Il capostipite dei congressi gastronomici, sulla cucina basca, spagnola e più in generale mondiale, celebra la sua XVIII edizione. Nel primo giorno a San Sebastian si è parlato di Turchia e Sudafrica, passando per i grandi chef dei Paesi Baschi.
Se volessimo tracciare un filo conduttore sulla prima giornata di Gastronomika non riguarderebbe la cucina, intesa come ingredienti o tecniche, ma la comunicazione, ovvero il modo in cui la cucina si legge e si racconta. Non è una novità: il ruolo dei congressi è da rivedere. Sono passati i tempi dei pellegrinaggi in terra Basca in cui si approdava per conoscere tecniche e ingredienti che avrebbero rivoluzionato la cucina. Erano i vagiti di un mondo di libera circolazione di idee, immagini e video, ma dove ancora per conoscere qualcosa e qualcuno dovevi incontrarlo. Questo mondo è moribondi, e i congressi cercano una nuova ragion d'essere, riti collettivi in cui riflettere sul proprio cammino, dove si tracciano percorsi talvolta isterici sul senso di una professione che forza sempre più i propri confini. E per questo si interroga. Così gli stessi cuochi si trovano nella non facile condizione di dover scegliere cosa e come raccontare il loro lavoro.
Il piatto presentato da Oriol Castro e Eduard Xatruch del Disfrutar
Tecniche, piatti e ispirazioni
Lo diciamo perché nulla appare più incomprensibile della brava Carme Ruscalleda del ristorante Sant Pau (3 stelle a Barcellona, 3 a Tokyo), che pare ridurre la creatività a giochi di parole ed esercizi di sinestesia in cui snocciolare, uno dietro l'altro, i piatti di ben due menu. Il primo ispirato alla danza, il secondo alla pittura. Un elenco di titoli e immagini che, tra richiami mimetici, allitterazioni, facili assonanze, passa di piatto in piatto senza mai prendersi la briga di raccontarne uno, né spiegarlo, come se un titolo fosse di per sé sufficiente. Mentre di cose ci sarebbero da raccontare, ma di questa ponencia rimarrà solo che la meringa è il merengue e il piatto di chalota (scalogno in spagnolo), champignon e chardonnay è il cha cha cha, passando per il twist dei cibi arrotolati e la disco con un 45 giri disegnato sul piatto, fino al dripping di Pollock, o i riquadri di Mondrian replicati con precisione. Così come l'intervento di Oriol Castro e Eduard Xatruch del Disfrutar di Barcellona non riesce a convincere: spiegare la multisferificazione inversa oggi non basta, se non c'è una contestualizzazione. È anacronistico, una malinconica testimonianza dei 20 anni trascorsi al fianco del maestro Ferran Adrià, di quando la tecnica poteva pure essere solo un fine e non un mezzo. Peccato, perché la loro cucina merita sicuramente qualcosa di più di una narrazione irrigidita. Sarà per questo, forse, che l'intervento di Martin Berasategui, dell'omonimo ristorante, appare così forte: denso, chiaro (anche se velocissimo). Non salta alcun passaggio nei suoi piatti belli e complessi: la rapa rossa, il piccione, grandi prove di alta cucina. Non manca di omaggiare la città e il suo team, prima tra tutti sua moglie che è metà del suo successo, custode di quella perfezione che ogni giorno il marchio Berasategui porta in mezzo mondo con i suoi ristoranti. Un impero di altri dodici ristoranti e 7 stelle che continua, ancora oggi, a rappresentare un riferimento assoluto.
