27mila sagre finte per un giro di 558 milioni di euro. Questa la foto delle feste paesane che fa polemicamente la Confcommercio. Ma alle pendici dei Cimini va in onda una sagra che invece ha riportato in vita una coltura antica che si candida anche per il futuro. E Cannavacciuolo affonda: la tradizione non è fatta di piatti, ma di ingredienti che nascono nei territori.
“Ò rronkàto sta lètta de faćòl a kkàrne, è ppe ffàlli sekkà bbè l ò ppikkàti se piànte”. Alla lettera F del vocabolario dialettale di Fabrica di Roma scritto da Paolo Monfeli, la fa da protagonista il “faćòl a kkàrne” che il contadino dice di aver tagliato e appeso sulla pianta affinché secchi per benino. Questo particolare tipo di legume ha caratterizzato per secoli la produzione orticola del paese alle pendici dei Cimini, nella Tuscia Viterbese, grazie alla specifica configurazione idrogeologica del terreno, ed è tornato a fare da collante identitario di Fabrica che gli dedica una importante sagra cittadina – dal 15 al 17 settembre – in cui le donne del paese cucinano il legume nei diversi modi cui la tradizione lo ha declinato: con le cotiche, a insalata, all’uccelletto, arricchiti delle erbe aromatiche selvatiche di cui sono pieni campi e pascoli della zona.
Una festa collettiva
Domanda: ma tra tutte le sagre che affollano e hanno affollato l’estate, proprio di questa si va a parlare? Beh, in realtà questa di Fabrica di Roma è una sagra “anomala”, ovvero: dovrebbero essere così le sagre, rappresentare un prodotto che abbia un senso nella storia del paese, cosa che però non accade più tra rane importate dalla Cina, gnocchi surgelati, bistecche prese chissà dove, funghi che si materializzano in stagioni improbabilissime. Ecco, questa di Fabrica si chiama sagra, ma “sagra” in realtà non è: si tratta di una festa, di una cerimonia collettiva che celebra la tradizione di un ingrediente che affonda le radici (e il seme è lo stesso) nel Medioevo, un ingrediente che trova oggi altri motivi per riproporsi verso il futuro. Altro che sagra della bruschetta o della tagliata, cose dannose non solo per l'immagine e la cultura gastronomica. Perché, denuncia la Confcommercio, in Italia ci sono oltre 27mila sagre finte che fatturano ben 558 milioni di euro: un bel danno per chi invece fa impresa regolarmente. Senza contare che spesso, in queste situazioni, l'aspetto contributivo è alquanto dubbio.
Il Biodistretto della via Amerina
Ma c’è anche un altro elemento che fa di questa festa un momento importante per questa zona. Un'area che va dalle pendici dei Cimini fino alle forre lungo il corso del fiume Treja: Fabrica, insieme ad altri 12 Comuni della provincia di Viterbo di cui il più grande è Civita Castellana, fa parte del Biodistretto della via Amerina. Un'area in cui i diversi individui presenti sul territorio lavorano per gestire le risorse in modo sostenibile contribuendo, così, alla tutela e alla valorizzazione dell'ambiente circostante. È l’unico (dei tre esistenti) ad avere già preso concretamente il via.
Qui, in una zona dominata fino a 2-3 decenni fa dalla industria ceramica, la crisi economica e la globalizzazione hanno imposto un cambiamento di vita e la terra – poco sfruttata e ancora integra – è diventata protagonista di tante coraggiose scelte da parte di imprenditori che ne hanno fatto un campo di lavoro importante, mettendoci la faccia e dando vita a vere e proprie eccellenze enogastronomiche. Il tutto a una manciata di chilometri tra Roma e Terni.
La rinascita della coltivazione
Tornando a Fabrica, il progetto di ridar vita a questa antica produzione è stato voluto dal sindaco Mario Scarnati e perseguito con passione da Sigismondo Sciarrini, imprenditore della zona e assessore a Fabrica. “Abbiamo studiato il fagiolo, abbiamo recuperato il seme originario della nostra terra e ne abbiamo distribuito un po’ ciascuno a dieci contadini che abbiamo convocato in Comune”ricorda Sigismondo “Era il 2012, e da allora sono almeno cinque i coltivatori che ogni anno producono oltre dieci quintali di questo pregiato legume”. Una coltura che si sarebbe persa, ma che invece ha in questo territorio una vera e propria ragione di essere, tanto che da secoli è presente in molti documenti dell’archivio storico, che ne testimoniano l'uso anche come forma di pagamento per i diritti di enfiteusi sui terreni da parte dei contadini, fin dall’epoca tardomedievale.
