Seconda giornata ad alto contenuto tecnico a San Sebastian. Dopo la monografia sulla cucina ungherese e una mattinata piuttosto debole il congresso prende il volo e chiude con un grandissimo Joan Roca.
La cucina ungherese
È uno dei paesi emergenti, gastronomicamente parlando, e la vittoria al Bocouse d'Or 2016 l'ha dimostrato. L'Ungheria sta vivendo, oggi, la sua rivoluzione gastronomica, una primavera di intuizioni, riflessioni, costruzione di un racconto nuovo ma profondamente radicato nella propria storia. Non solo gastronomica. Il punto di partenza è la presa di coscienza della propria identità, del valore dell'artigianalità e dei prodotti tipici, per ridefinirne i confini alla luce di una conoscenza che i protagonisti di questa rinascita hanno acquisito nelle cucine più importanti d'Europa. E ora siamo qui, a 6 anni dalla prima Stella Michelin della nazione, per seguire da vicino le istanze che questa new wave sta facendo sue. Una nuova ondata, appunto, che ha da una parte l'orizzonte dell'avanguardia internazionale, dall'altra un profondo sentimento di appartenenza alla sua cucina nazionale. A partire da quel piatto simbolo, il goulash, con cui ognuno inevitabilmente deve confrontarsi, arrivando ai dolci tipici che, in più, raccontano la grande stagione dei caffè mitteleuropei. Lo hanno fatto Zoltan Hamvas e Laszlo Mihalyi ripercorrendo la storia dello storico e bellissimo caffè Gerbeaud, e reinventando il tipico dobosin un dessert cremoso che gioca la carta della golosità più rassicurante ed esplicita, così come nel bon bon di cioccolato ripieno di ciliegia. Hamvas è uno dei maggiori esponenti della nuova pasticceria ungherese, un'arte realizzata a partire da frutta, spezie ed erbe aromatiche locali. SzabinaSzullo e TamasSzell (ristorante Onyx) hanno spiegato il loro concetto di evoluzione nella tradizione: “Il punto di partenza è sempre la materia prima, decisiva per il menu” dice Szabina, che aggiunge “per questa rivoluzione culinaria vogliamo usare i nostri prodotti”. Le nuove tecniche, al servizio della ricetta e del sapore, fanno il resto, insieme alla memoria di un gusto formato nell'infanzia e ai sapori che costruiscono il patrimonio alimentare di un popolo. Come il goulash, appunto, che “non è uno stufato, ma è una zuppa” dice Szell. La cucina senza compromessi di Eszter Palagy del ristorante Costes (prima Stella ungherese) testimone di un mondo che va cambiando, il cui orizzonte gustativo non è più circoscritto alla paprika, ma legge il prodotto e le tradizioni locali attraverso la lente del contemporaneo. L'obiettivo è sempre la riconoscibilità, aggiunge Lajos Bíró del Bock Bisztro, uno dei grandi innovatori della cucina ungherese che ha introdotto cotture sottovuoto e tecniche orientali ed elaborato il goulash a partire dagli ingredienti (con il twist della carne di pollo) e dalle texture, vellutate e convincenti.
Il piatto presentato da Eszter Palagyi, Gastronomika 2016
Contaminazione
La seconda giornata continua in modo più debole, dopo la monografia sull'Ungheria. Il congresso segue le tracce di un'avanguardia che si muove nei cinque continenti abbracciando prodotti e tecniche diverse, e mette in scena lo spettacolo della contaminazione. Il palco è per Diego Guerrero (DSTAgE a Madrid, acronimo che sta per Days to Smell Taste Amaze Grow & Enjoy): “perché cuciniamo?” si chiede. E la risposta è tutta concentrata nel senso di un'attività che è prima di ogni altra cosa un linguaggio. Con il quale esprimersi, lasciare un segno, richiamare radici gustative e mettere in campo ricordi (come per l’empanadilla de morcilla della sua infanzia) o aprire nuovi orizzonti. Come quando fa suo ogni incontro, con persone, ingredienti, ricette, avvenuto durante i suoi viaggi e lo rielabora alla luce della cultura che ha nel sangue, quella basca. Ecco allora che nei piatti arrivano tofu e latte di soia, shitake e brodi di chiara ispirazione thai.
