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Il Pagliaccio. Il nuovo Tre Forchette di Roma

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Un italiano nato in Francia che ama l'Oriente e l'incontro di culture, una sala che viaggia di pari passo con la cucina e una cantina che custodisce grandissime etichette, ma accoglie cocktail, infusi e altre bevande eretiche. Sono gli ingredienti del Pagliaccio di Roma, nuovo Tre Forchette del Gambero Rosso.

Quando arriva, dopo il Rossellinis di Ravello e Le Petite Nice di Marsiglia (e tanti locali nel Far East, tra Thailandia, Malesia, Singapore, Cina), viene accolto come un enfant prodige, ma non basta perché il progetto che lo aveva portato a Roma vada nel verso giusto. “Una brutta esperienza”la definisce Anthony Genovese, raccontando di un panorama cittadino all'epoca poco entusiasmante e di una delusione cocente. “Avevo poco più di 30 anni, ero arrogante, mi sentivo arrivato, maturo”. Decide di correre in proprio, di concerto con Marion Lichtle, pastry chef di rango che ha sempre brillato con la sua raffinata linea dei dolci. Il primo aprile 2003 alzano la serranda a via dei Banchi Vecchi. Ricominciare da capo non è facile: “è stato un urto violento: non avevo soldi. Ora che non lavoravo per una grossa compagnia non potevo più fare come volevo”. Deve tenere un profilo basso: “era praticamente una trattoria con sedie in paglia”, 3 persone in cucina e 2 in sala (ora sono 10 più gli stagisti in cucina e 6 in sala per 28 coperti). Al suo ingresso nella nostra guida (edizione 2004) segnalavamo la cantina, mini anche se con etichette di pregio, a testimonianza di una strada tutta in salita. E non solo per questioni economiche. I piatti erano più semplici e di impatto, ma venivano guardati con perplessità: “mi davano del cinese o dell'indiano”. Noi stessi, in guida, lamentavamo la presenza di aromi che – dicevamo – coprivano la materia prima. Di quel periodo è il galletto alle spezie con purea di patate e fichi: “ricordo che venne Moreno Cedroni. Riparlammo anni dopo di quella cena e di quel galletto che – disse - gli era molto piaciuto. Per me fu una gioia”.

Marionn Litchle, Anthony Genovese, Daniele Montano

Gli inizi

È stato come attraversare il deserto” racconta lo chef italo-francese. Roma non capiva quella cucina che mescolava esperienze e sapori; il confronto era durissimo. “Tutte queste difficoltà mi hanno fatto diventare la persona che sono adesso” riflette “discreta ed esigente con se stessa e con gli altri, ma soprattutto umile”. Per anni ha mandato giù bocconi amari “ho fatto molta fatica, e la mia cucina ne risentiva”. La voglia di dimostrare a tutti costi quel che sapeva fare non era una buona alleata: “volevo strafare ma spesso il piatto non corrispondeva alle aspettative”. Il Genovese uscito da quel periodo è un uomo libero da tutto questo. Oggi dice di sé che è un gran lavoratore, non un artista. Continua a essere un outsider: in una Roma spesso piaciona è un uomo schivo, di poche parole, ma oggi la Città Eterna lo accoglie senza riserve “credo di essere molto più capito adesso”.

2006-2007

Nella guida del 2006 conquista le Due Forchette e la prima Stella, e noi registriamo l'inizio di una scalata ai vertici della ristorazione capitolina che continuerà fino ai giorni nostri. Il Pagliaccio attira l'attenzione con quella cucina personalissima, che emerge per la tecnica, l'uso sapiente di spezie ed erbe e i frequenti omaggi all'Oriente. Scrivevamo di come lo chef riuscisse a coniugare con equilibrio i frutti delle sue numerose esperienze con tradizioni e materie prime italiane e romane con un risultato originale e sempre più convincente. Ma, nella quotidianità, ancora le cose sono difficili “ricordo una cena del Gambero Rosso in cui avevo fatto uno spaghetto con polpette di agnello che piacque molto. Ma io non volevo essere identificato con quella cucina”. Lui parla un'altra lingua, con cose come l'insalata di astice quasi crudo con ananas e fagottini di riso o la scaloppa di fegato grasso in "bollito" su una zuppetta di erbe di campo. Al 2007 c'è una ristrutturazione, la prima di molte.

