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Restaurant & Bar Design Awards 2018. Tra i ristoranti più belli del mondo c'è l'Enoteca Regionale del Lazio di Vyta, a Roma

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Alla decima edizione, il premio destinato ai progetti architettonici della ristorazione più originali e innovativi dispensa riconoscimenti ai locali che segnano le tendenze di design nel mondo. Per l'Italia c'è l'Enoteca di Vyta a Roma, riconosciuta come miglior progetto in Europa. 

 

Il premio al miglior design per la ristorazione

Da dieci anni architetti, designer e imprenditori della ristorazione illuminati si ritrovano a Londra per la cerimonia di premiazione dei Restaurant & Bar Design Awards. Un riconoscimento alla progettazione d'autore applicata a contesti che sulla capacità di offrire uno spazio accogliente e allo stesso tempo in grado di sorprendere possono impostare una parte importante di quell'esperienza che oggi tutti cerchiamo quando andiamo a mangiare fuori. Non a caso la competizione riunisce ogni anno progettisti di fama internazionale (negli anni sono stati premiati, tra gli altri, lavori di Zaha Hadid, Foster & Partners, Alberto Alessi) alle prese con ambiziosi spazi destinati all'ospitalità, individuando i locali di tendenza di tutto il mondo, che si tratti di corner aeroportuali o caffetterie museali, ristoranti fine dining, cocktail bar o truck di design. Un paio di settimane fa, l'edizione 2018 del premio ha rivelato i nuovi vincitori, distribuendo medaglie in molti Paesi del mondo, con particolare attenzione al suolo inglese, che dalle origini del premio è attenzionato speciale della giuria. Ma due sono i vincitori assoluti di categoria: strappa il gradino più alto del podio come miglior ristorante di design la sala compassata e luminosa dello Sean Connolly di Dubai (studio Alexander and Co.); mentre il bar più bello del mondo si trova a Las Vegas, ed è il Rosina del Simeone Deary Design Group, sfavillante, opulento, optical come solo nella Mecca mondiale dei casinò potrebbe essere.

L'Italia c'è. Con l'Enoteca Regionale del Lazio di Vyta

Tra le altre 36 categorie, l'Italia riesce a conquistare un riconoscimento pari merito con la Spagna per il miglior ristorante di design in Europa, e il premio spetta a Daniela Collini, firma inconfondibile del rinnovamento architettonico degli spazi firmati Vyta in diverse città d'Italia. Nel 2016 era stato il progetto della caffetteria fiorentina alla stazione di Santa Maria Novella a meritare un posto nella top 10 del celebre sito internazionale di architettura e design Designboom; mentre ai Restaurant &Bar Design Awards 2018 si impone il restyling dell'Enoteca Regionale del Lazio di Roma, che un anno fa riapriva completamente rinnovata negli spazi e nell'offerta gastronomica (ora affidata a Dino De Bellis), con il grande bancone in rame rosa e marmo, e poi legno, metallo, cristallo nero e velluti a conferire personalità all'ambiente. L'Enoteca di via Frattina divide il podio europeo con il ristorante madrileno Romola (che stupiva con profusione di marmi e colori acidi), un'avventura già conclusa, un anno dopo appena dall'apertura.

 

Gli altri premiati. E le piastrelle made in Italy

Tra i riconoscimenti di categoria si segnalano anche il fiabesco Budapest Cafè di Chengdu (Cina), ispirato alle scenografie di Wes Anderson, vincitore di una menzione speciale per l'uso dei colori, e il The Garden di Edimburgo, premiato per il riuscito allestimento ecofriendly. Il progetto che meglio strizza l'occhio al lusso, invece, ci porta a Londra, dove il ristorante Mei Ume (fusion giapponese e cinese dell'hotel Four Seasons, progettato da Ab Concept) è anche il più apprezzato tra tutti i ristoranti inglesi in concorso. Un'altra medaglia per l'Italia la porta a casa Domenico Mori, in concorso ai Restaurant & Bar product design awards, competizione parallela alla prima, ma più giovane, quest'anno alla terza edizione per premiare oggetti e allestimenti innovativi applicati all'interior design del food&beverage. Così tra sedute ergonomiche e installazioni luminose, l'azienda fermana Diemme di Mori - dapprima fabbrica di laterizi e dagli anni Sessanta produttrice di ceramiche di pregio - conquista il premio riservato alle superfici grazie alla piastrella “Venezia” disegnata dall'artista sudamericano David Lopez Quincoces e prodotta a Porto San Giorgio, in opera al Sixieme Bistrot di Milano.

 

Tutti i premi dell'edizione 2018

 

a cura di Livia Montagnoli


Falci. Passato, presente e futuro dell'azienda di Dronero

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È la storia di un'azienda di falci di Dronero, nata nel 1921, sopravvissuta alle molteplici crisi e che oggi è rimasta l'unica in Italia e in Europa (ad esclusione di una piccola azienda in Austria) a produrre questi antichi manufatti. Abbiamo intervistato l'amministratore Carlo Pedretti, che ci ha raccontato di un'arte dimenticata da molti, ma riscoperta da altri.

 

La falce che taglia nitidamente gli steli come un canto, una melodia di aria e di rugiada, che sempre più raramente si ha la fortuna di sentire. E vedere, poi, uomini esili al tempo stesso tenaci afferrare e sferzare con sicurezza le falci, quasi fossero dei danzatori, non è più cosa attuale; abituati come siamo alla meccanizzazione. Eppure c'è un'azienda, in Valle Maira, portavoce fattiva di questo modo di fare agricoltura, una maniera lenta, precisa, meticolosa.

