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Cambiamento climatico. Vitigni autoctoni e ricerca scientifica possono essere una soluzione?

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Il progressivo cambiamento climatico è un dato di fatto con cui inevitabilmente dobbiamo fare i conti? Ne parliamo con Attilio Scienza, Professore Ordinario di Viticoltura presso l'Università degli Studi di Milano.

Negli ultimi decenni si è registrato non solo un innalzamento delle temperature medie, ma anche un incremento di fenomeni meteorologici estremi: primavere precoci, gelate tardive, estati fredde e piovose o al contrario molto calde e siccitose, violenti temporali estivi con piogge intense e grandine. Una serie di eventi che sta mettendo a dura prova la viticoltura. L’annata 2017 è un esempio paradigmatico di questa situazione, cosi come lo sono state, per caratteristiche opposte, la 2014 e la 2015.

Ne parliamo con Attilio Scienza, Professore Ordinario di Viticoltura presso l'Università degli Studi di Milano, cercando di fare il punto della situazione e di comprendere se i vitigni autoctoni stanno dimostrando una miglior capacità di adattamento al nuovo scenario climatico.

Parliamo di cambiamento climatico: quali sono le responsabilità dell'uomo e quali le possibilità di intervento?

Il contributo dell’uomo nel cambiamento climatico su scala globale è oggetto di discussioni molto spesso ideologiche. Se le modifiche ai valori della CO2 possono essere in parte attribuite alle attività umane e quindi essere oggetto di modellizzazioni per prevederne le conseguenze sugli incrementi delle temperature, queste sono inefficaci per la stima delle precipitazioni che hanno andamenti imprevedibili. Quindi in futuro il problema sarà soprattutto legato alla disponibilità d’acqua sia nell’entità, che nella distribuzione delle piogge.

Le situazioni climatiche estreme stanno mettendo a dura prova la viticoltura. È colpa solo del clima o anche dell’uomo, che non sempre ha scelto i vitigni più adatti alle caratteristiche pedoclimatiche dei vari territori?

La storia della viticoltura europea è una storia di adattamento ai cambiamenti climatici che si sono susseguiti fin dagli albori della nascita dell’agricoltura. Per correttezza metodologica però, come afferma Luigi Mariani (agronomo, ricercatore e docente di Agronomia, ndr), “non è possibile andare oltre al dato scientifico e passare disinvoltamente dall’analisi dei fatti a previsioni e modelli dai contenuti più ideologici che scientifici. La storia della terra insegna che la ciclicità rappresenta una costante cosmologica, tesi che gli 'esperti' rifiutano in nome di una visione lineare e progressiva del tutto discutibile”. D’altro canto l’atteggiamento dell’opinione pubblica è oggi orientato più alla rimozione di quella piccola responsabilità che è imputabile alle attività umane, che non nella soluzione del problema.

Allora, cercando un approccio meno ideologico?

Quello che conta è che l’accelerazione del riscaldamento è evidente e quindi bisogna trovare delle soluzioni per mitigarne gli effetti. La lotta del viticoltore contro la “dittatura del clima” in ogni tempo si è sviluppata nelle fasi iniziali con la delocalizzazione della coltivazione delle vite, come ad esempio è avvenuto con la scomparsa della viticoltura dalle vallate alpine e dalle regioni del Nord Europa dopo l’optimum climatico medievale (periodo di inusuale clima caldo, ndr). Il cambiamento varietale ha dato il maggior contributo adattativo, con la scelta di varietà capaci di superare le crisi climatiche, spesso portando vitigni da altre zone.

Ci faccia qualche esempio.

L’introduzione dello chardonnay e del gouais in Champagne in sostituzione del pinot nero e di altre varietà originarie, è avvenuta durante la “piccola glaciazione“ dal XIV al XVIII sec. Così nel Veneto molte varietà tardive furono abbandonate in occasione della grande gelata del 1709 e alla ripresa delle condizioni climatiche favorevoli, la forte richiesta di vino favorì la coltivazione dei vitigni più produttivi a discapito di quelli più qualitativi. La storia si ripete, come si può notare nella Heathcote australiana, dove al posto dei vitigni provenienti dalle regioni continentali europee, si stanno introducendo varietà dell’Italia centro meridionale, quali il montepulciano, il nero d’Avola, il sagrantino e l’aglianico.