Il piatto presentato da Diego Guerrero, Gastronomika 2016
Un discorso simile a quello dei fratelli Sergio e Javier Torres del Dos Cielos di Barcellona che sul palco annunciano l’apertura di un secondo locale più informale a Madrid. Da un viaggio nella foresta amazzonica nasce la passione per lo yuca (manioca o tapioca), un prodotto umile ma importante, di cui si conoscono oltre 400 varianti, alimento base per intere popolazioni, che qui diventa estratto, polpa, materia prima amidosa per pancakes, crepes, ingrediente per tre diverse ricette. I Torres ne analizzano le potenzialità, e mentre in assaggio passa una carne di bufalo essiccata e lavorata con una tecnica che ricorda quella dei nostri sfilacci, nel monitor e sul palco si continua a parlare di yuca: fritto arrostito, passato, estratto. Un ingrediente molto versatile che cambia texture e si rinnova con nuovi accenti. È una discesa verticale nel prodotto che ne analizza sapori, texture, risultati. Un po’ come farà, qualche ora dopo, Padro Subijana (ristorante Akelarre), che in un bell'excursus antologico spiega il suo studio sulle patate: soffiate, fritte, al forno, ridotte in chips o in sfoglia quasi trasparente, lievi come un velo o opaline come un’ambra. È la prova di abilità mai fine a se stessa che si realizza anno dopo anno, in un corto circuito di suggestioni che stavolta non nasce dall’incontro con altri prodotti, ma dalla riflessione su una materia prima domestica pensata ogni volta con sguardo nuovo.
Il piatto presentato da Pedro Subijana, Gastronomika 2016
Arriva il momento di Elena Arzak,che sotto lo sguardo vigile e amoroso del padre Juan Mari seduto in prima fila, parla del ristorante, e della cucina in generale, come uno spazio spirituale oltre che fisico. Del tavolo come epicentro di dinamiche di scambio, conoscenza, sentimenti, relazioni. Un luogo di incontro dove si creano comunità prima che ricette, e in cui gemmano armonia e relazioni tra popoli. Visto che la cucina, principalmente l'alta cucina, è libera circolazione di materie prime, suggestioni e tecniche; è spazio multietnico, abitato da persone di diverse nazionalità. Quindi questa cucina è anche cultura dell'accoglienza che rappresenta con un piatto dedicato all'Egitto ad alto contenuto narrativo.
La radici e la fantasia
Un affondo nella cultura gastronomica locale, con la sua identità che passa per colori, sapori, estetica diversi: è il lavoro di Paco Morales (Noor di Cordoba) che presenta la sua interpretazione gourmet della cucina andalusa. Dalla sua un percorso di grandissimo valore tecnico e un'attitudine all'avanguardia che declina, stavolta, nella cucina andalusa che sta contribuendo a rinnovare. Una tradizione raffinatissima, di grande valore gastronomico, che Morales ritrae nel panorama complesso della cultura locale, un contesto artistico, estetico, poetico che stringe in un forte legame con l'ambiente circostante. È una tradizione gastronomica in cui ha un ruolo fondamentale l'accoglienza e, con l'accoglienza, l'aperitivo: momento in cui si fa entrare l'ospite in un panorama di sapori e atmosfere. La “vaguardia irriverente” di Paco Perez (Miramar di Barcellona) è fatta di meraviglia, quella che nasce dal ritratto realistico di scenari diversi: il cavalluccio marino, il giardino racchiuso in un contenitore ghiacciato a elaborare la nuova ossessione per le temperature che già aveva sperimentato con le cotture. Colorato, evocativo, suggestivo, narrativo, la sua è un'avanguardia che viaggia senza limiti, tra una sperimentazione a briglia sciolta, la passione per le materie prime e i sapori mediterranei, il gusto per le testure e i contrasti. Ma senza mai perdere, anche nelle punte più concettuali, il gusto per il sorriso.