Il pagliaccio

2008-2009

La zuppetta di burrata e ostrica marinata con granita di mela verde e fiori di camomilla è uno dei piatti del 2008, quando noi sottolineavamo come Genovese, ormai quarantenne, avesse interiorizzato ed elaborato il suo percorso in una sintesi vitale e feconda, mettendo a fuoco una propria precisa cifra stilistica. A questa cucina, nel 2009, vengono assegnate le Due Stelle. “Non ce lo aspettavamo” racconta Anthony “è stato un fulmine a ciel sereno”. Con gli onori crescono anche le responsabilità: “la cucina doveva essere meno di getto, sapevo che serviva più riflessione”. C'è, allora, un cambiamento importante che riguarda il modo di lavorare, non solo quello di cucinare: “mi sono aperto tantissimo con i miei collaboratori”. Aggiunge, nelle sue ricette, un nuovo ingrediente: il confronto, e una nuova tranquillità nel relazionarsi con gli altri. Meno chiuso, la sua cucina guadagna in equilibrio e piacevolezza.

Pagliaccio kebab di agnelloKebab di agnello con insalata di cipolle di Tropea pomodoro verde e caprino

 

2010-2011

La seconda ristrutturazione, che anche noi auspicavamo nella guida Ristoranti d'Italia 2010, arriva nel 2011. Di quegli anni sono la tartare di gamberi rossi in un croccante al sesamo con spuma di yogurt e mascarpone e bisque con mirto e crema di riso che definivamo difficile a dirsi ma facilissima e buonissima da mangiare, il kebab di agnello con insalata cipolle di Tropea pomodoro verde e caprino, e i tortelli di maiale con acqua di mozzarella. Ognuno, scrivevamo, era un piccolo capolavoro di tecnica, creatività e profonda conoscenza della cucina internazionale oltre che italiana, che metteva a segno una fusion colta e dai sapori piacevoli e comprensibili. Cui si aggiungeva la (sempre) splendida pasticceria di Marion Lichtle. La cantina è ormai ampia e di altissimo livello anche se le poche opzioni easy e di scelta al calice ne penalizzano la valutazione complessiva, nel team dal 2010 ci sono Gennaro Buono cone capo sommelier e Matteo Zappile prima come assistente poi nel 2012 al posto di Gennaro Buono. Per noi è un ristorante Tre Forchette. Ma questo traguardo durerà poco. 

 

 

Ravioli di sola seppia, involucro, farcia e brodo  con i ricci. Anthony GenoveseRavioli di sola seppia, involucro, ripieno, brodo con ricci

2012-2014

Arrivano piatti come gli spaghetti con lenticchie e ricci di mare “che stiamo riproponendo adesso in un'altra versione”; e il piccione, “che per me non è solo un piatto ma un prodotto emblematico”, che negli anni ha visto diverse versioni, spesso in più cotture; nella guida 2012 lo segnalavamo laccato in agrodolce, servito in due fasi con riso Venere e more. C'è poi, sempre in questi mesi, anche l'animella in carrozza con mozzarella e acciughe con crema al limone. Nel 2013 Il Pagliaccio compie i suoi (primi) 10 anni di vita e li festeggia con un restyling importante e un bel volume monografico dal titolo Ten, in cui – tra parole, illustrazioni e fotografie – si raccontano alcuni dei piatti simbolo del ristorante. Nel 2013 inizia la ristrutturazione della carta dei vini, da 930 etichette si passa 1200 con l'introduzione di infusi e cocktail in abbinamento ai degustazione: nasce l’emotional paring.

 

2015-2017

Anno dopo anno Il Pagliaccio si impone come uno dei ristoranti più raffinati di Roma, tanto che nella guida 2015 ricordiamo i tempi in cui era un moderno bistrot di lusso con una cucina stupefacente e un servizio che strabiliava, per evidenziare come ormai molta acqua fosse passata sotto i ponti. La cucina, sempre intrisa di sapori, profumi, esperienze impastati a grande tecnica, ha perso qualcuno dei colpi da geniaccio di Anthony che talvolta facevano tremare, in positivo ma anche in negativo. Ma il tempo è galantuomo, e gli anni hanno regalato allo chef la maturità per governare le sue molte ispirazioni, anche quelle che, a sorpresa, volgono lo sguardo sulla tradizione come nel caso di tortelli di ossobuco con crema di zafferano, agrumi e cipolle rosse (del 2016). Si punta alla perfezione attraverso il bilanciamento impeccabile negli incredibili equilibrismi. Senza che questo, però, sfoci nel freddo virtuosismo.

