Da oggi, e per diverse puntate, cerchiamo di capire meglio cosa è e come funziona la neurogastronomia. Per farlo abbiamo chiesto a Laura Pirotta, psicologa ed esperta della materia.
La neurogastronomia è una disciplina ancora poco conosciuta in Italia mentre in molti altri Paesi già da tempo si assiste a una sua veloce espansione, cosa che ci aspettiamo anche in Italia nel giro di qualche anno. In questo articolo ne parliamo insieme con Laura Pirotta, psicologa esperta di neurogastronomia, neuroscienze, e Learning & Development Director di Neurobusiness. Oltre che tra i docenti del Gambero Rosso nel Master di Giornalismo e comunicazione d'impresa dell'enogastronomia
Dottoressa Pirotta, che cos’è la neurogastronomia?
La neurogastronomia è una branca delle neuroscienze che studia come si comporta e cosa prova il nostro cervello durante un’esperienza enogastronomica. È una disciplina nata con lo scopo di aiutare tutti coloro che si occupano di ristorazione e food&beverage, ad alti livelli, a creare l’atmosfera migliore perché l’esperienza enogastronomica sia efficace e appagante. E per saperlo non si chiede più alle persone se piace o meno quel piatto, quel packaging o l’atmosfera di quel ristorante ma si chiede direttamente al loro cervello avendo così un parametro molto più veloce e oggettivo.
E come si fa a chiedere al cervello delle persone?
La neurogastronomia utilizza strumentazioni neuroscientifiche per studiare il cervello quali, per esempio, l’elettroencefalogramma, un caschetto con diversi elettrodi che viene posto sulla testa del soggetto e rileva l’attività elettrica del cervello, l’eye-tracking, una mascherina posta sugli occhi che rileva l’attività oculare dell’individuo e la skin conductance, uno strumento che rileva la microsudorazione corporea di fronte a uno stimolo.
Per stimolo intende la degustazione di un piatto?
Non solo. La ricerca di neurogastronomia può essere fatta su uno specifico piatto o su uno specifico vino oppure su un packaging o una qualsiasi attività comunicativa come i video di prodotti, le brochure e i siti internet. Ma il campo di ricerca della neurogastronomia non si ferma qui perché, come dico sempre in aula, anche l’ambiente del ristorante fa la differenza nell’esperienza enogastronomica. Infatti, mi capita sempre più spesso di fare ricerche proprio per valutare il ristorante nel suo complesso. L’atmosfera, i sapori, le luci, la musica, la cordialità del personale, la velocità: tutto contribuisce a un’esperienza enogastronomica appagante e può modificare anche drasticamente la valutazione del ristorante o dell’hotel.
Quando tiene un corso formazione di neurogastronomia, come quello svolto per i ragazzi del Master in in Giornalismo e comunicazione d'impresa dell'enogastronomia, che cosa insegna?
Diciamo che gli studi della neurogastronomia possono essere suddivisi in tre macro aree: gli studi antropologici legati a come si è sviluppato il nostro cervello in relazione a ciò che mangiavamo e a come i nostri cinque sensi si sono evoluti e vivono l’esperienza enogastronomica; gli studi neuroscientifici legati a tutte quelle ricerche che hanno studiato il cervello durante un’esperienza enogastronomica; le implicazioni pratiche sulla base dei primi due punti per migliorare concretamente l’esperienza enogastronomica e, in generale, qualunque prodotto, artigianale o industriale, del food&beverage.
Da cosa è nata la sua passione verso la neurogastronomia?
In realtà, la mia grande passione è il cervello in generale. Pensi che ho anche in casa un modellino di plastica di cervello (Mister Brain) che uso sempre nelle mie lezioni, ormai fa parte della famiglia anche lui, tanto che ieri mia figlia di 3 anni mi ha detto: “Mamma, la mia Barbie è senza cervello, glielo metti tu?”.
In più le neuroscienze e l’applicazione concreta delle stesse, sono la mia specializzazione come psicologa e, avendo lavorato per quasi dieci anni nel marketing di grandi multinazionali e nel settore delle ricerche di mercato della più grande multinazionale alimentare del mondo, mi è venuto naturale unire insieme neuroscienze, psicologia e marketing e farne una nuova professione che porto con orgoglio in aula come docente universitaria, formatrice aziendale e imprenditrice.
Come si incontrano psicologia, neuroscienze e marketing?
