché l’esempio di pochi (che pure proprio pochi non sono, considerando il nutrito parterre che animerà i prossimi 3 giorni: 30 grandi chef da tutto il mondo, senza considerare gli altri addetti ai lavori e tutte le personalità che saliranno sul palco della Ciasa de la Cultura di La Villa) possa diventare la pratica di molti. Stamattina si parte con il primo di due incontri, entrambi moderati dalla giornalista del Sole 24 Ore Fernanda Roggero: alimentazione e salute è il terreno su cui verterà il dibattito, che si apre a considerare l’influenza dei cambiamenti climatici, come possono impattare sulle scelte nutrizionali, come potrebbero distorcere e pesare sul concetto di stagionalità e sui cicli contadini.

Il valore del territorio. In cucina

Dietro c’è la volontà di riportare al centro il territorio, per una volta inteso non solo come terreno fertile che dispensa preziose materie prime, ma come sistema complesso che può alimentare il cambiamento per chi lo vive, e per chi arriva a visitarlo. Ha le idee chiare in merito Norbert Niederkofler, patron della manifestazione insieme a Paolo Ferretti, che di perseguire un comportamento etico, tra le sue montagne, non ha mai smesso, dimostrando che davvero la cucina può generare cambiamento. Come? Preoccupandosi di ciò che le sta intorno, e diventando veicolo di promozione del territorio: rivendicando cioè quella specificità che troppi sembrano abbandonare per seguire il miraggio delle tendenze gastronomiche: “Oggi molti inseguono la cucina fusion, tecniche e tradizioni in arrivo dall’Asia, per esempio. Ma se lavori in cucina con l’idea di raccontare qualcosa la strada più giusta bisogna trovarla in se stessi, nelle proprie tradizioni, nella cultura di un territorio che ha tutte le risposte per generare il rinnovamento”. In 20 anni di Rosa Alpina (Norbert ha festeggiato nel 2016 il suo ventennale alla guida del St. Hubertus di San Cassiano) la prospettiva è molto cambiata, e riscoprire i piatti del passato – 20, uno per ogni anno, a comporre un inedito menu storico – è stato un importante momento di riflessione: “Un tempo ragionavo sulla costruzione del piatto, consideravo inclinazioni del momento, ricordi, suggestioni, e poi cominciava la ricerca delle materie prime più giuste per realizzarlo. Oggi non può più essere così: si parte dall’ingrediente, dal prodotto del territorio, e l’idea si costruisce per valorizzarlo al meglio”. Il che, inevitabilmente in un territorio ostico come quello alpino, significa anche sviluppare una consapevolezza tecnica all’avanguardia, che pure è frutto di conoscenze pregresse, come gli stratagemmi per la conservazione dei cibi fuori stagione: fermentazioni e sapienza ereditata dalla cultura contadina locale.

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I primi assaggi

E il territorio entra prepotente negli assaggi della giornata inaugurale di Care’s, tra il pranzo di benvenuto alle Cantine Ferrari di Trento e la cena inaugurale all’hotel Sassongher di Corvara. La prima tappa, sulla strada per Care’s, è animata dalla cucina di Alfio Ghezzi, che per la famiglia Lunelli dirige la Locanda Margon: salmerino, lumache di terra allevate a mille metri, polenta, la pasta di Felicetti, le carote della Val Rendena… I prodotti parlano del territorio, e in questo gioco della memoria è il tonno all’olio a ricoprire il ruolo dell’ingrediente esotico, ricordo d’infanzia dello chef. Ma l’orgoglio di questa regione d’Italia (che in realtà sono due in una, il Trentino e l’Alto Adige) così ricca di storia, brilla nuovamente all’ora di cena, con le proposte degli chef in arrivo da Bolzano e Cortina: un percorso tra postazioni che profumano di formaggio di malga e funghi, radici e cipolle. Gli chef di casa – Sergio Mei e Daniele Alfio Sanna– propongono una Royal di cavolfiore con ricotta affumicata, agrumi e consommé di cipolle al gin; convincono pure l’entree di Manuel Astuto, del Park Hotel Laurin di Bolzano, con Topinanbur, stoccafisso e crema di funghi, e il panino al formaggio di El Brite de Larieto. Tra le portate principali l’Anatra, tamarindo e brodo di patate arrosto di Oliver Piras (Aga), i Tortellini in assoluto di radici con radicchiodi Mattia Baroni (Castel Flavon), gli Gnocchi di patate ripieni di baccalà con cantarelli e polvere di capperidi Graziano Prest (Tivoli). Una cena di apertura che è anche una festa, perché tutti siano parte di una stessa famiglia, come ribadiscono a più riprese gli organizzatori.

