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Fortnum&Mason apre il suo primo ristorante nella City. Le novità dell'emporio londinese

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Oltre 300 anni di storia alle spalle, ma ancora la voglia di cambiare: l'emporio più celebre del Regno Unito ha aperto il suo primo ristorante all'interno del lussuoso centro commerciale Royal Exchange. Ecco com'è il locale firmato Fortnum&Mason. 

 

Le origini

Fronteggia da sempre, dal lontano 1707, la Royal Academy lungo la trafficata Piccadilly Street di Londra, questa sala da tè, gastronomia, mecca golosa che ha fatto la storia dell'afternoon tea britannico. Quella di Fortnum&Mason è una storia che va di pari passo con quella della Gran Bretagna, costituita proprio nello stesso anno: durante i primi del Settecento William Fortnum era al servizio della regina Anna con il compito di accendere ogni sera le candele. La regina però era talmente esigente che non ammetteva secondi tentativi, per cui Fortnum aveva ottenuto il permesso di portare a casa quelle che si erano spente. Insieme al padrone di casa Hugh Mason,decise di mettersi in affari e iniziare a vendere le candele inutilizzate. Dai ceri si passò al tè, le spezie, la frutta secca, la selvaggina, fino a creare uno dei primi marchi inglesi di gastronomia, tanto da rifornire l'esercito a Waterloo, gli ospedali di Florcence Nightingale durante la guerra di Crimea, e anche Charles Dickens.

 

fortnum and mason

Le specialità

Si possono ammirare ancora oggi, il signor Fortnum e il signor Mason, puntuali allo scoccare di ogni ora quando, con in mano un candelabro e una teiera, sbucano dall'orologio in cima all'edificio in mattoncini rossi e vetrine acquamarina di epoca georgiana. L'indirizzo di Piccadilly resta l'emporio britannico per antonomasia, ma nel frattempo il colosso ha aperto anche altri due punti vendita, uno alla stazione di St. Pancras e uno all'aeroporto di Heathrow, entrambi ricchi di prelibatezze: infusi, dolci, praline, cioccolata, distillati di pregio, tazze, teiere, ceramiche, specialità gastronomiche di nicchia ma anche carne e verdure (fra cui i prodotti del principe Carlo, in arrivo direttamente dalle sue tenute di Highgrove, Gloucestershire).

 

Fortnum&Mason

Oltre ad acquistare, nella sede storica si va anche per provare il vero rituale del tè all'inglese, con panini, tramezzini e tutti i dolci della tradizione. Oppure per assaporare qualche prelibatezza dell'area take-away, fra cui l'immancabile scotch egg, un fritto a base di uova, salsiccia e pangrattato, uno degli snack più in voga tra gli inglesi che sembra aver avuto i suoi natali proprio qui.

Il ristorante

Da pochi giorni è inoltre possibile anche degustare un'intera cena targata Fortnum&Mason. Dopo oltre 300 anni di storia, infatti, la madre di tutte le sale da tè ha deciso di inaugurare un ristorante a tutti gli effetti, stavolta nella City, al Royal Exchange, edificio storico nato nel 1565 come centro per il commercio della città, oggi adibito a lussuoso centro commerciale dove si trovano le più eleganti boutique della città, da Hermès a Tiffany. Il nuovo ristorante si è inserito nello spazio che ha ospitato per 15 anni D&D, il gruppo di ristoranti, bar e hotel di classe che a fine estate ha deciso di non rinnovare il contratto. “Un'apertura che segna la continua crescita del brand, insieme alla volontà di Londra di imporsi sempre più come capitale finanziare mondiale”, ha dichiarato il Gruppo in una nota.

 

Fortnum&Mason ristorante

L'offerta

90 coperti, con la possibilità di mangiare al tavolo o lungo il bancone. Il menu? Caviale, molluschi di ogni tipo, salmone affumicato – uno dei prodotti di punta del brand – affettato a mano direttamente al bancone, davanti ai clienti. Una grande attenzione al pesce e ai frutti di mare, e poi i grandi classici dell'emporio, come il Welsh rarebit, il pane tostato e cosparso di formaggio fuso tipico del Galles, oppure il knickerbocker glory, un sundae di gelato (ovvero più cucchiaiate di gusti diversi ricoperte da una salsa) servito in una coppa alta e ampia. Il tutto accompagnato da champagne, vini di prima scelta, cocktail ben miscelati a base di distillati di qualità e tè ricercati, con un nuovo blend speciale a base di Assam, Ceylon e Yunnan, creato appositamente per il Royal Exchange.

Fortnum&Mason – Londra – The Royal Exchange - www.fortnumandmason.com

a cura di Michela Becchi


I vini del vulcano: l’Etna, le sue vigne e le sue migliori etichette

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Paesaggi aspri, in un lembo di terra battuto dagli elementi nel cuore del Mediterraneo. Teatro di una viticoltura audace che regala vini autentici ed espressivi.

 

Etna: un territorio dal fascino arcaico

Fiera, altera, imprevedibile e scostante. L’irruenza della natura ha plasmato sull'Etna un paesaggio dal volto aspro, segnato da solchi cavernosi e rilievi rugosi, arcano teatro di scontro tra elementi della natura. Lava infuocata, trasformata dall’aria in dura pietra, che sprofonda fin negli abissi di un mare cobalto. Cielo turchese smaltato, smerigliato dal vento incessante. Sole violento che trapassa l’atmosfera tersa dell’altitudine con fare insolente. Nuvole veloci che accarezzano curiose la solitaria vetta della montagna. Terra che non ama compromessi e non può lasciare indifferenti. Colori netti, densi e compatti. Non c’è spazio per frivole sfumature, qui dominano il nero cupo e ruvido dalla lava, il verde dei pini e dei castagni, l’argento fluttuante degli ulivi scossi dal vento. Terra minacciosa, compressa e poi esplosa dal mare al cielo. Un vulcano sul margine di un’isola, al centro del Mediterraneo, cuore nero della sua affabulante storia, di miti e di leggende.

 

La viticoltura etnea

È qui che vecchie viti sinuose e contorte, lignee sculture viventi, affondano le profonde radici tra sabbie e pietre, alla disperata ricerca di una precaria sopravvivenza. Le più belle vigne dell’Etna hanno il fascino di un armonioso disordine, della casualità spontanea della natura, che ribelle, vince ogni tentativo di domesticazione. Ogni pianta ha la sua forma e la sua storia, unica e straordinaria. Terrazzamenti di pietra lavica che assecondano, pigri e intermittenti, l’irregolare profilo della montagna, filari disallineati, cactus e ulivi che interrompono la vigna, rivendicando il diritto ancestrale di abitare quel luogo. Siamo lontani dalla lineare geometria, algida e asettica, dei nuovi impianti a spalliera. Anzi, quando s’incontrano vigne siffatte sul vulcano, quasi non ci si crede. È questo il fascino magnetico e tenebroso del vulcano, di quel cono nero di lava che lo sguardo non può evitare. Sempre presente all’orizzonte, monolite cangiante alla luce del sole.

 

I vini di lava

I vini dell’Etna sono figli di questa terra estrema e ne portano nel calice la natura intransigente. I bianchi non conoscono le accomodanti morbidezze postmoderne, ma l’acidità sferzante, agrumata e salina del carricante, che affonda profonda e tagliente come una scimitarra turcomanna. I rossi non hanno il carattere rassicurante e armonioso di tanti vini creati su un – presunto - stile internazionale, ma un profilo essenziale e austero. Hanno la delicatezza di piccoli frutti selvatici che si affacciano all’ombra della roccia affumicata, di erbe della macchia mediterranea e di raffinate spezie. Acidità e tannini rivendicano con nudo vigore il loro spazio, lontani dall’essere addomesticati e addolciti. Quest’autenticità espressiva rende i vini dell’Etna unici. Un piccolo territorio capace di produrre grandi eccellenze, quanto più resta fedele a se stesso e ai suoi vitigni: il carricante in purezza per i bianchi, il nerello mascalese, con eventualmente una piccola percentuale di nerello cappuccio per i rossi.

La parola terroir è spesso abusata nel racconto del vino, ma sembra sia stata creata pensando all’Etna, alle sue tradizioni millenarie, alle sue vigne secolari sospese tra il cielo e il mare. L’unicità di un microclima che fonde il sensuale calore del mediterraneo, con il freddo della montagna, generando escursioni termiche foriere d’intensi aromi. I suoli colati dal cono del Mongibello sono uno diverso dall’altro, come tanti figli di una stessa madre. Sciare nuove e antiche, l’una accanto all’altra, forgiate dal fuoco in un’uniformità solo apparente. Il nero mantello di lava disvela lentamente le differenze delle sue oscure trame, i preziosi orditi tessuti di giovani rocce, di vecchie pietre e sottili sabbie, che celano la memoria di un lontano passato, ormai sbriciolato e disperso nel tempo.

 

 

Le cantine e i vini

Al termine delle intense giornate di Taormina Gourmet, abbiamo lasciato l’incantevole borgo siciliano per un breve tour sul versante nord e nord-est del vulcano. Abbiamo visitato e degustato i vini delle cantine locali: Graci, Camporé, Tornatore, Tenute Bosco, Palmento Costanzo, Cottanera, Pietradolce, Franchetti-Passopisciaro, Barone di Villagrandee Benanti. Realtà diverse per dimensioni, modi d’interpretare il territorio e i vitigni, che possono però fornire un primo panorama dell’Etna. Il livello generale dei vini è molto buono, con qualche eccellenza di livello assoluto.

 

Bianchi

Tra i bianchi le preferenze vanno ai vini prodotti con carricante in purezza. L’utilizzo di un’uva come il catarratto, coltivata principalmente nella Sicilia occidentale, tende a snaturare un po’ le caratteristiche più tipiche dei bianchi etnei e non sempre in senso migliorativo. Le etichette che ci sono piaciute di più sono state: l’Etna Bianco DOC Arcurìa 2015 di Graci, l’Etna Bianco Archineri 2017 di Pietradolce, l’Etna Bianco Superiore DOC 2017 di Barone di Villagrande, l’Etna Bianco DOC Pietramarina 2015 di Benanti, vero fuoriclasse della categoria.

 

Rossi

I rossi etnei sono quasi tutti realizzati con nerello mascalese in purezza o con una piccola percentuale di nerello cappuccio. La tendenza delle cantine è ormai orientata a valorizzare le caratteristiche delle varie contrade, producendo vini che siano espressione di veri e propri cru o addirittura di singole vigne. Un percorso molto interessante, che permette di mettere in luce le differenze tra suoli, esposizioni e altitudini. Un insieme di etichette che contribuiscono a comporre un vero e proprio mosaico del territorio etneo. Tra i migliori rossi segnaliamo: L’Etna Rosso DOC Sopra il Pozzo 2015 e il Sicilia Rosso IGT Quota 1000 “Contrada Barbabecchi” 2014 di Graci, l’Etna Rosso DOC Trimarchisa 2014 di Tornatore, l’Etna Rosso DOC Vigna Vico 2013 di Tenute Bosco, l’Etna Rosso DOC Santo Spirito 2015 di Palmento Costanzo, L’Etna Rosso Riserva DOC Zottorinoto 2013 di Cottanera, L’Etna Rosso DOC Santo Spirito 2016 e L’Etna Rosso DOC Vigna Barbagalli 2015 di Pietradolce, L’Etna Rosso DOC Rovittello 2014 di Benanti e L’Etna Rosso DOC Contrada Rampante 2016 di Passopisciaro.

 

Rosati

Il nerello mascalese si sta dimostrando sempre più adatto anche a produrre eccellenti rosati. La delicatezza dei suoi aromi, l’acidità di base e una buccia piuttosto scarica di polifenoli, regalano vini raffinati, dal profilo fresco e agrumato. Ci hanno colpito in particolarmente: l’Etna Rosato DOC 2017 di Pietradolce, l’Etna Rosato DOC 2017 di Barone di Villagrande e soprattuttol’Etna Rosato DOC Piano dei Daini 2017 di Tenute Bosco.

 

a cura di Alessio Turazza

Feast for the Eyes. La mostra dedicata alla fotografia del cibo

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Una mostra tutta dedicata al cibo, o meglio, alle fotografie che lo ritraggono: al Foam Museum di Amsterdam il 21 dicembre comincia una delle più ampie esibizioni sulla storia della food photography. Tutti i dettagli. 

 

La mostra

Piacere per gli occhi. È questa la traduzione di Feast for the Eyes – The Story of Food in Photography (“La storia del cibo nella fotografia”), la mostra - in scena a partire dal 21 dicembre - al Foam Museum, museo di fotografia di Amsterdam, che si propone di raccontare la storia della fotografia del cibo, intesa non solo come arte visiva, ma anche come fotografia giornalistica e commerciale. Un viaggio alla ricerca delle figure e dei movimenti più rilevanti della food photography nel mondo, che fa luce su uno degli aspetti da sempre più accattivanti e golosi del mondo gastronomico: l'estetica. Una componente che ha iniziato a catturare l'attenzione di chef e appassionati a cominciare dagli anni '70, con l'avvento della Nouvelle Cuisine, ma che in realtà è da sempre strettamente legata a doppio filo con l'universo del cibo.

Cibo e fotografia

Tanti i fotografi, artisti, pittori che nel tempo si sono lasciati travolgere dalla bellezza dei piatti, da quella più simmetrica e minimalista all'opulenza e l'abbondanza delle tavole imbandite; dal fascino schietto, diretto e asciutto dei prodotti più succulenti alla malinconica bellezza dei cesti di frutta, ritratti in nature morte e resi protagonisti assoluti di molti quadri. Su questo parallelismo binario che accompagna cibo ed estetica si basa la mostra olandese, che mette in scena opere di fotografi diversi per stili ed epoche, dalla colazione dello statunitense StephenShorealla natura morta della canadese LauraLetinsky, dall'inglese RogerFentoncon i suoi scatti dell'Ottocento alle immagini più iconiche dei primi libri di cucina.

La food photography prima dei social network

Un'indagine alla scoperta di uno dei temi più immortalati di sempre, ben prima dell'avvento dei social network e della tendenza contemporanea di fissare ogni pranzo, colazione, aperitivo o merenda degna di nota. Una moda che in breve tempo si è radicata nell'atto stesso di mangiare, tanto da diventarne un elemento imprescindibile, parte dell'esperienza gastronomica a tutti gli effetti. Ma la cucina, la tavola con tutti i suoi significati allegorici, porta con sé un valore ben più profondo e remoto, caricandosi di simboli culturali e sociali: nei secoli, ha rappresentato stili di vita, raccontato epoche, spaccati di vita, nazioni e popoli, guerre e carestie, fame e benessere, ceti sociali, condizioni economiche e ambienti familiari, focolari domestici, convivialità, gioia e speranza.

Le aree tematiche della mostra

Uno dopo l'altro, la mostra scandaglia i tanti significati più o meno nascosti delle immagini scattate nel corso del tempo, dedicando un'attenzione particolare a tre temi chiave. Primo fra tutti, la Natura Morta, uno dei generi più popolari, dapprima in pittura e poi in fotografia, una categoria che si è evoluta nel tempo e che continua a essere una di quelle più in voga fra gli artisti. E poi Attorno alla Tavola, incentrato sul rituale che accompagna l'atto di mangiare, un ambito strettamente correlato al concetto di identità culturale, che sarà analizzato e approfondito proprio in questa sezione. Infine, Giocare con il Cibo, un connubio di spirito, divertimento e ironia, come sempre in relazione al cibo. Foto a parte, nel museo saranno presenti diversi libri e manuali per spiegare storia, aneddoti e significati che si celano dietro ogni scatto.

Fra gli artisti selezionati, Nobuyoshi Araki, Guy Bourdin, Imogen Cunningham, William Eggleston, Roe Ethridge, Marion Faller e Hollis Frampton, Rotimi Fani Kayode, Roger Fenton, Peter Fischli e David Weiss, Nan Goldin, Lorenzo Vitturi, Tim Walker, Andy Warhol e molti altri ancora. In mostra per aiutarci a comprendere l'intero universo che ruota attorno alle foto di piatti e prodotti.

Feast for the Eyes – The Story of Food Photography – Amsterdam – Foam Museum – dal 21 dicembre 2018 al 6 marzo 2019 - www.foam.org/museum/programme/feast-for-the-eyes

a cura di Michela Becchi

Il pancotto con ricci e mandorle di Mauro Uliassi. Uno dei piatti simbolo del nuovo Tre Stelle Michelin

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Lo chef di Senigallia - la più bella novità della guida Michelin 2019, che gli assegna Tre Stelle – ci racconta com'è nato e perché è stato un successo il suo pancotto con mandorle e ricci di mare. L'intervista in occasione della cena Il giro d'Italia con il lambrusco, allo Sheraton di Roma. 

 

Il nuovo Tre Stelle d'Italia

Mauro Uliassi ce l'ha fatta. Il nuovo tristellato italiano, il decimo arruolato in squadra, risiede a Senigallia. E dal mare Adriatico, da quel bagnasciuga che ha fatto conoscere ai viaggiatori gourmet di tutto il mondo (tanti in più ne arriveranno a seguito della promozione della Rossa), il cuoco marchigiano trae l'ispirazione per raccontare di sé, della sua storia, del legame con la sua terra. E con il mare. Del suo ristorante sulla spiaggia - semplicemente Uliassi - lui ha fatto un osservatorio privilegiato per non perdere mai di vista le proprie radici: non solo tavola ricercata, ma avamposto di vedetta sull'Adriatico, e luogo di ricerca gastronomica – quel Lab che ogni anno, per una quarantina di giorni, tra febbraio e marzo, sforna le idee che finiranno in menu – che è prima di tutto ricerca delle proprie origini, e insieme esplorazione di soluzioni che oltrepassano i limiti. Così è nato pure il Pancotto con mandorle e ricci di mare, ideato nel 2016 durante una di queste sessioni creative – brain sailing, le chiamano in casa Uliassi - e diventato un piatto simbolo del Lab.

Il pancotto con ricci di mare e mandorle. La storia

Ospite a Roma in occasione della cena a più mani Il giro d'Italia con il Lambrusco (a cura di Gambero Rosso, allo Sheraton Rome Hotel, solo qualche giorno prima dall'incoronazione della guida Michelin), Uliassi ha presentato proprio il suo pancotto, raccontandoci quanto le radici storiche da cui l'idea prende le mosse pesino al pari dell'equilibrio tra ingredienti e consistenze nel determinare il successo del piatto. Frutto dell'intelligenza contadina è l'idea di portare in tavola il pane raffermo rimasto in casa bagnandolo con brodo di carne, verdure o pesce, per farne un pasto corroborante – il pancotto - in mancanza di altre risorse per sfamare la famiglia. Al genio dello chef, invece, spetta l'invenzione: “pane e ricci di mare come pane e cioccolato”, un abbinamento generoso per conquistare la fiducia di chi mangia. Ma di più, un lavoro raffinato sulle consistenze del pane, lo iodio dei ricci e il bilanciamento della mandorla, la nota vegetale che aggiunge complessità al gusto. E pensare che, confessa Uliassi, “all’inizio quando lo presentai non fui convincente con gli altri del team, il piatto non piacque. E così lo mettemmo in stand by, ma poi quando venne riproposto finì finalmente in carta e iniziò ad essere un po’ apprezzato da tutti”. Oggi il pancotto - amaro, dolce, morbido, croccante, salato, freddo, caldo – è una delle quintessenze della cucina di Mauro Uliassi.

