Cresce l'interesse internazionale per i vini da territorio vulcanici e il nosto Paese punta sul marchio unico. Attenzione, però, a non trasformare questo fenomeno in un fuoco di paglia. Il valore aggiunto? Carta dei suoli e analisi scientifiche.
Il fenomeno dei vini vulcanici o, meglio, dei vini da suoli vulcanici, è tra i più interessanti delle ultime stagioni. Da alcuni anni, la critica internazionale ne discute, i degustatori professionisti ne esaltano le caratteristiche e i buyer hanno già intravisto l'affare. Inoltre, la comunità scientifica (non tutta) sta ascoltando e appoggiando le sollecitazioni dei produttori. Insomma: è un momento felice. Dal 2017 si nota anche un'accelerata nella comunicazione che parte dalla vigna e arriva a un consumatore più evoluto e più interessato alle particolarità e, se vogliamo, agli aspetti legati allo storytelling evocativo sui vini dei vulcani.
La prima convention internazionale tenuta a New York lo scorso marzo, su iniziativa del master sommelier John Szabo (autore del libro Volcanic Wines: Salt, Grit and Power, uscito nel 2016), ha sottolieato le potenzialità di questi prodotti dando loro un posto di rilievo tra i vini del terzo millennio.
Caratteristiche comuni dei suoli e dei vini vulcanici
"È evidente una relazione tra suoli composti da basalti, tufi, pomici e la ricchezza gustativa e l'equilibro che si riscontra normalmente nei vini prodotti" commenta Sandro Gini, presidente del Consorzio del Soave "Questa relazione va spiegata, argomentata, documentata". Ma di quali caratteristice parliamo? "I suoli costituiti da rocce vulcaniche hanno valori di macro-porosità più alti, queste rocce possono immagazzinare risorse idriche fino al 100% del loro peso, rilasciandola molto lentamente". Sono dunque un'importane riserva idrica per l'apparato radicale della vite, soprattutto in annate secche e siccitose. "Inoltre, le radici respirano attivamente e traggono giovamento dal contatto con rocce che presentano porosità riempite di sostanze gassose, fornendole per i bisogni della pianta".
"I basalti, poveri in silicio e ricchi in magnesio e ferro, tendono ad assorbire tra l'85% e il 99% dei fosfati". Servono irrigazioni meno frequenti anche in virtù delle forti capacità drenanti di queste rocce che possono portare rapidamente i nitrati a contatto con le falde idriche, con conseguente fenomeno di eutropizzazione.
Ma non tutti i suoli vulcanici hanno caratteri positivi per la viticultura. Per esempio le pomici hanno scarsa capacità di assorbire acqua e i terreni originati da colate laviche recenti possono presentare condizioni fisico-chimiche svantaggiose per quasi ogni coltura.
"I terreni vulcanici sono di vari tipi, a seconda del tipo di materiale di cui è composta la roccia" sottolinea Marco Sabellico (curatoredella Guida vini d'Italia del Gambero Rosso) "E nei vini queste differenze sono evidenti". Ma si individuano elementi in comune? "Profondità espressiva, nel senso di una maggiore struttura, sapidità, acidità e, per usare un termine molto discusso, mineralità. Vale a dire, i sentori fumé, iodato, di roccia". Sono prodotti che possono arrivare alla complessità, capaci di invecchiare. Ovviamente gioca un ruolo determinante la tecnica interpretativa della singola cantina. Ma accade spesso che quando ti trovi di fronte un gran vino scopri che nasce su un suolo vulcanico, in Italia e non solo.
Ci son anche voci dissonanti, come quella di Alex Maltman - docente di Geologia all'Università di Aberystwyth, in Galles – che in Vineyards, Rocks, and Soils: The Wine Lover’s Guide to Geology(aprile 2018), sostiene che non ci sono relazioni tra i suoli e le caratteristiche dei vini. Secondo lui, parlando di questi prodotti, non si considerano elementi come altidudine, aspetti microbiologici, umidità, temperatura.
Soave
Le aree mondiali di produzione
Napa Valley (California), Casablanca Valley (Cile), Santorini (Grecia), Kaiserstuhl (Germania), Rias Baixas e Canarie (Spagna), Isole Azzorre e Madeira (Portogallo), Alture del Golan (Siria e Israele), Yarra Valley (Australia) sono aree di questa grande famiglia, che spesso si fregia anche di riconoscimenti come quello Unesco appena ottenuto dalla regione di Puy de Dome (Loira), che include la denominazione Cotes d'Auvergne.