Guardando al futuro. Premesse e obiettivi

Ma banchetti, musica ed escursioni verso i rifugi alpini non vogliono restare fini a se stessi. L’urgenza di cambiare c’è, Norbert – che pure oggi gode di un apprezzamento trasversale – sa che la strada è ancora lunga, e il sistema enogastronomico deve farsi traino della riscoperta del territorio, coadiuvato però dagli strumenti della burocrazia e della politica. Sul piatto c’è la richiesta di agevolazioni per i piccoli produttori (“solo così si evita lo spopolamento delle nostre terre; qui da noi abbiamo il dovere di tutelare la cultura dei masi, ma altrove non è diverso il principio”), ma anche l’educazione alimentare, “a partire dagli asili”). E più concretamente la capacità di generare benessere attraverso una corretta promozione del territorio. In Italia - “dove in pochi ci conoscono, molti neanche sanno dov’è l’Alta Badia”- come all’estero. Queste le premesse, agli chef e agli ospiti di Care’s 2017 il compito di spostare l’orizzonte un po’ più in là. Si comincia.

 

Care’s | Alta Badia | dal 22 al 25 gennaio | www.care-s.it

 

 

a cura di Livia Montagnoli

Traslochi e addii. Il 2017 degli chef con le prime sorprese dell’anno: da Gorini a Ribaldone, da Gritti a Rambaldi

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Si respira aria di novità nel panorama della ristorazione italiana che conta, con qualche colpo di scena e progetti ambiziosi per il futuro. Gorini dice addio a Le Giare, Giuseppe Rambaldi al Combal.0 di Scabin. E Ribaldone lascia I Due Buoi. Ma ci sono anche i nuovi progetti di Fanella, Sabatelli e Gritti. Ricapitoliamo.

Gorini ci prova da solo

Se sono tante le novità in vista per il 2017 gastronomico dell’Italia (e di Roma, in particolare, abbiamo fatto il punto qui), i movimenti che si susseguono nel mondo dell’alta ristorazione in questo inizio d’anno invitano alla prudenza (chi sarà il prossimo?) e suscitano al contempo grande curiosità. Sì, perché non sono pochi i colpi di scena annunciati nelle ultime settimane. Riassumiamo i più significativi. A cominciare dalla fine del sodalizio tra il giovane Gianluca Gorini e il patron de Le Giare Claudio Amadori: la fine di un percorso all’unisono che si è protratto per quattro anni accendendo i riflettori sull’insegna di Montiano, nella campagna romagnola, è stata anticipata da Identità Golose, che in realtà ha registrato un dato acclarato, dal momento che l’esperienza di Gorini si era conclusa già all’inizio di gennaio, senza fare clamore. E infatti per Le Giare ora si profila un periodo di riposo prima di intraprendere nuovamente il cammino nel mondo della ristorazione che conta, facendo affidamento sulla lungimiranza di patron Amadori e sulla qualità della cucina. D’altro canto, per Gianluca Gorini si preannunciano “nuove esperienze e nuovi progetti”: “Vorrei avvicinarmi maggiormente al territorio e al prodotto” ha confermato a Identità.

 

Ribaldone lascia I Due Buoi, Rambaldi la cucina di Scabin

Come lui, in Piemonte, c’è un altro chef che dice addio alla sua cucina: Andrea Ribaldone lascia I Due buoi, il ristorante di Alessandria che proprio lui aveva ideato nel 2014 appoggiandosi alla società Red, da cui negli ultimi giorni ha annunciato la separazione (e lo segue tutto il suo staff, compreso il socio Salvatore Iandolino). Nel frattempo, nel 2015, era arrivata la prima stella Michelin, che fino a oggi ha illuminato il percorso dell’insegna ospitata all’interno dello storico hotel Alli Due Buoi Rossi, nella cittadina piemontese. Ora per il ristorante si delinea un futuro già tracciato: a sostituire Ribaldone arriva Jumpei Kuroda, già attivo nella stessa cucina tra il 2013 e il 2014, mentre in sala la continuità sarà assicurata dal maitre Matteo Bertolino. E Ribaldone? Per lui – che dal 2012 è anche executive chef di Eataly Tokyo - e la sua squadra di collaboratori qualcuno ipotizza un trasferimento a Milano, dove durante Expo diresse la cucina del ristorante Identità. E qualche scossa in Piemonte la provocherà anche l’annuncio di Giuseppe Rambaldiche Eleonora Cozzella ha anticipato per Repubblicaun paio di settimane fa – storico secondo di Davide Scabinal Combal.0di Rivoli. Dopo molti anni passati al fianco del maestro di Ivrea – dal 1998 fino agli ultimi giorni – il sous chef ha scelto di separarsi per intraprendere la sua strada; un pensiero ragionato, come si apprende dal ragionamento che presto lo vorrebbe alla guida di una cucina solista, a Villar Dora, in Val di Susa, nei locali di una vecchia pizzeria di paese, per valorizzare i prodotti del territorio, la cucina della tradizione piemontese e di quella emiliana (come da origini di Rambaldi), ma spingere anche sull’avanguardia che è stata pane quotidiano negli ultimi vent’anni al fianco di Scabin.