La storia dell'azienda Falci

È un'azienda che dal 1921 non s'è mai stancata di produrre falci: lo stabilimento di Dronero è infatti rimasto uno dei pochissimi produttori mondiali, nonostante l’avanzare della meccanizzazione, nonostante la doppia crisi sia industriale che economica. “Fabbriche Riunite Falci nasce nel '21 - anche se già nel 1822 era nata una cooperativa - dall’unione di alcuni fabbri forgiatori locali, custodi di una tradizione pluricentenaria nella lavorazione dei metalli.”, spiega l' Amministratore Delegato Carlo Pedretti, “Dronero si presentava particolarmente favorevole a questa lavorazione grazie alla sua ricchezza idrografica e alla vicinanza alla Savoia per l’approvvigionamento dei metalli. Poi, la ricca piana agricola che si estende ai piedi delle Alpi Marittime rappresentava lo sbocco naturale per i manufatti”. Dronero sta proprio dove passa il grande canale Marchisa, lungo il quale i vari salti d'acqua hanno consentito la costruzione dei mulini: antichissimo è il Mulino della Riviera, attivo ancora oggi. “Grazie alle successive fusioni con altre aziende locali nei decenni seguenti l’azienda ha assunto dimensioni nazionali per poi essere acquisita e rilanciata dal gruppo Calvi”. Oggi Falci srl esportain più di 60 paesi, dall'Egitto all'Armenia, dall'Algeria all'Iran, al Sud America, a testimonianza che nel mondo ci sono ancora tanti contadini che tagliano il fieno con una falce.

Foto dalla mostra fotografica “A passo d’uomo” di Roberto Beltramo Foto dalla mostra fotografica “A passo d’uomo” di Roberto Beltramo

La produzione

Ma è difficile produrre falci? Non c'è alcuna macchina che possa sostituire la mano dell'uomo. E anche se ci fosse una macchina che forgia come un uomo, sono sicuro che non restituirebbe una falce come le nostre”. Attualmente l'azienda ha 65 dipendenti altamente specializzati: “Per addestrare un forgiatore servono minimo tre anni di formazione, non tutti sono adatti a fare questo lavoro. Servono persone leggere ed elastiche per forgiare il metallo, se si è rigidi ci si rompe, un po' come la lama di una falce. Basta fare un salto nello stabilimento per rendersi conto di come i nostri falciai sembrino dei ballerini che lavorano sotto il maglio”. Ci sono gli scartatori, coloro che dal pezzo grezzo di acciaio modellano la lama sotto i colpi di un grande maglio,“mentre il maglio batte, lo scartatore tiene il pezzo d'acciaio rovente con una pinza, e lo muove sotto i suoi colpi: lo schiaccia, lo allunga, lo assottiglia, gli dà la forma che vuole. Produciamo 300 modelli di falci, lunghe, strette con barba, con la punta a chiodo, facciamo addirittura una falce che va messa sotto i barconi della Senna per tagliare le alghe”. E poi ci sono i puntinatori che attraverso dei maglietti piccoli fanno la puntinatura a freddo delle falci. “Il maglietto batte 2.500 colpi al minuto e il puntinatore deve muovere velocemente la falce, per tendere la lama in maniera perfetta, donandole la resilienza”.La resilienza, ovvero la capacità di assorbire l'urto senza rompersi, che in campo diventa la caratteristica che fa la differenza.

Le falci in campo

Se una falce non è fatta bene si storce durante il taglio e rischia di rovinare il grano, senza contare che pesa di più e si rovina prima. Se invece è forgiata come si deve e affilata bene, senza l'utilizzo di abrasivi ma semplicemente martellata a freddo per rendere ancora più resiliente l'acciaio, il contadino di turno non dovrà perdere tempo ad affilarla in continuazione e farà la metà della fatica. Considerate che le nostre falci pesano duecento grammi, sono sottilissime”. Da qui un aneddoto speciale: “Siamo stati contatti da un medico indiano che ci ha chiesto di spedirgli una falce perché lì non si usa e nemmeno la conoscono, i contadini usano solo le falciole e logicamente dopo un po' iniziano a soffrire di mal di schiena. Una volta arrivata a destinazione sono tutti impazziti per la falce!”, esclama Pedretti. “Effettivamente con questa si mettono in moto tutti i muscoli e non si è costretti a stare ricurvi”. Insomma alla fine di questa storia, ogni villaggio limitrofo ha attivato una colletta per comprare una falce, un successo testimoniato addirittura da un video che mostra il Ministro dell'Agricoltura indiano brandire una falce dell'azienda piemontese. Sarà mica la rivincita della falce? “Nonostante il 95% delle falci siano destinate al mercato estero, c'è una piccola percentuale in crescita di contadini italiani che ce le richiede, soprattutto coloro che stanno coltivando grani autoctoni oppure chi si dedica all'agricoltura lì dove le macchine non possono arrivare, un'agricoltura eroica e lenta”. Dove lentezza è sinonimo di qualità. E non è un caso che nello stabilimento di Dronero ci sia ancora un vecchio cartello che raccomanda “A passo d’ uomo”.

 

Falci - Dronero (CN) - Via Cuneo, 3/5/7 - 0171 534519 - www.falcitools.com

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

Oscar Green Coldiretti 2018. Le 6 idee più originali dell'agroalimentare: dall'Arca delle razze animali alla Beewellness

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Coldiretti premia i giovani che fanno impresa nel settore agricolo con creatività e capacità di rigenerare il territorio. Sei sono i riconoscimenti assegnati per l'edizione 2018 degli Oscar Green, dalla Calabria al Trentino, passando per Sardegna e Toscana. 

 

Gli Oscar Green. Cosa sono

Un premio per le giovani imprese innovative del settore agricolo. Da diversi anni Coldiretti elargisce gli Oscar Green alle realtà più creative d'Italia, fotografando un settore che come dimostrano le ultime indagini è sempre più appannaggio degli under 35, i cosiddetti Millennials Farmers che scelgono di scommettere sulla terra e sulle potenzialità del comparto agroalimentare. All'insegna però di una sperimentazione costante su tecnologie all'avanguardia e nuove soluzioni produttive. Ed è questo il contesto in cui si muove il Premio Innovazione Giovani, che per l'edizione 2018 mette in luce l'originalità di sei progetti scelti dopo una lunga selezione territoriale tra migliaia di giovani imprenditori. Il palco è quello del XVII Forum Internazionale dell'Agricoltura e dell'Innovazione andato in scena a Cernobbio qualche giorno fa, le proposte premiate sono la spia di urgenze produttive che guardano al futuro del settore.

