Diego Bamberghi, Giovanni Giberti e Luca Scanni: i tre soci di Pavé ci raccontano il segreto del successo che in 5 anni ha trasformato un laboratorio di pasticceria in uno dei punti di riferimento milanesi: 3 sedi con un'offerta differenziata e un modello che fa gola a molti.
Sono in tre, Diego Bamberghi, Giovanni Giberti e Luca Scanni. Sono loro che, un lustro fa, hanno dato vita a un progetto che unisce attenzione per il design e grande qualità del prodotto, un'atmosfera come si fatica a trovare in Italia e grande solidità imprenditoriale.
I soci di Pavè
Parliamo di Pavé, che in 5 anni ha triplicato sedi e offerta. Come ci sono riusciti? Lo abbiamo chiesto direttamente a loro inanellando questa lunga intervista in cui, per una volta, si parla di azienda, numeri, dipendenti e economie e non di panettoni, farine e lievitazioni. Pavè poi, non dimentichiamolo, in questi 5 anni oltre ai favori del pubblico ha scalato anche le classifiche anche e soprattutto per quanto riguarda il Gambero Rosso sia per quanto concerne la parte di bar e pasticceria sia per la neonata attività sul gelato, appena aperta e già considerata dalla nostra guida tra le migliori gelaterie d'Italia.
Diego, Giovanni, Luca. A chi dei tre è realmente venuta l'idea? In che modo?
Più che l’idea di qualcuno si è trattato del momento vissuto da tutti. Non eravamo particolarmente felici dei nostri lavori e delle prospettive, avevamo iniziato a lavorare nel pieno del periodo di crisi che non lasciava grande spazio alla possibilità di mettersi in gioco con delle idee. Contemporaneamente avevamo viaggiato, visto locali che sentivamo molto genuini e liberi, informali, e attenti alla persona. Così ci siamo chiesti se non si potesse creare un posto che rispecchiasse le nostre personalità nei prodotti, nell'ambiente e nella tipologia di servizio. Un posto totalmente informale. Il punto focale naturalmente sarebbe stato il cibo, il momento sacro la colazione.
Siete partiti lancia in resta o avete fatto qualche, anche rudimentale, analisi di mercato?
Abbiamo fatto analisi di mercato nella maniera più naturale: colazioni su colazioni e pranzi su pranzi. Avremo messo su parecchi chili in quel periodo. Ma il grosso del lavoro, in realtà, è stato fatto su un’area di Milano totalmente differente da dove è Pavé, perché in un primo momento avevamo provato ad aprire in un’altra zona. Poi il progetto non si è concretizzato, ma quel lavoro sul campo fatto di catalogazione, analisi di spese medie, studio e tempi del servizio è servito a darci degli strumenti impiegati qualche mese dopo.
E quindi poi come avete lavorato per la scelta del quartiere?
Il quartiere ha scelto noi! A parte gli scherzi, la scelta è stata del tutto casuale: Giovanni stava andando in bicicletta qui quando ha visto un cartello “Affittasi”. Il giorno dopo siamo entrati a vedere lo spazio e in un paio di giorni lo abbiamo bloccato perché perfetto per le nostre esigenze. È stato un po’ un salto nel buio, certo. Nessuno di noi è di Porta Venezia o di zone limitrofe. Abbiamo però avuto la fortuna di scoprire un’area che per storia e conformazione ben si poteva sposare con la nostra offerta. Porta Venezia è un quartiere multietnico, popolare, creativo, in cui convivono diversità e in cui prendono forma novità: si è rivelato un quartiere dove ci saremmo trovati bene, insomma.
Tre soci. Sempre paritetici?
Sempre paritetici, certo.
Quali le rispettive professionalità? Chi fa cosa?
Abbiamo da sempre la fortuna di essere, ognuno, un terzo completamente diverso e complementare degli altri due.
Giovanni: io mi occupo della linea di produzione in laboratorio, del prodotto, di tutto quello che esce dal laboratorio. Sono il pasticcere e naturalmente il mio ufficio è il laboratorio, assieme ai miei ragazzi;
Diego: mi occupo della componente amministrativa e commerciale, del rapporto con i fornitori e degli acquisti di Pavé;
Luca: mi occupo di tutto ciò che è la comunicazione del marchio, oltre alla gestione dei contratti dei dipendenti.