È solo questione di scelta di varietà idonee?

No. Anche le scelte di tecnica colturale come l’adozione di forme d’allevamento con diversa architettura dell’apparato fogliare o le sistemazioni dei suoli più favorevoli all’intercettazione dell’energia solare, che hanno modellato rive di fiumi e laghi europei, hanno offerto contributi importanti, anche se non decisivi nel contrastare degli effetti negativi del clima.

È possibile dare un profilo alle crisi climatiche in Italia?

Se in passato le crisi climatiche erano soprattutto caratterizzate dalle basse temperature nel periodo invernale e da ridotte disponibilità energetiche durante il periodo vegetativo, quelle attuali si manifestano con eccessi termici, alte radiazioni UV-B e disponibilità idriche irregolari e imprevedibili.

Quali sono le conseguenze delle attuali crisi climatiche?

Le conseguenze sulla fisiologia della vite sono molto evidenti come dimostrano gli effetti della carenza idrica (la riduzione della piovosità negli ultimi 100 anni è stata del 5% con una maggiore concentrazione in alcuni periodi), lo sfasamento delle fasi fenologiche (anticipazione dei tempi di vendemmia, ma soprattutto per i processi di accumulo che avvengono in coincidenza di temperature elevate), gli effetti ossidativi sull’attività fotosintetica, l’alterata sintesi dei composti secondari (polifenoli e aromi) che sono alla base della qualità del vino. Non trascurabili sono anche le interazioni con il ciclo dei parassiti animali e vegetali e con le caratteristiche fisico-chimiche e microbiologiche del suolo, spesso sottovalutate. Questo renderà sempre più difficile una gestione dei vigneti con un regime biologico.

Se guardiamo all’Italia, quali sono i vitigni più danneggiati dal cambiamento climatico?

I vitigni precoci (in genere provenienti da ambienti più freddi d’Europa e dalle viticolture atlantiche) e le uve destinate alla produzione di basi spumante, modelli viticoli che sono stati introdotti in Italia in un periodo climatico abbastanza freddo e per soddisfare esigenze del mercato. La viticoltura centro meridionale ha per diversi motivi selezionato vitigni più tardivi e quindi meno soggetti ai fenomeni di anticipazione fenologica.

I vitigni autoctoni, che si sono sviluppati attraverso secoli d’interazione con un territorio, possono avere una maggiore resistenza naturale a situazioni climatiche difficili?

Non si può parlare di acquisizioni di resistenza in conseguenza dell’esposizione della vite a condizioni climatiche sfavorevoli, come nel caso dell’uomo con le vaccinazioni nei confronti di una malattia, piuttosto di valorizzazione da parte dell’uomo - selezionatore, del risultato di mutazioni spontanee che si sono accumulate nelle varietà nel corso delle generazioni e che si sono manifestate in occasione di fenomeni climatici estremi, o per effetto delle manifestazioni epigenetiche ereditarie più frequenti nella vite sottoposta a stress.

Rientrano in questo campo anche gli incroci spontanei?

Anche loro hanno avuto un ruolo importante, soprattutto nei casi d’introgressione genica tra individui provenienti da zone geograficamente molto lontane (vedi l’incontro di viti paradomesticate dell’Europa continentale con varietà provenienti dall’Est in epoca medioevale). Anche in questo caso l’uomo ha avuto un ruolo decisivo nella selezione degli individui con migliori doti di adattamento, ma si rivela fondamentale nella scelta varietale la cultura di quelle popolazioni, in funzione del tipo di vino da ottenere.

Si può dire sia un fenomeno abbastanza recente...

Sì: in passato la circolazione varietale era molto più limitata che non ora, un vitigno selezionato in un luogo generalmente non veniva spostato altrove anche perché il rapporto con il territorio di appartenenza era allora molto stretto ed era inconcepibile che si potesse modificare con lo spostamento del vitigno. I vitigni hanno iniziato a diventare internazionali (vedi cabernet, merlot, pinot, chardonnay, etc) con la ricostruzione postfillosserica e con la Francia assurta a nazione guida in Europa nell’800.

Si può ipotizzare anche una “memoria genetica” nel DNA dei vitigni autoctoni, che li possa aiutare a sopravvivere alle avversità climatiche?