Spostandoci sui suoli italiani, l'elenco è lungo: alcune zone nel territorio di Soave e dei Monti Lessini, i Colli Euganei in provincia di Padova, il territorio della Valsesia nell'Alto Piemonte, il Lazio con i Castelli Romani, Montefiascone, Pitigliano e Sorano, l'Umbria con Orvieto, la Campania coi Campi Flegrei e il Vesuvio, la Basilicata col Vulture, la Sicilia con l'Etna, Pantelleria e le Isole Eolie, la Sardegna con Mogoro. Un totale di 17 mila ettari, e una produzione potenziale di oltre un milione di ettolitri. Oggi, 19 territori sono riuniti nell'associazione Volcanic Wines network. Il marchio Volcanic Wines è detenuto dal Consorzio del Soave, che lo ha registrato nel 2013 mettendolo a disposizione delle aziende con un preciso regolamento d'uso. La novità è che partendo dall'attuale mappa dei suoli vulcanici, consorzi e produttori vogliono arrivare a una certificazione scientifica. E una parte della comunità scientifica risponde positivamente a questta richiesta.
Il ruolo della scienza e le richieste dei vignaioli
Tra gli obiettivi del network ci sono certificare l'esistenza dei suoli vulcanici e vitati italiani, mapparli con chiarezza, facilitare la comunicazione all'esterno. Il dialogo con alcuni atenei italiani è in corso e un contributo decisivo potrebbe arrivare dalla Società geologica italiana (La Sapienza, Roma) così come dall'Università di Firenze; a settembre prossimo a Milo, sull'Etna - nel decennale dell'evento Vulcania - potrebbero essere annunciate importanti novità. Il network vuole trovare un accordo col mondo accademico, che potrebbe aprire la strada a una comunicazione istituzionale strutturata sui vini da suoli vulcanici e sul loro rapporto col territorio;: una ghiotta opportunità per i produttori vitivinicoli, che potranno veicolare ulteriori elementi distintivi senza essere accusati di faciloneria. Di fronte a una carta dei suoli vulcanici italiani, sarà necessario certificare e verificare ogni singola azienda che insiste su quei territori, per evitare abusi sul marchio distintivo.
I territori italiani e il vulcano
Non tutti i vulcani sono uguali. L'opportunità di disporre di un marchio unico che, su basi scientifiche, possa identificare questa tipologia crea molto interesse. Il consorzio del Soave, presieduto da Sandro Gini, fa un po' da motore del movimento. "A dieci anni dall'evento Vulcania, l'innovativo concetto dei vini dei vulcani ha fatto veramente tanta strada" dice Gini "trovando nel suo percorso interesse e condivisione sia da parte dei produttori, dei comunicatori e dei consumatori". Da un punto di vista economico, è ancora "troppo presto per certificare una diversa valorizzazione dei vini vulcanici, ma sicuramente sul fronte comunicazionale questo è un vantaggio strategico".
Cosa pensano, allora, i consorzi delle grandi aree italiane? Marco Calaon, presidente del Consorzi vini Colli Euganei, è convinto dell'importanza della mappatura reale, basata sulla zonazione, per stabilire chi si potrà fregiare della vulcanicità: "Non potevamo restare fuori da questa opportunità per tutto il nostro territorio. Anche se solo metà dei nostri 3mila ettari vitati potrà fregiarsi dell'aggettivo vulcanico". E Franco Zanovello, imprenditore storico all'interno della Doc e attuale presidente della Strada del vino dei Colli Euganei, ribadisce: "Vogliamo spingere i viticoltori a suddividere le viti a seconda dei suoli. Un lavoro che porterà giovamenti anche al territorio in chiave enoturistica", considerando che il distretto termale conta 4 milioni di presenze annue.
Tra i più convinti sostenitori c'è il Consorzio vini Pitigliano e Sovana. "Nell'ultimo workshop tenuto sui Colli Euganei abbiamo discusso su come dare al marchio Volcanic Wines una base scientifica", afferma il neo ri-eletto presidente, Edoardo Ventimiglia "e se arriveremo a una mappa italiana la potremo certamente usare per fare una migliore promozione. Il vulcano è evocativo, il consumatore è curioso e il tema genera interesse". Nel caso del consorzio toscano, la zona classica della Doc aderente ai comuni di Pitigliano e Sorano coinciderà con la parte vulcanica, secondo precise regole che andranno ad affiancare il disciplinare di produzione.