Montalcino che cambia. Vol. 5. Le nuove sfide del mito: parla Giampiero Bertolini, nuovo Ad di Biondi Santi

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Managerializzazione della struttura, riorganizzazione della distribuzione, più spazio per i fine wine e hospitality. Sono alcuni dei propositi con cui Bertolini arriva a Tenuta del Greppo. Chiamato dai francesi di Epi per accelerare lo sviluppo del più noto marchio di Montalcino.

 

"Franco Biondi Santi, di fronte ai cambiamenti, ha avuto più un ruolo di contenimento che non di evoluzione. Se Tancredi Biondi Santi guardava al futuro, Franco è stato il guardiano del tempo". È uno dei temi trattati nell'intervista al nuovo amministratore generale della storica cantina ilcinese, Giampiero Bertolini. Quasi 20 mesi fa, infatti, il gruppo francese Epi, ha acquistato Biondi Santi, il marchio di Montalcino più famoso e conosciuto nel mondo, in perfetta armonia con un rinnovamento di tutta l'area di Montalcino che si sta profilando sempre più interessante dal punto di vista economico, vitivinicolo, turistico. Da allora è iniziato un lungo lavoro, che tuttora sta continuando, di ricostruzione delle strutture aziendali, di riorganizzazione del sistema di comercializzazione e di distribuzione nazionale e internazionale, di interazione con la casa madre. Ma soprattutto è stato il terroir del Greppo ad essere al centro dell'attenzione, perché al di là dell'indubbio valore del marchio, i grandi Brunello Biondi Santi, nascono qui e proprio da questi vigneti, in futuro, nasceranno le novità.

Il Greppo

 

Da poco tempo, Olivier Adnot, che sin qui ha guidato l'azienda nell'integrazione con Epi (vedi intervista), ha terminato il suo incarico ed è ritornato in Francia, lasciando un ottimo ricordo. Dal primo di novembre, lo ha sostituito in qualità di amministratore generale Bertolini, con un passato di direttore marketing e commerciale globale di Frescobaldi, che avrà il compito di accelerare lo sviluppo di Biondi Santi, preservando l'unicità e l'eccellenza dei suoi vini. Lo abbiamo incontrato qualche giorno fa in azienda a Montalcino per un'intervista a tutto campo, alla quale ha partecipato anche Giovanni Lai, direttore commerciale di Biondi Santi Italia.

Giampiero BertoliniGiampiero Bertolini

 

La Tenuta del Greppo e la selezione clonale

La Tenuta del Greppo, indicata da sempre nelle mappe catastali di Montalcino, si estende su un sistema collinare (altitudine 385/507 metri s.l.m.), affacciato a sud-est di Montalcino. I vigneti sono impiantati su suoli galestrosi e ricchi di scheletro, con esposizione a Sud, Sud-Est, Est, Nord Est e Nord. Il clima segna una forte escursione tra le temperature diurne e quelle notturne, accentuata nella fase vendemmiale, a settembre e ottobre, che consente ai vitigni di esprimere in pieno tutti i profumi caratteristici del Brunello di Montalcino del Greppo. Nel settembre 1970 Franco Biondi Santi iniziò una selezione clonale delle sue vecchie viti provenienti dalla selezione massale iniziata dal nonno Ferruccio a metà dell’Ottocento, in collaborazione con i professori Casini e Bandinelli dell'Istituto di Coltivazioni Arboree della Facoltà di Agraria dell'Università di Firenze. In cinque vendemmie, furono selezionati diversi cloni di Sangiovese, ma quello divenuto ufficiale è il BBS/11 (Brunello Biondi Santi, vite n° 11), clone dal quale sono state prelevate le gemme poi innestate sulle nuove barbatelle selvatiche. In seguito a tale selezione, il BBS11 è entrato a far parte dell’Albo dei “Vitigni Raccomandati” dell’Unione Europea.

 

Partiamo dai vigneti, il cuore del Greppo. Quale tipo di lavoro di approfondimento l'azienda sta operando per studiare e comprendere a fondo il suo eccezionale terroir ?

Il problema principale è stato come sostituire la figura di Franco Biondi Santi, la sua visione del vino ma soprattutto il suo modo di coltivare la vigna. Lui di fronte ai cambiamenti ha avuto più un ruolo di contenimento che non di evoluzione. Se Tancredi Biondi Santi guardava al futuro, Franco è stato il guardiano del tempo. È vero che qui al Greppo siamo un mondo a parte, per altitudine, tipo di sangiovese, natura galestrosa dei suoli, clima, ma non siamo nemmeno avulsi dal contesto di Montalcino. C'erano dei problemi nella gestione agronomica del vigneto, che ha richiesto un gruppo di lavoro specifico per effettuare dei piccoli cambiamenti ma necessari (potatura verde, legatura, ecc.). Di fatto abbiamo avviato un processo di zonazione dei nostri vigneti e abbiamo iniziato ad agire sempre più nella direzione del biologico.

 

In sostanza state ancora in una fase di studio e di ricerca, ma gli obiettivi di lungo periodo quali saranno ?

L'idea di fondo è di studiare sempre meglio i nostri vigneti nel contesto del territorio di Montalcino. Stiamo investendo in vasche e contenitori più piccoli adatti alla vinificazione di piccole partite, in grado di farci comprendere esattamente - e nel rispetto totale di quanto abbiamo prodotto sinora - quale ruolo svolgano nell'assemblaggio del nostro Brunello. Stiamo anche studiando un piano di rempianto delle fallanze, a medio e lungo termine, e stiamo osservando, con un'attenzione particolare, il vecchio sistema di allevamento di Franco Biondi Santi, una specie di doppia lira, che i tecnici ritengono particolarmente adatto al nostro clone di sangiovese, il BBS 11, perchè protegge il grappolo e assicura equilibrio di fronte a un clima con sbalzi sempre più evidenti. Attualmente, stiamo costruendo dei data base per raccogliere informazioni e monitorare la situazione, abbiamo isolato alcune aree e su queste stiamo lavorando. L'idea è di trovare qualche altro ettaro di vigneto, che ci aiuti mantenere i livelli di produzione integrando l'attuale e, quindi, evitando cali produttivi.

 

State valutando anche un adeguamento delle attrezzature di vinificazione e in generale della cantina. Cosa cambierà ?

La cantina è sempre stata molto semplice e tale rimarrà. Già è stato fatto qualche investimento e altri se ne faranno in futuro, ma sempre nell'ottica di valorizzare al meglio le uve che arrivano dai vigneti. Oltretutto, c'è la voglia di comprendere meglio come funzionano i diversi contenitori, legno e cemento, e poi tirare le somme.

 

Montalcino continua ad essere un territorio straordinariamente appetibile, perché è un'area che garantisce un valore aggiunto elevato, per certi versi sottostimato, ma con margini di crescita assai ampi. Lei cosa ne pensa?

Il prezzo medio del Brunello all'esportazione è un bel prezzo rispetto a quello del vino italiano esportato. Acquistare un'azienda di una certa levatura a Bordeaux o in Borgogna è un investimento molto importante e con dei tempi di realizzo molto più lunghi, mentre in Italia, Barolo e Brunello in primis, dove c'è sia qualità che quantità, sono minori. Nel caso specifico di Biondi Santi, si tratta di un marchio mondiale e non solo di un Brunello come altri. Crediamo anche che BS sia sottostimato, nonostante abbia già un posizionamento importante, ma siamo convinti che i margini per incrementare siano ancora molto ampi, proprio in virtù della storia, della qualità dei vini, dell'immagine che nessun marchio vinicolo italiano possiede.

 

Quali sono le sfide fuori dall'Italia?

Inoltre, nel mondo il trend verso i vini di lusso - i fine wines - continuerà in futuro anzi è probabile che lo spazio si allarghi ancora. Pertanto, si tratterà di mettere in campo un progetto in grado di essere all'altezza della sfida. A iniziare da una rete di distributori internazionali altamente specializzati in vini di alta gamma, in grado di vendere BS, la sua storia e il suo Brunello. Uno spazio che negli ultimi anni era andato perso e che ora dobbiamo recuperare soprattutto all'estero. Attualmente, nei Paesi più importanti, Epi ha rimesso in piedi tutta la rete internazionale di distribuzione. Ora ci sarà un problema di acculturamento del trade, che richiederà del tempo, ma intanto l'operatività è garantita.

 

L'azienda come si pone di fronte alle nuove proposte di vendita che la tecnologia e i social media propongono?

Oggi il digitale occupa uno spazio sempre maggiore. In questo senso, faremo le nostre valutazioni, anche se c'è da dire che creare un rapporto diretto tra un vino come il nostro e il consumatore, è sicuramente importante. Da questo punto di vista, c'è tutta un'attività di comunicazione da sviluppare o anche di vendita particolare, creando un Crm (Customer relationship management) in grado di creare relazioni e di interagire con dei consumatori disponibili a spendere 4-500 euro per acquistare bottiglie e annate di pregio: le quantità sono limitate e, quindi, sarà un'esperienza per pochi. Pertanto, è un tema che affronteremo nel tempo, sempre con l'ottica di aumentare il valore sul mercato, perché la comunicazione accorcia le distanze non solo con il consumatore ma anche con il trade.

 

Lei che idea si era fatto dell'azienda?

Un progetto straordinario che mi ha convinto sin dall'inizio perché in Frescobaldi, da cui provengo, l'avevamo già studiato. La titubanza era lavorare con dei francesi, ma come lei stesso ha verificato, sono diversi - basso profilo e passo da alpino - e siamo entrati in sintonia subito. D'altra parte, con il nostro marchio, le possibilità di Epi, un progetto chiaro e condiviso, non ci poteva essere sfida più bella. È un'azienda che deve essere rifondata e messa a sistema con una managerializzazione di tutta la struttura. Anche la commercializzazione si dovrà evolvere, a partire dalla creazione di valore.

 

Quale sarà il suo impegno?

Il mio contributo sarà quello di portare l'esperienza maturata in 16 anni di costruzione di una struttura complessa come quella di Frescobaldi, con Ornellaia e Luce, ma adesso anche io devo capire meglio. Non vogliamo rimanere dove siamo oggi, perché non siamo al passo con i tempi e non siamo ancora all'altezza di un vino come il nostro. Dobbiamo far saper di più cosa stiamo facendo: è giusto che si sappia come ci stiamo muovendo. A breve pianificheremo in comunicazione, partecipazione ad aste, hospitality di alto livello.

 

Quale sarà il rapporto che intesserete con il territorio e le sue strutture ?

Non so come sia stato negli ultimi anni, ma abbiamo iniziato in punta di piedi. Montalcino è l'unico posto dove non abbiamo intermediari commerciali, ma solo rapporti diretti perché qui, o prima o dopo, per un breve o lungo periodo, ma tutti hanno lavorato in azienda. Abbiamo riattivato il rapporto con il Consorzio e con loro abbiamo fatto un corso di formazione per i nostri manager internazionali per illustrare il vino e il territorio. Per quanto mi riguarda, noi dobbiamo essere superintegrati e lavorare, seppur con le nostre modalità, con il sistema territoriale di cui siamo parte. Non a caso appena arrivato ho chiesto proprio di entrare in contatto con il sindaco, il Consorzio, i carabinieri, insomma tutte le istituzioni locali. Noi siamo qui da secoli e qui vogliamo restare, perché siamo una parte importante della storia di questo territorio. La cornice è un'azienda francese che viene qui con i piedi di piombo, nel massimo rispetto di quanto è stato fatto: questo è il messaggio che vogliamo dare tutti noi dello staff.

 

La distribuzione in Italia, il punto del direttore commerciale Giovanni Lai

"In Italia, abbiamo fatto un anno di formazione agli agenti che ci rappresentano e ora stiamo iniziando con tutti i clienti più strategici"spiega il direttore commercialeGiovanni Lai. "La situazione del mercato nazionale è complessa perché, se durante la transazione abbiamo bloccato le vendite, in precedenza c'era molta disomogeneità. Per esempio, non eravamo nei ristoranti 2 o 3 stelle, e di fatto non avevamo il controllo della distribuzione. Un dato importante è che storicamente la famiglia BS non ha mai fatto compromessi sui prezzi quindi il valore sul mercato è sempre rimasto".Coe è la situazione in questo momeento? "Oggi, nel Paese, abbiamo circa 600 clienti, seguiti da 40 agenti, e la percezione del prodotto è in crescita, tanto che da settembre abbiamo finito di vendere l'annata 2012. Abbiamo bloccato la vendita indiscriminata delle vecchie annate, riservandola solo a clienti selezionati a cui dedichiamo una formazione particolare".

 

 

a cura di Andrea Gabbrielli

 

 

Torno Subito di Massimo Bottura all’hotel W Dubai – The Palm. Dolce Vita romagnola e divertimento

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Sarà divertente, colorato, rappresentativo di un'epoca che non c'è più – le mitiche atmosfere degli anni Sessanta in Riviera – e insieme capace di offrire nuove opportunità di socializzazione il primo ristorante firmato da Massimo Bottura fuori dai confini nazionali. Torno Subito al W Dubai apre a dicembre, e porterà la cultura gastronomica italiana più pop negli Emirati Arabi. Tra pizza, carretto dei gelati e le invenzioni dello chef che ama la cucina popolare. 

 

W Dubai – The Palm. Un nuovo hotel esclusivo

350 camere per gli ospiti, di cui 58 suite, che guardano allo skyline di Dubai dal punto di osservazione privilegiato della Palma, dove oggi sono allineati alcuni degli hotel più prestigiosi della città (dal Kempinski al Waldorf Astoria). E infatti non è certo una novità inaspettata l'apertura dell'ennesimo albergo esclusivo nella Disneyland degli Emirati Arabi, la metropoli dello shopping a tanti zeri, del divertimento notturno, delle vacanze che (per qualcuno) durano tutto l'anno.

E il W Dubai – The Palm del gruppo Marriott (che entro la fine del 2018 avrà aperto, nel giro di un anno, ben 11 strutture d'ospitalità negli Emirati Arabi), prossimo a inaugurare sul braccio Ovest dell'anello che racchiude Palm Jumeirah, non deluderà le aspettative. Offrendo agli ospiti il pacchetto full optional d'ordinanza: spa, palestra, rooftop, piscine a perdita d'occhio, spiaggia privata. E un'offerta gastronomica all'altezza del prestigio del gruppo. Non un numero sconfinato di possibilità, come invece succede in altri mega complessi alberghieri dell'area, ma due ristoranti (più la proposta di cucina sudamericana di SoBe, sul rooftop) dalla personalità ben definita, entrambi dotati anche di spazi per mangiare all'esterno, godendo del colpo d'occhio sul mare e sulla città. Ci sarà Akira Back, un abituée della ristorazione d'hotel a 5 stelle, con oltre dieci insegne in altrettanti lussuosi alberghi del mondo, ma all'esordio nell'area mediorientale, dove metterà la firma su una proposta fine dining ispirata ai fondamentali della cucina giapponese con influenze coreane.

Massimo Bottura e la prima volta all'estero

E invece gioca da outsider, almeno per quel che riguarda il mondo dell'hotellerie, Massimo Bottura, pronto a firmare il suo primo, attesissimo ristorante all'estero (fatta salva l'esperienza – solo una breve parentesi - a Istanbul, nel contenitore di Eataly) e il primo in assoluto in un albergo. Dopo diversi rinvii (da piani iniziali il W Dubai avrebbe dovuto inaugurare a maggio scorso), all'inizio di dicembre l'hotel aprirà le porte ai primi clienti, e così il ristorante dello chef modenese, che si prepara a rinforzare la compagine italiana a Dubai, dove la ristorazione tricolore gode di un buon momento di crescita, specie in termini di qualità. Con un ma di cui anche lo chef della Francescana – tra i più carismatici ambasciatori dell'alta cucina nel mondo – deve tener conto: all'idea del fine dining, la clientela locale preferisce decisamente l'easy dining. Lo sanno bene gli imprenditori che sulle esigenze della città sono riusciti a ritagliare proposte su misura, come la famiglia Ferragamo con il suo Borro Tuscan Bistrot, ed Enrico Coppola, che da Ginevra ha importato la pizza di Luigia anche a Dubai, con buonissimi riscontri del pubblico. E pure Pinchiorri, che per Dubai ha studiato il format The Artisan, che per pranzo propone un menu a poco più di 20 euro. Mentre parla a un pubblico diverso, ma è comunque attento alle considerazioni di cui sopra, il ristorante Niko Romito del Bulgari Resort Dubai, sull'isola di Jumeirah Bay.

Torno Subito. L'Italia degli anni Sessanta a Dubai

Massimo Bottura, dal canto suo (e per lui Bernardo Paladini, che curerà personalmente l'avvio), debutterà all'interno del W con il format Torno Subito, (il nome si ispira all'opera – o meglio ad una non opera visto che in quella circostanza l’artista padovano scappò dalla galleria chiudendo fuori il pubblico dell’opening - di un Maurizio Cattelan agli esordi, nel 1989, alla Galleria Neon di Bologna) ancora una volta alle prese con quell'idea di ristorazione informale ma supportata da una lettura decisamente personale già messa in campo a Firenze, per la Gucci Osteria di piazza della Signoria.

Differenti, però, gli esiti a cui giunge la stessa premessa (quella di conquistare un pubblico internazionale eterogeneo con una proposta inclusiva, e divertente): non più la contaminazione culturale che dall'Italia – da Firenze – apre una finestra sul mondo, ma il racconto dell'Italia fuori dai confini nazionali, con la promessa di offrire agli ospiti un viaggio nei mitici anni Sessanta, atmosfera sofisticata come si conviene al contesto, ma rilassata e vocata alla convivialità. Con la possibilità di ordinare in camera o direttamente dalla spiaggia, per un picnic in salsa italiana con i piedi nell'acqua. E il design degli interni, curato da Paul Bishop, asseconda la voglia di far divertire gli ospiti, riproponendo suggestioni visive dell'immaginario della Dolce Vita, tra gli anni Cinquanta e Sessanta sulla Riviera romagnola: colori pastello, giustapposizione di materiali e pattern che attirano l'attenzione, ambientazioni fin quasi cinematografiche, specialmente in terrazza (direttamente affacciata sulla spiaggia), con il pattino di salvataggio, le cabine in legno che diventano tavoli per mangiare all'aperto, il carretto dei gelati, le sedute ispirate alle vecchie sedie da bar in plastica intrecciata.