Ogni individuo vivente ha una memoria genetica rappresentata dalle modifiche che il suo DNA ha subito con l’incrocio e con le mutazioni. I principi dell’evoluzionismo darwiniano ci insegnano che in natura la selezione degli individui avviene in funzione del grado di adattamento che quell’organismo ha nei confronti delle caratteristiche ambientali, per effetto del suo patrimonio genetico. Chi non riesce a superare queste difficoltà, viene eliminato e si riproduce solo chi ha un elevato grado di adattamento.

Entrando nello specifico della vite.

La vite è una liana che ha evoluto il suo DNA in condizioni estreme, a partire dall’Eocene (circa 50 milioni di anni fa), ma le origini dei suoi taxa più primitivi sono molto più lontane. Ha superato i rigori delle glaciazioni del Quaternario così come ha resistito ai lunghi periodi di caldo e siccità delle regioni equatoriali. Questo gli ha consentito di accumulare nel suo DNA numerosi geni di resistenza, che sono attualmente inespressi perché la selezione antropica si è orientata verso caratteri morfologici interessanti per la produzione e la qualità, rinunciando a scelte più drastiche nei confronti di caratteristiche adattative migliori nei confronti dell’ambiente perché con la domesticazione e le tecniche ha in un certo senso protetto queste piante da eventi climatici estremi.

Secondo questo ragionamento, è inutile parlare di vini naturali.

Direi di sì: naturale è solo ciò che è spontaneo. I nostri vitigni sono come degli iceberg di cui vediamo solo la punta, quale espressione dei processi di selezione avvenuti in un preciso momento climatico, ma che nascondono in virtù delle loro elevata eterozigosi, un numero enorme di geni inespressi che sono portatori di caratteri di resistenza non solo alle condizioni climatiche più sfavorevoli ma anche alle malattie crittogamiche.

Questi geni inespressi possono essere una grande risorsa per la ricerca scientifica?

La biomimetica può a questo proposito rivelarsi uno strumento diagnostico formidabile di conoscenza per comprendere come attraverso i processi evolutivi, che sono alla base dei nostri vitigni, si siano formati quei geni nelle diverse varietà, necessari per sviluppare programmi di miglioramento genetico, per la creazione tramite l’incrocio di vitigni e portinnesti adattati ai climi caldi e siccitosi, utilizzando specie e varietà provenienti da ambienti meridionali.

Ci sono già dei risultati tangibili in tal senso?

Sì e sono molto promettenti, come dimostrano alcune varietà ottenute in California e nel sud della Francia a partire dagli anni ’50, incrociando vitigni meridionali con vitigni atlantici, ma allora lo scopo dei selezionatori non era quello di trovare vitigni meglio adattati al cambiamento climatico, ma piuttosto di creare delle varietà con un profilo qualitativo più vicino ai gusti del consumatore di allora, molto attratto dal modello sensoriale francese.

Spostandoci dal piano qualitativo a quello della resistenza (alle malattie crittogamiche e alle condizioni climatiche sfavorevoli)?

Per poter far esprimere questi geni che sono nascosti nel DNA sono necessari interventi di miglioramento genetico. Le applicazioni delle scienze “omiche” (classe di discipline legate alla biologia molecolare e alla genetica, ndr) consentono di ottenere nuovi genotipi (vitigni e portinnesti) più performanti in tempi più ridotti rispetto al passato, non solo nei confronti della resistenza alle malattie crittogamiche ma anche per il controllo degli stress abiotici. L’impatto degli effetti che il cambiamento climatico avrà sulle tecniche produttive e sui comportamenti del consumatore, sarà paragonabile a quello che è avvenuto 150 anni fa con l’arrivo della fillossera. Allora la salvezza della viticoltura europea passò attraverso i risultati del miglioramento genetico. Ci aspetta quindi da parte della ricerca ma soprattutto dei produttori, una vera rivoluzione culturale sulla quale possiamo riflettere senza pregiudizi per trovare una risposta convincente a tutti i dubbi che ci poniamo quotidianamente e che rimangono talvolta irrisolti.

Il caso fillossera ha creato un precedente, anche per quel che riguarda le ipotetiche soluzioni?

Certo, infatti si sta rivelando determinante anche il contributo del portinnesto nelle sue interazioni con il suolo. Ricerche recenti hanno individuato nelle radici il ”cervello“ della vite. Il portinnesto con la sua capacità di superare gli stress legati soprattutto alla mancanza d’acqua, contribuisce per oltre il 40% ai risultati produttivi di un vigneto.