Per il Consorzio vini Frascati, rimasto finora un po' alla finestra, il vulcanesimo è presente nelle brochure consortili e alcune cantine fanno espliciti richiami in etichetta al legame con l'antico vulcano dei Castelli Romani. Paolo Stramacci, presidente consortile, non ha dubbi: "Potremmo essere interessati a usare il marchio Volcanic Wines, ma prima dobbiamo fare alcuni passaggi all'interno del consiglio d'amministrazione. Se ne parlerà alla prima occasione utile".
Nell'area della Doc Aglianico del Vulture, l'ex presidente del consorzio e attuale membro del cda, Carolin Martino, guarda della comunicazione: "Notiamo che il racconto sui vini vulcanici fa presa: presentare i cru e identificarli coi vari tipi di terreno incuriosisce il consumatore. Nel nostro territorio non tutto è vulcanico. Tuttavia, ritengo utile" sottolinea "che i consorzi aderiscano all'idea del marchio nazionale, compreso il nostro, per aumentare la riconoscibilità".
E c'è il giusto interesse anche in Piemonte, che può vantare nel "supervulcano" della Valsesia uno degli esempi più caratteristici. "Non siamo ancora membri del network ma è una delle cose che vorrei valutare", afferma Lorella Zoppis, presidente del Consorzio di tutela Nebbioli Alto Piemonte, ricordando i lavori in corso sui territori di Boca e di Bramaterra per arrivare a una precisa indagine pedologica del territorio e a una zonazione. "Faremo anche un progetto" aggiunge Zoppis "per valutare gli aspetti geologici e geochimici, compresa l'identificazione degli isotopi, in funzione della tracciabilità dei vini". Innegabile il valore sul fronte del marketing: "Ma se si fa comunicazione dobbiamo muoverci con un supporto scientifico. Non vogliamo cavalcare l'onda per avere solo visibilità".
Giuseppe Mannino, alla guida del Consorzio vini dell'Etna (5 milioni di bottiglie): "Un vulcano attivo che, in un modo o in un altro, rappresenta una peculiarità rispetto ad altre zone. È giusto che ogni discorso su questi vini poggi sul sapere scientifico. Noi, in questo momento, stiamo lavorando sul Dna dei nostri vitigni Nerello Mascalese e Carricante". Non altrettanto attivo, il consorzio, sul fronte delle iniziative del circuito Volcanic Wines, soprattutto negli ultimi due anni: "Stiamo vivendo una crescita esponenziale, ma non intendiamo snobbare nessuna iniziativa. Anzi, pensiamo ci siano punti in comune con questo network italiano".
E i prezzi? Per ora tutti d'accordo. Coltivare su suoli vulcanici comporta basse rese e costi di produzione elevati. Quindi, è giusto che siano più alti rispetto alle medie.
Strategie di marketing
Secondo Andrea Rea (Wine Management Lab – Sda Bocconi) la rete dei vini vulcanici va nella giusta direzione: differenziarsi nel mercato del vino spesso omologato alle tendenze e creare un valore percepito dal cliente. Un marchio trasversale internazionale renderebbe il progetto più credibile e più gestibile, promuovendo anche territori non ancora valorizzati. Ma nel panorama italiano, già carico di brand (Italia, territorio, cantina, vitigno), la crescita del marchio Volcanic Wines dovrebbe accompagnarsi a un ridimensionamento del brand Italia. Gli elementi su cui puntare sono quelli identitari del territorio vulcanico, caratteri comuni e aggreganti per i produttori, in cui il vino emerga come prodotto della cultura e del saper fare dell'uomo, da affiancare a partnership con iniziative storico-culturali e artistiche sviluppate sul tema dei vulcani. Contemporaneamente converrebbe strutturare l'offerta: il 70% di vini "fine" (espressione di territorio) che puntano sulla specificità dell'esperienza territoriale; il 25% di vini "trendy" (per conquistare la fascia di mercato più frivola) e un 5% di vini "icon" (grandi vini, capaci di legittimare tutta la categoria).
a cura di Gianluca Atzeni
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 5 luglio
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