La riscoperta delle radici
Cos’ha di speciale questo fagiolo? “Beh, intanto il suo importante contenuto di proteine nobili, caratteristica che gli ha guadagnato il nome di 'carne' in epoche in cui la carne era un bene raro”sorride l’assessore“E per questa ragione, oggi, in un’epoca in cui il vegetarianesimo e il veganesimo stanno avanzando a grandi passi conquistando sempre più proseliti, il fagiolo a carne diventa un ingrediente prezioso”.
Il legume di Fabrica di Roma ha ottenuto anche la registrazione tra i prodotti tradizionali da parte della Regione Lazio che, tra le altre cose, conferma nella scheda tecnica il particolare significato che ha nella produzione agricola della zona: “A Fabrica di Roma, fin dal passato, le zone altamente vocate alla coltivazione del fagiolo a carne sono quelle a fianco dei due ruscelli sgorganti dalle fonti del Barco e dei Salvani, appena fuori le mura dell’abitato, arrivando in località La Mola, sito di localizzazione del mulino a grano della Comunità, dove il Comune stesso era proprietario di un grande e pregiato appezzamento irriguo, frequentemente citato in contratti di locazione. La disponibilità dell’acqua oltre a consentire l’impianto di molte specie, rendeva possibile la coltivazione di questo particolare tipo di fagiolo selezionato nel tempo anche in 'secondo raccolto' dopo la mietitura dei cereali a luglio. La possibilità di avere due raccolti annui fece privilegiare la coltivazione del fagiolo, rispetto ad altre colture, favorendo con gli anni la selezione e diffusione di questa antica varietà di 'fagiolo a carne' adattata con un naturale processo selettivo e migliorativo alla situazione pedoclimatica del pese di Fabrica di Roma”.
La sagra delle polemiche
Abbiamo preso a esempio la festa del fagiolo di Fabrica di Roma anche per parlare un po’ di sagre in generale. Si tratta spesso – dicevamo – di iniziative su temi e prodotti improbabili come quelle, per esempio, dedicate al cinghiale in pieno agosto, ovvero in un periodo non propriamente dedicato alla cacciagione. A Piazze (Cetona) - per continuare con qualche esempio di sagra improbabile - in maggio si è tenuta la Sagra della Fragola: e passi. Ma sulla locandina viene sbandierato l’accompagnamento del calzone fritto e ripieno di… Nutella! A Usago, nel comune di Travesio (PN), le rane sono parte della memoria storica e ovviamente hanno dato vita alla solita sagra: peccato, però, che da decenni ne è vietata la cattura e che quindi vengono congelate direttamente dalla Cina (o giù di lì). Passiamo in Abruzzo: Campo di Fano di Prezza, dove si tiene la «giusta» sagra dell’aglio rosso, c’è anche la sagra della Carne al Fuoco, ovvero della bistecca, con tanto di locandina carica di cowboy a far da sfondo alla griglia. beh, avrebbe senso una sagra del panino alla fettina a Nuoro (tipico de questa cittadina sarda), ma la bistecca!!! Come dire - appunto - la sagra delle banalità.
Ma è interessante questa piccola sagra del fagiolo a carne del viterbese perché quest’anno proprio in terra di Tuscia – in particolare a Canepina – è esplosa una polemica politica sui finanziamenti alle associazioni locali che avrebbero preso nel Lazio più soldi di quanti ne siano stati stanziati per i terremotati (sempre del Lazio). Ma le feste popolari non sono tutte esperienze dubbie: proprio a Canepina la Sagra del Fieno è una di quelle occasioni in cui viene celebrato il cibo che identifica quel paesino incastonato tra i Cimini e che, oltre a castagne e nocciole, ha proprio i “maccheroni” (così si chiamano i sottilissimi tagliolini prodotti quotidianamente dalle donne in casa) come elemento identificativo; tanto da farne sia un brand di marketing territoriale sia un elemento di sviluppo economico per i ristoranti del paese e per la produzione artigianale del Pastificio Fanelli, che ha dato ali e numeri a questa pasta all’uovo secca.
Commercianti e ristoratori
Il punto è che – a parte le feste identitarie (come ad esempio la Sagra delle Sagre di Asti del 9 e 10 settembre che mette in mostra le tradizioni storiche e culinarie delle popolazioni della provincia e che è comunque è stata terreno di polemica politica tra chi voleva partecipare e chi no) – ci sono realtà dove le sagre durano mesi e mesi. Massarosa (in Versilia), che l’anno scorso contava ben 310 giorni di feste paesane con tanto di ristoranti da campo, quest’anno ha “ridotto” le serate a 150 (più altri 30 giorni di feste sul territorio del Comune) in un periodo di 210 giorni e mantiene il primato di capitale delle sagre paesane. Di certo proprio qui, nel Comune delle Sagre, le occasioni di festa conviviale sono ogni anno occasione di scontro tra maggioranza, opposizione e parti sociali, ristoratori e commercianti che contestano una concorrenza sleale fatta senza alcun controllo, senza documenti fiscali e senza gli standard che invece sono tenuti a garantire gli imprenditori “normali”. Una polemica che evidenzia pienamente cosa sia diventato ormai l’universo delle sagre in Italia.