Come sono stati i primissimi mesi. E soprattutto quali sono state le più complesse difficoltà affrontate e risolte.
I primissimi mesi di lavoro sono iniziati prima di alzare la saracinesca: settimane e settimane di ricerca delle materie prime, degli arredi, oltre che di gestione burocratica dell’attività. Sono stati mesi bellissimi in cui abbiamo raccontato, in una specie di diario di viaggio, l’avvicinamento all’apertura. Lo abbiamo fatto un po’ per fare conoscere la nostra storia ancor prima di aprire e un po’ per non sentirci totalmente soli. E se “soli” non fosse la parola giusta allora usiamo la parola “spaesati”. Molli il lavoro, investi quello che hai in una pasticceria, decidi di indebitarti, inizi a scontrarti con permessi e carta bollata: la paura ti viene. Poi passa. Diciamo che essere in tre ha aiutato a non mollare. Non sappiamo se da soli ce l’avremmo fatta. Perché le procedure e le attese sono snervanti.
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Siete passati da 4 dipendenti a decine e decine. Quale è la cosa più difficile, trovare persone in gamba o pagarle cifre accettabili visto il cuneo fiscale e i costi folli del lavoro in Italia?
Trovare persone in gamba e che sposino la causa è una delle cose più difficili. La proporzione di successo ai colloqui è di uno su quindici, nel senso che uno su quindici è interessante sulla carta ma poi bisogna vedere anche sul campo come è la resa.
Quanto agli stipendi iniziamo con l’essere chiari: i costi sono altissimi e sbilanciati. Però non è difficile pagare le persone cifre accettabili. È semmai difficile far quadrare i conti. Sono cose molto diverse. I costi da sostenere per l’azienda sono vergognosi ma questo non deve essere un motivo per contratti fittizi vergognosi. Sempre che uno degli obiettivi aziendali sia la creazione di valore nella sua accezione più ampia. Per noi lo è.
Quali scelte dei primi mesi non rifareste?
Probabilmente rifaremmo tutto. Questo vuol dire che di errori ne abbiamo commessi (fornitori sbagliati, spese sbagliate, persone sbagliate) ma anche che i passi falsi ci hanno fatto raddrizzare il tiro per la volta successiva. Fare impresa è fare scelte, migliorandole.
In che preciso momento avete capito che le cose si stavano mettendo per il verso giusto?
Abbiamo capito fin da subito che stava funzionando ma tuttora non pensiamo che le cose siano messe per il verso giusto. Non per pessimismo ma per rispetto del mercato e degli equilibri di cui vive. Perché più le cose si fanno grandi e più l’equilibrio diventa difficile da mantenere. Avere le cose che si mettono per il verso giusto significa per noi far funzionare le cose. Una volta che funzionano è il turno di farle funzionare meglio. Se ti fermi ti mangiano, inizi a perder colpi.
Quando la vostra azienda ha raggiunto per la prima volta il break even?
Dopo qualche mese, anche se non siamo la tipica azienda facile da studiare sotto il profilo costi/ricavi. Ogni anno abbiamo reinvestito o in macchinari o in spazi per andare incontro alla domanda. Al secondo anno abbiamo allargato il laboratorio, al terzo abbiamo lavorato sull’ufficio, al quarto abbiamo investito per la gelateria e il secondo punto vendita di pasticceria. Avremo sempre a che fare con costi importanti, abbiamo sempre creato un punto zero all’inizio di ogni anno per ripartire. Ogni gennaio ci si trova e ci si dice: “Come è andata? La struttura attuale tiene botta? Potevamo fare meglio? In che modo potremmo fare meglio?”. E via, si riparte.
Siete nati un lustro fa, quando la città di Milano stava iniziando a spiccare il volo trasformandosi in quello che è (o appare) oggi, una piccola metropoli finalmente internazionale e inserita nei ritmi e nelle dinamiche di un occidente evoluto, lontano dai difetti e dalle tare mentali di certa Italia. E forse siete stati anche voi uno dei simboli di questo rinascimento. Un vostro pensiero sulla crescita della città dal 2012 a oggi.
Abbiamo sempre pensato che Milano fosse bellissima e con un alto potenziale. Ora si vede il suo splendore. Ed è commovente perché avevamo sempre pensato di fare qualcosa qui e di non lasciarla, nonostante tutti ne parlassero male. L’uscita dal buio è iniziata attorno al 2010, con realtà imprenditoriali giovani e tangibili nel tessuto cittadino. Sono state di ispirazione anche per noi visto che nel 2011 ci siamo seduti a un tavolo per capire come creare Pavé.
