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Bologna “città dei taglieri”. Il boom del cibo ora preoccupa: come stanno le cose?

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I recenti dati della Camera di Commercio parlano chiaro, e d'altronde gli ultimi 5 anni sono stati una continua proliferazione di ristoranti, attività di somministrazione, caffetterie e minimarket. Ma la qualità spesso latita, per accontentare il turismo low cost. Ora l'assessore Lepore corre a ripari, intanto si accende il dibattito: il cibo può fare cultura? E come? 

Il boom del cibo

Bologna la Grassa (ma, non dimentichiamo, anche la Dotta). Cosa significa, oggi, per il capoluogo emiliano custodire una delle tradizioni gastronomiche più antiche e celebri d'Italia e nel mondo? A chiederselo sono in molti, ristoratori, cariche istituzionali, bolognesi atterriti dalla considerazione che sotto i loro occhi, nell'ultimo decennio, molte attività storiche hanno serrato i battenti, ma per contro – mal comune che imperversa tra le grandi città della Penisola – anche l'infilata di portici e tracciati medievali all'ombra delle Due Torri sia seriamente minacciata dall'industria del cibo. Quella che sull'offerta gastronomica diffusa, insistente, disponibile a tutte le ore conta per accontentare un numero di turisti in crescita. Del resto, i dati della Camera di Commercio allineati dal Corriere di Bologna raccontano pro e contro di una moltiplicazione di insegne di somministrazione che rischia di sfuggire di mano: oltre il 30% di ristoranti in più negli ultimi 5 anni, di cui una cinquantina, considerando anche le attività di ristorazione mobile, aperti negli ultimi sei mesi; e ancora, oltre 500 i minimarket e i negozi di alimentari, che in 5 anni sono pressoché raddoppiati in centro città. Ancor più evidente la rincorsa delle caffetterie, con un picco di crescita al 233% considerando lo stesso arco temporale.

 

Bologna come destinazione gastronomica. Pro e contro

In termini di crescita economica della città, questo significa che l'aumento del turismo ha avuto ricadute positive sul dato occupazionale, offrendo nuova spinta all'iniziativa imprenditoriale. Ma, e il campanello d'allarme l'ha suonato per prima l'assessore alla Cultura Bruna Gambarelli, il rischio che Bologna si trasformi nella “città dei taglieri” è dietro l'angolo. Cosa significa? Il fenomeno è già noto in città d'arte ad alto coefficiente turistico, Firenze e Venezia in prima fila, dove la spina nel fianco più insidiosa per le amministrazioni comunali è diventata propria la proliferazione indiscriminata di insegne di somministrazione e vendita di cibo di dubbia qualità. Proclami, dibattiti e sollecitazioni dell'opinione pubblica hanno portato al giro di vite: delibere per bloccare le licenze, decaloghi per premiare la qualità a discapito dell'improvvisazione che impera nel settore, controlli più serrati. Almeno sulla carta. Ma pure qualche cieca presa di posizione giustificata da pregiudizi di facciata. Certo, è innegabile che il boom del cibo possa cannibalizzare gli altri settori merceologici – soprattuto le decantate botteghe storiche – come il fatto che l'aumento della concorrenza non necessariamente invogli a giocare a rialzo. Anzi, la guerra dei prezzi finisce spesso col tagliare fuori chi vuole fare qualità.

 

Stop alle licenze, limiti al commercio scadente

E allora anche Bologna corre ai ripari, e comincia a ripensare la politica delle concessioni, regolare la proliferazione di dehors, rivendicare l'identità di certe zone storiche della città. Nei giorni scorsi si è pronunciato pure il Soprintendente alle Belle Arti Luigi Malnati, che chiede a gran voce di restituire un posto di rilievo alla cultura e al sistema dell'arte di cui Bologna non fa difetto. Non solo tagliatelle, dunque, ma questo, ci sentiamo di dire, dovrebbe essere un fatto scontato, anche se pure Mauro Felicori, oggi felicemente impegnato nel rilancio della Reggia di Caserta e bolognese doc, nei giorni scorsi ha messo in allarme sul rischio di fare della cultura solo un bene di consumo, che non porta crescita creativa e produttiva. Le soluzioni per regolare il fenomeno, però, quelle vere, dove stanno? L'ultima parola arriva dall'assessore al marketing Matteo Lepore (lo stesso che negli ultimi anni ha incentivato il rinnovamento del mercato delle Erbe): la speculazione si combatte con regole certe per favorire artigianato e botteghe storiche, a scapito di fast food e attività di dubbia utilità. Negli ultimi 5 anni “Bologna è diventata una destinazione”, continua l'assessore sul Corriere della Sera, e fare marcia indietro non avrebbe senso. Il turismo bisogna saperlo gestire, e indirizzare per il meglio. Quindi entro l'anno sarà approvato un regolamento che limita gli investimenti commerciali di bassa qualità, sulla scorta del regolamento Unesco. Poi arriveranno i fondi per le attività storiche.

 

Massimiliano Poggi: ci vuole la volontà

Bologna la Grassa, insomma, non deve (non può) trasformarsi in un cliché turistico, sul modello di un parco divertimenti del cibo a-critico che molti temono di ritrovare da Fico (ma è presto per dirlo, aspettiamo novembre). Ma la differenza possono farla anche i ristoratori. A incoraggiarli, sulla questione dice la sua Massimiliano Poggi, memoria storica della ristorazione cittadina e lanciatissimo all'ex Sole di Trebbo – oggi semplicemente Max Poggi - che l'anno scorso ha rilanciato dimostrando quel coraggio imprenditoriale che tanti hanno dimenticato per percorrere strade più semplici. Con le dovute eccezioni, però, perché di investimenti seri negli ultimi anni a Bologna se ne sono visti molti, pensiamo alla Bottega I Portici, al recente trasloco di Vincenzo Vottero, al progetto di Brisa, alla pizza di Matteo Aloe o di Michele Leo; e diverse insegne continuano ancora a tenere alto il nome dell'identità gastronomica locale. Ma la possibilità di tornare in corsa giocando a rialzo, sostiene Poggi, ai ristoratori bolognesi non manca. Basta volerlo. Il turismo low cost esiste in tutte le città, inutile (e controproducente?) contrastarlo, perché non investire per attirare pure un pubblico in cerca di tradizioni, competenza e personalità? Un piatto di tortellini ben fatto e un buon bicchiere di vino chi potrebbe rifiutarli?

 

a cura di Livia Montagnoli


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