Il menu di fine 2017 ospita cose come rombo marinato con foglie di artemisia ed emulsione di olio di cipolla, mandorle e radici, con la tartelletta fatta con la barba del rombo, spirulina, e midollo. Qui c'è gusto e piacere, attenzione nel piatto quanto nel bicchiere, con la sala che viaggia di pari passo. Sul bere si spinge in avanti con una proposta agile e imprevedibile, con cocktail, estratti e infusi pregiati ad affiancare chicche introvabili e grandissime etichette, in sintonia con una cucina che si fa sempre più moderna e centrata. L'accoglienza vola altissima, il Pagliaccio è un organismo unico che unisce tutto: Oriente e Occidente, sala e cantina (con Matteo Zappile – oggi restaurant manager dopo Daniele Montano e Gennaro Buono - e il nuovo sommelier Luca Belleggia), cucina e pasticceria, dove da quasi un anno il francese Thierry Tostivint- “un amico, lo conosco da più di 20 anni, dai tempi di Pinchiorri” opera al posto di Marion, comunque sempre presente al Pagliaccio.

 

Il Pagliaccio, la clientela, la città

Roma non è stata generosa all'inizio col Pagliaccio, e anche oggi i clienti sono in buona parte stranieri. “I romani sono difficili da capire e accontentare. In fondo preferiscono dei prodotti e una cucina conoscono bene. Ovviamente non tutti”. Il commento più frequente? “Dicono 'particolare'. E io non riesco a capire che intendono”. Per uno che dichiara di averesempre timore che il piatto non sia quello giusto, non è cosa da poco. Con gli stranieri è più semplice anche perché la clientela internazionale è cambiata“abbiamo fatto tanto per avere quella giusta: promozione, comunicazione, viaggi”. Perché l'orizzonte di un posto come il Pagliaccio è internazionale, così come lo è per la Città Eterna. “Roma è cambiata, si sta aprendo al mondo. Una città del genere appartiene al mondo e dovrebbe essere un gioiello; è un dolore enorme come viene maltrattata, basta vedere i marciapiedi di via dei Banchi Vecchi”. È critico, Genovese, ma poi cede: “la sua bellezza ti riconcilia con lei, basta una passeggiata dopo il servizio, ma” aggiunge “avrebbe bisogno di essere scossa, svegliata”. Basti pensare che la ristorazione di qualità, che pure oggi è tanta, non viene riconosciuta come un elemento di pregio cittadino. Il panorama ristorativo? “Per la cucina fusion è ancora indietro, si mangia maluccio cinese, giapponese, ma anche romano, e poi ci sono troppi posti uguali; c'è chi pensa che un ristorante sia bancomat: apri e dopo pochi mesi arrivano i soldi”. Ma non ha mai voglia di qualcosa di diverso, magari una trattoria? “L'abbiamo fatta con Secondo Tradizione dove proponiamo cose semplici” risponde. Ma poi ci pensa: “un giorno lo farò, ne sono convinto. Ma per ora basta il Pagliaccio: mai più consulenze”. E il pensiero va all'esperienza, ora conclusa, con Yugo.

Tartufo_al_cioccolato_e_arancia_saltataTartufo al cioccolato e arancia saltata

Il Pagliaccio oggi

Negli anni Genovese ha modellato gli spunti più arditi, talvolta geniali, tal altra acerbi, per consegnarci una cucina più matura, distesa nelle sue molte suggestioni, mai quieta nella ricerca di una via di collisione e armonia tra Occidente e Oriente che sa concedersi il lusso di apparenti semplicità come gli spaghetti tirati a mano con sugo di canocchie, gamberi essiccati e polvere di alga nori. Capace anche di riappropriarsi e ridisegnare sapori della tradizione: grano arso, freselle, pane di Lariano. Nell'ultima guida raccontiamo di un Anthony che ha mostrato tutto il suo valore o forse lo ha espresso con più consapevolezza, come liberato dalle sovrastrutture. Quelle che lui stesso definiva come l'esigenza di fare a tutti i costi e spesso strafare. Ora è rilassato: “Ho voglia di leggerezza” aggiunge: “la ristorazione cambia a una velocità pazzesca. Il museo è finito”.

 

Il Pagliaccio | Roma | via dei Banchi Vecchi 129/a | tel. 06 68809595 | www.ristoranteilpagliaccio.com

 

a cura di Antonella De Santis

foto Aromi Creativi

 

 

 
 

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