Cucina pop. Dalla pizza al carretto dei gelati

All'interno - tutt'intorno al bancone delle bevande e al piano di lavoro con forno a legna della pizzeria e cucina a vista con vetrina della carne e del pesce - la sala mantiene l'imprinting da ristorante sulla spiaggia, con i divertenti lampadari che simulano colorati palloni gonfiabili e la cascata di polaroid in bianco e nero che scendono dal soffitto, pescando qualche riferimento dalla tradizione dei diner americani. Con elementi di arredo che spaziano da Gio Ponti a Paola Lenti. Dunque l'idea è quella di “inventare” un'oasi che recupera la memoria di un passato mitico (le atmosfere ricordano non poco quelle messe in scena ogni anno sotto al tendone di Al Mèni, guardacaso a Rimini) nel macrocosmo composito di Dubai, sfruttando quella che è la peculiarità più attraente della città emiratina, dove tutto quello che ancora non c'è può essere realizzato senza limiti - a patto di avere molti soldi da investire - e preconcetti. Un progetto che sembra calzare a pennello sulle qualità visionarie di Massimo Bottura.

Così, tra qualche settimana, anche lo chef della Francescana andrà a infoltire il gruppo dei grandi cuochi italiani che investono all'estero, spesso prestando il proprio talento ai gruppi più celebri dell'ospitalità internazionale. Ricordiamo, tra gli altri, Heinz Beck, Niko Romito, Francesco Apreda, i fratelli Cerea, la famiglia Iaccarino (l'ultima impresa, a Toronto, con il supporto di un imprenditore locale), Giancarlo Perbellini (appena approdato in Barhain con la sua Locanda), Ciccio Sultano (prossimo a debuttare a Vienna, con Pastamara al Ritz Carlton Hotel, nel mese di dicembre).

 

Torno Subito - Dubai - W Dubai The Palm - West Crescent, Palm Jumeirah - da dicembre 2018

 

a cura di Livia Montagnoli

(immagini dal sito di Paul Bishop)

Liòn, a Roma il rIstorante dall'attitudine cosmopolita a pochi passi dal Pantheon

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Nuova apertura in Largo della Sapienza a Roma. Il ristorante, guidato dal giovane chef Luca Ludovici, si colloca all’interno di un più ampio progetto di riqualificazione dell’area, concepito da tre imprenditori romani.

 

Quello che cerchiamo di fare è creare valore” ci spiega Emidio Pacini che, insieme al fratello Fabrizio e ad Andrea Girolami, hanno pensato e realizzato il The Pantheon Iconic Rome Hotel (con la terrazza al sesto piano, il Divinity, aperta circa un mese fa) e il ristorante Liòn, mentre un terzo progetto è in dirittura d'arrivo.

Emidio Pacini

Con undici hotel all’attivo di cui dieci a Roma, Pacini non nasconde il suo amore per la Capitale e la volontà di restituirle almeno parte del suo splendore. Da imprenditore, crede che esista la possibilità di portare avanti progetti e, insieme, riqualificare luoghi, restituire decoro e dignità alla città, recuperare luoghi abbandonati. È una visione diversa di imprenditoria. Ed è proprio seguendo questa visione che, nel 2014, Pacini trasforma una vecchia sede Asl abbandonata in un albergo a quattro stelle superior, Palazzo Navona, grazie a un progetto di riconversione. Successivamente decide di riqualificare, in accordo con il Comune di Roma, anche l’adiacente via del Melone, una strada dimenticata e abbandonata diventata civile grazie all’impegno economico di questi privati. Quando poi si liberano i due locali di fronte a Palazzo Navona, la visione di Pacini si amplia, così decide di rilevarli. Passeranno tre anni prima che il progetto dell’imprenditore romano inizi a prendere forma.

 

La visione della proprietà: creare valore per la città

Per la prima volta Pacini e soci decidono di investire in un ristorante. Ad animarli c’è un’idea ben chiara: “avevamo questa visione: creare un ristorante che a Roma non c’era” spiega “Un luogo che nell’eleganza delle forme e delle proporzioni, nella nitidezza delle linee restituisse un ambiente informale dove gustare un pranzo o una cena di alto livello, ma senza la rigidità di alcuni ristoranti blasonati del centro”. Un luogo dall’atmosfera cosmopolita, che richiamasse un po’ certi locali londinesi.

Il termine visionetorna in modo costante nei discorsi di Pacini, poiché è quello che meglio riassume il suo concetto di imprenditoria: “Sono convinto che ci sia la necessità di invertire una tendenza che oggi sembra dominante nella Capitale, ma sono fiducioso che con un po’ di buona volontà da parte degli imprenditori e della Pubblica Amministrazione si possa cambiare. Perché” aggiunge“la creazione di valore passa anche attraverso l’impegno a contrastare il degrado”. Ecco dunque che insieme al Liòn, Pacini si preoccupa anche di riqualificare a proprie spese l’intero Largo della Sapienza, dove ora si gode anche del bel dehors del ristorante. “Abbiamo ritenuto di fare un investimento che ci desse la garanzia di poter perseguire la nostra visione”risponde quando gli chiediamo che impegno economico abbia richiesto un progetto tanto ambizioso. “Non ha molto senso parlare di cifre, perché la logica del numero rischia di non restituire la completezza di ciò che abbiamo in mente di fare. Abbiamo voluto creare un luogo di cui si parli, al di là del risultato strettamente economico. Se osserviamo ora la strada, Largo della Sapienza, il ristorante e l’albergo, notiamo che abbiamo riqualificato una parte non marginale della città”.

Un esempio di imprenditoria che si discosta abbastanza da ciò che si vede in media nella Capitale. Esempio che, sottolinea Pacini, sarebbe auspicabile fosse seguito anche da altri: “Perché si possono fare le cose anche in un altro modo, senza pensare esclusivamente all’utilità immediata del profitto”. Nella giungla di una “imprenditoria rapace” che rischia di fagocitare la Capitale, fatta di luoghi acchiappaturisti che talvolta aprono e chiudono nel giro di pochi mesi, il Liòn punta a durare nel tempo, e “creare un valore che non si esaurisca in un anno”.

Fondamentale, per portare avanti questa visione, la scelta dei professionisti chiamati a condividere il progetto, a partire dall’architetto Daniela Colli (suoi, tra gli altri, il Vyta Santa Margherita e il Motta Milano 1928), cui è stato affidato il restyling, passando per il restaurant manager Agostino Zappimpulso, professionista di lungo corso, che oltre a seguire il Liòn è anche responsabile dell’area food and beverage del Pantheon Iconic Rome Hotel (l’ammiraglia degli alberghi di famiglia, gestita dal gruppo Marriott), fino allo chef.

The Pantheon Iconic Rome Hotel

Lo chef Luca Ludovici

Quando si è trattato di decidere a chi affidare in cucina, piuttosto che optare per nomi altisonanti magari per una consulenza d'autore, i tre soci hanno fatto una scelta diversa: “Abbiamo selezionato uno chef giovane in cui crediamo, vogliamo dargli l’opportunità di esprimersi, perché a noi interessa la sostanza. Il valore è fatto di sostanza”.

Lo chef è LucaL udovici, 32 anni e un bel bagaglio di esperienze, con Giulio Terrinoni, Antonio Sciullo, Massimiliano Alajmo, e ancora con Gualtiero Marchesi e a Londra con Michel Roux. Oggi si sente pronto per una nuova fase, raccogliendo la sfida di questo progetto che lo vede alla guida di ben tre cucine: dopo il Divinity e il Liòn, infatti, a dicembre sarà la volta del ristorante gourmet al piano terra del The Pantheon. Progetti diversi su cui, però, ci sarà una stessa impronta: pochi ingredienti, raramente più di tre in ogni piatto, poiché l’obiettivo principale è valorizzare al massimo la materia prima. Insegnamento che lo chef ha raccolto dal maestro Gualtiero Marchesi, che ha cambiato totalmente la sua prospettiva in cucina. Significativa, nel suo percorso, anche l’ultima esperienza che lo ha visto nel ruolo di executive all’Osteria di Birra del Borgo a Roma. Qui, Gabriele Bonci gli ha trasmesso non soltanto l’importanza di una scelta quasi maniacale delle materie prime, ma anche del contatto diretto con i produttori, con i quali Ludovici ha stretto un legame personale fatto di scambio reciproco ed estrema fiducia. “Vivo giorno per giorno. Lavoro sodo, mi concentro sui piatti, vado in giro a conoscere e scoprire produttori e materie prime. E cerco di dare sempre il buon esempio” ci risponde il cuoco quando gli chiediamo conto delle sue aspettative. Perché, spiega, i ragazzi della brigata vanno formati e anche in questo caso non può che seguire le parole di Marchesi, che gli ripeteva spesso che “l’esempio è la più alta forma di insegnamento”.

La cucina del Liòn

Il menù pensato da Ludovici per il Liòn mostra molto della sua personalità, delle sue radici laziali, e delle esperienze professionali che lo hanno formato. Accento puntato sulle materie prime manipolate con rispetto e tecnica e scelte con altrettanta cura, dalla selezione di ostriche di Corrado Tenace (al momento due francesi e una, la Regal, irlandese) a quella di ortaggi dell’azienda biologica biodinamica Le Spinose di Magliano Sabina (eccole le eredità di Bonci), guidata da Antonella Deledda. Per quanto riguarda la pasta, ha voluto dare spazio ai grani tradizionali come il Senatore Cappelli o il farro, mentre per i piatti della tradizione romana la scelta è ricaduta sulla Monograno Felicetti. La tradizione è una costante nella cucina di Ludovici che si trova anche in questo menu, in cui si intravedono alcuni richiami alla sua regione e più precisamente alla Ciociaria. Pensiamo per esempio agli anolini di grano saraceno fatti a mano con ricotta di pecora, brodo all’acqua di Fiuggi, croste di parmigiano e tartufo nero; o alla seppia sporca arrosto con le cime calate: una verdura della tradizionale ciociara, tipica del periodo natalizio, comunemente saltata in padella con aglio olio e peperoncino. Lo chef aggiunge alle cime dell’aceto d’uva e le serve con una seppia arrostita e delle chips di verdura amara. E buon appetito in questo pezzettino nuovo di Roma.

 

Liòn – Roma – Largo della Sapienza, 1 - 06 81157070- https://lionroma.it/

 

a cura di Valentina Ferraro

 

Riconoscere un olio extravergine di qualità. Prezzo, assaggio, conservazione

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È tempo di olio nuovo, prodotto imprescindibile nella nostra dieta, da acquistare con consapevolezza. Come destreggiarsi nella scelta? Ecco i nostri consigli. 

 

Della campagna olearia in corso, con tutte le problematiche del caso, abbiamo già discusso più volte. Su tecniche di lavorazione, impianti, tempi di raccolta, cure da tenere in campo e in frantoio abbiamo imparato molto grazie alle interviste con i migliori produttori della Penisola, quelli che si sono distinti nell'ultima edizione della guida Oli d'Italia. Abbiamo parlato di cultivar, biodiversità olivicola, vendita, olio nella ristorazione, proprietà nutraceutiche dell'extravergine, abbinamenti e negozi specializzati nella promozione dell'oro verde. In tempo di olio nuovo, però, specialmente in un'annata così complessa, è necessario ripartire dalle basi: come si riconosce un prodotto di qualità? Dove acquistarlo?

 

olio al supermercato

L'olio al supermercato

Innanzitutto uno sguardo agli scaffali dei supermercati: la scelta è ampia, il prezzo fin troppo competitivo, ma la qualità è pressoché inesistente. Che tanto olio in vendita nella grande distribuzione sia tutto tranne che extravergine lo diciamo da tempo, e qualche anno fa – era il novembre 2015 – anche la Magistratura se ne è resa conto: l'indagine portata avanti dal Pubblico Ministero Raffaele Guariniello era stata una delle prime (di una lunga serie) a destare scalpore fra il pubblico, mettendo in luce una serie di verità ovvie ma per tempo tenute in ombra. Il motivo dello scandalo? L'assenza non solo di olio italiano all'interno delle bottiglie dei supermercati, ma proprio dell'extravergine: dietro l'etichetta che sfoggia in bella vista la definizione “extravergine”, si nascondono oli raffinati (ovvero rancidi e con un alto livello di acidità, deodorati e chimicamente resi inerti), oli difettati e vergini, e quindi con acidità ben più alte di quelle dell'extravergine.

 

olio extravergine di oliva

Cosa significa extravergine

Perché – lo ricordiamo – la definizione extravergine indica un “olio di oliva di categoria superiore ottenuto direttamente dalle olive e unicamente mediante procedimenti meccanici”, come riportato in etichetta. Il termine, infatti, identifica una categoria merceologica assegnata – attraverso più parametri – a tutti quegli oli che presentano un livello di acidità libera inferiore a 0.8% per 100 grammi. E che sono esenti da qualsiasi tipo di difetto.

 

impianto discontinuo

Impianto a ciclo discontinuo (o tradizionale) 

Scegliere il frantoio giusto

Dove acquistarlo? Nelle botteghe specializzate, naturalmente, oppure nei frantoi di fiducia, impianti di nuove tecnologie in cui le olive – raccolte al giusto grado di maturazione – vengono lavorate con attenzione in ambienti puliti dall'inizio alla fine. Le molazze di granito di una volta, infatti, non sono adatte per una produzione di qualità. La pasta ottenuta con questo sistema, chiamato ciclo discontinuo (o tradizionale), viene raccolta negli appositi recipienti detti fiscoli, e poi spremuta meccanicamente: in questo modo, non esiste una continuità di lavorazione e il rischio di ossidazione (con conseguente difetto) è altissimo.

 

ciclo continuo

Impianto a ciclo continuo

Gli impianti a ciclo continuo, invece, prevedono un unico ciclo di produzione, e hanno il vantaggio del decanter, uno strumento che divide sansa, acqua di vegetazione e mosto.

Il prezzo

Come sempre, il prezzo ha un suo valore. Quello giusto? Non può scendere al di sotto degli 10 euro a litro. E stiamo parlando di un prezzo davvero minimo, di frantoio, che aumenterà inevitabilmente una volta che l'olio sarà giunto sullo scaffale dei negozi. Si tratta, inoltre, di una cifra variabile, che può cambiare a seconda di tante varianti, a cominciare dall'annata. Manodopera, manutenzione degli impianti, imbottigliamento, etichettatura, trattamenti antiparassitari, irrigazione, senza contare i costi aggiuntivi di chi ha optato per una coltivazione biologica. E questi sono solo i costi base di un'azienda, a cui si vanno ad aggiungere poi tutti gli extra, frutto della caparbietà e l'attenzione dei produttori più appassionati, che hanno scelto di innalzare ancora di più il livello qualitativo attraverso studio e tanti investimenti.

 

prezzo dell'olio

Sembra superfluo specificarlo, eppure mai come questo momento è importante ricordarlo: un olio in offerta a cinque, quattro, due euro non può in alcun modo essere un prodotto di qualità. Non solo: non è neanche extravergine e, di conseguenza, non apporterà alcun beneficio alla nostra salute (stiamo parlando, tanto per dirne una, di una perdita significativa di polifenoli, ovvero sostanze antiossidanti). Un particolare da ricordare e ripetere come fosse una sorta di mantra durante la spesa è questo: solamente l'etichetta, la bottiglia, il tappo antirabbocco e tutto il necessario per il confezionamento costano al produttore più di un euro al litro. Come può l'intero prodotto costare due euro?

 

assaggio olio

L'assaggio dell'olio extravergine di oliva

Che sia stato acquistato al frantoio o in negozio, che si tratti di un regalo o dell'olio di un amico, c'è un solo metodo infallibile per riconoscere la qualità di un extravergine: l'assaggio. È una vera scienza, l'analisi sensoriale, un sistema sul quale noi del Gambero Rosso facciamo affidamento da quasi nove anni, grazie a un panel sempre più valido, ovvero un gruppo di assaggiatori preparati che si confrontano ed esaminano insieme un prodotto. Concorsi e degustazioni ufficiali a parte, il parere di altre persone è fondamentale, ma non sempre è possibile assaggiare in compagnia. Per capire se un olio sia o meno buono, però, è necessario, prima di tutto, imparare a riconoscere difetti (ce ne sono tanti, dovuti a motivi diversi, ma questa è un'altra storia) e pregi. Ma come si assaggia l'olio? Bando al pane, crackers o accompagnamenti di qualsiasi tipo: l'extravergine va degustato a pieno, in purezza, in un bicchierino (per assaggi amatoriali, quello da caffè è l'ideale). Ecco i consigli di Stefano Polacchi, curatore della guida Oli d'Italia

L'assaggio dell'olio extravergine di oliva

assaggio olio

VISTA: al contrario di tanti luoghi comuni che vogliono che il verde più brillante sia sinonimo di qualità, il colore non influisce sulla qualità dell'olio. Si può variare da un giallo paglierino a un verde intenso, in base alla cultivar, il tempo di raccolta e la lavorazione, ma non sono le sfumature cromatiche a fare la differenza. Un dettaglio da osservare alla vista, però, c'è: il filtraggio. Se l'olio buono non è filtrato può essere ancora acquistato, ma a una condizione: deve essere consumato nel giro di un mese, un mese e mezzo, perché altrimenti inizierà un processo di deterioramento inarrestabile.

 

assaggio olio

OLFATTO: prima di procedere all'esame olfattivo, si copre il bicchierino con la mano e lo si fa roteare fino a raggiungere una temperatura di circa 27°C, punto in cui l'olio esprime al massimo le sue componenti aromatiche (basta attendere il momento in cui non si avverte quasi più differenza tra bicchiere e calore della mano). E poi, ci si tuffa con il naso dentro.

 

assaggio olio

Questo è il momento decisivo, il più magico per gli assaggiatori appassionati, quello in cui tutti i pregi o gli eventuali difetti emergono. Note di rancido, di muffa, avvinato (lo riconoscete dal netto sentore di aceto) e tutti gli altri difetti del caso sono ben percepibili al naso, così come i tanti profumi inebrianti dell'olio buono, dall'erba tagliata al carciofo, dal pomodoro con la sua foglia alla mandorla, dalla mela verde alle nuance più balsamiche. Insomma, note verdi e vivaci, sensazioni distinguibili e riconoscibili che costituiscono il fruttato dell'olio, suddivisibile in tre categorie: leggero, medio, intenso.