 

Ezio Gritti

Fanella, Sabatelli e Gritti. Nuove sfide a San Miniato, Putignano e Bergamo

In Toscana, invece, di poco precedente alla fine del 2016, era arrivata la notizia del “raddoppio” di Loretta Fanella, con un progetto che per la prima volta esula dalla sua specialità (la pasticceria, di cui seguiva la consulenza al Borgo San Jacopo di Firenze) e la vede impegnata anche sul fronte salato, presso il ristorante Opera di San Miniato, al Relais Sassa al Sole. Trasloco, già annunciato da tempo, anche per Angelo Sabatelli, in Puglia, che però resta ben saldo alla guida del ristorante omonimo, “limitandosi” a un ambizioso cambio di sede, da Monopoli a Putignano, dove aprirà a marzo negli spazi di Palazzo Romanazzi, proprio nel centro storico del paese.

Più indietro nel tempo, ancora una volta guardando allo scadere del 2016, vale la pena ricordare anche la nuova avventura di Ezio Gritti, che da un paio di mesi ha aperto alla città di Bergamo le porte del ristorante omonimo, che lo vede di ritorno tra i protagonisti della ristorazione d’autore in città (dove nel frattempo procede a gonfie vele l’esperienza di Casual, by Bartolini) dopo l’addio all’Osteria di Via Solata alla fine del 2013. In mezzo la parentesi in Indonesia, a Bali, e ora il rientro per tornare alla cucina di territorio facendo tesoro dell’esperienza esotica.

In bocca al lupo a tutti!

 

a cura di Livia Montagnoli

 
 

Guida Gelaterie d'Italia 2017 del Gambero Rosso. La classifica e i premiati

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Un nuovo titolo si aggiunge al lungo elenco delle guide del Gambero Rosso. Dopo ristoranti, vino, olio, bar, pasticcerie, pizzerie, street food il nuovo volume prende in oggetto, per censirle e valutarle, le migliori espressioni di uno dei prodotti simbolo del Made in Italy gastronomico, oggetto, negli ultimi anni, di una vera rinascita: il gelato.

È l'emblema del peccato di gola cui cedere senza sensi di colpa, quella coccola dolce che conquista grandi e piccini in ogni momento della giornata: che accompagni la colazione dentro una morbida brioche col tuppo come tradizione siciliana comanda, che porti refrigerio dall'afa e dalla calura estiva, o che sia di conforto in ogni stagione, come sostituto del pranzo o brillante soluzione per dessert a una cena tra amici, insomma il gelato è una di quelle specialità golose e irrinunciabili, riconosciuta tra le glorie del Made in Italy.

 

Il rinascimento del gelato

Certo è che negli ultimi anni il settore sta vivendo una sorta di rinascimento, un fermento che coinvolge questo mondo così composito, fatto di gelaterie storiche, di pasticcerie che da sempre o solo recentemente hanno affiancato quella sottozero alla classica proposta, oltre che di nuove realtà fiorite grazie a giovani entusiasti e preparati o di professionisti in cerca di un'occasione per reinventarsi all'insegna della qualità. Un universo che cambia e si evolve in continuazione creando tendenze e innovazione (come le sperimentazioni sul gelato gastronomico o quello all'azoto) e venendo incontro a un pubblico sempre più consapevole e portatore di nuove esigenze: parliamo dei gelati “senza”- glutine, uova, lattosio- di quelli vegani, a basso contenuto di zuccheri, a base di ingredienti biologici o a km zero, o realizzati con addensanti o emulsionanti totalmente naturali.

 

Il gelato artigianale

E quindi sempre più si sente parlare di gelato artigianale, un termine che, se da un lato racchiude spesso ottimi intenti e risultati, dall'altro nasconde non poche insidie. La mancanza di una legislazione ad hoc che ne circoscriva e delinei in maniera precisa i confini, lascia le maglie del concetto di “gelato artigianale” piuttosto larghe, e le proposte di legge fin qui presentate ancora non risolvono la situazione. Non è dunque tutto oro quello che luccica e può capitare che questa etichetta così nebulosa nasconda più sofisticazioni di un prodotto dichiaratamente industriale. Anche per questo motivo Gambero Rosso ha deciso di accendere i riflettori sul settore con la pubblicazione della prima guida, con tanto di valutazioni e premi speciali, dedicata alle migliori gelaterie italiane e ai più bravi maestri gelatieri, quelli che rendono onore alla grande tradizione dell'arte fredda mettendo in carapina o in sorbettiera veri capolavori del gusto.