Le creme per il viso del tenore

Come la causa della lotta allo spreco, che vede in prima linea Matteo Bacci, coltivatore toscano di piante officinali che ha raccolto l'eredità di una famiglia di farmacisti, e con la complicità di Andrea Bocelli (proprio il tenore che tutti conosciamo) ha brevettato un sistema per riutilizzare gli scarti dell'industria vitivinicola. Nello specifico sono le vinacce dell'azienda vinicola del tenore (insieme all'acqua aromatica di rosmarino di Bacci) a trasformarsi in prodotti pregiati di biocosmetica, creme per il viso firmate Lajatica – come la tenuta di Bocelli - che grazie all'alta concentrazione di Resveratrolo garantiscono potenti benefici contro l'invecchiamento della pelle. A Matteo Bacci, dunque, spetta il riconoscimento nella categoria Fare Rete.

L'agri-bibita calabrese e le case in paglia dalla Sardegna

Si segnala per la Creatività del progetto Glauco Gallo, che in Calabria ha ideato un'agri-bibita a base di succo di clementine della Piana di Sibari (il 20% sul totale del prodotto, senza conservanti e zuccheri aggiunti). Per la categoria Sostenibilità, invece, si vola in Sardegna, dove l'azienda di Luisa Cabiddu si è specializzata nella costruzione di case ecocompatibili realizzate in paglia di grano Senatore Cappelli, argilla e legno da filiera controllata, innovando il settore della bioedilizia.

La birra del terremoto. Con gli scarti del pane

Mentre fa bene a un territorio piegato proprio dalla furia della natura l'agribirra di Claudio Lorenzini, vincitore del premio per la categoria Campagna Amica. L'Alta Quota è un brand che porta in dote l'acqua che sgorga a 1600 metri di altitudine, sulle montagne tra Amatrice e Leonessa, in quella parte del Lazio ferito dal terremoto di due anni fa; gli stessi cereali utilizzati nel processo brassicolo crescono ad alta quota sul territorio reatino e diverse sono le etichette prodotte dall'inizio dell'avventura. Il premio spetta però alla birra realizzata con gli scarti del pane invenduto, che nuovamente centra l'attenzione sulle virtù delle giovani realtà sostenibili (Alta Quota è anche un'eccellenza dell'economia circolare e del business green).

La Spa con le api e la fattoria degli animali rari

In Trentino arriva il premio Impresa3.Terra, conquistato dal progetto Beewellness di Matteo Andreatti; un'insolita forma di wellness che propone un'esperienza a stretto contatto con le api, ospiti di una struttura in legno, nel mezzo di un bosco, sdraiati su letti in fieno per respirare il profumo del miele e della cera, e ascoltare il ronzio delle api, grazie agli alveari che circondano l'edificio (le api si muovono dietro a fitte grate che si aprono nelle pareti).

Chiude il cerchio il premio Noi per il Sociale, che individua l'impresa del giovane rifugiato nigeriano Jeffery Eromosele, scappato dai terroristi di Boko Haram per ritrovare una casa nelle Marche, dove nel 2015 incontra la famiglia Gasparini, proprietaria di un vecchio allevamento di cani dismesso. Qui Jeffery coltiva l'idea di realizzare un'Arca di Noè per animali della tradizione contadina a rischio d'estinzione; oggi nella fattoria convivono centinaia di razze, oche, emù, asini, galline rare e anatre mute, e Jeffery apre la sua Arca alle visite didattiche, oltre che al bird watching e ai percorsi olfattivi. A ben guardare pure un ottimo esempio di creatività, sostenibilità e saper fare rete.

 

a cura di Livia Montagnoli

Tre Bicchieri. Parla Eva Baratta della Tenuta Monteti

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Solo tre etichette per raccontare la Maremma più solare e arcaica, a un passo dalla mondanità di Capalbio. Solo tre i vini della Tenuta Monteti, che conquista il primo Tre Bicchieri con il suo Caburnio.

 

Capalbio è tante cose insieme. Capalbio è mare, è l’ultima spiaggia, è il ritrovo della sinistra romana vestita di bianco, è ispirazione di molteplici luoghi comuni. Ma Capalbio è prima di tutto un territorio bellissimo, ancorché incontaminato. Capalbio è la possibilità di godersi un tratto di costa tutto per sé anche alle 12 di Ferragosto, basta camminare 15 minuti; Capalbio è perdersi nel suo interno rurale. Ci immettiamo sulla Sgrilla, la SS 74, dove è più facile incontrare cinghiali, lepri e istrici che essere umani. Qui, nel 1998, Paolo Baratta e la moglie Gemma hanno dato vita al progetto Tenuta Monteti, oggi diretta con passione dalla figlia Eva Baratta e il marito Javier Pedrazzini. A vent’anni dal via, scatta il primo Tre Bicchieri: lo porta a casa il Caburnio 2014.

Eva Baratta

 

Eva, ci racconti le peculiarità di questa zona: clima, terreni?

Noi siamo giù in questa punta meridionale della Maremma, con la meravigliosa presenza del mare a 15 chilometri. Sono zone molto calde, ma fortunatamente siamo nell’entroterra, incantevole, protetto dal colle Monteti da cui prendiamo il nome, che ci regala questa costante brezza, un toccasana per le piante. I nostri terreni sono sassosi, con strati di argilla, abbiamo studiato tanto prima d’impiantare. È una zona incantata, piena di possibilità.

 

Come nasce il Caburnio?

