L'executive chef del Palagio di Firenze torna al Four Seasons di Milano e ci racconta com'è cambiata la città meneghina nell'anno di Expo. Ecco i suoi progetti per riproporre i piatti della tradizione, con qualche anteprima della nuova stagione
Si muove con naturalezza tra le bellissime e lussuose sale affrescate del Four Seasons di Firenze, portando quel tocco di umana semplicità, che in un posto così straordinariamente fuori dal comune, non ti aspetti di trovare. Eppure Vito Mollica è lì, a farti capire di essere nel posto giusto, dove, nonostante le tante facce e gli accenti stranieri che si sovrappongono tutt'intorno, troverai senz'altro l'autentica italianità della tavola. Lui che ha girato il mondo passando dalle più famose cucine d'Europa (da El Bulli sulla Costa Brava al Café Royal di Londra, solo per citarne alcuni) e che è stato poi “adottato” come executive chef dal marchio Four Seasons, nell'ordine: Milano, Praga, Firenze. Proprio nel capoluogo toscano nel 2011 ha appuntato al petto la sua prima stella Michelin, conquistando anche le Due Forchette con una valutazione di 82, salita poi fino a 86. E quest'anno, l'anno di Expo, è stato richiamato a Milano (staffetta con Sergio Mei), senza, però, lasciare definitivamente la città dei Medici. Così le giornate dello chef di origini lucane si dividono tra le cucine, il telefono e i treni Firenze-Milano.
Partiamo proprio dal ritorno a Milano. Un ritorno in grande stile, proprio nell'anno di Expo. Come l'hai trovata dopo questi anni di assenza?
Ero stato a Milano dal 1996 al 2000: quando hai meno di 30 anni hai una visione diversa di vivere la città. Dal punto di vista gastronomico l'ho trovata molto più vivace, si è aperta alla cucina creativa e d'autore, con chef della portata di Cracco, Berton o Aprea. Trovo, invece, si sia un po' persa la dimensione locale, quella milanese vera e propria, con molti locali storici che hanno chiuso e piatti che non si trovano più. Questo un po' mi dispiace.
Come fai a districarti tra Firenze e Milano? Non sarà facile gestire due cucine...
Io sono come un piccolo ingranaggio di un orologio, quello che dà il colpetto che mette in moto. Ma poi ci sono tutti gli altri ingranaggi, le altre persone di cui mi fido ciecamente. In questo lavoro è importante dare a avere fiducia. Io do la mia disponibilità sempre. Pronta reperibilità...
Come un medico insomma...
Una cosa del genere. (Non a caso il telefono squilla almeno quattro volte, nel corso dell'intervista: telefonate brevi, ma perentorie; ndr)
La brigata milanese è cambiata col tuo arrivo in città?
Sì, a Milano ho messo il mio “secondo”, il sous chefMarco Veneruso, una persona che conosco e che mi conosce benissimo. Ha fatto cinque anni con me al Palagio del Four Seasons di Firenze. Poi ci sono altri due miei fidati che si occupano del banco, degli acquisti, del personale. Io ci vado due volte a settimana per fare il punto, cambiare i menu, introdurre nuovi piatti. Ma siamo in collegamento continuo, come puoi sentire...
E come avete rivisto l'organizzazione del menu?
Dopo la chiusura del ristorante del piano -1, il Teatro, abbiamo cercato di spingere sulla Veranda che inizialmente aveva un ruolo più da lounge. Abbiamo rispettato la formula assaggi, con prosciutto e melone, pomodoro e mozzarella, tutte cose che chi viene da fuori si aspetta di trovare in Italia. Ma abbiamo anche introdotto nuovi piatti del nostro menu tradizionale, come tartare di ricciola servita con peperone piquillo, capperi e latte di mandorla; quaglia farcita al foie gras con funghi porcini e sedano rapa; sbrisolona mantovana con crema di zabaione al Moscato e gelato al latte di mandorla. E abbiamo già in mente tante novità per la nuova stagione...
Qualche anticipazione?
La chiave è il ritorno a quella cucina milanese di cui sopra... ossobuco, cassoeuola e tutti i classici dimenticati.
Oggi chi è il cliente tipo a Milano, e come sta cambiando il suo identikit durante i mesi di Expo?
Milano è sempre stata legata per tradizione al business e alla moda. Non c'è il viaggiatore in senso stretto, ma quello che viene per lavoro, che sia un buyer o uno stilista. Con l'Expo qualcosa è cambiato: ci sono i visitatori dell'Esposizione, ma soprattutto le delegazioni che vengono comunque per lavoro. A livello di nazionalità, agli americani, che hanno sempre rappresentato una percentuale importante, si aggiungono molti asiatici e mediorientali. Il loro approccio al cibo è simile al nostro quando andiamo nei loro Paesi: cerchiamo la parte più tradizionale, i piatti che ci aspettiamo di trovare e che sono più conosciuti all'estero. Nel loro caso, pasta al ragù, pizza, lasagne alla bolognese, pomodoro e mozzarella.
