Con una media di un locale all'anno, i fratelli Aloe sembrano non volersi fermare. Attenzione però, guai a dire che il loro Berberè è un franchising.
Che la loro pizza sia buona è ormai assodato, ne abbiamo parlato ampiamente qui e qui. Ma non abbiamo mai raccontato la loro storia imprenditoriale. Parliamo di Matteo e Salvatore Aloe. Due fratelli calabresi, uno molto creativo l'altro più razionale, uno milanista l'altro interista. Come succede in questi casi, si compensano. Ricordano un po' i fratelli Mc Donald's se non fosse per una grande e sostanziale differenza: non si piegheranno mai al franchising. Anche se le 6 sedi aperte in soli 6 anni farebbero presupporre il contrario. Li abbiamo incontrati a Londra nella loro ultima apertura e intervistati per capirne di più.
Un po' di storia
Matteo e Salvatore Aloe, trasferitesi da Maida a Bologna per studiare Economia, aprono la prima pizzeria Berberè nel 2010 a Castel Maggiore, hinterland di Bologna. Matteo ha 24 anni, Salvatore 31. Nel giro di pochi anni si fanno conoscere in tutta Italia, ricevendo recensioni entusiaste. La loro pizza non è romana, non è napoletana, né tanto meno gourmet. È un prodotto artigianale, stagionale, leggero, onesto, da condividere grazie alla formula cosiddetta “a degustazione” in virtù della quale le pizze sono servite una alla volta già tagliate a spicchi ciascuno costruito per avere un gusto completo (vedi video), e gustate da tutti i commensali che possono così assaggiare più tipologie nel quadro di un pasto. Un format rivelatosi vincente. Dopo tre anni segue la seconda apertura bolognese, e in poco più di 3 anni inaugurano progressivamente altrettanti punti vendita. In ordine cronologico: Firenze, Torino e Milano, arrivato dopo l'esperienza dentro Expo 2015. Alla fine del 2016 è la volta del primo locale londinese, Radio Alice, grazie alla collaborazione con Emma King, co-fondatrice di Gail’s artisanal Bakery e oggi partner del nuovo locale nel quartiere più cool di Londra: Shoreditch.
Avete 6 locali dislocati in tutta Italia, e ora anche a Londra. Come è l'organizzazione.
Ciascun locale ha un manager responsabile formato direttamente da noi, che ogni sera ci invia una mail con il report giornaliero.
Insomma, come nelle aziende “vere”...
Esatto. Grazie a questo aspetto abbiamo un feedback immediato su quello che è andato ma sopratutto su quello che non è andato nel corso della giornata.
Dunque il feedback arriva a caldo?
Sì. Chiediamo al responsabile del ristorante di farci sapere il suo feeling subito, appena chiuso il servizio. Solo così emergono veramente le criticità. Non bisogna razionalizzare troppo.
Qualche esempio?
Se finisce regolarmente un prodotto significa che il responsabile del ristorante in questione non si sa regolare.
Poi c'è l'area manager.
Ylenia Esposito rappresenta il riferimento di tutto il personale di accoglienza. È un po' la nostra capa del personale.
Per quanto riguarda la produzione in senso stretto?
Qui c'è Alessandro Proietti Refrigeri conosciuto da Matteo durante la sua esperienza al Noma: è stato anche chef di partita alla Pergola che crea il menu e lo “ingegnerizza” per renderlo il più replicabile possibile. È il riferimento dei capi di cucina di tutti i locali, sia in termini formativi che pratici. Fa base a Bologna, dato che ogni venerdì ci riuniamo per fare il punto, ma poi gira in tutte e sei le cucine.
La squadra si completa con il guru degli impasti.
Massimo Giuliano segue tutto quello che riguarda gli impasti, concentrandosi su lievito madre e farine, e con l'aiuto di Alessandro standardizza i processi. E infine ci sono tre ragazzi in amministrazione.
Un workflow e una squadra pensata davvero come multinazionale tascabile...
Da qualche tempo abbiamo inserito ancheil controllo di gestione. C'è una persona che si occupa solo di questo: osservare i dati e capire come migliorarli e su quali cose agire. L'ispirazione è ai grandi restaurant group internazionali dove ci sono persone addette anche ai più piccoli particolari: se possiedi catene da centinaia di punti vendita anche accertarti che tutti spengano la luce alla fine del servizio significa alla fine dell'anno milioni in più o in meno di utili.