Fina dall’inizio abbiamo deciso di concentrarci su poche etichette. Abbiamo solo tre vini, il Monteti, il TM rosé e il Caburnio: la maremma solare, fragrante, con la sua struttura e carattere ma dotato di bevibilità inusuale per quest’angolo meridionale. I vitigni sono da sempre il cabernet sauvignon, il merlot, e l’alicante bouschet che è quello che dona freschezza e tiene a bada il tenore alcolico del vino. Per noi è un vino molto territoriale, di ricerca, pur essendo un secondo vino.

 

Avete puntato da subito sulle varietà internazionali. In zona il ciliegiolo sta dando risultati interessanti, avete fatto un pensiero?

La nostra scelta sulle varietà è stata dettata dai caratteri del terreno, altre varietà come il sangiovese non avrebbero dato risultati importanti. È stata una scelta di qualità. Ora abbiamo una conoscenza profonda delle nostre vigne, palmo a palmo, e siamo convinti di poter tirare fuori ancora molto. Dunque, non vogliamo moltiplicare i vini, ma andare sempre più a fondo e fare meglio con ciò che abbiamo.

 

Quella quercia che spunta in mezzo al vostro vigneto cosa rappresenta?

Beh, è una quercia famosa. Quella quercia fece la storia del PDS, è entrata nel simbolo del partito fondato da Occhetto. In vendemmia ci giriamo intorno con grande, grande attenzione.

 

Come sta cambiando Capalbio? A livello turistico, di eventi, avete fatto gruppo con le altre aziende del territorio?

Storicamente, la nostra è una delle zone più povere della toscana, qui l’agricoltura specializzata ha una storia recente, iniziata circa 20 anni fa. Negli ultimi anni sono nate tante realtà interessanti: è un’area che ha tanto da dare sotto tanti aspetti.

Abbiamo creato un gruppo di produttori, Capalbio Vino, con cui organizziamo eventi per far conoscere la ricchezza di queste terre che possono vivere tutto l’anno, penso a percorsi per i ciclisti, le camminate tra i boschi, il mare e le colline impervie. Ora molti stranieri si stanno spingendo qui per visitare e conoscere delle chicche. Un turismo di qualità che spero possa spingere anche ristoranti, piccoli artigiani e produttori per alzare l’offerta e salire di qualità. Nei prossimi 10 anni conto molto sulle nuove generazioni.

 

Due posti del cuore da consigliare in zona?

Mi piace moltissimo salire sul Monteti fino a dove arriva il nostro campo perché da lì si vede questa Toscana ancora medievale, arcaica, la natura incontaminata, ci sono punti ancora magici. C’è un fascino misterioso, il rinascimento non è arrivato da queste parti. Altro percorso che consiglio, e che identifico con il Caburnio, sono le strade che da Monteti puntano verso Manciano e Pitigliano: quelle colline dolci, quei boschi e campi che si alternano li trovo semplicemente deliziosi.

 

Uno dei punti deboli della zona è proprio la ristorazione. I menu sono fermi da tanti anni, si fa poca ricerca sul prodotto, sul vino. E sul personale. Spesso l’offerta, più che semplice, è sciatta, seduta su un certo tipo di turismo nostalgico. Ci consigli qualcosa?

Poteva essere vero forse in passato. Oggi c'è ovunque ambizione e nuova energia oltre alla gran cura per la tradizione, nel centro e dintorni. Una delle mie ultime scoperte è la Locanda di Ansedonia dove c’è un ragazzo fantastico, Nicola Terni. Con il fratello Luca si sono inventati una formula divertente basata su grandi carni alla griglia e prodotti locali. Il personale è squisito, professionale, e c’è tanta passione sul vino. Da provare.

 

Tenuta Monteti - Capalbio GR - Strada Provinciale Sgrilla, 6 - 0564 896160 - https://www.tenutamonteti.it/

 

a cura di Lorenzo Ruggeri

 

Room Mate a Roma. I progetti del gruppo d’ospitalità spagnola nella video intervista a Kike Sarasola, che pensa anche alla ristorazione

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Dopo Milano e Firenze, la catena alberghiera spagnola debutta a Roma, ma in forma inedita: 24 appartamenti esclusivi all’interno di Palazzo Rhinoceros, con ristorante di supporto. E nella Capitale i progetti di Kike Sarasola non finiscono qui. 

 

Room Mate. Una catena alberghiera di personalità

Si presenta per la prima volta a Roma, ma Kike Sarasola è un imprenditore d’esperienza. È suo il nome che si nasconde dietro alla celebre catena alberghiera Room Mate, “un concept d’hotellerie nato con l’idea di personalizzare l’esperienza del viaggiatore guidandolo alla scoperta di ogni città come farebbe un amico del posto” spiega lui mentre ripercorre le tappe di un successo testimoniato da oltre 20 aperture in tutto il mondo. Per ogni albergo del gruppo, battezzato in Spagna nel 2005, la propria personalità e un’identità visiva studiata insieme a grandi progettisti e designer di fama internazionale, soddisfacendo a pieno il concetto di boutique hotel. Kike e il suo compagno detengono il 70% della società, al gruppo di Zara spetta l’altro 30% di un’impresa spagnola che ha conquistato i palcoscenici internazionali, e solo di recente si è affacciata in Italia, a Milano (dove Room Mate raddoppierà nel giro di 18 mesi con un nuovo indirizzo a San Babila) e Firenze, “due città che beneficiano di una bella vivacità culturale, specie Milano, che dopo Expo vive un’evoluzione continua, ed è diventata una meta attraente per i viaggiatori di tutto il mondo”. Con l’Italia, insomma, l’imprenditore spagnolo ha un ottimo feeling, e il nuovo investimento romano lo conferma.

