Il cibo e il suo mondo non sono soltanto fotogenici, oggetto di programmi tv e pellicole cinematografiche: ci sono anche spettacoli teatrali che portano in scena tutto quanto riguarda il mangiare e il cucinare.
La cucina, a Roma
Se i dietro le quinte dei ristoranti fossero davvero come le racconta Arnold Wesker nel suo La Cucina non passerebbe giorno senza ricoveri o arresti. O magari nessuno dei due, perché se c'è una cosa che domina queste trincee di pentole e fornelli è quell'attitudine all'omertà cameratesca che spinge a coprire l'avversario di fronte alla legge. Incarnata, nella pièce del drammaturgo inglese - tradotta e adatta da Alessandra Serra e messa in scena da Valerio Binasco - dal proprietario del ristorante, ignaro, feroce e gretto fino al momento in cui non teme che quel suo locale da 2000 coperti al giorno possa franare.
Foto: Bepi Caroli
Lo spettacolo
Il testo risale al 1957, un'epoca in cui il mondo della ristorazione era molto diverso da quello di oggi. Non c'erano star dei fornelli, allora, ma solo l'orgoglio di un lavoro frenetico e durissimo - “eppure quanto è bello”, annota Wesket - dove le relazioni si schiantano e i toni si infiammano. Ci pensa Binasco a farlo rivivere dirigendo con cura certosina i 24 attori (bravissimi), quasi tutti sotto i 30 anni, provenienti dalla scuola di recitazione dello Stabile di Genova. Sono loro a raccontare quella Babele di linguaggi, storie e nazionalità che – quello sì, ancora oggi – popola la cucina, anche quella di questo ristorante dai muri fatiscenti. In scena le diverse postazioni, veri posti di combattimento che nel paio di ore del servizio diventano terreno di uno scontro combattuto a suon di roast beef e nodini di vitella, intolleranza e rancori, in un carosello serratissimo e gustoso di comande urlate e piatti volanti, a disegnare una coreografia in cui l'unico imperativo è portare a termine il lavoro. È un pragmatismo cinico che fa scavalcare corpi e ignorare ustioni, in nome del menu da servire, un universo spietato, in cui saltano le normali regole della civile convivenza ma vige un caos organizzato (e a tratti disumano) scandito al cronometro e amplificato da quei rallenty che sospendono, per un attimo, la frenesia del lavoro. Che non trova mai riscatto nel buon cibo: “il cibo non interessa a nessuno” perché “a nessuno importa più che si cucini bene, né ai cuochi, né ai clienti”, tanto nel ristorante“molti ci vengono, qualcuno torna, nessuno è mai morto”.
Il campo di battaglia
Poi, nei momenti di quiete (ore lunghissime e bellissime, si dice a più riprese) che seguono la fine del servizio, ognuno riprende la sua vita disperata. Un tempo interrotto in cui le tensioni, i rancori, gli amori esplodono con tutta la loro ferocia, esasperati dai pregiudizi nei confronti dell'altro, in quella convivenza forzata di persone straniere nella quale nasce la violenza, come suggeriva l'autore: c'è il tedesco, lo slavo, il “turco napoletano”, e poi ancora il nuovo (anche detto Paris Hilton, per via dei trascorsi in locali di un qualche blasone), il pasticcere e via così, un universo maschile in cucina (come spesso accade) bilanciato da un team quasi tutto al femminile in sala. L'altra parte dell'universo, si direbbe, il cui unico momento di contatto è la chiamata delle ordinazioni, “tu comandi in sala, qui comando io” dice il tedesco a una cameriera novella che ignora le leggi della cucina. “Un posto dove ci si ammazza per i mestoli”, dove ci si picchia e si urla, che resiste e sta sempre lì, “perché la cucina è più forte di tutti”, amata e odiata, una droga che vede in quell'incredibile danza al ritmo dei fornelli la sua ragion d'essere. “Wesker rappresenta la cucina come un mondo disumanizzante” spiega Valerio Binasco “perché il suo primo obiettivo era la denuncia sociale sulle condizioni di lavoro” e ci verrebbe da chiedere se e quanto sia diversa oggi la situazione, nonostante il cambio di status del cuoco. Insomma: la cucina come metafora della fabbrica. Per Binasco, invece, che per preparare lo spettacolo è andato a curiosare nelle cucine di alcuni grandi ristoranti, è una sintesi dell'intera umanità, della vita sociale, dove la difficoltà dello stare insieme e il lavoro di squadra contengono una loro bellezza involontaria.
Cantina, a Modena
In questi stessi giorni (fino a sabato 5), a Modena, la compagnia belga Laika porta in scena Cantina, Canned dreams, good food, sorta di varietà culinario, come lo definisce Peter De Bie (insieme a Michiel Soete ideatore e regista), un luogo in cui nutrire lo stupore e l'immaginazione, seduti a tavola, in una vera mensa in cui condividere l'esperienza dello spettacolo e il momento della cena, come spesso accade negli spettacoli di Laika. Il punto di partenza è Santa Giovanna dei Macelli di Bertolt Brecht, la pasionaria che lotta per un mondo migliore dalla mensa in cui lavora. Da questo elemento fondante è germinato lo spettacolo attraverso dei workshop in cui si sono sviluppati i temi – soprattutto quelli politici – dell'opera di Brecht. Sempre avendo, come tessuto connettivo, la cucina e la condivisione del cibo. Come un continuo suono di fondo in cui elaborare il testo fino alla stesura attuale: una performace che pone qui e ora, nel momento quotidiano e intimo del mangiare, i temi forti di un lavoro sulla giustizia, i sogni, le battaglie personali. Tra musica, canzoni, cibo, performance. Un esperimento di resistenza collettiva e gustosissima in cui il rito del teatro incontra il rito del cibo in una tensostruttura che ricorda, alla lontana, quelle dellle feste popolari.
La cucina – di Arnold Wesker – regia Valerio Binasco - Teatro Eliseo – Roma - via Nazionale, 183 - fino al 20 maggio.
Cantina, Canned dreams, good food – Compagnia Laika – Tensostruttura nei pressi del Teatro delle Passioni -Modena - viale Carlo Sigonio 382 - dal 3 al 5 maggio
a cura di Antonella De Santis foto di apertura Bepi Caroli