Stessa musica in Sardegna, quest’anno come mai presa d’assalto da turisti italiani e stranieri: l’Isola delle Sagre – così chiamata da chi denuncia il fenomeno – ha contato in estate, da giugno a settembre, una sagra ogni sera. “In estate è diventato un fenomeno inarrestabile”attacca GavinaBraccu,responsabile Fipe per il nord Sardegna “Molte nascono dal nulla, senza neanche uno straccio di autorizzazione. Anche se spesso sono i comuni che danno il via libera perché attirano turisti. Eppure il sindaco è anche un pubblico ufficiale e risponde anche della salute dei cittadini”.
Cannavacciuolo: tradizione & territorio
La polemica sulle sagre, oltre al terreno economico e d’impresa, abbraccia anche il terreno più propriamente culturale, riguarda il prodotto e la qualità e autenticità di quanto portato in tavola. E investe non solo le feste paesane, ma anche il modo di funzionare di molte cucine professionali in Italia. Non a caso lo chef più amato dal grande pubblico, Antonino Cannavacciuolo, ha puntato la sua cucina proprio sulla qualità degli ingredienti e sul loro stretto legame di produzione nei diversi territori: cosa che nelle sagre quasi mai avviene, pur essendo dedicate a prodotti identitari. Lo chef campano, patron di Villa Crespi a Orta San Giulio (Piemonte), è il protagonista della copertina del mensile Gambero Rosso di settembre ora in edicola: presenta i suoi dieci piatti che più lo rappresentano e fa un’affermazione forte che dovrebbe essere ben meditata dai colleghi chef, ma anche da chi presta lavoro volontario (e magari anche con passione) nelle sagre paesane: “In Italia, per fortuna, abbiamo una tradizione enorme. La tradizione è ingrediente, non tanto ricetta. Quindi non puoi rispettarla senza la ricerca costante della qualità o con prodotti che non ne fanno parte. C’è gente che 'scassa' perché il pollo alla diavola deve essere fatto come un tempo e poi scopri che acquista la carne del Nord Europa e il pomodoro del Marocco…”A proposito di ingredienti e terroir, Cannavacciuolo è stato attaccato anche perché a Masterchef non ha attribuito agli abruzzesi la paternità dello spiedino di pecora, l’arrosticino. Ma lui, sempre a proposito di territori e cultura, contrattacca: “Non ho mai detto che quelli erano spiedini napoletani... Però vorrei che quanti si sono scatenati contro di me se la pigliassero maggiormente con le persone che in tanti locali (e sagre) mettono gli arrosticini congelati direttamente su una piastra sporca. E poi raccontano che sono il simbolo dell’Abruzzo. Quella sarebbe la vera difesa del prodotto”.
A proposito di pecora
Tornando ancora a Fabrica, presa qui come esempio di sagra nel senso corretto del termine (legate al senso collettivo del sacro e al raccolto locale), e a proposito degli arrosticini, non possiamo non nominare l'altra sagra che ha luogo a Fabrica di Roma (nel mese di luglio, però) e che ha al centro la pecora. Una festa che è stata al centro di forti polemiche all'interno dell'amministrazione del Comune. Ma che ha comunque un fortissimo radicamento nel territorio: la zona di Fabrica e dell'antica città di Faleri, fino ai prati e campi a ridosso di Corchiano e di Civita Castellana, è dagli inizi del secolo un'area di pascolo e di allevamento delle pecore. Sono tanti i pastori che abitano qui e che in estate portano le greggi in transumanza fino in Abruzzo. Ci sono documenti e filmati storici risalenti ai primi del '900 che attestano la fortissima presenza dell'allevamento ovino in queste terre.
La pecora è dunque un elemento fondamentale, sia del territorio che dell'economia di questi comuni. E la sagra dedicata alle carni nobili di questo animale a torto considerato di serie B sul piano alimentare ha un suo senso, proprio qui. Tanto che si sta pensando di gemellare questa festa con la Sardegna, in particolare con Siddi, in Marmilla, il paese che ospita lo chef Roberto Petza che della carne di pecora ha fatto una sua bandiera gastronomica. Una mossa intelligente e lungimirante che guarda ben oltre la semplice sagra paesana e che punta a dare definizione e maggiore identità non solo al paese, ma a tutto il Biodistretto della via Amerina. Nel senso proprio che dice Antonino Cannavacciuolo.
Sagra del fagiolo a carne | Fabrica (VT) | dal 15 al 17 settembre 2017 | http://www.comune.fabricadiroma.vt.it/comune/news-dal-comune/v%C2%AA-sagra-del-fagiolo-carne.html
a cura di Stefano Polacchi
foto di copertina Marcello Rapiti