Quali sono i portainnesti più idonei ad affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici?

Sono quelli che riescono a sviluppare un apparato radicale a due strati, uno più superficiale con funzioni trofiche e uno profondo maggiormente efficiente nell’assorbimento dell’acqua in profondità. L’opportunità di sviluppare nuovi portinnesti per la viticoltura italiana è stata evidenziata dal successo della sperimentazione che ha portato alla creazione e omologazione dei portinnesti della serie M da parte dell’Università di Milano e diffusi dalla società Winegraft attraverso i vivai VCR. I nuovi portinnesti presentano una elevata tolleranza agli stress osmotici (carenza idrica ed eccesso di sale nel terreno, un'altra grave e spesso sottovalutata conseguenza del riscaldamento climatico), un fabbisogno di elementi minerali ridotto (potassio in particolare, il cui eccesso nella vite è alla base dello squilibrio acido-base dei mosti), consentendo quindi produzioni di qualità con un basso impatto ambientale e con minori costi di produzione .

Il futuro è quindi in un maggior rispetto per la storia di ogni territorio, con l’intento di privilegiare la coltivazione dei vitigni autoctoni?

Il rischio è che con la delocalizzazione della viticoltura, i vitigni autoctoni inadatti al superamento del cambio climatico, saranno i primi a farne le spese e l’attenzione del produttore e del consumatore si concentreranno su pochi vitigni dotati di grande plasticità nei confronti dell’ambiente. Questo provocherà una grande erosione genetica, analogamente a quanto era successo in passato, in casi simili (vedi piccola glaciazione), solo con il miglioramento genetico possiamo contrastare questo processo, creando una nuova generazione di vitigni “autoctoni” partendo dalla semantica della parola autoctono, che significa “di quel luogo”. Così sono nati i nostri 1000 vitigni antichi italiani.

Non crede che potrebbe essere anche una carta vincente a livello d’identità e riconoscibilità del vino italiano nel mondo? In fondo le nostre eccellenze nascono da questa visione produttiva legata alla tradizione.

La storia non è altro che il presente che prende coscienza del passato“. Lo scriveva Jean-Paul Sartre. L’Italia è in preda a un incantesimo ideologico che esalta il passato dal quale siamo fortunatamente usciti grazie alla sofferenza e al lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto. Si vuol far credere che si possa costruire una prospettiva economica alla nostra viticoltura sulla nostalgia e sull’esoterismo. La tradizione perché sia fonte di progresso deve essere costantemente tradita, con un “tradimento fedele”, che mantenga ciò che è valido ma che abbandoni ciò che impedisce di migliorare le nostre condizioni di produzione e di sviluppo. La ricchezza di un Paese e il suo benessere dipendono da molte circostanze ma due sono imprescindibili: la libertà individuale e lo sviluppo scientifico. Investire nella scienza e scommettere sull’innovazione, significa pensare per il futuro.

Qual è il futuro auspicabile?

Il futuro è il miglioramento genetico e l’applicazione della space economy. Vannevar Bush, un maestro del pensiero scientifico occidentale, pubblicò nel 1945, all’uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, il “Manifesto per la rinascita di una nazione”, con questo sottotitolo: “La scienza può contribuire al benessere della nazione solo all’interno di un lavoro di squadra. Ma senza il progresso scientifico nessun risultato in altre direzioni, per quanto grande, potrà mai assicurarci la salute, la prosperità e la sicurezza necessarie a una nazione del mondo moderno”.

Un messaggio da condividere per dare nuovo impulso alla ricerca viti-enologica italiana, per trasformare tutti assieme, un problema in un’opportunità. I vitigni ottenuti per incrocio rappresentano i nuovi vitigni autoctoni del futuro, sono il risultato degli stessi processi selettivi fatti migliaia di anni fa, le differenze sono rappresentate dalla diversa consapevolezza degli uomini nei confronti della realtà che ci circonda e dagli strumenti per ottenerli. Purtroppo il grande impedimento all’innovazione e al progresso sono i vincoli imposti della norme delle Denominazioni che rappresentano una corazza invalicabile al cambiamento.

a cura di Alessio Turazza


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