 

La guida

I parametri utilizzati per la valutazione da parte degli ispettori di Gambero Rosso sono esposti nelle prime pagine della guida, e anche qui, nel Vademecum dell'Assaggiatore di Gelato, e spaziano da aspetti che riguardano il locale alla degustazione vera e propria che coinvolge tutti e cinque i sensi.

Degli oltre 37.000 esercizi presenti nel nostro Paese, nella guida Gelaterie d'Italia 2017 entrano meno di 300 indirizzi, valutati con un punteggio che va da zero a tre Coni secondo il livello di eccellenza raggiunto. Di questi solo 36 guadagnano i Tre Coni - sono pochissimi, è vero - ma lo scopo è quello di stimolare il dibattito, valorizzare i professionisti seri e promuovere ulteriormente la crescita del settore. Nell'Olimpo spiccano molti “volti noti”, grandi “maestri del brivido” che hanno fatto (e continuano a fare) la storia della gelateria italiana, affiancati da talenti che, forti di studio e ricerca continua, grande tecnica, tanta curiosità e passione, hanno saputo imporsi sul panorama nazionale. Come prima uscita, ci saranno sicuramente elementi da mettere a punto, e aspettiamo di ricevere commenti da voi lettori, per prepararci a una seconda edizione ancora migliore.

 

Si tratta di una guida fatta di storie e di persone: si va da quella di due ex avvocati (Alfredo e Veronica) che nelle aule di tribunali hanno combattuto le agromafie e decidono di aprire una insegna “giusta” a Formia (è l'esempio di Gretel Factory) fino al giovane Gianluca Degani e le sue sperimentazioni sui frutti antichi e dimenticati e sui sapori di terre lontane (Bloom), da Andrea Soban (Soban) che porta avanti con successo la tradizione di famiglia, pietra miliare della storia della gelateria italiana (e non solo) ad Alessandro Scian (Scian L'Insolito Gelato) che è passato dall'alta ristorazione a trasmettere emozioni attraverso un gelato come lui lo concepisce, sano e genuino.

 

La guida, pubblicata con il supporto di Orion (marchio dell'azienda Clabo Spa, leader mondiale nel settore della vetrinistica da esposizione per la ristorazione) e presentata in anteprima al SIGEP (Salone Internazionale della Gelateria e Pasticceria) il 23 gennaio, sarà distribuita in libreria e in edicola a partire da Marzo 2017.

 

Gelaterie d'Italia | Gambero Rosso, 2017 | pp. 208, 8,90 euro | già disponibile on line, in libreria dalla fine di marzo 2017

 

a cura di Marina Savoia

 

PIEMONTE

Canelin - Acqui Terme [Al]
Alberto Marchetti - Torino
Mara dei Boschi - Torino Ottimo! Buono non basta - Torino
Soban - Valenza [Al]

 

LIGURIA

Cremeria Spinola - Chiavari [Ge]
Profumo - Genova


LOMBARDIA

La Pasqualina - Almenno San Bartolomeo [Bg]
Paganelli - Milano
Pavé - Gelati & granite - Milano
Chantilly - Moglia [Mn]
L’ Albero dei gelati - Monza


VENETO
Golosi di natura - Gazzo [Pd]
Zeno Gelato e Cioccolato - Verona


FRIULI VENEZIA GIULIA

Scian l’insolito gelato - Cordenons [Pn]
Fiordilatte - Udine


EMILIA ROMAGNA

Cremeria Santo Stefano - Bologna
Cremeria Scirocco - Bologna
Stefino - Bologna
Bloom - Modena
Ciacco - Parma
Cremeria Capolinea - Reggio Emilia
Sanelli - Salsommaggiore Terme [Pr]

 

TOSCANA

Carapina Gelateria della Passera- Firenze
Chiccheria - Grosseto
De’ Coltelli - Pisa
Dondoli - San Gimignano [Si]


MARCHE

Gelateria Cioccolateria Paolo Brunelli - Senigallia [An]


LAZIO

Gretel Factory - Formia [Lt]
Gelateria dei Gracchi - Roma
Otaleg! - Roma

 

CAMPANIA

Di Matteo - Torchiara [Sa]
Cremeria Gabriele - Vico Equense (Na)


BASILICATA

Emilio - Maratea [Pz]


SARDEGNA

Bar Centrale Gelateria Pizzeria - Marrubiu [Or]

 

Premi Speciali


Miglior Gelato Al Cioccolato
Gelateria Cioccolateria Paolo Brunelli - Senigallia (AN)


Gusto & Salute

Oasi American Bar - Fara Gera d'Adda (BG)

Gelatiere Emergente
Carmela Grotto Ciocolat - Toscolano Maderno (BS)


Miglior Gelato Gastronomico

Ricotta di pecora ai fiori di zucca e alici  

Greed Avidi di Gelato - Frascati (RM) 

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