Il piatto presentato da Paco Morales, Gastronomika 2016
Ancora fermentazione
Punta dritto ai progressi di una ricerca volta a investigare il nostro potenziale alimentare l'intervento che unisce Joxe Mari Aizega e Diego Prado rispettivamente Direttore Generale e chef docente del Basque Culinary Center. I due presentano la ricerca del Bculinary Lab, il laboratorio sperimentale di cucina di uno dei più importanti centri di cultura gastronomica del mondo. Si tratta di progetti a lungo termine che si muovono su più fronti per esplorare orizzonti gustativi e alimentari, sperimentare tecniche innovative con un metodo di lavoro ad alto contenuto scientifico e sperimentale, in collaborazione con altri centri di ricerca, come il Nordic Food Lab, il Mater di Virgilio Martinez, il Laboratorio di innovazione del Gusto in Bolivia, e diversi ristoranti tra cui il Mugaritz. Gli obiettivi ultimi del Bculinary Lab hanno a che fare con una maggiore sostenibilità ed equità alimentare e un cambiamento dei valori; oggi segue tre filoni di ricerca: erbe selvatiche, fermentazione, tecniche gastronomiche. A San Sebastian viene presentato uno studio sull'ortica - usata per avvolgere un formaggio durante una breve maturazione - che origina dalla ricerca storica di come quest'erba veniva impiegata, e quello su un prodotto profondamente locale, come la “bellota” - la famosa ghianda di cui si alimentano i maiali impiegati per i prosciutti - da cui si estrae una specie di miso. Un liquido che mantiene così viva l'identità del prodotto di partenza che la maggior parte delle persone che lo ha assaggiato, l'ha identificato come un brodo di Ibérico. Mentre continua il lavoro sugli scarti, con un approccio alla cucina del futuro che non può che parlare la lingua della sostenibilità. Gli esempi mostrati sono molti e praticamente tutti fanno proprie le tecniche della fermentazione applicata ai prodotti residui: pelli di frutta o verdura o altri scarti alimentari. Come nel caso del kombucha prodotto dai fondi del caffè. Non sarà bellissima da vedere la madre che ospita la coltura batterica, né sarà facile l'odore acetico che ne deriva, ma dà origine a bevande vive, salutari, con un ventaglio di sapori molto interessanti e in parte ancora da approfondire. L'ultima dimostrazione è quella che riguarda il lavoro sul gelato, di cui si ricerca di ottenere una cremosità senza utilizzare latte o grassi.
Il piatto presentato da Szabina Szullo e Tamas Szell, Gastronomika 2016
Continua con un altro intervento molto tecnico, quello di Mario Sandoval (Coque di Madrid) sugli alimenti probiotici. Lui, che alcuni definiscono un archeologo del sapore, si spinge avanti, in una ricerca tecnica profondamente radicata nelle proprie origini gastronomiche. Come in quella che viene chiamata Gastrogenomica, una scienza che recupera frutta e verdura attraverso lo studio del loro Dna, “La nostra cucina” dice “si basa sul territorio e sui suoi prodotti, ma a partire da questi si possono fare cose diverse”. E lo fa mettendo in campo un importante apporto scientifico: a lui si devono tecniche culinarie come l'idrolisi di uovo, l'estrazione di polifenoli dall'uva e l'estrazione di fluidi supercritici, per analizzare, in una situazione di particolare temperatura e pressione, le potenzialità di gusto e odore dei prodotti.In collaborazione con il Csic (Consejo Superior de Investigaciones Científicas) sta lavorando per giungere a una nuova idea di sapori e di salubrità degli alimenti, di un nuovo approccio, anch'esso sostenibile. Di nuovo la chiave di volta è la fermentazione di cui dà esempio con una bevanda dal sapore pungente, e con una serie di piatti di grande appeal gastronomico, con richiami al kimchi di tradizione coreana, tutti realizzati a partire da marinature e fermentazioni, perché non basta che un piatto faccia bene: deve essere anche buono.
Il piatto presentato da Zoltan Hamvas, Gastronomika 2016
Chiude con un grandissimo intervento Joan Roca, che conferma (se mai ce ne fosse bisogno) il suo essere un passo avanti agli altri. La sua è una ponencia che racconta le 5 linee di lavoro del Cellar de Can Roca di quest'anno, un'intervento che, almeno nella prima parte, è ad altissimo contenuto tecnico. Spiega il lavoro che stanno facendo in collaborazione con il Nordic Food Lab sul tempeh, il fermentato di fagioli di soia, che diventa “tempetto” nella versione firmata Roca rinnovata nella materia prima locale e nelle modalità, dopo continui esperimenti sui parametri più adeguati perché il processo fermentativo dia il risultato desiderato. Tra le conseguenze degli studi sulla fermentazione dei vegetali, oltre allo sviluppo di sapori e testure, anche la conservabilità, elemento di fondamentale rilievo per una cucina che operi in una prospettiva etica. Perché tra le altre ricerche ci sono quella sulla sostenibilità e sulla possibilità, per la cucina, di operare dei cambiamenti a tutela dell'ambiente e di chi lo abita e i progetti nel sud del mondo. È un lavoro molto articolato, che non dimentica il valore culturale della cucina (ben 6 i libri pubblicati nel 2016 di cui 2 per i bambini) il lavoro sui vegetali, la possibilità di moltiplicare le esperienze gastronomiche e di cucina e l'esigenza continua di ripensare la creatività e mantenere nel ristorante sempre uno spazio per nuovi contrasti. Le immagini si ricorrono bellissime e il livello emozionale della conferenza è trascinante. Facile capire perché a lui abbiano affidato la chiusura della seconda giornata che si conclude ben oltre le 20 e 30 con un'ovazione a Roca e a quel che El Cellar ha rappresentato in questi ultimi 20 anni.
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a cura di Antonella De Santis