 

bicchieri assaggio

Bicchieri ufficiali per l'assaggio dell'olio exrtavergine di oliva

GUSTO: ed eccoci al momento finale, l'assaggio. Per farlo, si ricorre a una tecnica di assaggio insolita ma molto efficace: lo strippaggio. Un metodo che consiste nell'inspirare aria all'interno della bocca, cercando di ricreare una sorta di vaporizzatore tenendo i denti serrati. Si prende una piccola quantità di olio, la si fa passare tra i denti inspirando e il gioco è fatto: in questo modo, si riescono a percepire l'amaro e il piccante, oltre a tutte le sensazioni retro-olfattive. E a proposito di amaro e piccante: si tratta di due componenti imprescindibili in un olio che si rispetti, presenti in maniera più o meno evidente, ma immancabili.

 

Consigli per gli acquisti

L'assaggio è quindi il modo più sicuro per scegliere un olio, ma è bene ricordare qualche altro dettaglio da osservare prima dell'acquisto.

LA BOTTIGLIA: l'ideale è scegliere una bottiglia scura, in grado di riparare l'olio dalla luce, uno dei maggiori nemici dell'extravergine. Naturalmente, la bottiglia deve essere in vetro.

IL TAPPO: deve essere antirabbocco, pensato appositamente per evitare, appunto, rabbocchi di oli diversi nella bottiglia.

L'ANNATA: al contrario del vino, l'olio non invecchia. Abbiamo tentato degli esperimenti qui al Gambero Rosso e i risultati sono stati sorprendenti, ma si trattava di casi eccezionali. L'olio va acquistato e consumato entro l'anno. Una volta aperto, inizia gradualmente a perdere le sue caratteristiche organolettiche, per cui sarebbe preferibile consumarlo nel giro di pochi mesi, se non si vuole rinunciare all'alta qualità del prodotto.

LA CONSERVAZIONE: infine, una volta acquistato, l'olio va conservato al meglio. Luce, ossigeno e calore sono i tre elementi da tenere lontani. Quindi, niente scaffale accanto la cappa della cucina o la macchina del gas (almeno non quando è accesa), niente luce diretta, niente fonti di calore nelle immediate vicinanze. E soprattutto, attenzione al tappo: va sempre avvitato correttamente, altrimenti l'olio inizierà il suo processo di ossidazione. Infine, bandita per sempre l'olieria: oltre alla trasparenza, l'assenza di un tappo appropriato favorisce l'ossidazione del prodotto. 

a cura di Michela Becchi

video di Martina Molle


A New York inaugura il Japan Village. La food hall a tema giapponese di Industry City

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I paragoni con Eataly già si sprecano, in una sorta di competizione tra dirimpettai che vede sfidarsi Brooklyn e Manhattan. Perché il villaggio giapponese che inaugura tra qualche giorno a New York sarà il più grande spazio gastronomico di Industry City. Tra ramen, okonomiyaki, sushi, yakitori, sake, cucina da izakaya. E un grande market per trovare tutte le specialità del Giappone. 

 

Il modello Eataly

Per capire quanto Eataly sia riuscito a imporsi nel mondo come modello primigenio di food hall a tema nazionale – tutto il meglio del made in... Da completare a piacere – basti contare il numero di volte in cui viene citato come termine di paragone. Specie oltreoceano, dove Eataly New York, col primo negozio di Flatiron e poi nel raddoppio di Ground Zero, è diventato a tutti gli effetti una delle attrazioni della città. Josè Andres e i fratelli Adrià progettano un colorato mercato gastronomico di ispirazione spagnola agli Hudson Yards (Mercado Little Spain aprirà il prossimo aprile)? Tutti parlano di un Eataly in salsa spagnola. E prima ancora, quando nel 2015 l'imprenditore della ristorazione Peter Poulakakos concretizzava la sua idea di food hall a tema francese battezzando Le District, la stampa locale si era affrettava a bollare il progetto come “the Eataly of French food”. Dunque ora è il turno del Japan Village che inaugurerà il prossimo 24 novembre all'interno di Industry City al Brooklyn's Sunset Park, agglomerato commerciale ad alto tasso di innovazione che è il risultato di un grande progetto di riqualificazione urbanistica avviato nel 2013 da Jamestown. Oggi l'area, che ospita realtà produttive, start up tecnologiche, gallerie d'arte, è anche un valido aggregatore di concetti gastronomici che necessitano di ampie metrature, difficilmente disponibili altrove, se non a prezzi stellari. Niente di meglio per un market di moderna concezione, che vuole puntare tutto sul binomio tra vendita a scaffale e ristorazione.

Un villaggio giapponese del cibo a Industry City

Questo sarà il Japan Village sviluppato su una superficie di oltre 1800 metri quadri, con la bakery Cafè Japon, il fruit e salad bar Mika N' Momo (con una proposta tutta incentrata sul mondo vegetale giapponese, dallo shiso al komatsuna, la "senape" giapponese), i sushi bar, i venditori di soba e udon, la saketeca Kuraichi, il negozio di specialità varie di importazione giapponese (con banchi del fresco, macelleria e pescheria), gestito da Tony e Takuya Yoshida, che sono anche gestori dell'intera struttura, detentori di una stella Michelin per la cucina di Kyo Ya e proprietari della nota catena di supermercati Sunrise Mart. Dieci in totale sono le realtà coinvolte, per un'offerta che spazia dal teppanyaki (la griglia giapponese) di Steak and Lobster ad okonomiyaki e takoyaki di Hachi, alle ciotole di riso di Moriya. E ancora tempura, tonkotsu ramen, zuppe di miso e bento a portar via (di Obentoyasan). Ma il villaggio giapponese ospiterà pure un vero izakaya con cocktail bar, ribattezzato Wakuwaku, che servirà “tapas” giapponesi, tra yakitori di pollo e sashimi, da accompagnare con birra artigianale. Il progetto è ambizioso, e la proprietà già pensa in grande, con l'obiettivo - molto concreto - di inaugurare presto uno spazio gemello per metri a disposizione, sempre all'interno di Industry City, per corsi, eventi, nuovi banchi di vendita.

Intanto, tra pochi giorni, il primo Japan Village di New York - “la risposta giapponese di Brooklyn all'Eataly di Manhattan”, titola stavolta il Wall Street Journal - si prepara ad aprire battenti dalle 11 alle 19, annunciato dalle imponenti carpe koi che fluttuano sulla facciata.

 

Japan Village – Industry City – dal 24 novembre – www.industrycity.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Michelin Spagna e Portogallo 2019. Tre Stelle per Dani Garcia, ancora in crescita Martin Berasategui

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Un nuovo tristellato in Andalusia, qualche raddoppio – anche per Ricard Camarena a Valencia – prime stelle distribuite in tutto il Paese, a premiare anche insegne informali. In Portogallo, secondo macaron per Alma, a Lisbona. Ma tra i protagonisti c’è sempre Martin Berasategui. 

 

I tristellati spagnoli

Anche la Spagna ha il suo nuovo tristellato, e conta così 11 tavole premiate col massimo riconoscimento dalla guida Michelin; una in più rispetto all’Italia, che da qualche giorno è arrivata in cifra tonda con le Tre Stelle conquistate da Mauro Uliassi. Per la ristorazione iberica, per dir la verità, si potrebbe parlare di un passaggio di testimone al vertice, seppur in due diverse regioni del Paese: anche l’anno scorso la Spagna contava 11 indirizzi a Tre Stelle, ma la chiusura di Carme Ruscalleda – tra le poche donne tristellate nel mondo – fa spegnere i riflettori su Sant Pol de Mar (Catalogna), per riaccenderli a Marbella, dove festeggia il vero protagonista dell’edizione 2019, Dani Garcia, premiato per la cucina del ristorante omonimo. Sono in tutto 30 gli indirizzi premiati nella notte di Lisbona, dove quest’anno va in scena la cerimonia di presentazione della Michelin Spagna e Portogallo (sebbene la ristorazione lusitana, riconosciuta sul palco come valida chiave di attrazione turistica, continui a essere poco considerata dagli ispettori: sono 4 le new entry nel Paese, con la punta di diamante che brilla a Lisbona, dove il nuovo bistellato si chiama Alma). Ironia della sorte, stesso numero di riconoscimenti dispensato all’Italia, che però continua a vantare un numero di tavole stellate decisamente superiore alla Spagna, che insieme al Portogallo si attesta a quota 232 (contro i 367 di casa nostra).

 

Le nuove stelle

Cambia però la distribuzione dei pesi: oltre alle 25 nuove stelle che arrivano un po’ in tutte le regioni del Paese, sono 4 gli indirizzi che conquistano due macaron, uno – Cocina Hermanos Torres a Barcellona – frutto di una semplice riassegnazione dopo cambio di sede e nome del ristorante Dos Cielos. Ma entra nella compagine bistellata anche Ricard Camarena a Valencia, nel nuovo spazio all’interno del Bombas Gens Centre d’Art, e con lui El Molino de Urdaniz, in Navarra. Per il resto è piuttosto vario il range di tipologie di ristorazione premiate con la prima stella, comprese tavole assai informali altrove – leggi Italia – poco considerate. Un esempio su tutti? La Tasqueria di Javier Estevez, a Madrid, specializzata in quinto quarto e decisamente lontana dall’immaginario impostato a cui ci hanno abituato altre, più frequenti, scelte della guida francese. Se si applicasse lo stesso metro da noi Trippa e Mazzo dovrebbero avere due stelle (e mezzo!)…

 

Martin Berasategui piace alla Michelin

Ma ci sono anche i giganti della cucina spagnola, come Martin Berasetegui, che ormai non manca un appuntamento con la Rossa, e della Michelin è diventato l’uomo bandiera della Spagna (un po’ come Enrico Bartolini in Italia): lo chef basco - con due nuove prime stelle assegnate alla cucina informale di eMeBe Garrote a San Sebastian e all’Oria di Barcellona, all’interno del Monument Hotel, dove Berasategui già detiene Tre Stelle per il Lasarte di Paolo Casagrande – raggiunge quota 10 macaron, consolidando così la sua posizione nella classifica dei cuochi più stellati del mondo. Incetta di stelle anche per un altro celebre basco, Eneko Atxa, con il primo macaron in arrivo per il nuovo Eneko Bilbao, e quota 5 stelle nel complesso; 6 invece sono i macaron che fanno capo a Paco Perez, fresco di un nuovo riconoscimento per Terra, a Girona. Ma, dicevamo, è l’Andalusia la regione protagonista dell’edizione 2019, con l’incoronazione di Dani Garcia e del suo ristorante all’hotel Puente Romano. Allievo di Berasategui, classe 1975, Garcia gestisce la sua attività in autonomia dal 2014 (ma la prima stella l'ha ottenuta, giovanissimo, nel 2001), e da buon cuoco imprenditore (come il maestro) somma più insegne in città, ed è prossimo ad aprire un bistrot all’interno del nuovo Four Seasons che presto aprirà a Madrid. Il premio degli ispettori arriva per “la sua capacità di ripensare la cucina andalusa in chiave contemporanea, in modo unico”.

 

Madrid vs Barcellona

Intanto, nella sfida tra Madrid e Barcellona, è la prima ad avere la meglio: 5 le nuove stelle arrivate nella capitale spagnola, di cui una per il basco David Garcia (Corral de la Moreria Gastronomico), e la già ricordata prima stella per La Tasqueria. A Barcellona, invece, oltre al riposizionamento delle due stelle per Cocina Hermanos Torres e all’ennesimo macaron per Berasategui, arriva la prima stella per La Barra de Carles Abellan.

 

Le Nuove Stelle in Spagna e Portogallo

Tre Stelle

Dani García Restaurante (Marbella, Málaga)

 

Due Stelle

Ricard Camarena / Bombas Gens Centre d’Art (Valencia)

El Molino de Urdániz (Urdaitz, Navarra)

Cocina Hermanos Torres (Barcellona)

Alma (Lisbona)

 

Una Stella

Oria (Barcellona)

eMeBe Garrote (San Sebastián)

Eneko Bilbao (Bilbao)

Terra (S’Agaró, Girona)

Corral de la Morería Gastronómico (Madrid)

Clos (Madrid)

Yugo The Bunker (Madrid)

La Tasquería (Madrid)

El Invernadero (Madrid)

La Barra de Carles Abellán (Barcellona)

Atelier Etxanobe (Bilbao)

Beat (Calpe)

Orobianco (Calpe)

El Xato (La Nucía, Alicante)

Bagá (Jaén)

LÚ Cocina y Alma (Jerez de la Frontera, Cádiz)

Trivio (Cuenca)

El Molino de Alcuneza (Sigüenza, Guadalajar)

Pablo (León)

Íkaro (Logroño)

A Tafona (Santiago de Compostela)

Cancook (Saragozza)

G Pousada (Bragança)

A Cozinha (Guimarães)

Midori (Sintra)

 

a cura di Livia Montagnoli

Il Giorno del Ringraziamento. Cosa preparare e dove acquistare tutto il necessario senza volare negli States

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Gli americani residenti in Italia non devono temere per il Giorno del Ringraziamento. Anche qui è possibile organizzare una cena tradizionale impeccabile, con tanto di mirtillo rosso, torta di zucca, tacchino e il resto. Ecco dove recarsi per gli acquisti.

 

 

Il Ringraziamento

Quarto giovedì di novembre negli Stati Uniti, secondo lunedì di ottobre in Canada, ma in qualsiasi caso, un giorno di festa in Nord America, di condivisione, convivialità e, come sempre, tanto buon cibo. È il Giorno del Ringraziamento (Thanksgiving, in inglese), una festa che affonda le radici nel lontano 1621. In quell'anno, a Plymouth, la seconda colonia inglese dopo Jamestown, i padri pellegrini si riunirono insieme alle popolazioni indigene per ringraziare il Signore del buon raccolto, ottenuto anche grazie all'aiuto dei nativi, in particolare la tribù dei Wampanoag, che insegnò loro a coltivare il mais e far fruttare la terra. Le celebrazioni andarono avanti per tre giorni, a suon di banchetti con anatre, tacchini e pesci, una tradizione che è perdurata poi nel tempo, tanto da essere ufficializzata nel 1863 da Abramo Lincoln, che durante la guerra di secessione istituì la festa annuale del Giorno del Ringraziamento.

Al contrario di Halloween, il Thanksgiving non è ancora riuscito a mettere radici in territorio italiano, ma ha fatto comunque parlare di sé in tutto il mondo, Stivale compreso. Dove si può trarre ispirazione da questa festa per ricette perfette per l'autunno. Non è difficile, infatti, trovare le materie prime necessarie per imbandire una tavola in pieno stile stellestrisce. Dove? Ecco i nostri consigli, più una golosa ricetta per il pane di mais.

 

Il tacchino

Il re indiscusso della festa, facilissimo da reperire. Se si vuole preparare la tradizionale versione ripiena, occorre procurarsi un tacchino intero e non in pezzi o a fette, come più di frequente si trova nella maggior parte delle città italiane. Difficile, dunque, ma no impossibile procurarsi l'ingrediente principale.

Il ripieno

Fra le farce più semplici e gustose, il classico mix di pane, cipolla e salvia, ma gli amanti dei sapori decisi possono optare per le castagne con salsicce, magari impreziosite con qualche sale aromatizzato.

 

Il contorno

Che decidiate di accompagnare il tacchino con le cipolline con panna, i cavoletti di Bruxelles, le patate con il gravy – salsa preparata con il fondo di cottura dell'arrosto – o i fagiolini in casseruola (o – perché no – tutte queste preparazioni insieme), i mercati rionali capitolini sapranno fare al caso vostro. In caso di grandi quantità, è opportuno prenotare in anticipo.

 

La salsa di mirtillo rosso

È stato spesso tradotto come “ribes”, ma in realtà il cranberry americano è un vero mirtillo rosso, detto anche mirtillo della palude, un piccolo frutto che presenta una spiccata e piacevole acidità, perfetto da utilizzare in una salsa di accompagnamento ai piatti più robusti.

Zucca Butternut

La torta di zucca

La torta di zucca è realizzata con una sorta di pasta brisé e profumata con cannella, zenzero, chiodi di garofano e altre spezie. La zucca ideale è la butternut, con una polpa più soda e meno acquosa, una buona alternativa è anche lazucca mantovana .Per trovare le migliori varietà di zucca, occorre rivolgersi ai migliori negozi di ortofrutta. Ma, per chi non volesse avventurarsi troppo ai fornelli, esiste persino già pronta, lessata e confezionata in lattina. La si trova in negozi di specialità internazionali (of course).

 

Torta di patate dolci speziata

Le patate dolci

Immancabili in una cena del Ringraziamento che si rispetti, le patate dolci sono disponibili pressoché in qualsiasi mercato italiano, soprattutto se trattano anche alimenti internazionali.

 

pecan piePecan pie

Le noci pecan

Ormai diffuse anche in Italia, le noci pecan vengono utilizzate in tanti dessert differenti, tutti calorici e golosi, degne conclusioni di un pasto all'insegna dell'abbondanza e dei piaceri della tavola. Possono raggiungere dei prezzi molto alti, per cui è preferibile acquistarle sfuse ai mercati.

 

I marshmallows

Bianchi oppure striati di sfumature rosa pastello, soffici, collosi, dolcissimi: i marshmallows sono fra i dolciumi più in voga negli Stati Uniti, presenti anche nel giorno di festa. Possono essere gustati da soli oppure sciolti nella cioccolata calda, arrostiti dolcemente sul fuoco e aggiunti persino ai piatti (provateli con il purè di patate dolci).

 

Le decorazioni

Una festa che si rispetti, poi, non può rinunciare alle decorazioni. Palloncini, centritavola, coriandoli, foglie finte e chi più ne ha più ne metta: non è Thanksgiving senza un po' di colore.

 

La ricetta: il pane di mais

Ingredienti

¼ di tazza (più extra per imburrare la teglia) di burro

1 tazza di latte intero

1 uovo

1 tazza e ¼ di polenta bramata

1 tazza di farina 00

½ tazza di zucchero

1 cucchiaino di lievito

½ cucchiaino di sale

 

Preriscaldare il forno a 200°C e imburrare una teglia da forno tonda da 20x22cm. In una padella, far sciogliere il burro a fuoco basso e, una volta pronto, mescolarlo in una ciotola insieme al latte e le uova. Aggiungere poi la polenta, la farina, lo zucchero, il lievito e il sale e continuare a mescolare finché la farina non sarà ben incorporata all'interno dell'impasto. Versare la pastella nella teglia, spandere bene e uniformemente con l'aiuto di una spatola. Cuocere in forno per circa 20/25 minuti, finché non assume un bel colorito marrone dorato (fare anche la prova stuzzicadente: se una volta inserito è ancora pulito, il pane è pronto). Servire con sciroppo d'acero o burro aromatizzato alle erbe.