Kike Sarasola a Roma

Nella Capitale Sarasola esordisce con una nuova forma d’accoglienza per il brand Rooms of Rome, declinazione romana di un progetto di più ampio respiro ribattezzato Rooms of the World: ospitalità esclusiva presso appartamenti d’autore, che nel caso specifico hanno preso forma all’interno del nuovo polo culturale allestito da Alda Fendi al Velabro, con la complicità di Jean Nouvel, che ha curato il restyling di un insieme di ex case popolari con vista mozzafiato sui Fori e sul Palatino. A Palazzo Rhinoceros, che solo qualche giorno fa ha aperto le porte al pubblico, il gruppo di Sarasola gestirà 24 appartamenti progettati all’insegna della domotica e dell’equilibrio tra preesistenze architettoniche e soluzioni contemporanee, “un modo nuovo di fare accoglienza, che prevede la personalizzazione dell’esperienza di viaggio attraverso un gran numero di servizi aggiuntivi proposti all’occorrenza. Una sorta di compagnia dei sogni, perché il vero lusso è l’esperienza”.

 

Servizi e ristorazione

E a questo proposito, a Palazzo Rhinoceros il gruppo gestirà anche la proposta di ristorazione attraverso l’alleanza stretta con Caviar Kaspia, prima vera prova nel mondo della ristorazione d’albergo per Kike e il suo team. Ma l’intenzione è quella di approfondire in modo crescente la conoscenza del settore: a San Sebastian, da qualche mese, il gruppo ha aperto il pintxos bar Gorka, dentro l'omonimo albergo di Room Mate in città. Un’esperienza soddisfacente, seppur informale, che ha spinto Kike a guardare con interesse le potenzialità della ristorazione. Non a caso, nell’imponente piano di aperture previste a Roma – cinque nei prossimi anni, cominciando da via della Purificazione, con inaugurazione prevista per settembre 2019, e poi al Celio, a Via Nazionale\Quirinale e infine un grandioso progetto a Trastevere – potrebbe entrare anche un’offerta gastronomica che agevoli un modo ancora diverso di concepire l’ospitalità, con formule più accessibili sul genere dell’ostello di moderna impostazione: spazi curati, servizi dedicati, aree di aggregazione per chi vuole lavorare, rilassarsi o trascorrere una serata di svago. Tutto questo, però, ce lo racconta più nel dettaglio Kike, che abbiamo incontrato sulla terrazza di Palazzo Rhinoceros.

 

a cura di Livia Montagnoli

video di Massimiliano Tonelli

La Cina è la nuova superpotenza del vino? Il caso del Ningxia

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La produzione di vino cinese continua a crescere, incassando premi e interesse commerciale. Ma la strada da fare è ancora lunga.

 

Al vertice del campionato di crescita dell'economia mondiale negli ultimi 25 anni, l'Asia è anche il continente in cui l'industria del vino e degli alcolici ha subito la maggiore evoluzione. Attualmente rappresenta quasi il 30% della produzione globale ed è il principale consumatore mondiale di alcolici. La Belt and Road Iniziative (è questo il nome del progetto del Governo nato nel 2013) punta alla connettività infrastrutturale e commerciale dei Paesi euroasiatici alla stregua dell'antica Via della Seta, la rotta commerciale tra Oriente e Occidente. L'ambizione è di rispecchiare le dinamiche che si diffondono dalla Cina al resto dell'Asia, proprio come la Via della Seta ha promosso il commercio e la comunicazione tra loro nei secoli passati. L'Asian Wine Producers Association (AWPA), presieduta dall'indiano Sumedh Singh Mandla, è nata nel 2013 in occasione Honk Kong International Wine & Spirit Fair. I produttori associati sono oltre un migliaio da Cambogia, Cina, India, Indonesia, Giappone, Corea, Birmania, Taiwan, Tailandia e Vietnam. Attualmente sono due i criteri per l'adesione delle aziende: devono produrre il 100% di vino d'uva e l'uva deve essere coltivata localmente almeno all'80%. Nonostante le sfide poste dai climi tropicali, la produzione di vino “New Latitude” è destinata a diventare un marchio per l'esportazione.

 

La vite in Cina

Le regioni vinicole cinesi sono distribuite in tutto il paese, sebbene siano localizzate principalmente in Shandong, Hebei, Jilin, Tianjin, Xingiang, Ningxia, Pechino e Gansu; l'area della penisola di Jiaodong nello Shandong rappresenta circa la metà di produzione vinicola nazionale e già nel 2015 erano attive 221 aziende vinicole. Inoltre alcune province meridionali come Guangxi, Yunnan, Sichuan, Guizhou e Jiangxi stanno progettando di sviluppare l'industria vinicola.

 

Il vino cinese può rompere gli equilibri mondiali ?

Secondo il professore Li Domei, la Cina "pur essendo la seconda estensione di vigneto nel mondo impiega per il vino solo il 15% delle viti. Inoltre, rispetto alla popolazione, la produzione vinicola cinese è estremamente piccola e poco competitiva" economicamente, infatti, alcune pratiche risultano molto onerose: "interrare e riportare alla luce le viti ha un costo pari a un intero anno di coltivazione in Europa", dice Li Domei. Senza contare che l'alcolico di riferimento per la popolazione cinese è il baijiu, acquavite ottenuta dalla distillazione dei cereali, per lo più del sorgo. Il vino è stato promosso dalle elites proprio in funzione salutistica cioè come un prodotto da stile di vita sano. E questo ha generato un aumento della domanda cinese di vino, che ha molto agevolato le importazioni, anche se la conoscenza continua a essere minima e i consumi pro-capite di vino sono ancora bassi (1,24 lt). L'occidentalizzazione dei consumi ha favorito sia l'importazione di vino dall'estero – costoso vuol dire status - sia il fenomeno della contraffazione e della falsificazione dei marchi stranieri più famosi e pregiati.

 

La viticoltura cinese è un fenomeno recente?