Comunicare la terra
A volte è la distanza che permette di vedere e raccontare meglio quel che abbiamo intorno. Ce lo hanno dimostrato, all'inizio del congresso, gli interventi dei due chef provenienti dal Sudafrica. Da una parte Luke Dale Roberts del The Test Kitchen che porta in primo piano la sua ricerca (“siamo aperti solo a cena per lavorare in cucina tutto il giorno” dice): i piatti complessi, dai mille ingredienti e dai molti effetti ci danno il ritratto di una cucina che pare aver perso traccia delle proprie radici, lasciando in secondo piano l'anima dei luoghi per srotolare i canoni di una modernità che potrebbe originare ovunque. Dall'altra lo sguardo straniero di chi si avvicina al continente africano a raccontarne l'anima. Margot Janse (Le Quartier Français), originaria dei Paesi Bassi, ci illustra la terra che l'ha fatta innamorare più di 20 anni fa, in cui ha deciso di abbandonare la fotografia per dedicarsi alla cucina. Il suo intervento è il racconto di un panorama ben più articolato di quello, pur affascinante, che ci consegnano le cartoline. Con quei tramonti rosso fuoco e gli orizzonti aperti. È una narrazione che scavalca quella tutta effetti speciali, ghiaccio e affumicature di Dale Roberts, per concentrarsi sui prodotti ancora sconosciuti che questa terra regala. Non è la bellezza geometrica del cavolo rosso, ma il valore profondo di un baobab. Ce lo fa conoscere attraverso la leggenda che lo vuole rivoltato con le radici verso il cielo da Dio, e mediante il racconto dei suoi frutti e di quei semi che ha ricreato in un bon bon con le materie prime che il Sudafrica dona. Passa così da un video in cui mostra il lavoro delle donne che estraggono il sale di Baleni, alla narrazione delle storie e la vita sottesa a ogni incontro. Parla del gel nascosto nel sour fig, il suo prodotto feticcio, che i ragazzini succhiano mentre vanno a scuola e che lei unisce alle ostriche locali, che cambiano secondo la costa da cui provengono. Il sorgo, il marula tree, l'honeybush e un'infinità di prodotti che racconta in ogni sfumatura di sapore, nelle storie e nei possibili utilizzi. Così è la distanza dall'oggetto del suo amore che permette a Margot Janse di farci partecipi del suo Sudafrica.
La Turchia, terra di storie e di incontri
C'è un elemento ricorrente negli interventi dei quattro chef di Istanbul che riempiono il pomeriggio, ed è quel costante richiamo al melting pot che ha dato vita alla società turca attuale. Una lunga storia, ricca di incontri tra culture che dall'antica Anatolia porta alla Turchia di oggi, a un'area funestata dal dramma di Aleppo che Mehmet Gürs del ristorante Mikla chiede di non dimenticare (richiamando a una presa di coscienza su quanto accade nel mondo, non solo gastronomico). In un momento storico in cui il Paese sente l'esigenza di rileggersi e ritrovare la sua strada verso la modernità la cucina fa la sua parte, rielaborando la tradizione gastronomica. Non facile, in una società fortemente conservatrice, rivela Gürs. E la relazione dialettica con la propria storia culinaria, è il filo conduttore dei 4 interventi che cercano di individuare una strada. Senza rinnegare il ruolo della Turchia: ponte tra passato e futuro, e crocevia tra Europa ed Asia. È un percorso che non perde grinta, che richiede una decostruzione della tradizione, per usare le parole di Maksut Aşkar del ristorante Neolokal. Nella messa in scena del presente c'è una cucina che non si perde dietro a manifestazioni di equilibrismo culinario, ma rinnova dall'interno il classico meze (Şefimiz Deniz Şahin del restaurante Kiva Bomonti) e il tipico kebab che l'istrionico Cuneyt Bey (che dà prova di incredibile manualità nel sezionare la carne) dal Günaydin di Istanbul, ha portato in mezzo mondo attraverso 55 locali.