 

Dove trovare gli ingredienti per un perfetto thanksgiving

 

Torino

Un punto di riferimento per quanto riguarda le verdure è sicuramente il Mercato di Porta Palazzo, dove si trova tutto il contrario di tutto, prodotti italiani e alimenti internazionali. Frutta, verdura, spezie, erbe aromatiche e carne (Mercato di Porta Palazzo - piazza della Repubblica – https://scopriportapalazzo.com/). Marshmallows e altri prodotti confezionati in arrivo direttamente dagli States si trovano da Americalicious (via S. Dalmazzo, 4/c - https://www.facebook.com/americaliciousmkt)

 

Milano

Il tacchino si trova da La Polleria di Alberto, Polleria Pavia Katia presso il Mercato Comunale Wagner (https://www.facebook.com/mercatowagner/),

Mentre composto della pumpkin pie, cranberry sauce e marshmallows, patate dolci e altre tipicità a stelle e strisce ci si può rivolgere in uno dei tre negozi Super Polo (viale Coni Zugna, 65 - +39 0289405749; viale S. Michele del Carso, 5 - +39 02498 6346; largo la Foppa, 1 - +39 026571760)

 

Firenze

Per il tacchino al Mercato Centrale di Firenze. Mentre gli ingredienti internazionali come patate dolci, zucca, cranberry sauce e gravy mix, Vivi Market (via del Giglio 20/22r), oppure Pegna (via dello Studio, 8 www.pegnafirenze.com). Per chi non vuole passare troppo tempo ai fornelli, Mama’s Bakery (via della Chiesa, 34) propone apple pie, pecan pie e pumpkin pie, insomma tutto quanto un goloso appassionato dei sapori made in Usa deve assolutamente provare.

 

Roma

San Bartolomeo, nella provincia di Viterbo, è specializzato in pollame e ha punti vendita anche a Roma, in zona Trionfale e ai Parioli (Azienda Agricola San Bartolomeo – viale dei Parioli, 2016 - Mercato Trionfale Box 268 - via Andrea Doria, 3 - www.pollosanbartolomeo.it) ma cercando anche buone macellerie romane, come Bottega Liberati (via Flavio Stilicone, 278 - https://www.facebook.com/www.bottegaliberati.it/) e Bioenomacelleria Abbattista (via Labicana, 112). La salsa al mirtillo rosso, c'è Castroni, punto di rifermento capitolino per i prodotti internazionali, statunitensi e no solo. Ha diverse sedi a Roma, ma uno degli indirizzi più forniti è quello di Prati (Castroni – via Cola di Rienzo, 196 – www.castronicoladirienzoshop.it/).

Mercati validi, per la zucca, a Roma ce ne sono molti. Scegliete il più vicino a voi ma, se volete fare visita a un mercato gastronomico d'autore, con banchi di verdure fresche e stagionali (di cui molte già pulite e mondate), provate il Mercato Testaccio (Mercato Testaccio – via Beniamino Franklin - www.mercatoditestaccio.it/). o nei vari mercati a partire da quello contadino di Circo Massimo (Mercato di Campagna Amica al Circo Massimo – via di San Teodoro - www.mercatocircomassimo.it/) oppure al Nuovo Mercato Esquilino,ma anche il Nuovo Mercato Esquilino (Via Principe Amedeo, 184), dove è possibile trovare molti ingredienti internazionali, per esempio le noci pecan che si trovano anche all'Emporio delle Spezie di Testaccio (via Luca della Robbia, 20 - www.emporiodellespezie.it).

 

Napoli

Cercate ingredient e prodotti a stelle e strisce? Per quanto riguarda Napoli ci sono due ndirizzzi (+1) da tenere bene a mente: American Mini Market (via A. Scarlatti 211/g - 081.18744926 - https://www.american-minimarket.it/it/content/9-store-locator) e LittleAmericaNA (via Bagnoli, 480). Ma si può anche fare domanda alla base aeronautica - NSA Naples Support Site a Gricignano di Aversa - dove c'è il Commissary, ovvero un supermercato con rifornimenti (dal latte agli ingredienti più disparati) provenienti dagli USA

 

Tutta Italia

Naturasì. Patate dolci e zucche di vario tipo si possono trovare da NaturaSì. www.naturasi.it/

Ikea. Ebbene sì. Anche Ikea può essere d'aiuto in alcuni casi, come questo. Al suo banco gastronomico si può trovare la confettura di mirtilli rossi (in questo caso, però, alla base c'è il lingonberry, una bacca molto simile al cranberry, tipica del Nord America). www.ikea.com/it

Tiger. per comprare i classici marshmallows bianchi e di taglia grande, i vari store di Tiger sparsi per l'Italia sono il luogo ideale, dove si trovano anche tanti oggetti e curiosità per decorare la tavola e la casa. it.flyingtiger.com/

Negozi online

https://www.richmonds.it

https://www.davesamericanfood.com

https://americaneat.it

https://www.americanuncle.it

 

a cura di Eleonora Baldwin

 

 

 

 

 

La cucina italiana. Le tre occasioni mancate secondo gli addetti

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La storia non si fa con i se e con i ma, di questo siamo assolutamente consapevoli. Ma per un momento vogliamo riavvolgere il nastro per capire quali sono, secondo gli addetti, le occasioni mancate della cucina italiana. Se non altro per riflettere e capire come rafforzare oggi l'egemonia della cucina italiana nel mondo.

 

Le 3 occasioni mancate

Nicola Perullo (Professore di Filosofia del cibo ed Estetica del gusto all'Università di Pollenzo)

1. L’incapacità di riconoscere che un canone, una storia, una cultura incipienti - perché questa era la situazione alla metà degli anni ’80, l’impressione di un inizio - si costituiscono piano e lentamente. Con lavoro, fatica, studio. C’è stata un’accelerazione esponenziale: successo, fama, voglia immediata di risultati, in ogni senso.

2. Al secondo punto metto una critica alla critica. Mi dispiace dirlo, ma la critica gastronomica italiana è, mediamente e naturalmente con eccezioni, di una grettezza e ignoranza notevoli. Non sul cibo, ma su tutto il resto, e quindi anche sul cibo, che da solo, come ogni cosa presa di per sé, non dice nulla. Invece si è sviluppata una critica manieristica che ha descritto piatti d’autore come fossero di per sé espressioni autonome e significative, cosa che non è.

3. Eccesso di autoreferenzialità. I cuochi cucinano, non devono fare la critica. Tuttavia, anche qui si è assistito a un meccanismo regressivo, per via della velocità e dell’avidità di successo. Però, lo sappiamo bene, lo star system è bello finché dura; e caratteristica dello star system è che dura poco: brucia subito i suoi eroi. Dunque secondo me l’enogastronomia italiana è autoreferenziale proprio per questo: per non esserlo, bisogna guardare fuori dal proprio campo. Cioè sapere molte cose, studiare, sapersi isolare, fregarsene delle pubbliche relazioni, essere coraggiosi, smettere di fare le lobbyne. Dal boom degli anni ’90 si è dunque persa una grande occasione: troppi congressi inutili, convegni senza senso, celebrazioni di sé e dei propri amici, ammiccamenti continui al pubblico pagante. Ora se ne pagano le conseguenze: si rimane con poco, un pugno di mosche in mano.

 

Alfonso Isinelli (Perito agrario con specializzazione in enologia e critico gastronomico)

1. Non aver fatto squadra nel comparto. Ancora peggio nel campo della ristorazione. Ancora oggi ci presentiamo sparsi agli eventi all’estero. Pronti più a litigare che a fare gruppo. E le istituzioni in questo hanno contribuito con la loro assenza.

2. Aver fatto diventare il km 0 vuota retorica, invece di valorizzare le nostre materie prime e la loro elaborazione. E questo ha fatto sì che l’italian sounding della nostra cucina nel mondo, sia rimasto legato a degli stereotipi, senza essere riusciti a fare una codifica delle ricette e degli stilemi della cucina italiana.

3. Al netto di lamenti e iniziative estemporanee, non essere riusciti ancora a far compiere l’adeguato salto di qualità alla sala.

 

Fabio Parasecoli (Professore di Food Studies alla New York University)

1. L'avere ignorato la natura storicamente multietnica del cibo in Italia, cercando invece di creare un'identità nazionale che, sebbene fondata sulle differenze e tradizioni locali, crea chiari confini fra "noi" e "gli altri". Per cui le altre tradizioni etniche (francesi, tedesche, slovene, etc) vengono esaminate nella loro differenza piuttosto che nelle reciproche influenze.

2. La mancanza nell'educazione culinaria professionale di corsi avanzati che puntino non tanto alla conoscenza di ingredienti, tecniche e ricette (che sono fondamentali), ma a studiare creatività e innovazione. Un po' come sta cercando di fare Adrià... Certo, gli studenti prima devono imparare a cucinare bene, ma anche professionisti affermati potrebbero approfittare di un'educazione alla ricerca e all'esplorazione creativa. C'è ancora molto il concetto dello chef come artista/genio, che ha quindi la creatività innata. Quella che non si può studiare.
3. La scarsa apertura verso un'effettiva contaminazione con le cucine straniere. Grandi chef adottano qualche tecnica o qualche sapore qui e lì, ma non credo che esista ancora una fusion italiana. Ce n'è bisogno? Non ne sono sicuro. Ma in ogni caso è una dinamica mancante.

 

Igles Corelli (Chef e Coordinatore del Comitato Scientifico di Gambero Rosso)

1 . La più importante è stato aver dimenticato il “chilometro Italia” per correre dietro al km0. È stata ideologizzata la cucina di territorio. Ma è assurdo chiudersi nel proprio orticello quando in Italia abbiamo centinaia di grandissimi prodotti.

2 . La rincorsa delle mode straniere senza esserci mai concentrati sulla cucina italiana. Diceva Bocuse:“Quando gli italiani prenderanno coscienza della loro cucina, non ce ne sarà per nessuno al mondo”. Non ne abbiamo mai preso coscienza.

3 . Aver legato il ristorante alla presenza del cuoco che firma la cucina. Ciò limita il lavoro del cuoco, la possibilità di impresa e la trasmissione del know how.

 

Andrea Petrini (Ideatore di Gelinaz)

1. Nei tardi Anni Settanta un’occasione decisamente mancata è stata la sudditanza provinciale e folkloristica alla Nouvelle Cuisine d’importazione francofila

2. Nei tardi Anni Novanta, invece, l’ossequienza del dogma technoemozionale spagnoleggiante. Invece di riflettere, si sono scambiati degli stimoli come fossero una religione da seguire in maniera fondamentalista.

3. E negli ultimi anni un’occasione mancata sono le parole d’ordine masticate sino a svuotarle di senso (il famigerato km zero, il sapore del terroir…), la miopia delle prospettive e la cucina considerata solo come Cosa Culinaria e non come parte di un progetto di vita più ampio.

 

Allan Bay (Giornalista gastronomico)

1. La mistica della nonna e i suoi eccessi. La tiritera della cucina di casa che tranquillizza, così il nuovo è per definizione alieno.

2. Una davvero troppo scarsa conoscenza delle tecniche moderniste (microonde, teflon, sifone, pacojet), quelle che devi studiare molto per capirle davvero, quelle che costano tempo e fatica.

3. Il mito dell'abbuffata che è ancora con noi. Forse siamo usciti da troppo poco tempo dalla fame storica, ma ancora pensiamo che tanto è meglio. E questo ha conseguenze.


Marino Niola (Giornalista gastronomico)

1. Non essere ancora riusciti a trasformare i grandi chef (e ne abbiamo tanti) in ambasciatori mondiali della cucina italiana.

2. Non aver sfruttato a dovere i nostri giacimenti di “petrolio verde”: i grandi prodotti dell’agroalimentare italiano. Ci sono i prodotti, manca la capacità di raccontarli. L’Italia è fortissima nel produrre sapori e biodiversità, ma sulla comunicazione del cibo siamo al Giurassico: questo anche per forti demeriti formativi.

3. Non aver ancora cominciato a diffondere una vera cultura del cibo. Alla fine, nonostante le mille chiacchiere, manca la cultura del cibo.

 

Edoardo Raspelli (Giornalista e gastronomo)
1. Sarà pure perché mancano soldi, ma lo Stato e i suoi Governi hanno perso l'occasione per valorizzare, anche con investimenti, le scuole alberghiere che con poche eccezioni sono – come erano – il ricettacolo di chi non vuole studiare.

2 . I media hanno perso la possibilità di valorizzare la professionalità di validi cuochi e ristoratori: emergono prime donne e pochi chef che condizionano, spesso con piatti improponibili, anche i loro colleghi. Idem per locali: tutti parlano di Oldani o Bottura e non cercano ristoranti buoni alla portata di tutti.

3 . Depositai alla Camera di commercio di Milano lo slogan delle tre T (Terra Territorio e Tradizione) che avrebbe dovuto stimolare ristoranti e locali all'utilizzo dei prodotti del territorio. Non aver spinto su questi elementi è stata una grande occasione mancata.

 

Paolo Marchi (Giornalista gastronomico e ideatore di Identità Golose)

1. Ci siamo dimenticati che esiste il mondo. Non siamo riusciti a industrializzare la pizza o il caffè e li abbiamo lasciati agli altri. Per scoprire poi che la pizza era diventata americana e l’espresso pure.

2. Quando ci fu la fusione Gambero-Espresso, era il momento di andare a dare il voto alla ristorazione italiana nel mondo non solo di criticare i casi di mala-cucina all'estero. L'hanno fatto i francesi con la Michelin che han dato le loro stelle nel mondo. E in Italia i cuochi oggi si mettono al servizio della guida francese dimenticando a volte la nostra identità.

3. Giusto glorificare tradizione e prodotto e la cucina della nonna, ma alla fine è Bottura oggi a parlare di Italia nel mondo. Le tradizioni – pizza, spaghetti e tiramisù – oggi le fanno anche gli altri. Abbiamo un potenziale pazzesco, ma non siamo riusciti a imporre un sistema della cucina italiana come la Ferrari nel mondo dell'auto.

 

disegno di Marcello Crescenzi

 

Articolo uscito sul mensile di giugno del Gambero Rosso

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Gambero Rosso firma i menu Magnifica di Alitalia. E un viaggiatore esigente come Joe Bastianich ci racconta il suo punto di vista

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Dal 15 novembre, a bordo dei voli Alitalia in partenza dalla Penisola, i clienti della business class potranno assaporare i nuovi menu Magnifica ideati dalla Gambero Rosso Academy, che ha scelto di valorizzare la tradizione territoriale. E per la campagna di lancio a testarli c'è un “giudice” molto esigente: Joe Bastianich. 

 

Alitalia. Come cambia la ristorazione di bordo

Di ristorazione di bordo ad alta quota si fa un gran parlare. E non sempre con intenzioni lusinghiere. Ma che un pasto in volo non possa essere buono, oltreché confortevole, non è sancito da nessuna legge scritta. Il problema, piuttosto, sta nella volontà di investire su un'offerta food&beverage all'altezza degli altri servizi al passeggero che valgono alle compagnie aeree la propria riconoscibilità. In questa direzione, in occasione della Fiera Internazionale del Turismo di Rimini – il TTG andato in scena nei primi giorni di ottobre – lo Chief Business Officer di Alitalia, Fabio Maria Lazzerini, ha anticipato la nuova strategia della compagnia di bandiera italiana, volta a migliorare e rinnovare la ristorazione a bordo dei velivoli del gruppo. Come? Scommettendo sul made in Italy, attraverso il know how di Gate Gourmet, che ora è fornitore unico del catering per tutti gli aerei Alitalia in partenza dalla Penisola. E dunque, per esempio, investendo sull'ottimizzazione dei processi logistici per il trasporto dei pasti a bordo, ma ancor prima sulla qualità e l'originalità dei piatti proposti. Nella pratica, e a partire dal 15 novembre scorso, un nuovo menu di classe economica per i voli con percorrenza superiore alle 3 ore.

 

I menu Magnifica firmati Gambero Rosso

E soprattutto, in collaborazione con Relais Le Jardin, una proposta gastronomica disegnata su misura da Gambero Rosso Academy (centro di formazione per l’enogastronomia con una vasta presenza italiana e significative collaborazioni all'estero, con le maggiori università e accademie del mondo) e da uno dei suoi chef di punta Salvo Craveroper la business class, dove da qualche giorno i passeggeri possono scegliere tra i menu Magnifica. Il concetto all'origine dei piatti è quello di attualizzare e rendere compatibili con le esigenze di bordo le ricette della tradizione territoriale italiana, declinate in versione Healthy, Light e Tradizionale. Una coccola golosa per chi non vuole rinunciare al piacere della buona tavola, che si ripromette di accontentare anche i viaggiatori più esigenti. Come Joe Bastianich, testimonial della campagna pubblicitaria di lancio dei menu Magnifica, ripreso nei panni che l'hanno reso celebre in tv, in qualità di irreprensibile giudice dei piatti ideati dagli chef. Con lui, figlio d'arte (della mitica Lydia Bastianich) e affermato imprenditore della ristorazione, oltre che celebre volto televisivo, abbiamo fatto due chiacchiere per sapere cosa ne pensa il Joe perennemente in viaggio da un capo all'altro del mondo dei servizi di ristorazione di bordo. Ma pure delle potenzialità di crescita del made in Italy ai giorni nostri, lui che le difficoltà (e le soddisfazioni) di fare ristorazione italiana all'estero le ha respirate sin da bambino.

 

Sei spesso in viaggio per lavoro, che comfort cerchi a bordo di un aereo?
La mia è una vita a cavallo di due mondi, l’Italia e l’America, per questo mi divido molto spesso tra i due lati dell’oceano. Essendo la mia casa New York ma lavorando a Los Angeles, Milano o in altre parti del mondo quando volo, su tratte intercontinentali, ho veramente un bisogno assoluto di attenzione ai dettagli, comfort e tranquillità. Mi piace viaggiare comodo, l’aereo è un po’ come fosse casa mia, il mio letto. Quello che cerco maggiormente sono comodità e servizi.
 
Servizio di ristorazione in volo: cosa ti aspetti di trovare? Qual è il livello medio del cibo servito a bordo?
Io prediligo i voli notturni... È facile per me finire una giornata di lavoro a Milano o Los Angeles e atterrare la mattina dopo a New York. È abitudine comune pensare che in aereo – mediamente – non si mangi mai bene, ma negli ultimi anni sto notando sempre più attenzione ai dettagli, alla qualità delle proposte. Ovviamente dipende sempre da che compagnia, tratta e classe si usa, anche perché diciamocelo gestire una ristorazione di qualità a bordo – considerando gli spazi, i vari hub da cui si parte, la gestione dei diversi team - è davvero challenging: una grande sfida.
 