La più grande soddisfazione per Milano crediamo sia rappresentata non tanto da Expo in sé quanto dai mesi precedenti e successivi. I mesi precedenti hanno visto fiorire attività su attività in campo food e i mesi successivi hanno visto realtà giovani e nuove mantenere alta l’offerta qualitativa su Milano. In mezzo c’è stata una speculazione in ambito ristorativo da mettersi le mani nei capelli. Molti posti hanno chiuso. Moltissimi posti gestiti da under 35 hanno invece tenuto e sono cresciuti. Ottimo segnale.
In questo quadro entra la riflessione dei ragazzi di Pavé sul quartiere che lo ospita. Come è? Come è cambiato? Come dovrà cambiare?
È un quartiere ad alto potenziale. Già da tanti anni. Ci sono vie che hanno iniziato prima, come Panfilo Castaldi o Lazzaro Palazzi. Ora crescono Via Felice Casati, via Tenca, Viale Vittorio Veneto. Ci sono nuovi locali, una popolazione giovane, una vita notturna di livello. Manca forse il coraggio di fare un passo forte in ottica di pedonalizzazione. Quella cosa per cui si lamentano sempre tutti, dai commercianti ai residenti con le macchine, senza pensare al volano positivo che un’operazione di questo tipo può generare.
Spesso si viene da voi e più della metà delle persone parlano lingue diverse dall'italiano. Cosa è successo?
Abbiamo avuto la fortuna di essere inseriti da subito in diverse guide italiane e straniere. Il New York Times ci ha dato sicuramente una grossa spinta, parlando di noi nel 2014. Siamo anche molto vicini alla Stazione Centrale e capita spesso che i turisti vengano, incuriositi dal nostro arredamento bizzarro in un tratto di via ancora abbastanza desolato. Il passaparola funziona, i blog che recensiscono le colazioni della città pure. In generale gli stranieri da noi sono in aumento perché sono in aumento i turisti su Milano. E ne siamo felici.
Come hanno vissuto il vostro oggettivo successo i commercianti vostri vicini di casa?
Con i commercianti della zona si è creato un legame molto bello. Ci si conosce, si è amici. Si conferma, insomma, l’anima popolare di Porta Venezia e quella sua capacità di generare “vita di quartiere”. Credo che non ci sia uno studio del successo altrui. Credo che ognuno si auguri il meglio per il suo vicino.
I riconoscimenti delle guide e della stampa di settore sono funzionali anche al business oppure servono esclusivamente a rinsaldare il morale della squadra e ad accrescere un astratto concetto di prestigio e autorevolezza?
Sono funzionali dal momento che diventi un oggetto da testare e provare. I riconoscimenti fanno sempre piacere e ti permettono di condividere con la squadra traguardi, ripagando le fatiche di questo lavoro. Il riconoscimento dell’impegno è importate. Contemporaneamente, classifiche e riconoscimenti ti mettono maggiormente sotto una lente di ingrandimento: la maggior considerazione fa sì che chi entra nel tuo locale lo faccia dicendo “ora vediamo proprio se questi qui valgono come si dice in giro o se son tutte fesserie”. Devi essere ancora più attento. Ma è una bella sfida da raccogliere.
Nel 2015/2016 grandi investimenti per aprire il secondo punto vendita (Pavé Break) e la gelateria. Avete fatto tutto da soli? Avete chiesto alle banche? Avete fatto entrare nuovi finanziatori?
Abbiamo chiesto un finanziamento a breve termine in banca e ci è stato concesso sulla base della solidità acquisita dal primo Pavé. I numeri iniziavano a darci ragione, il lavoro in via Felice Casati era buono e ha fatto da naturale garanzia. La strada dei finanziatori esterni al momento snaturerebbe la nostra essenza. Già in tre amici a volte è dura. Pensa aggiungerci la testa di uno sconosciuto. È la fine.
Con tre punti vendita quali sono i principali problemi organizzativi e quali sono invece i principali vantaggi logistici e di ottimizzazione.
Il problema fondamentale è proprio la logistica e il coordinamento della stessa. Partiamo dal presupposto che lo spostamento della merce in bicicletta sia più snello e sostenibile e ci affidiamo a corrieri su due ruote. E a volte gli spostamenti sono delicati. Ma ci stiamo organizzando bene e dopo il primo anno i miglioramenti ci sono stati.