La psicologia sta entrando sempre più a far parte di diversi ambiti. Da tempo non è più unicamente riservata alla cura del singolo individuo in ambito clinico. Oggi chi si occupa di psicologia lavora nelle aziende, nello sport, nella ricerca, nel marketing e ora anche nella gastronomia. Si è capita l’importanza di comprendere i processi psicologici che sono alla base di ogni nostro comportamento, e questo - negli ultimi anni - ha convogliato molte ricerche neuroscientifiche in vari campi. Il neuromarketing unisce psicologia, neuroscienze e marketing cercando di comprendere le funzioni cerebrali di fronte a comportamenti d’acquisto o qualunque altro stimolo commerciale.
Ma quindi, secondo lei, è possibile una forma di manipolazione da parte del marketing?
Assolutamente no! Ci tengo a precisare che non si tratta di “controllo”. Se il marketing ci controllasse realmente saremmo dei robot senza alcun libero arbitrio, senza il piacere di scegliere in base ai nostri gusti e alle nostre esigenze. Spesso viene alimentata la falsa credenza che il cervello sia passivo nei confronti degli stimoli che percepisce ed elabora, come se fosse una sorta di recipiente che si può colmare con ciò che si vuole. Non è assolutamente così. Noi agiamo nel mondo e costruiamo le nostre esperienze attraverso la nostra soggettiva interpretazione degli stimoli che ci vengono proposti. Il marketing può aiutare a contestualizzare meglio le nostre preferenze tenendo, però, in considerazione che siamo esseri umani pensanti e liberi di fare tutte le nostre valutazioni. Il neuromarketing propone delle opzioni nuove che si basano su riscontri scientifici, una strada in più da percorrere. Ed è proprio compito di un nuovo concetto di marketing fare in modo che quella strada appaia la migliore da percorrere. Siamo, però, noi in ultimo a scegliere liberamente, sempre.
E il cibo come entra in tutto ciò?
Dal neuromarketing alla neurogastronomia il salto è stato quasi obbligato. Quando ti trovi continuamente a contatto con le neuroscienze cerchi di applicarle a quanti più ambiti possibili, e viene quasi automatico cercare di comprendere quali effetti possa avere una componente fondamentale della nostra vita come il cibo. Alla fine siamo ciò che mangiamo, quindi come potrebbe non interessarci approfondire la questione?
Come è cambiato il suo approccio con la gastronomia?
Quando ho iniziato ad addentrarmi in questa materia ho subito capito quante sensazioni perdiamo dandole per scontate. Perfino io che tra psicologia e neuromarketing ho una predisposizione all’attenzione dei dettagli, non notavo quanto fossero potenti questi stimoli. Ora è come avere un terzo occhio che capta tutto ciò che il cibo riesce a darci ed è proprio quello che cerco di trasferire a chi frequenta il corso di neurogastronomia.
Le piace cucinare?
Paradossalmente non amo cucinare ma mi piace molto mangiare. Infatti, per la neurogastronomia poco importa saper cucinare, l’importante è conoscere molto bene il cervello e come questo vive l’esperienza enogastronomica.
Come diffonde questa materia?
Prediligo il metodo divulgativo perché sono dell’avviso che sia importante trasmettere le mie conoscenze sul cervello non solo agli addetti ai lavori ma a chiunque abbia l’interesse per scoprire come è fatto e come funziona il proprio cervello. Per questo, ogni volta che tengo una lezione in azienda o nelle Università cerco sempre di rendere il materiale fruibile a tutti i presenti. Meglio traduciamo queste tematiche in strumenti di facile comprensione (senza assolutamente tralasciare la competenza teorica e scientifica di partenza), più le persone si avvicineranno e meglio ne comprenderanno l’utilità, agevolando una rapida diffusione. Anche perché, oggi, di neurogastronomia si parla veramente ancora molto poco qui in Italia.
In quali settori crede possa essere maggiormente applicata la neurogastronomia?
Gli assunti della neurogastronomia si possono applicare a diversi ambiti, sia nel settore industriale del food&beverage sia nella ristorazione di alto e altissimo livello.
La neurogastronomia può essere utilizzata per fare ricerca sugli effetti di alcuni alimenti nel nostro cervello, oppure a capire come e perché un particolare piatto o un vino accendono determinate aree cerebrali. Può essere utile per il marketing del settore food&beverage o dell’enogastronomia per migliorare la comunicazione dei propri prodotti. Può essere utilizzata per valutare in modo scientifico e oggettivo la shopping experience di punti vendita o la completa esperienza enogastronomica all’interno di un ristorante. È proprio la sua naturale adattabilità a diversi campi che rende ancor più affascinante questa materia.