Comfort food: quello che vorresti portare sempre con te
Un piatto – cotto alla perfezione – di spaghetti al pomodoro con San Marzano, olio extravergine d’oliva e una grattata di Grana Padano

A questo proposito, parliamo di made in Italy. Quanto è cambiata la percezione della tradizione gastronomica tricolore nel mondo? Su cosa dovrebbe puntare la comunicazione del made in italy per essere più efficace?
La cucina italiana, lo sapete, è a gran diritto una delle cucine più amate al mondo. Oggi sono davvero numerose le aperture all’estero, ma noto che spesso sono aperture “improvvisate”: il mondo del cibo è di moda e tutti vogliono fare gli chef e i ristoratori. Ma in questo settore serve tanto altro per riuscire a sopravvivere, ancora prima di raggiungere il successo. Una buona capacità imprenditoriale, conoscenza, ricerca, tanto duro lavoro e sacrifici sono elementi necessari.
Consapevoli che con la concorrenza che c’è non basta più solo avere un’idea vincente, bisogna considerare tutte le variabili e rimanere al passo con le innovazioni tecnologiche e l’evoluzione dei gusti/dei trend, restando però sempre fedeli e coerenti alle proprie radici o all'idea originale. Purtroppo non sempre questo viene recepito da chi fa cucina italiana, che è una cucina dalla forte tradizione: senza un progetto solido si rischia di restare indietro, o al contrario, purtroppo, di snaturarne l’intenzione.

Intervista a Jock Zonfrillo, vincitore del Basque Culinary World Prize 2018

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Lo chef italo-scozzese Jock Zonfrillo è uno dei nomi più interessanti del panorama gastronomico mondiale e a luglio è stato proclamato vincitore del Basque Culinary World Prize. Questa sera la consegna ufficiale. Lo abbiamo intervistato.

 

Massimo Bottura lo ha annunciato nel corso dell'ottavo meeting del board del Basque Culinary Center: quest'anno il vincitore dell'ambito Basque Culinary World Prize è lo chef italo-scozzese Jock Zonfrillo. Lo abbiamo intervistato durante il nostro tour ad Adelaide e dintorni, che potete trovare nel mensile di novembre del Gambero Rosso.

 

Jock Zonfrillo è uno dei nomi più interessanti del panorama gastronomico mondiale. Mamma scozzese e papà di origini napoletane, inizia a lavorare da lavapiatti a Glasgow, a 13 anni. Si ritrova da Marco Pierre White a Londra; nel 2000 vola a Sidney per l’apertura del Forty One. L’incontro con il collega brasiliano Alex Atala e con la nuova cucina amazzonica lo cambiano e nel 2013 apre Orana in Adelaide: un ristorante che è anche laboratorio, centro di sperimentazione e di ricerca.

Come cambia il futuro in cucina dopo il Basque Culinary World Prize?

È l’occasione intanto per ringraziare chi con me ha fatto ricerca e soprattutto tutti gli indigeni australiani che hanno dedicato per anni il loro tempo alla condivisione delle loro conoscenze. La lezione più importante appresa dalle comunità indigene, è quella di restituire più di ciò che si è ricevuto. La mia motivazione principale viene dal riconoscimento di una civiltà che ha lavorato e ha prosperato sulla propria terra per più di 60.000 anni. Gli indigeni australiani sono i veri cuochi e gli “inventori di cibo” di queste terre; la loro esclusione dalla nostra storia, e in particolare dalla nostra cultura gastronomica, è inaccettabile. Credo che il mondo della gastronomia debba promuovere il cambiamento, e anche se non possiamo parlare per conto dei nativi, possiamo però accompagnarci a loro e contribuire favorevolmente alla loro situazione. Al momento abbiamo progetti che puntino a legare in modo duraturo la cifra che ci ha assegnato il Centro Culturale Basco alla crescita della cultura e della conoscenza della comunità indigena. Lavorerò ogni rimanente giorno della mia vita per continuare questa missione!

Quali sono i piatti che ti rappresentano di più?

Ad essere sincero, preferisco non avere “piatti d'autore” perché rischiano di bloccare la creatività e la ricerca di nuove tecniche. Gli ingredienti autoctoni e i legami con la tradizione dei nativi australiani rappresentano sia me che l'intero paese. Il mio menu degustazione ha oltre venti portate che cambiano in base alla stagione, anche giornalmente…

Dove trovi gli ingredienti autoctoni e quali sono?

Sempre, in carta, ci sono almeno quaranta ingredienti nativi che la maggior parte dei commensali non ha mai sentito o assaggiato prima. Abbiamo una raccoglitrice che lavora per noi a tempi pieno e siamo in contatto con diverse comunità in tutta l'Australia per procurarci gli ingredienti.

Ci sono aree australiane che non hai ancora esplorato da cui potresti avere nuovi ingredienti?

L'Australia è un continente enorme e naturalmente devo ancora esplorarne molti angoli, ma sono tutti sulla mia lista! Ci sono centinaia di ingredienti da scoprire, ne sono sicuro.

Nel tuo bistrot compaiono piatti europei e internazionali, perché hai deciso di aprirlo?

Abbiamo sempre avuto un ristorante al piano sottostante Orana, ma inizialmente serviva un menu in stile street food, si chiamava Street. Abbiamo cambiato il nome, dato al ristorante un aspetto completamente nuovo e abbiamo lanciato il Bistro Blackwood lo scorso anno: è un'opportunità per i nostri chef di mostrare in modo creativo alcuni degli ingredienti e delle tecniche indigene per cui Orana è famosa.

La tua cucina è più conosciuta da australiani o stranieri?

Ad essere sincero gli ingredienti che utilizziamo sono estranei a tutti quelli che ci fanno visita, quindi non penso che faccia davvero molta differenza! Ciò che è importante per me è che i nostri ospiti se ne vadano con una prospettiva ben bilanciata dell'Australia attraverso il cibo, indipendentemente da dove provengano, australiani inclusi.

 

Per vedere la cerimonia di consegna: www.youtube.com/watch?v=J0jv8uID6BI&feature=youtu.be

 

a cura di Giovanni Angelucci

 

Articolo uscito sul mensile di novembre del Gambero Rosso

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Starbucks alla conquista di Milano e dell’Italia. Intanto aprono i primi punti vendita (e finalmente Frappuccino)

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Dopo la Reserve Roastery di piazza Cordusio, il gruppo americano inizia a colonizzare la città col suo marchio più celebre, logo verde e frappuccini per i fan della prima ora. Già operativa la caffetteria di corso Garibaldi, arrivano anche San Babila e Malpensa. E l'ad Roberto Masi parla chiaro: Starbucks si moltiplicherà rapidamente, a Milano e in tutta Italia. 

 

Dalla Reserve Roastery alla sirena verde

Si dice abbia aperto all'improvviso, senza i clamori che hanno accompagnato il ben più a lungo atteso megastore di piazza Cordusio. Che del resto è tutt'altra storia rispetto ai punti vendita della Sirena diffusi in tutto il mondo, perché per il suo debutto in Italia – dopo tanti anni di corteggiamento – il gruppo di Howard Schultz ha fatto le cose in grande, prendendo lo storico e magniloquente edificio delle Poste per trasformarlo nella prima Reserve Roastery firmata Starbucks d'Europa. Ma che non ci sarebbe voluto molto per assistere alla rapida colonizzazione di un territorio ormai espugnato era fin troppo prevedibile, e anzi annunciato da tempo. Così, da qualche giorno, Starbucks – quello con l'insegna verde ben riconoscibile, il Frappuccino e tutte le altre specialità della casa rimpiante da qualche fan della prima ora della catena americana, con prezzi più accessibili rispetto alla Roastery: 1,30 euro per l'espresso – è arrivato per davvero a Milano, in corso Garibaldi (e proprio di lato a Eataly Smeraldo), dove la caffetteria è operativa dal 20 novembre scorso, con metrature e numeri non certo modesti ma senz’altro ben diversi da quelli sfoggiati a pochi passi dal Duomo.

 

La moltiplicazione di Starbucks

E l'obiettivo è proprio questo, dotare la città di un bel numero di punti vendita destinati a consolidare la presenza del marchio facendo affidamento sulla sua identità più conosciuta (e riconoscibile), per certi versi più confortevole. Tanto che già sabato 24 novembre è in programma l'inaugurazione di un terzo Starbucks in piazza San Babila, angolo via Durini, di nuovo sulle rotte più battute dello shopping meneghino, in attesa che, il 29 del mese inauguri anche il primo punto vendita all'aeroporto di Malpensa. Totale: 400 posti di lavoro generati nei primi tre mesi di attività del gruppo a Milano, e altre assunzioni in vista, dopo un necessario periodo di formazione in azienda. In questa pianificazione serrata rientra in gioco il referente scelto da Schultz, il gruppo bergamasco Percassi, licenziatario unico per l'Italia, che seguirà anche le aperture previste per il 2019, prima tra tutti la caffetteria che aprirà molto vicino alla Stazione Centrale. E da Percassi è passata la scelta di Roberto Masi, managing director di Starbucks Italia, con un passato in Carrefour e già alla guida di McDonald's nelle strategie di rilancio del gruppo degli ultimi anni. Come pure la selezione dei fornitori, in prima linea la Pasticceria Maringoni di Clusone (Bergamo), scelta proprio da Masi per rifornire tutti i punti vendita Starbucks (fatta eccezione per la Roastery, dove vige la partnership con Princi) con una linea di dolci realizzati in esclusiva per il gruppo. Tanto che, nel laboratorio di Clusone, la linea di produzione è stata diversificata per far posto a brioche, ciambelle, tortine monoporzione facilmente abbinabili con la proposta di caffetteria di Starbucks, ma anche pane e focacce (in squadra sta per arrivare anche Simone Ridolfi, panificatore molto conosciuto e apprezzato in Lombardia). Prodotti realizzati a Clusone e poi abbattuti prima della cottura, finalizzata solo nei forni dei locali milanesi. Un inizio deciso, che fa presagire ambizioni concrete: “La nostra ambizione è di riuscire ad aprire tra i 10 e i 15 punti vendita all'anno nella maggiori città italiane, da Roma a Venezia, Bologna, Firenze, Verona e Torino (ma a Milano l'obiettivo dichiarato è superare le 20 unità, ndr)” spiega Masi, che sottolinea pure la volontà di adattare gli stilemi del marchio all'identità cittadina, e al profilo della clientela italiana, con spazi accoglienti, disegnati su misura (e ci auguriamo ben più piacevoli da frequentare dell'affollatissima Roastery, più un'attrazione da visitare, che uno spazio per rilassarsi).

I nuovi punti vendita. Design e offerta

Spazi chiaramente wi-fi free, com'è politica della casa, ma anche progettati in omaggio a Milano – sotto le direttive di Liz Muller - con dettagli di artigianato italiano, materiali pregiati, legno e ottone a scaldare l'ambiente, pezzi d'arte commissionati ad artigiani locali. Dal bar – di Nuova Simonelli la macchine da caffè Black Eagle – anche i chicchi tostati alla Roastery di piazza Cordusio. Ma soprattutto l'attesissimo Frappuccino, disponibile anche nel gusto Tiramisù, esclusiva ideata per l'Italia da Starbucks. E poi Nitro e Clover, rispettivamente caffè estratto a freddo e servito alla spina (consigliato per l'aperitivo, anche con snack salati) e una bevanda estratta con un metodo brevettato dal gruppo per preservare le caratteristiche dei caffè più pregiati.

 

a cura di Livia Montagnoli


Tradizionale e sostenibile. Metamorfosi Lambrusco

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Ecco i progetti dei consorzi di Modena e Reggio per la Dop Lambrusco: un nuovo centro servizi, sostenibilità, promozione e la difesa del marchio in Italia e all'estero.

 

Un gigante da oltre 165 milioni di bottiglie che vuole riscoprire il proprio carattere originario e che strizza l'occhio ai consumatori più esigenti, attraverso il driver della sostenibilità. Il complesso mondo del Lambrusco emiliano tiene in serbo nuove carte da giocare sui mercati, con il duplice obiettivo di consolidare le proprie posizioni e conquistare la fiducia delle nuove leve.

 

L'operazione svecchiamento, avviata diversi anni fa, sembra completarsi, grazie al lungo lavoro dei due consorzi di tutela di questi anni. Quella verace origine contadina, che creava tanto imbarazzo tra buyer e distributori, ora è diventata un elemento da spendere e su cui basare un efficace storytelling. In questo nuovo corso, per il vino più venduto nella Gdo italiana, conosciuto nel mondo grazie alla sua particolarità olfattiva e gustativa, i prossimi anni saranno decisivi, considerando le novità in arrivo sia sul fronte agronomico sia su quello più strettamente promozionale.

 

Il Lambrusco. Un po' di storia

Percorrendo la via Romea, da Ravenna verso Venezia, si possono vedere le ultime viti selvatiche italiane, protette dalla filossera dai terreni sabbiosi del delta del Po. Sono le stesse viti che migliaia di anni furono addomesticate nella pianura padana dando origine a quella straordinaria famiglia di vitigni che è quella del Lambrusco. essuna contaminazione di geni orientali, quelli che migrarono con i romani dall’Egeo e dalla Georgia e un carattere unico, perfettamente adattato a quei terreni difficili che hanno caratterizzato per secoli la pianura padana”. A parlare è Giorgio Melandri giornalista enogastronomico che del Lambrusco racconta passato e presente: “Oggi questo vino sta vivendo un momento magico, perché quei caratteri che lo rendono diverso da tutti sono di nuovo interpretati nei canoni territoriali, valorizzati da una filiera che, smaltita la sbornia 'industriale' degli anni ’70, ha ritrovato il gusto della qualità. Se a questo si aggiunge la capacità imprenditoriale dell’Emilia e una cucina straordinaria da portare nel mondo, si capisce bene come questo territorio possa preparare un successo che può stupire il mondo”.

 

Prossimi passi per il futuro

La ricerca di un'identità più forte, attraverso la reintroduzione dei cloni storici, il rinnovo degli impianti e una moderna meccanizzazione, la certificazione di sostenibilità che potrebbe arrivare a breve. Armi nel cassetto che, se saranno comunicate al meglio, potrebbero dare al mondo dei lambruschi una grande spinta sul lato commerciale.

I due principali consorzi di tutela (quello del Lambrusco di Modena e quello dei vini Dop Reggiano e Colli di Scandiano e Canossa) fanno sul serio e hanno scelto la via dei controlli serrati al proprio interno e della rigida tutela internazionale. Ma c'è un altro elemento che gioca a favore di questa Dop: l'interesse suscitato, a più livelli, dalle versioni metodo classico, che sta consentendo di ottenere importanti riconoscimenti da parte delle guide di settore, conferendo lustro all'intera denominazione.

 

Lambrusco Reggiano e Lambruschi di Modena. Le differenze

La differenza tra lambrusco di Reggio e di Modena la spiega il presidente Davide Frascari (Consorzio vini Dop Reggiani e Colli di Scandiano e di Canossa): il Lambrusco Reggiano nasce da un blend di uve che ogni azienda sceglie cambiando i rapporti percentuali della composizione dei vitigni. Il Reggiano è un Lambrusco personalizzato. Diverso il caso di Modena, territorio in cui si è lavorato sulla selezione dei singoli vitigni (tra cui Sorbara, Santa Croce, Grasparossa) cercando di esaltare le caratteristiche di ogni uva Lambrusco

 

L'annata e la produzione

Il vino prodotto nel 2018, e proveniente dalla complicata vendemmia 2017, ha subìto una flessione del 23%, a causa della gelata primaverile nel 2017 e del prolungato periodo di siccità in estate. La vendemmia delle uve Lambrusco nel 2018, invece, è in linea con le previsioni di una annata normale. Anzi, le stime dei consorzi di tutela, prevedono un leggero incremento del 2% rispetto all'annata 2016, in cui furono raccolti 1,4 milioni di quintali. Si tratta di una produzione “assolutamente nella norma”, che Davide Frascari, presidente del Consorzio tutela e promozione dei vini Dop Reggiano e Colli di Scandiano e di Canossa, spiega così: “Il dato 2018 va letto alla luce del fatto che nel nostro distretto, tra 2015 e 2016, sono arrivati 1.700 ettari di quote di reimpianti provenienti da altre zone d'Italia. Pertanto, il 2018 è stato l'anno in cui è entrata in produzione una parte di questi nuovi impianti, soprattutto nel Reggiano”.

 

Vigneto ammodernato

Gli oltre 12mila ettari vitati a Lambrusco tra Reggio Emilia e Modena hanno vissuto un recente e salutare processo di ammodernamento, grazie a una “accelerazione delle operazioni di riconversione degli impianti, con una conseguente spinta alla meccanizzazione”, sottolinea Frascari. E per soddisfare le necessità dei produttori di avere a disposizione nuovi cloni di uve Lambrusco, i consorzi hanno scelto di ridimensionare il ruolo dei vivaisti nel processo di selezione (che aveva virato verso le quantità) e di avviare, da circa due anni, un lavoro congiunto con università e altri enti del comparto. L'obiettivo è arrivare a tipologie “sempre più adeguate ai cambiamenti climatici, capaci di rappresentare la tipicità storica”. Per fare due esempi: i grappoli del Lambrusco Salamino più compatti e meno produttivi, oppure l'esaltazione dei profumi e delle acidità del Sorbara.

 

Una via verso la sostenibilità

Altri importanti cambiamenti hanno portato questo prodotto italiano a scegliere una via moderna alla produzione di vino. La propensione all'export del Lambrusco ha determinato nelle imprese la consapevolezza che, andare negli Stati Uniti, in Giappone, nel Nord Europa comporta oggi una comunicazione a 360 gradi sul prodotto. A cominciare dagli aspetti ambientali, sociali ed economici. “Essendo il biologico una strada poco praticabile, abbiamo scelto di giocare in anticipo sui temi della sostenibilità” osserva il presidente Frascari “cercando di dare risposte alle esigenze di salubrità che il consumatore cerca nel vino”. Il processo di ottenimento del protocollo Equalitas non è ancora completo. Manca ancora l'ottimizzazione delle risorse idriche, seppur ricco, su cui i due consorzi stanno lavorando: “I due terzi delle nostre cantine oggi rispettano i parametri. Entro il 2019 dovremmo raggiungere l'obiettivo del 100%”.

 

Centro servizi unificato

Se Modena e Reggio Emilia sono i due motori del Lambrusco, è anche opportuno che i servizi ai produttori erogati dai due consorzi di tutela siano unificati e razionalizzati in un'unica sede operativa. Entro il prossimo mese di dicembre è prevista, infatti, la costituzione del Centro servizi della via Emilia, con sede a Modena (via Virgilio), che accoglierà anche il personale della sede di Reggio Emilia, destinata alla chiusura. I locali sono messi a disposizione dalla Camera di commercio di Modena. “Prevediamo di assumere una figura che si occupi del tema della certificazione”, annuncia Frascari.