Tutt'altro. Le varietà di uva da vino dell'Europa e dell'America sono state introdotte nel 18° secolo dai missionari stranieri. Lo racconta il professor YulinFang,presidente del Collegio di Enologia della Nortwest A&F University:“Nel 1892, la Shandong Yantai Changyu Company impiegò per la prima volta le varietà europee nei vini pregiati”. Nel tempo, la presenza de vitigni si è modificata:“Negli anni '50, arrivò parte del gruppo di varietà del Mar Nero (Proles Pontica Negr.) dall'Europa dell'Est e dall'ex Unione Sovietica. Dopo gli anni '70, fu la volta di un gran numero di moderne varietà, formando un nuovo modello di uva da vino cinese. Dopo gli anni '90, il Progetto per la Cooperazione cino-francese del Ministero dell'Agricoltura e la zona di produzione Ningxia hanno introdotto uve da vino europee e asiatiche". Oggi l'industria vinicola si trova in un periodo di ristrutturazione, dei prodotti e del mercato, e di rapidi cambiamenti. “Secondo i dati di oltre 60 grandi aziende vinicole della China Wine Association, la produzione nel 2015 è stata inferiore del 37,8% rispetto al 2010” dice ShaohuaLi,ricercatore dell'Institute of Botanic-Chinese Accademy of Sciences “Mentre sul fronte dei vini importati lo sviluppo continua rapidamente: 58mila tonnellate nel 1997, 554mila tonnellate nel 2015, 638mila tonnellate nel 2016 e 746mila tonnellate nel 2017 (181mila tonnellate di vino sfuso per 2,79 miliardi di dollari)”. Se alcune aree vinicole cinesi hanno l'ambizione di definirsi Bordeaux della Cina, molte non hanno una chiara comprensione delle possibilità e dei vantaggi dei loro vini, tanto che alcune delle grandi imprese vinicole cinesi si sono trasformate da produttori di vino a commercianti di vino (vini imbottigliati importati e vini sfusi vengono commercializzati come vini cinesi), ponendo delle sfide al futuro sviluppo dell'industria vinicola cinese.

 

Ningxia e lo sviluppo della viticoltura cinese

Nata come regione autonoma 60 anni fa, in passato ha avuto una storia di benessere perché la capitale Yinchuan è stata una tappa della Via della Seta. Con il suo declino come via commerciale, il Ningxia divenne un'area povera: miniere di carbone, un'agricoltura di sussistenza, a rischio di desertificazione, abitata dalla minoranza etnica degli Hui – poco più di un terzo della popolazione - di religione musulmana. Solo negli anni Novanta dello scorso secolo, lo stato cinese investì in infrastrutture e in particolare in una rete di canali per l'irrigazione, derivata dal Fiume Giallo, recuperando alla coltivazione ampie aree sotto i monti Helan. La catena montuosa svolge un ruolo perché funge da barriera naturale alle tempeste di sabbia provenienti dal deserto del Gobi in Mongolia. Situata tra il 30esimo e il 50esimo di latitudine dell'emisfero settentrionale, i suoli sabbiosi e rocciosi, il clima continentale secco con estati calde e inverni rigidi, la forte escursione termica, la piovosità contenuta (200 mm/anno) ma integrata dalla possibilità di irrigare, hanno creato le condizioni per la coltivazione della vite. Il professor Demei Li, figura di spicco del mondo del vino, ha spiegato le specificità del Ningxia: "Circa 3000 ore di luce solare nelle colline orientali del Monte Helan, 1100 metri sul livello del mare, forte radiazione ultravioletta, grande differenza di temperatura tra giorno e notte e buon sistema di irrigazione, favoriscono produzione di vino rosso secco di alta qualità. L'umidità dell'aria è piuttosto elevata durante la maturazione pertanto sono necessari i controlli precoci per evitare le malattie". Junxiang Zhang, ricercatore e vice presidente della Wine School della Ningxia University, ha evidenziato che "il basso contenuto di nutrienti contenuto nel suolo e gli strati di terreno sottili sono un ostacolo allo sviluppo del sistema radicale della vite mentre il clima freddo e secco che richiede di interrare la vite durante l'inverno (anche -40°C), rende elevati i costi di produzione (+35%) e difficile la realizzazione di impianti molto estesi. Da qui la necessità di sviluppare sistemi di potatura adatti all'interramento, di migliorare e proteggere la biodiversità dei suoli".

 

Quali uve?

Attualmente le uve più diffuse nella regione sono Cabernet Sauvignon (la più coltivata), Merlot, Pinot Noir, Syrah, Marselan, Chardonnay e Riesling italico e percentuali più ridotte di Gamay e Semillon. Esistono poi circa 39 varietà di uva selvatica, alcune delle quali sono state allevate in altri Paesi. Ma non solo. Nella regione del Ningxia si sperimenta anche il sangiovese, che qui solitamente raggiunge la maturazione entro la prima settimana di ottobre, quindi nei tempi canonici, clima permettendo. La descrizione cinese recita così: “Originaria dall'Italia, ci sono piccole piantagioni nel Ningxia. È una varietà a maturazione tardiva, bacche medio-grandi, resa medio-alta. Colore rubino, con aroma di tabacco e spezie. Adatto per la produzione di vini rossi secchi fruttati o vini rosati”.

Nel 2016 le 100 aziende locali hanno prodotto circa 120 milioni di bottiglie. Inoltre i numerosi esperti francesi ingaggiati dallo Stato cinese, hanno aperto la strada anche ad investimenti di cantine europee. La gran parte ha sede lungo la locale "Strada del vino" tra cui Domaine Chandon China, Pernod Ricard Yang Yang International, Chateau ChangYu Moser XV, COFCO Great Wall Tianfu Winery, una delle più grandi con 1500 ettari di vigneto e moltre altre ancora, sia di proprietà statale sia private come le prestigiose Kanaan Winery, Helan Quingxue Winery, Silver Heights Winery, Jade Vineyard, ecc. Grazie a loro il Ningxia è una delle aree emergenti tra le 10 più importanti della Cina e i suoi vini hanno conquistato riconoscimenti nei più importanti concorsi enologici del mondo.