È aumentato, invece, il potere contrattuale verso certi fornitori?
Più che potere contrattuale verso i fornitori aumenta la materia prima necessaria per tre locali e aumentano le economie di scala.
Ora state un po' fermi o già ci sono nuove idee di sviluppo?
Vorremmo stare fermi, migliorarci sulla gestione e pensare serenamente al 2018. Usiamo il condizionale perché lo scorso anno tutto è nato dal caso e da alcune occasioni fortuite. Quindi, benché tu ti imponga di non fare nulla, sei in balia degli eventi e saranno loro a metterti di fronte a scelte, treni che passano, opportunità o idee divertenti da sviluppare. Finora è stato così. Forse questo lavoro è così. Qualche idea pazza in cantiere c’è, molto lontana, ma c’è. Però si tratta di sogni, non di business. Magari un giorno ve lo diciamo.
Tra le vostre molteplici attività (caffetteria, ristorazione, drink&aperitivi, confezionati e consegne, panificazione) quale è quella con maggior margine di guadagno e quello, invece, che si fa anche se sarebbe quasi conveniente non farlo?
I margini più alti come sempre avvengono con l’alcool e quindi ti risponderemmo “aperitivo” anche se noi siamo una attività un po’ anomala che punta alla preparazione espressa di quasi tutta la sua offerta con conseguenti costi. Non è per noi conveniente il delivery del fresco su città e nonostante diversi operatori di Milano si siano proposti come partner non ce la sentiamo proprio. Per due motivi: il primo è che il nostro prodotto risente di viaggi e tempi; il secondo è che le trattenute di commissione dell’operatore su prodotti da forno o di tavola fredda azzererebbero ogni margine.
Tutti si lamentano tantissimo della burocrazia. Riguarda anche voi?
La burocrazia è una cosa imbarazzante. Hanno provato a facilitare negli ultimi anni giusto perché con Expo c’era bisogno di far aprire chiunque. Rimangono però delle difficoltà nella comunicazione tra impresa e istituzioni. Nei comuni hanno ancora i faldoni cartacei e alcune comunicazioni si fanno con il fax, nel 2017.
Sparate un aneddoto, ci sarà no!?
Altroché! Settembre 2014, il Comune ci multa per dei sacchi della spazzatura. Non sono nostri ma del condominio quindi andiamo dai vigili per contestare. Firmiamo tutte le carte e chiediamo come si risolverà la cosa e in quali tempi. “Guardate, al momento stiamo analizzando le contestazioni del 2012, siamo a quelle di due anni fa, vi faremo sapere”. Ti viene chiesto tutto e subito. Ti viene risposto poi e male. Sempre che ti sia data una risposta.
Al di là della burocrazia, quale è stato l'episodio o il momento più spiacevole di questi anni?
L’inizio, i primi giri in banca per il finanziamento. La sensazione di essere trattati come tre ragazzini di 30 anni che chiedono i soldini per un giocattolo. Ti sedevi nella filiale e ti facevano aspettare. Dovevano trovare un buco in agenda per incontrarti. Dopo il primo anno invece hanno cominciato a contattarti. “Vogliamo naturalmente essere coinvolti nei vostri prossimi passi, fateci sapere cosa volete fare”, hanno iniziato a dire. È buffo.
L’altra botta grossa l’abbiamo presa prima di trovare l’attuale Pavé di via Felice Casati. Avevamo avuto la possibilità di proporre il nostro progetto al proprietario di uno spazio in pieno centro ma non ha funzionato: poco credibili e a detta sua non sostenibili. È andata bene così, Porta Venezia ci rispecchia di più.
In qualsiasi contesto internazionale una storia come la vostra vive in maniera “indipendente” per qualche mese, forse un paio d'anni, ma poi arrivano i fondi di investimento che comprano una quota considerevole, ricoprono d'oro i fondatori e iniziano ad aprire punti vendita in giro per il mondo. Avete resistito oppure non c'è stata proprio una proposta?
Finora abbiamo avuto a che fare con singoli imprenditori che ci hanno proposto aperture spot fuori dall’Italia che non ci sembravano tutelare la cosa più importante: il prodotto. Per il futuro ci farebbe piacere confrontarci con fondi di investimento e capire cosa hanno da proporci, come ragionano, cosa vorrebbero. Sarà però importante mantenere il focus sull’aspetto per noi fondamentale che ribadiamo ancora una volta: la qualità di prodotto.