 

Più controlli su Doc e Igt

Non solo certificazione, ma anche controlli più serrati su tutta la denominazione. Il disciplinare non sembra essere in discussione ma il dibattito interno sull'eventuale passaggio a Doc della grande mole di Lambrusco Emilia Igt (70 milioni di bottiglie nel 2018) ha acceso i riflettori sull'importanza delle verifiche in loco. “Col nuovo piano dei controlli, il 30% dei trasferimenti di cisterne interni alla zona di produzione viene verificato a campione”, sottolinea Frascari. I consorzi vogliono ridurre il rischio manipolazione del prodotto nel delicatissimo passaggio tra le cantine sociali (che rappresentano il 90% delle quantità di uve trasformate) e i commercianti di vino della zona. Una lente di ingrandimento che chiude il cerchio, dopo la relativamente recente introduzione dell'obbligo di presa di spuma (frizzantatura) nell'area di produzione. “Se si sceglie di arrivare a un lambrusco al 100% Doc” sottolinea Frascari “occorre prima di tutto avere sotto controllo il sistema produttivo dell'Igt Emilia”. Anche in questo consiste il processo di miglioramento qualitativo.

 

I mercati

Il bilancio dei primi otto mesi del 2018 è in netta ripresa: se nel 2017 erano state prodotte 77 milioni di bottiglie (di cui 26,7 mln di Lambrusco Doc e 50,2 mln di Lambrusco Igt), nello stesso periodo del 2018 sono state confezionate 98.255.657 bottiglie, delle quali 29.121.062 di Lambrusco Doc e 69.134.595 di Lambrusco Igt, con un incremento di produzione anno su anno del 22%. Una netta ripresa che va di pari passo, come rileva Claudio Biondi, riconfermato alla guida del Consorzio del Lambrusco di Modena dopo l'uscita di Pierluigi Sciolette, con il buon momento delle vendite in Francia, Germania e Spagna e la contemporanea crescita in Canada, Brasile, Giappone, Messico e Russia.

 

I prezzi

Per il presidente Biondi, parlare di prezzi significa analizzare tre aspetti diversi della Lambrusco valley. Le remunerazioni delle uve ai soci, che oggi ammontano a circa 38 euro a quintale, e che consentono di raggiungere una produzione lorda vendibile di 10mila euro per ettaro. Il prezzo del vino in cisterna che dalle cantine passa agli imbottigliatori: “Registriamo un lieve calo a causa di una annata più abbondante”. Il prezzo alla bottiglia: “Nel 2017, nonostante il calo produttivo, si è deciso di non incrementare oltre un certo limite il livello. In pratica, gli imbottigliatori si sono fatti carico dell'aumento della materia prima”. Considerati questi elementi, il mercato “risentirà di una annata produttiva abbondante”.

 

La promozione

Lasciatosi alle spalle l'immagine di un vino adatto soltanto ai pasti principali, il Lambrusco è riuscito a operare una “metamorfosi”, come la definisce il presidente Biondi, alla luce dei cambiamenti degli stili di vita: “C'è una nicchia di mercato che si sta ampliando rispetto alle abitudini di consumo e ci sono spumanti da uve Lambrusco che non trovi più negli scaffali da supermercato, bensì nelle carte dei vini della ristorazione”. Grasparossa, Sorbara, Salamino appartengono alla stessa famiglia ma hanno caratteristiche differenti: “Un grande vantaggio, che sta consentendo al Lambrusco di strutturare le fasi della promozione a seconda dei Paesi target: nella declinazione amabile e a basso tasso alcolico stiamo lavorando su Paesi come Stati Uniti e Canada; mentre con importatori e consumatori Ue stiamo promuovendo uno stile di Lambrusco più secco”.

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri dell'8 novembre

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Mangiare a Napoli. Guida alle migliori 13 pizzerie

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Inutile girarci intorno: Napoli è la città della pizza, in Italia e nel mondo. Selezionare le insegne migliori in un panorama simile non è facile, ma la guida Pizzerie d'Italia del Gambero Rosso ne ha evidenziate 13 particolarmente valide. 

 

È diventata un'icona del gusto italiano in tutto il mondo, un prodotto ricercato, copiato, apprezzato a ogni latitudine: la pizza napoletana non ha bisogno di molte presentazioni, specialmente in un periodo simile, un tempo in cui l'arte bianca continua a destare l'interesse di consumatori e appassionati di ogni dove, imponendosi sempre di più come una disciplina fondamentale per la gastronomia internazionale. Oggi esistono stili e modelli di pizza differenti, declinazioni originali e innovative di questo prodotto storico che si sono diffuse lungo tutto lo Stivale e non solo, ma quali sono le migliori pizze napoletane? Le insegne nella città partenopea sono molte, ma le più valide, quelle che hanno ottenuto un punteggio minimo di 85 punti nella guida Pizzerie d'Italia 2019, sono solo tredici.

 

50 kalò

50 Kalò

Una vita passata tra farine e impasti, una carriera costellata di successi e poi, a luglio 2018, un nuovo locale a Londra, zona Trafalgar Square: Ciro Salvo è un maestro indiscusso delle lievitazioni, un professionista in grado di imprimere la sua firma a ogni tonda, con un impasto personalissimo. Digeribile, leggera, dal morso friabile e croccante e il diametro ampio, la pizza qui può essere gustata in tutta la sua bontà con topping diversi, dai classici agli abbinamenti più insoliti. Fra gli assaggi da non perdere, quella con aglio irpino, acciughe di Cetara, fiordilatte dei Monti Lattari ed extravergine, ma anche le tradizionali Margherita e Marinara, realizzate con sapienza. E poi la Gialla con Tonno, con pomodorini gialli del piennolo, bufala, filetto di tonno di Cetara, fagiolini in conserva ed extravergine. Di livello la cantina, con una bella selezione di birre artigianali e vini.

50 Kalò – Napoli – p.zza Sannazaro, 201b – www.xn--50kal-yta.it

 

Da Attilio

Da Attilio alla Pignasecca

80 anni di onorata attività alle spalle per questa insegna storica nel cuore della Pignasecca, tra i Quartieri e il frenetico mercato. A formare gli impasti, Attilio Bachetti, fiero interprete della veracità napoletana che nelle sue pizze racchiude il meglio della tradizione partenopea. L'accoglienza calorosa e familiare è uno dei punti di forza del locale, ma a fare la parte del leone è sempre il disco di pasta, leggero e alveolato, condito con cura con i migliori ingredienti del territorio e non solo. Qui, si viene per assaggiare le variazioni di Margherita – imbattibile quella al filetto di pomodoro – oppure l'ormai celebre Carnevale, marchio di fabbrica della casa, con ricotta, mozzarella e salsiccia. Via libera, poi, alle varianti stagionali, tutte create con maestria e con le migliori materie prime a disposizione.

Da Attilio alla Pignasecca – Napoli – via Pignasecca, 17 - www.facebook.com/pizzeriadaattilio/

 

Eccellenze Campane

Eccellenze Campane

Una struttura che ospita diverse attività, fra cui quella principale, la pizzeria: un ambiente semplice e curato in cui assaporare specialità d'autore preparate con amore dalla brigata di Guglielmo Vuolo, rimasta legata all'insegna anche dopo che il maestro si è trasferito a Verona. È Pasquale a continuare a occuparsi degli impasti, con lievitazione di almeno 12 ore, impasto all'acqua di mare (solo venerdì e sabato sera), e una serie di prodotti del territorio dal gusto inconfondibile. Si comincia con Margherita e Marinara, per poi passare alla 4 Pomodori, con pacchetelle rosse, piennolo giallo, filetti di San Marzano e Re Fiascone. Presenti anche le fritte, asciutte e leggere, e poi una linea speciale, La Tradizione sposa L'Innovazione, che annovera creazioni come la Terra del Buono, con zucchine, noci di Sorrento, piennolo giallo e provola a scaglie.

Eccellenze Campane – Napoli – via Brin, 69 – www.eccellenzecampane.it

 

La Figlia del Presidente

La Figlia del Presidente

Fra i nomi che hanno fatto la storia della pizza napoletana, La Figlia del Presidente sfodera il fascino del folcore partenopeo grazie a una pizza a portafoglio impeccabile, che trasforma la tonda in un vero street food da gustare passeggiando per le vie della città. Un impasto alveolato e soffice, scioglievole, impreziosito con i sapori locali, come il pomodorino giallo del Vesuvio, la provola affumicata e il basilico, che vanno a comporre la Terra Mia, omaggio a Pino Daniele. Da provare anche la pizza fritta, ma prima ancora gli antipasti, dalla frittatina di maccheroni alle zeppoline di alghe, passando per mozzarella di bufala e bruschette. Ottimi anche i dessert, fra cui le pizze dolci, come quella con cioccolato bianco.

La Figlia del Presidente – Napoli – via del Grande Archivio, 23 – www.figliadelpresidente.com

 

Lievito Madre al Mare

Lievito Madre al Mare

Un'insegna firmata Gino Sorbillo per godere degli impasti eccellenti fronte mare. Le basi sono sempre le stesse: farine biologiche e le migliori eccellenze gastronomiche italiane per i topping. Il risultato è una pizza dal grande diametro, morbida, digeribile e con il cornicione pronunciato. Si può scegliere fra gusti classici come la Margherita con bufala, oppure sapori più decisi: la pizza con le alici di Cetara e quella con le torzelle e conciato romano, per esempio, due cavalli di battaglia dell'artigiano. Imperdibili i fritti, da accompagnare con qualche buona birra artigianale e i dolci delle grandi firme pasticcere locali. A breve, Lievito Madre sbarcherà anche a Roma, in piazza Augusto Imperatore.

Lievito Madre al Mare – Napoli – via Partenope, 1 – www.sorbillo.it

 

La Masardona

Masardona

Un affare di famiglia dal 1945, che oggi Enzo Piccirillo porta avanti affiancato dalla moglie e i due figli. Una squadra solida arrivata anche in uno dei salotti buoni della città, senza mai perdere di vista le loro radici e soprattutto senza abbandonare la prima sede storica. Due indirizzi completamenti diversi, ma con la stessa offerta: la Masardona è il tempio della pizza fritta o Battilocchio (formato più piccolo), una sfoglia croccante e dorata, leggera e gustosa, da farcire con gli ingredienti più disparati. C'è la Completa, con pomodoro, provola, ricotta, cicoli e pepe, la Scopone con porchetta, pomodori misti e provola, e poi la Palummiello, una base di bruschetta fritta ricoperta con polpo all'insalata, olive e limone. Per gli amanti del dolce, gli straccetti di pasta fritta con cioccolato e zucchero a velo sono la conclusione perfetta del pasto.

Masardona – Napoli – p.zza Vittoria, 5 - www.facebook.com/masardona/

 

La Notizia

La Notizia

La prima filiale del maestro si avvicina al decimo anniversario: dieci anni di successi per questo pioniere della contemporaneità a cui hanno fatto seguito, in tutto il mondo, altri pizzaioli. Enzo Coccia non smette di sperimentare e stupire, di alzare l'asticella della qualità nei suoi locali. La degustazione qui comincia con la Procidana con pomodorini alla brace, scamorza affumicata, origano, basilico e prezzemolo. Poi la Citreum con l'albedo – lo strato bianco tra la buccia e la polpa del limone – mozzarella di bufala campana, bresaola all'uscita dal forno. E ancora la Caponata, omaggio alla cucina siciliana, e una scelta di dolci d'eccellenza, fra cui l'imbattibile saltimbocca al cioccolato fondente.

La Notizia – Napoli – via M. da Caravaggio, 94a – www.enzococcia.com

 

La Notizia

La Notizia

Altro locale firmato Coccia, il primo che ha dato il via alla sua avventura in solitaria, dopo la pizzeria di famiglia in zona Ferrovia. Oggi, nel locale ampliato e ristrutturato ci si perde fra gli assaggi delle pizze più golose, come la San Gennaro, con pomodorini del piennolo gialli, acciughe, olive nere, origano, prezzemolo e basilico, oppure la Capodimonte con salsiccia, mozzarella e pomodorini del piennolo del Vesuvio, abbinamenti sfiziosi che vanno a insaporire un disco di pasta soffice e fragrante: un vero impasto da maestro. Impeccabile anche il servizio, attento e puntuale.

La Notizia – Napoli – via M. da Caravaggio, 53 – www.enzococcia.com

 

Concettina ai Tre Santi

Oliva da Concettina ai Tre Santi

“Avere radici nel futuro” è il suo motto, una filosofia che il giovane Ciro Oliva ha scelto di mettere in pratica da tempo, proprio nel suo quartiere - il rione Sanità - dove lo storico rito del caffè sospeso si è trasformato nella “pizza sospesa”. E non una qualunque: un disco di pasta di ineccepibile fattura, condito con i capisaldi della cucina partenopea, per un menu in continua evoluzione che cambia assecondando l'estro del pizzaiolo. La Terra Mia è uno dei suoi cavalli di battaglia, un mix di broccoli, patate, riduzione di vino rosso, lardo di maialino nero e rosmarino, ma c'è anche Il Sole della Sanità, con pomodorini gialli, mozzarella e origano, un inno ai sapori del Sud. Per gli amanti del fritto, poi, crocchè, frittatine e Montanarine di livello, ma non solo: Ciro si destreggia anche con i panini, le Annarele, dove l'impasto della pizza diventa contenitore di golose ricette.

Oliva da Concettina ai Tre Santi – Napoli – via Arena alla Sanità, 7bis – www.pizzeriaoliva.it

 

O' Sfizio d'a notizia

'O Sfizio d' 'a Notizia

Di nuovo, Enzo Coccia. Sdoganatore della pizza tradizionale senza mai rinnegarla, l'artigiano si dedica anche alla pizza fritta, fra i prodotti storici di Napoli. Sempre lungo la stessa via, quella che ospita la triade di locali a sua firma, trasformata in un polo di eccellenza. Qui, dimostra come il cibo da strada napoletano per antonomasia possa essere l'accompagnamento perfetto per un buon calice di bollicine (e viceversa): un connubio vincente, in cui la protagonista, però, resta la pizza. Dalla Montanarina con straccetti di bufala, bacon fritto e pepe nero alla mezzaluna ripiena di fiordilatte di Agerola, ricotta e salsiccia di bufala, rucola e gorgonzola, ogni morso è una delizia per il palato. Ma non finisce qui: ci sono anche i panini, le 'mpustarelle, farcite con ingredienti saporiti.

'O Sfizio d' 'a Notizia – Napoli – via M. da Caravaggio, 49 – www.enzococcia.com

 

Sorbillo

Sorbillo

Il successo internazionale e la notorietà mediatica non impediscono a Gino Sorbillo di mantenere il punto e continuare a farsi portavoce della stessa eccellenza di sempre. L'attesa per sedersi a tavola, qui, è ripagata dalla cura del servizio e dell'offerta: pizze tonde d'autore, frutto di una meticolosa selezione degli ingredienti che predilige il biologico. Regina indiscussa resta la Margherita, con bufala, provola e pepe, a dimostrazione di quanto la più semplice delle ricette, se eseguita con tecnica e maestria, possa diventare e restare la numero uno. Seguono la Diavola e un'interpretazione del tarallo napoletano indimenticabile.

Sorbillo – Napoli – via dei Tribunali, 32 - www.facebook.com/PizzeriaGinoSorbillo/

 

Starita

Starita

Anche Antonio Starita e famiglia sono volati a New York (e Atlanta), portando il gusto della pizza partenopea oltreoceano. La casa madre, però, il locale di via Materdei dove tutto ha avuto inizio, resta il pezzo forte dell'attività. La quarta generazione, oggi, porta avanti il lavoro iniziato oltre un secolo fa, continuando a fare luce sull'arte del pizzaiuolo napoletano. Antonio, infatti, è vicepresidente dell'Associazione Pizzaiuoli Napoletani, con cui si impegna a promuovere il valore culturale dell'arte bianca. Nella sua pizzeria, si possono assaggiare fiordilatte e pomodori di prima scelta, bufala, salsiccia, friarielli e altre prelibatezze campane che vanno a comporre i topping straordinari delle sue creazioni. E poi la pizza fritta, Montanara o mezzaluna ripiena: imperdibile.

Starita – Napoli – via Materdei, 27 – www.pizzeriastarita.it

 

Zia Esterina

Antica Pizza Fritta Da Zia Esterina

Maestro della pizza tonda, Gino Sorbillo è anche sinonimo di pizza fritta, quella di Zia Esterina, la donna da cui ha ereditato tecnica e passione e alla quale ha voluto dedicare ben tre locali a Napoli, (più la sede di Milano e quella di New York). Nell'indirizzo principale di piazza Trieste e Trento ricrea la stessa atmosfera per 63 anni ha permeato la sede storica di via dei Tribunali, proprio grazie al lavoro di Zia Esterina, che ha deliziato senza sosta i passanti con il profumo delle sue mezzelune, fritte nel banchetto all'esterno. Oggi, il pizzaiolo le ripropone con lo stesso amore di sempre, ma con una ricerca più minuziosa delle materie prime, farine in primis (tutte biologiche). Oltre alla Completa – pomodoro, ricotta, provola di bufala e poi, a scelta, cicoli, salame o prosciutto cotto – a fare la parte del leone sono delle novità più recenti, come la Cappello di Pulcinella, con polpettine di manzo fritte. Pochi tavoli, ma la pizza fritta è un vero street food, da gustare in piedi o camminando.

Antica Pizza Fritta Da Zia Esterina – Napoli – piazza Trieste e Trento, 53 - www.facebook.com/anticapizzafrittadaziaesterinasorbillo/

a cura di Michela Becchi

Pizzerie d'Italia 2019 – pp. 395 – Euro 8,90 – La guida è acquistabile in edicola, libreria e online

Guida Pizzerie d'Italia 2019 del Gambero Rosso: è arrivato il tempo dei voti

Mangiare a Verona. Guida alle migliori 8 pizzerie

Mangiare a Torino. Guida alle migliori 5 pizzerie

Mangiare a Firenze. Guida alle migliori 9 pizzerie

Mangiare a Bologna. Guida alle migliori 7 pizzerie

Mangiare in Sicilia. Guida alle migliori 6 pizzerie

Mangiare in Abruzzo. Guida alle migliori 9 pizzerie www.gamberorosso.it/it/food/1048490-mangiare-in-abruzzo-guida-alle-migliori-9-pizzerie

 

Prezzemolo e Vitale, tra bottega e Gdo. Da Palermo a Londra, la bella storia di un'impresa di famiglia

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Giusi Vitale e Giuseppe Prezzemolo sono in attività da circa 30 anni. E insieme, in anticipo sui tempi, hanno ideato un format che unisce la comodità di un supermercato alla qualità di una selezione operata sul territorio. A Palermo li conoscono tutti, ma ora puntano a conquistare Londra. 