Nonostante i miglioramenti qualitativi, il vino cinese è ancora ostacolato dalla sua scarsa reputazione e dagli elevati costi di produzione che minano anche la sua competitività a livello internazionale. L'obiettivo oggi è di sviluppare la ricerca sulle varietà autoctone in modo di sviluppare caratteristiche regionali e varietali, favorire il turismo legato al vino, agevolare il consumo in funzione salutistica. Si prevede che la Cina diventerà il secondo Paese consumatore al mondo per valore entro il 2021, davanti alla Francia. Il Ningxia con le sue cantine vuole essere un attore di primo piano di questo processo.

 

a cura di Andrea Gabbrielli. Ha collaborato Antonella De Santis

 

 

Tutto sulla cipolla: storia e curiosità delle varietà italiane

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Rossa, bianca, piatta, dolce, pungente: quante sfumature può assumere la cipolla? Da gustare cruda o gratinata al forno, da utilizzare per i soffritti o come base per una buona zuppa, si tratta di una materia prima imprescindibile nella nostra cucina. Ci siamo fatti raccontare da un esperto le più importanti varietà italiane. 

 

Croccante da cruda, morbida se cotta, profumata e saporita, la cipolla è uno dei prodotti base della dieta mediterranea e della cucina italiana. Eppure, nel tempo è spesso passata in secondo piano: sarà per l'odore intenso e pungente oppure per il suo effetto lacrimogeno, ma negli ultimi anni è stata gradualmente abbandonata. Nonostante si tratti di un alimento che per tempo ha sfamato intere famiglie di contadini.

 

cipolle

Missione Cipollaria

Da questa semplice osservazione, nasce la ricerca di Giorgio Pace, l'ideatore di Piccola Bottega Merenda, tempio degli ortaggi e dell'agricoltura naturale e sostenibile a Roma, nel quartiere Tuscolano. Un professionista che si è fatto portavoce dell'agroalimentare di qualità, selezionando le aziende migliori e i produttori di nicchia. Il suo ultimo progetto si propone di rievocare sapori talvolta dimenticati, riportando in auge il prodotto contadino per eccellenza: la cipolla. Si chiama Cipollaria ed è un'iniziativa pensata per presentare le tante varietà autoctone italiane, mese per mese, fino alla prossima estate. “Ora stiamo lavorando con il Friuli Venezia Giulia e la Val d'Aosta, poi riprenderemo verso aprile/maggio, il periodo più florido per la cipolla è il mese di giugno”. A ogni territorio, la sua cultivar. A ogni varietà, le sue caratteristiche.

 

cipolla di Vatolla

La ricerca delle varietà

L'idea è nata quasi per caso e si è trasformata in breve in una vera sfida, portata avanti con costanza e passione. “Ci siamo detti: saranno al massimo una ventina in tutto”. Invece, solamente nella sezione dei presìdi Slow Food se ne contano ben 10, e poi ci sono le Dop, le Igp, le Deco, le denominazioni comunali. “Solo in Piemonte ce ne sono 15! Sarà un ricerca molto lunga”. È un viaggio attraverso le più suggestive località italiane: dalle colline marchigiane - “abbiamo impiegato molto tempo a trovare una cipolla di Pedaso da agricoltura naturale” - ai paesaggi umbri di Cannara, “per ora qui esistono solo cipolle da agricoltura convenzionale, ma siamo fiduciosi”. Perché per Giorgio non è sufficiente trovare le colture di ogni regione: sostenitore convinto dell'agricoltura biologica e biodinamica, il fruttivendolo più specializzato della Città Eterna va alla ricerca dei prodotti creati secondo natura.

 

cipolla

Il ruolo della cipolla nell'economia

In questo modo, scopre sapori e profumi autentici, ma anche storie, racconti di genti e popolazioni, tracce di un passato ancora vivo, che pulsa in ogni angolo del Paese. “Per l'economia rurale, la cipolla è sempre stata fondamentale”. Glielo raccontano i ragazzi di Rasoterra, piccola fattoria familiare nella Valle dell'Aso impegnata a valorizzare l'agricoltura rigenerativa,che insieme al team di Assam Marche, l'agenzia per i servizi nel settore agroalimentare locale, “ci hanno spiegato che a Pedaso un tempo c'era una stazione ferroviaria, oggi in disuso, da cui partivano i carichi di cipolle che venivano esportati nelle altre regioni”. Sarà anche un alimento povero, il cibo dei contadini, ma è un prodotto umile “che smuove grandi economie”. Non solo: “Proprio come l'aglio, la cipolla viene usata nel campo dell'agricoltura naturale per depurare il terreno, quindi è imprescindibile anche per altre coltivazioni”.

 

cipolla di acquaviva delle fonti

La risposta della clientela

Da una parte c'è il lavoro di ricerca, dall'altra si cerca di fare informazione sul prodotto. “La cipolla piace quasi a tutti, solo che molti la evitano per via dell'odore e per il suo potere lacrimogeno” spiega Giorgio, che aggiunge:“Tante macellerie e botteghe della zona ora la stanno acquistando, ma anche molti clienti privati. Bisogna educare il consumatore e invitarlo all'assaggio: il palato del pubblico non è così anestetizzato come pensiamo, e la differenza di qualità si percepisce”. Il prezzo? “Si va da un minimo di 2,50 a un massimo di 4 euro al chilo, a seconda della varietà”.

 

cipolla egiziana ligure

La base dell'alimentazione

Mentre si racconta, Giorgio accoglie in bottega Peppino, un personaggio quasi mitico, fra i volti simbolo della bottega: agricoltore da sempre, referente di fiducia per le colture più antiche e le sementi da recuperare, “un agricoltore da giardino, come lo chiamo io. Uno di quelli che in casa ha piantato un patrimonio inestimabile di biodiversità”. 81 anni e non sentirli, è proprio il caso di dirlo: Peppino è una vera forza della natura, contadino per vocazione e ricercatore per scelta, che da anni cura con amore, e con l'esperienza di una vita, i suoi ortaggi antichi. “Un giorno l'imprenditore floricolo ligure Marco Damele mi ha parlato della varietà egiziana ligure, che funziona al contrario: impianto radicale sotto, bulbo nella parte aerea”. Una notizia che incuriosisce Giorgio, pronto ad andare alla ricerca della cipolla, ma il tempismo di Peppino è imbattibile: “Entra Peppino e mi porta proprio questa tipologia. Mi racconta che per anni ha sfamato intere generazioni, uomini in guerra...un tesoro da preservare con cura”.