È un invito a tornare alla tradizione?
Penso un po' alle bellissime opere d'arte italiane. Va benissimo incentivare i musei d'arte contemporanea, ma senza per questo dimenticare il Colosseo, la Torre di Pisa, gli Uffizi.
A proposito degli Uffizi, torniamo a Firenze. Se Milano ha un – chiamiamolo - turismo di lavoro, il Four Seasons di Firenze come si caratterizza?
È un vero e proprio resort all'interno della città. Ci sono ospiti che vengono per rilassarsi, mangiar bene, visitare la città e anche le campagne vicine. La parola chiave è benessere. E in questo contesto si colloca anche la ristorazione che deve diventare “di destinazione”. È più difficile per la ristorazione all'interno di un hotel affermarsi come posto di destinazione. Anche se negli ultimi anni le cose, rispetto al passato, stanno cambiando...
In che modo?
Ormai, per fortuna, non si parla più di ristoranti d'albergo, ma di ristoranti considerati indipendenti. Dei punti di riferimento anche per la città. Così sempre più spesso capita che gli alberghi creino un secondo ristorante o addirittura una pizzeria.
Com'è stato nel caso del Four Seasons...
Esatto. Abbiamo introdotto la pizzeria tre anni fa, perché è inutile nasconderci solo dietro ai piatti creativi, un'offerta italiana che si rispetti presuppone anche questo piatto che è uno dei più conosciuti anche all'estero. Ovviamente si parla di una pizzeria di alto livello, affidata al pizzaiolo Marco Corona, e con solo prodotti selezionati. Non a caso qualche settimana fa abbiamo ospitato il grande maestro Franco Pepe. È giusto far conoscere i piatti della tradizione a chi viene in Italia, a patto che siano quelli autentici. Purtroppo in città turistiche come Firenze, ci sono tanti, chiamiamoli “birichini”, che danno una versione falsata del cibo italiano. Dalla pizza alla chianina. Penso ad esempio ai menu turistici che già partono dall'errore di considerare chi viene in Italia un turista e non un viaggiatore che vuol conoscere il nostro Paese, con tutte le sue tradizioni, anche quelle enogastronomiche.
Possiamo dire che sei un paladino delle tradizioni italiane...
Credo di essere uno chef da cucina tradizionale. Dove per tradizionale intendo la cucina familiare, regionale o anche di contrada. Concetti che vanno oltre la semplice cucina italiana.
C'entrano anche le tue origini lucane?
Le mie origini lucane mi hanno spinto ad essere molto attento alle materie prime. Mi son sempre considerato un emigrante che si è portato dentro il disagio della non appartenenza alla città. Passare dall'avere la massima libertà, ad accettare dei limiti visivi, e non solo. Il lavoro mi ha ridato quella libertà, che si esprime anche nella scelta degli ingredienti. È un piacere poter portare in tavola prodotti delle mie terre, dalla pasta fresca alla melanzana di Rotonda, dal pecorino alla carne podolica. Ed è quasi commovente sentire un cliente americano parlare di peperone crusco. La dimensione locale, a volte addirittura familiare, che incontra il mondo.
E di giri nel mondo, tu ne hai fatti parecchi. Cosa ti sei portato dietro da quelle esperienze?
Sì, sono passato – anche da apprendista – in alcune delle migliori cucine del mondo. Da Thomas Keller a Ferran Adrià, fino a Michel Bourdin, senza dimenticare l'esperienza come apprendista da Gualtiero Marchesi. Da tutti loro ho imparato l'importanza di comunicare. Comunicare i propri ingredienti e le proprie tecniche. A patto che sia una comunicazione onesta. Cosa che ho poi messo in pratica a Praga, dove la più grande soddisfazione è stata creare tutto un sistema di distribuzione partendo da zero. Nel 2000 non si trovava in città una mozzarella di bufala neanche a pagarla oro, adesso c'è una fornitura continua. Senza considerare il lavoro sulla clientela locale, passata dallo 0% al 60%.
E oggi sei soddisfatto del tuo lavoro? Non hai mai pensato di aprire un ristorante tutto tuo?
Ci sono andato vicino due volte. Prima in Oltrepò Pavese e poi in Aquitania, luogo di origine di mia moglie. Ma per fortuna mi son fermato in tempo, proprio grazie a lei. Oggi con la situazione economica precaria che c'è, sarebbe un'impresa difficilissima. Grazie al Four Seasons posso fare quello che mi piace con la massima libertà, senza dover fare i conti con la parte burocratica della ristorazione. Mi considero un privilegiato: diciamo che mi è andata bene.
Il Palagio dell'Hotel Four Seasons | Firenze | borgo Pinti, 99 | tel. 055.2626450 | www.ilpalagioristorante.it
La Veranda dell'Hotel Four Seasons | Milano | via Gesù, 8 | tel. 02.77081478 | www.fourseasons.com/milan
a cura di Loredana Sottile