 

Gli inizi. Dalla bottega al market

A Palermo, ormai, l'apertura di un nuovo market targato Prezzemolo e Vitale non è una novità. Il settimo punto vendita ha inaugurato solo qualche settimana fa, in via Lulli: seicento metri quadri per la spesa di tutti i giorni, ma pure per fermarsi a mangiare un panino della casa al punto gastronomia, ripensato un paio di anni fa (all'esordio del sesto negozio della catena) per assecondare le esigenze di consumo contemporanee. Quel che sembra piacere alla città, il segreto del successo di un gruppo a gestione familiare che oggi – a più di 15 anni dalla creazione del brand, ma l'attività è ben più longeva – conta 150 dipendenti, è frutto di un'intuizione che tiene insieme il mondo delle produzioni artigianali e le dinamiche distributive della Gdo. Un equilibrio costruito da Giusi Vitale Giuseppe Prezzemolo attingendo ai rispettivi background familiari, il papà di Giusi proprietario di un piccolo market affiliato al circuito della grande distribuzione, quello di Giuseppe grande cultore di formaggi, cercatore di specialità di nicchia sul territorio, titolare di una bottega tradizionale in un quartiere periferico della città. E nasce così, trent'anni fa, la prima avventura insieme di Giusi e Giuseppe, coppia nella vita e sul lavoro: “Per 10 anni, subito dopo il matrimonio, abbiamo gestito una nostra bottega sull'impronta di quella della famiglia Prezzemolo” racconta Giusi. “Ci siamo appassionati al lavoro, abbiamo girato l'Italia alla ricerca di prodotti che ci piacessero. E l'impegno ci ha ripagato, dopo qualche tempo eravamo un punto fermo della spesa di qualità pur in una zona non proprio centrale di Palermo”. Poi la svolta: quando il papà di Giusi sceglie di lasciare il piccolo supermercato gestito per tanti anni, la coppia decide di subentrare, pur alle prese con una realtà completamente nuova: “Abbiamo venduto la bottega di via Liguria, ci siamo ritrovati con un negozio affiliato a una grande catena, e politiche da gdo che faticavamo a comprendere. C'è voluto qualche mese per trovare il nostro passo”.

Tra bottega e Gdo. Nasce Prezzemolo e Vitale

L'intuizione? Affiancare ai prodotti da supermercato gran parte di quelle referenze conosciute negli anni: specialità di nicchia, prodotti da forno reperiti sul territorio, ma non solo eccellenze siciliane, “perché non abbiamo mai creduto nel culto del km zero senza alternative. Il buono si può cercare ovunque, e non vogliamo avere limiti, pur prestando un occhio di riguardo alle produzioni dell'isola (che oggi sono riunite sotto il marchio Giù Giù, Giusi e Giuseppe, per segnalare le specialità siciliane brandizzate da Prezzemolo e Vitale, ndr)”. Succedeva alla metà degli anni Novanta. Nel 2002 arriva il secondo punto vendita, un nuovo passo in avanti: “Abbiamo preso coraggio, e scelto di coniare la nostra insegna. Così siamo diventati Prezzemolo e Vitale, nel tempo l'affiliazione è diventata sempre meno vincolante, ma la manteniamo per avere accesso a canali distributivi direttamente connessi all'industria, che ci garantiscono un approvvigionamento costante, e quindi un'efficace gestione dei nostri supermercati”. Intanto, però, anche oggi che i fronti si sono moltiplicati, il gruppo continua a coltivare il rapporto con i propri fornitori diretti, e il format è rimasto un unicum nel panorama cittadino, oltre che un valido esempio imprenditoriale di come il mondo dell'artigianato e quello della grande distribuzione possano coesistere.

 

I servizi al cliente. E il marchio Giù Giù

Sviluppando pure una serie di strumenti che favoriscono l'accessibilità e la fruibilità dal lato del consumatore, come l'app per ordinare la spesa online, “una pratica non molto diffusa a Palermo, che invece si sta rivelando un successo. Gli ordini si possono completare anche via Whatsapp, ogni negozio ha il suo numero aziendale di riferimento; consegnano con i nostri fattorini, ma anche appoggiandoci a una società esterna. I numeri parlano chiaro: circa una quarantina di clienti al giorno fanno la spesa online, alla fine dell'anno si tradurrà in una bella quota di fatturato”. Poi c'è il servizio di spedizione online in tutta Italia, sviluppato per promuovere gli oltre 70 prodotti a marchio Giù Giù, quelli siciliani consegnati in 24 ore in tutta la Penisola, gli stessi reperibili a scaffale, secondo disponibilità, “perché nel caso delle specialità di nicchia parliamo spesso di piccole produzioni, anche se cerchiamo di selezionare realtà che possano conciliarsi con i nostri numeri attuali”. Qualche esempio? Le marmellate di agrumi da Agrigento, le acciughe sott'olio in arrivo da Aspra (Palermo), la birra dei Nebrodi e il pesto trapanese, con pomodori, mandorle e basilico. E poi salse, conserve, biscotti. Mentre chi fa la spesa a Palermo può contare anche sul pesce fresco di Silvio Tagliavia, il pane di Ottavio Guccione, i panettoni della pasticcerie locali per il Natale (da Ragusa arrivano anche quelli di Ciccio Sultano dai Banchi) e altre chicche d'autore.

E sul servizio di gastronomia per il pranzo (solo nei punti vendita di via Aquileia e via Lulli), con taglieri di salumi e formaggi, hamburger di carne locale, le bottiglie dell'enoteca, di produttori italiani e stranieri.

Alla conquista di Londra

Conquistata Palermo – dove il numero di negozi non salirà oltre, mentre l'impegno si concentrerà a potenziare il settore all'ingrosso per la ristorazione – da qualche tempo l'orizzonte si è spostato a Londra. Nella capitale inglese Prezzemolo e Vitale ha esordito nel 2016 all'interno del Mercato Metropolitano: “Ci ha voluto Andrea Rasca, abbiamo accettato la sfida. Ma a Elephant & Castle gestivamo circa 350 metri quadri di locali, dimensioni troppo grandi per noi, con dinamiche che rischiavano di sfuggirci di mano. Così, dopo un anno, abbiamo scelto di abbandonare il progetto”.

Non Londra, però, dove il primo market indipendente Prezzemolo e Vitale ha aperto un anno fa a Chelsea: circa 130 metri quadri di locale - “le dimensioni perfette per noi” - per fare la spesa made in Italy (ma molti prodotti freschi sono reperiti da fornitori locali). E un buon riscontro, tra i londinesi e gli italiani che vivono in città: “Arrivano per comprare i capperi di Saline, il pangrattato, il lievito di birra... Quest'estate sono letteralmente impazziti per le nostre angurie. Prodotti che difficilmente si possono reperire a Londra, anche se noi li diamo per scontati”. Ecco perché presto, all'inizio del 2019, il gruppo aprirà un altro punto vendita gemello, sempre a Chelsea. Con l'obiettivo di sviluppare una rete di una decina di negozi in città: “La risposta è buona, sicuramente siamo più concorrenziali laggiù che in altre città italiane, o in nuove località siciliane dove ci penalizza più di qualche rallentamento nella logistica. Quindi perché no, l'ambizione c'è”. E anche tre figli, la nuova generazione che subentra, che hanno sposato con entusiasmo la causa. Quando si dice una felice impresa a gestione familiare.

 

prezzemoloevitale.net

 

a cura di Livia Montagnoli

Res Rustica al MANN di Napoli. In mostra la Collezione dei Commestibili di Pompei ed Ercolano

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Olive, fichi, cereali, legumi, ma anche datteri e pesche in arrivo dai territori dell'impero. E persino una bottiglia piena d'olio. Preziosissimi reperti alimentari di una civiltà antica, cristallizzati dall'eruzione del 79 d.C., che ha fermato la vita a Pompei ed Ercolano. Ora in mostra a Napoli. 

 

La Collezione dei Commestibili

A pronunciarne il nome - Collezione dei Commestibili – si potrebbe facilmente pensare all'invenzione letteraria di una penna creativa come quella di Roal Dahl. Se non fosse che la fantasia qui gioca un ruolo marginale, perché la collezione in questione esiste, ed è una prestigiosa raccolta di reperti, unica al mondo, realmente custodita a Napoli. Seppur non visibile dal lontano 1989, quando le rarità (alimentari e non solo) rinvenute durante le prime campagne di scavo borboniche a Pompei ed Ercolano finirono nei depositi. Nel frattempo i reperti sono stati trasferiti al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove da qualche giorno la mostra Res Rustica gli rende finalmente giustizia. Per quasi trent'anni, infatti, la visita alla raccolta che tanto aveva meravigliato Goethe in visita al Gabinetto dei Preziosi di Portici (dove sorgeva all'epoca l'Herculanense Museum, con le raccolte poi confluite, nell'Ottocento, a Napoli) è stata interdetta ai non addetti ai lavori: nel 2009, per motivi conservativi, i reperti erano tornati a Pompei, presso il Laboratorio di Scienze Applicate. Solo la primavera scorsa la raccolta è rientrata in sede, destinata a occupare le camere appositamente climatizzate all'interno del Medagliere.

 

Res Rustica. La mostra al MANN

Ora, in occasione dell'Anno del Cibo italiano che volge al termine, ci sarà tempo fino al 18 febbraio per ammirarla. Almeno in parte. Il progetto è parte di un più ampio ciclo di iniziative di valorizzazione del patrimonio archeologico conservato a Napoli, ribattezzato Alla scoperta dei tesori di MANN, e allestito al museo archeologico nelle sale adiacenti al Plastico di Pompei, in collaborazione con il Dipartimento di Agraria di Federico II (Res Rustica Archeologia, botanica e cibo nel 79, recita per intero il titolo dell'esposizione). Ma di cosa parliamo, esattamente? Nella Collezione dei Commestibili, che come anticipa il direttore del museo Paolo Giulierini presto dovrebbe trovare collocazione permanente nell'itinerario di visita della sezione pompeiana, confluiscono i resti alimentari cristallizzati dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.: olive, datteri, cipolle, cereali e quanto normalmente si portava in tavola all'epoca nelle case di Pompei ed Ercolano. Istanti di vita quotidiana – carbonizzati e non - fossilizzati in una dimensione atemporale, e arrivati fino a i giorni nostri a testimoniare le abitudini alimentari di un'epoca. Reperti preziosissimi, dunque, per ricostruire il seminato di una cultura materiale che ha lasciato tracce indelebili.

 

Il percorso di visita

Quindi la mostra si apre con la mappa che segue le rotte delle singole specie vegetali nell'antichità, per arrivare a raccontare le pietanze più diffuse sulle tavole di duemila anni fa: fichi, carrube, melograni, ma anche prelibatezze esotiche come pesche e datteri provenienti dai territori dell'Impero, e poi aglio, olive, persino un'ampolla contenente garum. E olio d'oliva, come testimonia la bottiglia del I secolo esposta in mostra, ancora piena e lungamente analizzata dai ricercatori. Una seconda sezione, invece, si focalizza su strumenti di conservazione e attrezzi da cucina diffusi all'epoca: anfore, utensili, stoviglie, pentole, e pure la celebre stadera di Pompei, una bilancia per pesare il cibo. E poi gli affreschi, ugualmente provenienti dai depositi museali, che testimoniano in pittura costumi e pietanze dei banchetti dell'epoca. Un bel modo per rendere omaggio all'Anno del Cibo italiano, e sottolineare l'unicità di un museo che conserva un patrimonio destinato a riservare ancora molte sorprese.

 

Res Rustica - Napoli - MANN - fino al 18 febbraio 2019 - Info sulla mostra

 

a cura di Livia Montagnoli

Hotbox Food. Il bauletto che rivoluziona la consegna a domicilio dei cibi caldi

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Grazie ai sistemi di mantenimento della temperatura, ricircolo d’aria e deumidificazione - sfruttando l’energia di scarico di un ciclomotore - lo speciale bauletto Hotbox Food permette di mantenere il cibo caldo. È l'idea di quattro ragazzi che si son conosciuti a Maranello.

 

Il cibo a domicilio è sempre più territorio di innovazione”. Parola di Sonia Massari che nel numero di luglio del mensile del Gambero Rosso, in uno speciale dedicato alle startup, individua quattro generazioni del food delivery.

 

Le quattro generazioni del food delivery

È interessante notare come le quattro generazioni del food delivery, in Italia siano state condensate in poco più di cinque anni”. Spiega Sonia Massari, Direttore di Gustolab International - Food Systems and Sustainability e docente del corso “Sustainability Design” presso l'Università di Roma Tre oltre che responsabile delle pagine di design sul nostro mensile cartaceo. “Negli Stati uniti il food delivery esiste da circa vent'anni e in tutto questo tempo si è fisiologicamente evoluto per gradi. Prima il pizzaiolo cucinava e si occupava di portare la pizza direttamente a casa, poi sono nate società che attraverso speciali algoritmi si sono occupate di organizzare prenotazioni e vendite via app e piattaforme online, successivamente queste società hanno iniziato a fare selezione dei ristoranti e dei prodotti, per fornire servizi ancora più settoriali e oltre alla prenotazione-vendita hanno iniziato a gestire anche la consegna e infine, l’ultima era del delivery, è contraddistinta dalla scomparsa dei ristoranti in favore di laboratori di produzione ad hoc”.

 

Le quattro fasi in Italia

In Italia queste quattro fasi si sono susseguite nel giro degli ultimi cinque anni, con una attenzione maggiore nei confronti dell'algoritmo, per servizi più efficienti e prodotti più di nicchia e di qualità. La quarta generazione delle startup italiane, infatti, non vede tanto la scomparsa dei ristoranti, ma piuttosto la creazione di offerte specializzate (pasto da assemblare, prodotti e ricette regionali, pasti di fine dining, soluzioni gluten free o vegan) e fanno a gara tra chi ha l'algoritmo più preciso”. Ma c'è un ma: “Purtroppo la maggior parte di queste startup sembra quasi non tenere conto che la progettazione deve essere sistemica, il che implica un'attenzione nei confronti della sicurezza sul lavoro e della sicurezza alimentare. Pochissimo, infatti, è stato fatto in termini di progettazione di un packaging avanzato, smart e tracciabile, autopulente, in grado di mantenere le temperature e preservare il cibo. Ancor meno per quanto riguarda i contenitori studiati per il cibo che viene trasportato (come per esempio la pizza con la mozzarella o le salse, che a detta degli addetti ai lavori sono il vero incubo di ogni biker). In poche parole l'obiettivo finale (la customers satisfaction) ha offuscato tutti gli altri step intermedi”.

 

 

 

Il team di Hotbox

 

Hotbox Food

È per questo che la notizia di una realtà che ha progettato uno speciale bauletto per mantenere caldo e fragrante il cibo, è piuttosto interessante. Parliamo di Beyond Engineering, una startup di Maranello che attualmente fa parte del programma di incubazione dell’acceleratore internazionale Startupbootcamp FoodTech con sede a Roma. Dietro ci sono le menti (e le braccia) di quattro ragazzi con alle spalle studi di ingegneria meccanica e del veicolo: Claudio Giovini, che tra l'altro ha passato oltre dieci anni nella pizzeria di famiglia, Domenico Palladino, Anthony Prada e Marco Caputo. Ma come funziona esattamente il bauletto Hotbox Food? “Il rendimento energetico di uno scooter è circa del 20%; la restante parte dell’energia viene dispersa in calore sia nel sistema di raffreddamento che nell’espulsione dei gas di scarico dal tubo di scappamento. L’innovazione di Hotbox è quella di riutilizzare questo calore, che altrimenti viene sprecato, per conservare il cibo a 85 °C garantendo pietanze calde ai clienti”. Marco ci spiega esattamente come: “Il calore proveniente dalla marmitta viene convogliato in una serpentina di acciaio inox miniflex a tenuta stagna che riscalda la camera contenente il cibo. E una volta utilizzata tutta l’energia necessaria, il calore rimanente viene espulso all’esterno del dispositivo attraverso la serpentina stessa. Così la camera di trasporto del cibo mantiene una temperatura costante di 85 °C dopo soli 15 minuti di utilizzo del mezzo in strada”. Se vi state domandando se il gas vada a contatto con il cibo, ovviamente non è così dato che il compartimento del cibo e quello che ospita la serpentina sono completamente isolati. Insomma, niente pizze o pastasciutte all’aroma di smog.

 

Il ricircolo d'aria

I quattro ragazzi, però, non si sono fermati a questo. “Siamo sul mercato da circa sei mesi, ma prima abbiamo passato un anno e mezzo a fare dei test con la pizzeria di famiglia di Claudio (Pepa l'Arepa di Modena), allargandoci poi ad altre regioni. Inizialmente il problema era trovare la temperatura ideale di conservazione, che parlando con Barilla si è dimostrata essere tra i 75 e gli 85 gradi, e soprattutto il dover eliminare l'umidità. Claudio, lavorando in pizzeria, sapeva bene che il problema principale nel trasportare le pizze sta tutto nell'umidità”. E così la seconda fase di funzionamento del bauletto si basa proprio sullo stesso principio di un forno ventilato, che grazie al ricircolo d’aria permette di eliminare il vapore che si crea nei contenitori durante il trasporto dei cibi. “Per noi ingegneri è stato un gioco da ragazzi: è bastato inserire una ventola che aiuti a togliere il vapore per consentire il ricircolo d’aria, che a sua volta sfrutta la convezione forzata per aumentare notevolmente ed equilibrare la temperatura interna di Hotbox, rendendo più efficiente il sistema di deumidificazione”. Ed eccoci alla terza fase di funzionamento di Hotbox Food, che consiste in un deumidificatore.

 

La deumidificazione

I sistemi di consegna tradizionali riescono a mantenere per breve tempo il calore, ma trattengono al loro interno l’umidità e soprattutto non riescono a eliminarla. Hotbox, invece, la elimina grazie a un radiatore che è in comunicazione con l’ambiente esterno: il vapore acqueo viene in contatto con il radiatore e subisce uno sbalzo termico che lo trasforma in goccioline espulse tramite un’apposita canalina. Questo sistema garantisce la fragranza delle pietanze fino a casa dei clienti”. L'idea, tanto innovativa quanto intuitiva, è piaciuta ai ragazzi di Moovenda - food deliverer capitolino che vuole posizionarsi sulla fascia qualitativamente alta del mercato - che la stanno testando con la complicità di un pizzaiolo del calibro di Pier Daniele Seu Tre Spicchi sulla nostra Guida Pizzerie, e a UberEATS, e ha convinto anche Deliveroo in Inghilterra e alcune grandi catene (leggi: Domino Pizza e Papa John's pizza) in Israele. D'altra parte utilizzare questo speciale bauletto per trasportare il cibo significa anche risparmiare in termini di tempo e benzina perché con questo sistema possono essere smaltiti più ordini con la stessa consegna, mantenendoli sempre caldi e a temperatura costante. Concludiamo sempre con le parole (e una speranza) di Sonia Massari: “ben venga un food delivery sempre più automatizzato, sempre più personalizzato e sostenibile, con la speranza che inizi a pensare anche a soluzioni per salvaguardare la parte umana, preservandola e agevolandola nel suo ruolo di problem solver nei diversi scenari”. Buona cena a domicilio.

 

hotboxfood.it

 

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

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