Standardizzazione perfetta. Pronti per il franchising?
No. Ci abbiamo messo tre anni per standardizzare la ricetta ma se noi la diamo a un esterno, questo non riesce a replicarla. Seguire uno standard non significa replicare con lo stampino, piuttosto vuol dire minimizzare i rischi. Berberè non è e non sarà mai un franchising, anche perché la gestione di tutti i locali è diretta. Sono tutti nostri.
Torniamo alle origini: nel 2010 avete aperto il primo Berberè. Perché a Castel Maggiore all'interno di un centro commerciale?
La risposta ufficiale è che volevamo sfatare il mito che in un centro commerciale si debba necessariamente mangiare male. Così abbiamo portato un prodotto estremamente popolare, ma di qualità, in un posto popolare.
Molto affascinante. Passiamo alla risposta vera però...
Inizialmente abbiamo cercato un locale a Bologna ma con i pochi euro messi da parte (e prestati dalle nostre zie) non potevamo permetterci di comprare l'attività. A Bologna funziona così, quasi nessuno ti vende solo le mura del locale.
Come è andata all'inizio?
I primi tre mesi? Un disastro!
Perché?
I clienti si sedevano, leggevano il menu e si alzavano! Forse abbiamo azzardato troppo: nel menu non c'erano (e non ci sono tuttora) i nomi delle pizze, solo la lista degli ingredienti. E non abbiamo mai venduto Coca Cola.
Quando c'è stata la svolta?
A quattro mesi dall'apertura abbiamo avuto la nostra prima recensione su Repubblica di Bologna. Tra l'altro è stata una recensione negativa per i primi ¾ dell'articolo, considerate che era il primo sabato affollato e i ragazzi in sala, presi alla sprovvista, hanno fatto aspettare il mal capitato più di un'ora.
Il perdono è avvenuto una volta assaggiata la vostra pizza?
Esatto. Non so se sia stato merito della recensione o per via di una serie di circostanze, fatto sta che l'attività ha ingranato.
Poi c'è stata l'apertura a Bologna città nel 2013.
Non è stato frutto di contingenze, fin dall'inizio l'idea era quella di creare un ristorante diffuso. Non a caso abbiamo aspettato tre anni prima di aprire il secondo locale, durante i quali abbiamo investito per formare le persone e per definire con precisione un processo di produzione standard, proprio per garantire delle linee guida a chi prepara gli impasti. Questo grazie a Massimo e Alessandro.
In concomitanza è iniziata la collaborazione con Alce Nero, azienda leader del biologico in Italia.
Una delle due figlie di Lucio Cavazzoni (Presidente di Alce Nero) era la fidanzata dell'ex coinquilino di Matteo, è stata lei a metterci in contatto con il padre, con il quale abbiamo studiato un blend di farine per le nostre pizze.
Berberè di Bologna è un ex negozio Alce Nero...
Data l'affinità abbiamo rilevato un loro negozio, del quale è rimasto un piccolo shop all'interno del ristorante per non cancellare quello che era stato. Alla fine Alce Nero è entrato anche in società, con una quota di minoranza comprata dalle nostre zie.
Nel 2014 è la volta di Firenze.
Quello di Firenze è un localino piccolo, in Borgo San Frediano, aperto con lo stesso staff di oggi. Una squadra fantastica. Anche in questo caso dietro c'è un grande lavoro di formazione.
Torna sempre la formazione...
Ma certo, è la chiave di tutto. Il segreto è non avere segreti con i tuoi collaboratori, così le persone si sentono realizzate e parte di un team.
Altri segreti?
Reinvestire tutto per crescere. Pensate che oltre ai ragazzi nei ristoranti, c'è una squadra di otto persone come dicevamo sopra che lavora al di fuori.
Parliamo di fatturato?
Nel 2016 circa 4 milioni di euro. Il proposito è di superare i 5 nel giro di un anno, che significa trovare un equilibro economico.
Equilibrio economico?
Il 2016 lo abbiamo chiuso in perdita ma siamo cresciuti, abbiamo investito, abbiamo assunto personale. Fermi non potevamo stare, o andavamo avanti oppure indietro. Abbiamo optato per la prima.
Matteo, hai trascorso alcuni mesi nella cucina del Noma di Copenaghen. Cosa ti ha insegnato?