Al di là di fondi, investitori, finanziatori, come è possibile che un marchio studiato come il vostro e con un marketing e una art direction così peculiare non abbia scalato all'estero in così “tanti” anni? Credete che sia impossibile standardizzare e mantenere la qualità aprendo anche lontano da Milano?
Il nostro marchio e il nostro progetto è molto “estero”, se vogliamo. La standardizzazione dei nostri prodotti è però la cosa più difficile. Come dicevamo prima, la tutela della qualità di prodotto è l’aspetto più complesso che merita uno studio molto approfondito. Non basta avere qualcuno che ti promette di aprire a Londra o New York. Ci vogliono strumenti, economici e non solo, per garantire che la brioche mangiata a in Via Felice Casati sia buona come quella mangiata nel Pavé di Boston.
Il nostro piccolo primo passo è stato quello di misurarci col secondo punto vendita milanese e vi assicuriamo che è stato un grosso scoglio nonostante la distanza fosse di soli cinque chilometri.
Da un po' di tempo la vostra impresa ha superato il milione di euro di fatturato all'anno, con che investimento iniziale siete partiti?
Siamo partiti con un investimento di 250mila euro circa. Quasi tutto è andato in macchinari di laboratorio e lavori di ristrutturazione. Da lì la scelta di arredo di recupero. Potevamo fare tavoli su misura bellissimi e avere impastatrici scarse. Abbiamo fatto la cosa più sensata: il contrario.
Spesso imprenditori di qualità e corretti in Italia vivono male l'essere circondati da concorrenti che o non pagano le tasse o non pagano i dipendenti o non pagano i fornitori. Finendo per attuare una concorrenza slealissima e scorretta. Vi è mai capitato di avere questa sensazione?
No, viviamo male la scarsa premialità nei confronti di chi fa le cose bene. Ma non ci possiamo fare nulla. I nuovi imprenditori under 35 secondo noi si stanno comportando però in maniera molto diversa da chi è venuto prima. Le schiere di stagisti, i fornitori non pagati, i giochetti anni 2000 non fanno parte del bagaglio delle nuove generazioni. Forse perché sono generazioni che hanno vissuto anche dall’altra parte della barricata.
A oggi quanti stipendi pagate ogni mese?
24.
Quali sono i margini di guadagno di una attività come la vostra? Si riesce a stare tranquilli o è una lotta mese dopo mese?
Star tranquilli è un equilibrio. Si lavora mese dopo mese per mantenere l’equilibrio facendo crescere la macchina, aumentandone ogni aspetto positivo: margini, qualità di prodotto, quantità, valore percepito per chi vi lavora e chi ci viene a trovare. Aspetti soggetti a tantissime variabili: basti pensare alla stagionalità. Gli stipendi da pagare sono gli stessi anche quando ad agosto in pasticceria la gente viene a trovarci di meno.
I vostri consigli a ragazzi che, come voi, vogliono provare a intraprendere oggi in Italia. Se doveste motivarli e spronarli cosa direste?
Se avete voglia di provare a far qualcosa e vi brillano gli occhi anche solo all’idea, allora fatelo. Mettete in conto di avere ansie e paure, di far sacrifici e rinunce. Ma fatelo. E puntate tutto su qualità dei rapporti umani e qualità di prodotto. È naturalmente più difficile ma è oggettivamente più distintivo.
Chiudiamo pensando ai prossimi 5 anni dopo questi primi 5. Come vedete il progetto Pavé al compimento dei 10 anni di vita nel 2022?
Ci piacerebbe vederlo ancora più ampio, più differenziato su prodotti che ancora non abbiamo toccato. Stabile, strutturato e riprodotto su scala decisamente più ampia. Aprire all’estero rimane un obiettivo reale che ci poniamo, non solo un sogno nel cassetto. E ci piacerebbe che tutto nella percezione delle persone rimanesse come è ora: ragazzi che cercano di fare le cose bene, nel miglior modo possibile, che si tratti di una brioche o di un gelato o di qualsivoglia cosa.
Forse noi tre non saremo più molto ragazzi. Ma ci circonderemo di giovani, sicuro.
a cura di Massimiliano Tonelli
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