Il piatto presentato da Andoni Luis Aduriz del Mugaritz
Cambiare prospettiva
Sceglie di raccontare lo snodo attorno al quale si concentra in questo momento il suo lavoro Josean Alija (Nerua di Bilbao) e incontra imprevedibilmente tante esperienze che, anche da noi, stanno riportando in primo piano i brodi. Elementi che, spiega Alija, sono profondamente identitari, presenti in ogni cultura gastronomica con caratteristiche diverse, ricette domestiche o di alta cucina, profondamente connessi con la storia alimentare di una società. Ma non è tanto il recupero della propria tradizione o il contagio con quelle altrui a interessare lo chef di stanza al Guggenheim, quanto il cambio di prospettiva: trasformare un elemento finora funzionale nel punto centrale di una ricetta. Un ribaltamento dei ruoli, in cui i brodi sono catalizzatori di sapori e complessità, e danno profondità all'ingrediente principale elaborato con parsimonia, volutamente lasciato quasi integro. Il cambio di prospettiva è anche quello che ci chiede Andoni Luis Aduriz del Mugaritz, acclamata rockstar in un Auditorium che sino alle 8 di sera attende di ascoltarlo. “Bisogna guardare a quel che c'è dietro le cose” ammonisce. Farsi domande, cambiare sguardo, qualcuno direbbe uscire dalla confort zone. E lo fa quando parla di quel che lui chiama “prodotti immaturi”, esseri viventi appena nati, pesci, uova, tutto quel che ci pone a confronto con noi stessi, con il nostro disagio nel mangiare animali, soprattutto nel mangiarli in una fase in cui iniziano a svilupparsi, un po' come quando solletica la curiosità parlando della coltura del Kombucha (“non vi capiterà tanto spesso di poter mangiare una coltura”). Gioca su quanto può essere inquietante, destabilizzante, ironica la cucina. Su quanto sia indispensabile chiedere e chiedersi cosa c'è in ogni cosa, quale contesto l'ha generata e quale universo contribuisce a creare. Quale il senso ontologico degli alimenti, quale narrativa si vuole dare e quale sapore, anche disturbante, può esserci nelle cose. E lo fa con un contributo video che, di anno in anno, si fa più raffinato e libero. E libertà di pensare e sperimentare è quella che chiede. Liberi anche dall'ossessione Michelin che, provocatoriamente, fa circolare tra il pubblico: un candido marshmallows dalle fattezze di un Bibendum che chiede di essere mangiato.
Immancabile prospettiva etica
È uno degli chef più influenti del mondo, Alex Atala, e non solo per la sua cucina, ma per la capacità di influire, con essa, sul modo di pensare il mondo di oggi. Lo ha fatto dando alla materia prima locale (e a chi la produce) una dignità che, prima di lui, non esisteva. E continua con i richiami a una pratica di cucina e di vita più sostenibile, che passa attraverso la salvaguardia di prodotti selvatici ancora ignoti da noi (per esempio un miele ad alta percentuale di umidità che fermenta spontaneamente), la tutela della biodiversità e degli equilibri del pianeta, l'uso di tecniche che portano in consegna una nuova consapevolezza verso il territorio e chi lo abita. O con l'obiettivo dello scarto zero: non un'idea originale, ma che lo diventa quando praticata in un grande ristorante come il D.O.M. In cui usa la pelle del pesce, certe ghiandole abitualmente eliminate, radici e altri prodotti che sono di scarto solo per chi non ha conoscenze e sensibilità sufficienti.
Così il suo ristorante è ancora un posto dove la cucina come connessione tra natura e cultura rinnova il suo rito, un luogo in cui fare qualcosa per il Brasile, dove iniziare un cambiamento di prospettiva che possa contribuire, per esempio, a fare qualcosa per la foresta pluviale. “Come uomo posso mangiare meno carne, ma come chef mi devo porre il problema di come trattarla per attuare un cambiamento”. Ecco allora che lavora con carni meno nobili che in Brasile stentano ad avere un loro spazio. “Perché da noi sono solo 8 i tagli che le persone richiedono e che considerano gourmet” spiega. Lanciando un monito a chi può e deve fare qualcosa per attuare dei cambiamenti perché c'è oggi una nuova idea di lusso a cui ambire: “la capacità di trasformare le cose e trasmettere emozioni”. È questa conoscenza che vuole condividere, il modo per essere non solo uno chef ma uno chef felice, perché la difficoltà sta nel continuare ad essere un bravo cuoco, nel continuare a dare gioia e fare sempre qualcosa che abbia un senso, perseverando sulla strada della sorpresa, della gioia e del less is more. Lo aveva già detto qualcun altro, certo. Ma detto da Alex Atala fa tutto un altro effetto.
www.sansebastiangastronomika.com
a cura di Antonella De Santis