A puntare sulle persone giuste e su un processo produttivo al limite del maniacale. Nonostante lo staff cambi costantemente, al Noma ci sono 4 persone fisse, lo zoccolo duro, che riescono a mantenere costante la qualità in tutti i piatti. Parliamo di 60 coperti e un menu di 22 portate, per un totale di più di mille piatti al giorno.
Dopo Castel Maggiore, Bologna e Firenze, è stata la volta di Torino e Milano (prima a Expo poi nel locale di via Sebenico). Qual è la città che fa più coperti?
Milano. Abbiamo aperto a ottobre ma la proiezione è attorno al milione di fatturato annuo, nonostante il coperto medio, con 15.6 euro a testa, sia uno dei più bassi.
Le principali differenze tra i diversi clienti?
In Italia c'è un'attenzione sviluppata verso gli ingredienti, anche se Milano è sopra la media. A Firenze il pubblico è diretto e pratico, mentre i torinesi mangiano più dolci. Detto questo, tutti i nostri clienti, specie la parte femminile, sono curiosi.
Lo scorso dicembre avete inaugurato Radio Alice al numero 16 di Hoxton Square. Perché Londra?
È la città che abbiamo sempre amato. Poi Londra è un po' l'Italia di sette anni fa, quando si cominciava a parlare di farine di qualità e lunghe lievitazioni. Anche se a Londra è più difficile far passare il concetto di qualità: se sovra comunichi passi per snob, se non comunichi sei inesistente. La chiave di volta è trovare il giusto equilibrio, ma se l'ingresso nel mercato è un successo hai delle grandi possibilità.
Le maggiori difficoltà riscontrate?
È complicato entrare nel mercato e trovare la location adatta, è difficile risolvere i problemi pratici (come per esempio un semplice aumento di potenza elettrica) o avere a che fare con la burocrazia, che se anche è più snella, è pur sempre burocrazia.
Così vi siete affidati a Emma King, co-fondatrice di Gail’s artisanal Bakery, molto conosciuta a Londra.
Emma è venuta a pranzo da noi a Bologna insieme al marito e ha ordinato una decina di pizze. Un nostro cameriere ce l'ha fatto notare così ci siamo presentati e tenuti in contatto. Destino ha voluto si fosse nel frattempo stancata di gestire Gail’s, ed è stata la volta che le abbiamo proposto di entrare a far parte della squadra di Radio Alice.
Quali sono le principali differenze tra l'investire in Italia e l'investire a Londra?
Sicuramente a Londra c'è un mercato maturo: se hai bisogno di un manager, puoi scegliere tra tanti curriculum. In Italia purtroppo c'è ancora tanta improvvisazione.
Il forno utilizzato è sempre lo stesso per tutti e sei i locali?
A Castel Maggiore, Bologna, Firenze e Torino c'è un forno a legna, mentre a Milano e Londra è elettrico.
Perché elettrico?
A Expo, dove per legge non si poteva usare quello a legna, abbiamo provato una ventina di forni elettrici a gas, per poi scegliere quello di Morello Forni, con una resa pressoché uguale al forno a legna. Anzi, se hai una sola canna fumaria conviene.
Prossima apertura?
Ci piacerebbe Roma, anche se un ritorno al sud è quasi inevitabile. Don Luigi Ciotti (ndr. dell'associazione Gruppo Abele, che ha convertito un ex capannone in centro commensale), grazie al quale abbiamo intrapreso l'avventura torinese ci dice sempre: “Se non fate nulla per la Calabria, siete dei falliti”. Noi ce la metteremo tutta, se non aprendo un locale, per lo meno coinvolgendo di più i produttori calabresi.
All'estero?
Londra ti dà l'opportunità di replicare...
Berberè | Castel Maggiore (BO) | via Pio La Torre n°4/b | tel. 051 705715 | www.berberepizza.it
Alce Nero – Berberè | Bologna | via Petroni 9c | tel. 051 2759196
Berberè | Firenze | Piazza De’ Nerli 1 | tel. 055 2382946
Berberè | Torino | via sestriere 34 angolo Corso Trapani 95 | Centro commensale Binaria | tel. 011 0267530
Berberè | Milano | via sebenico 21 | tel. 02 36707820
Radio Alice | Londra | 16, Hoxton Square | tel. 0044 20 70183656
a cura di Annalisa Zordan
foto di Francesca Sara Cauli