 

cipolla di tropea

La coltivazione

Ma come si coltiva la cipolla? “Occorre estirpare le erbacce in campo costantemente, perché è molto delicata e soffre la vicinanza di erbe infestanti. Di solito, in agricoltura rigenerativa si utilizza un attrezzo chiamato Terratech, una sorta di aratro con filamenti posti nella parte superiore in grado di togliere i germogli delle piante infestanti ”. In questo modo, diminuisce il lavoro “e il terreno non compatterà, evitando di distruggere la microbiologia”. Naturalmente, poi, ogni varietà e ogni area ha le sue regole: “Per esempio al Nord Italia solitamente si opta per la coltivazione esagonale, quindi si posizionano i filari a forma di esagono con delle specifiche attrezzature, così che in una stessa cubatura di terreno se ne possano piantare di più”. Un mestiere impegnativo, quello del coltivatore di cipolle, “che non dà grandi rese”.

 

cipolla dorata di Parma

Le varietà italiane

Impossibile citare tutte le cultivar di cipolla della Penisola, ma abbiamo cercato di radunare le 25 tipologie più particolari, tipiche dei diversi territori.

Cipolla di Cavasso e della Val Cosa: varietà dai torni rosati tipica del Friuli occidentale, con un cuore croccante e dolce.

Cipolla di Alife: cipolla antichissima del Casertano, coltivata già ai tempi della dominazione romana. In passato utilizzata come analgesico, presenta una buccia di colore rosso ramato e un gusto piuttosto dolce.

Cipolla di Pedaso: rossa e piatta, si presta bene alle preparazioni di pesce, ma è ottima anche abbinata a formaggi, sotto forma di conserva, oppure da utilizzare nel soffritto, poiché non ha molti fattori lacrimatori.

Cipolla di Rialto: è stata avanzata da pochi mesi la proposta di riconoscimento De.Co. per la cipolla del comune di Rialto, una delle varietà più rappresentative della cucina locale, impiegata sia cruda che cotta.

Cipolla di Suasa: coltivata nelle zone di Pesaro Urbino e Ancona fin dai primi del Novecento, è parte integrante della dieta locale, tanto da attribuire agli abitanti il soprannome di “cipollari”. Ramata fuori, violacea all'interno, è stata per tempo dimenticata e recuperata poi a partire dagli anni 2000.

Cipolla Paglina di Castrofilippo: la raccolta inizia a giugno, quando le foglie sono ancora verdi, e continua fino ad agosto, momento in cui si celebra la Sagra della Cipolla. È caratterizzata dal colore giallo pallido.

Cipolla rossa di Tropea: dolce e croccante, si distingue per il suo colore rosso acceso, dovuto all'elevato contenuto di antocianine, composti polifenolici appartenenti alla famiglia dei flavonoidi. È ricca di vitamina C, E, ferreno, zinco e magnesio.

Cipolla ramata di Montoro: l'aroma dolce e delicato rende questa varietà – coltivata nell'area a metà tra la provincia di Avellino e quella di Salerno - perfetta per la preparazione della genovese. Internamente presenta delle striature bianche e violacee, mentre all'estero è di colore ramato.

Cipolla di Giarratana: si distingue per le grandi dimensioni, la forma schiacciata e piatta e il colore bianco-brunastro. La si può gustare in molti modi, ma risulta particolarmente buona se inserita all'interno delle focacce oppure gratinata al forno.

Cipolla dorata di Parma: probabilmente la varietà più comune e diffusa, dalle sfumature bionde e dorate e il sapore piuttosto neutro, non particolarmente intenso. È indicata per i soffritti.

Cipolla Vernina di Firenze: l'insolita forma a trottola del bulbo leggermente schiacciato ai lati rende unica questa varietà fiorentina dal colore rosso brillante. Saporita e pungente, è perfetta per chi ama i gusti forti e decisi.

Cipolla bianca di Barletta: cipolla molto delicata, generalmente consumata sottaceto o fresca.

Cipolla bianca di Chioggia: varietà antica originaria dell'Iran, arrivata in Egitto attraverso la civiltà assiro babilonese, approdata poi in Grecia e infine in Italia e in tutto il bacino mediterraneo. Dal bulbo arrotondato e schiacciato, viene usata soprattutto per le preparazioni di pesce in saor, ovvero marinato con olio, aceto e cipolla.

Cipolla ramata di Milano: rossa all'esterno, bianca all'interno, profumata e con una leggera pungenza. Può essere conservata a lungo.

Cipolla borettana: piatta e schiacciata, presenta dei bulbi piccoli perfetti per essere messi sottaceto. La sua coltivazione è concentrata nella Bassa padana, soprattutto nel Parmense.

Cipolla rossa piatta di Bassano: ne esistono due diverse varietà, una precoce e una tardiva. In qualsiasi caso, presenta un colore rosa chiaro e un sapore molto dolce.

Cipolla di Vatolla: originaria dell'omonimo piccolo borgo del comune di Perdifumo (Salerno), è una delle specialità alla base della dieta mediterranea, teorizzata e messa a punto proprio nel Cilento dallo scienziato statunitense Ancel Keys. Ne esistono due tipi, uno dalla forma a trottola e un altro più affusolato. Dolce e delicata, ha un odore lieve e un sapore non eccessivamente pungente.

Cipolla rossa di Acquaviva delle Fonti: il colore viola intenso e la forma appiattita caratterizzano questa varietà pugliese dolcissima, seminata a settembre e raccolta tra luglio e agosto. Nasce in terreni ben drenati e ricchi di potassio, grazie alla presenza di acqua dolce che sgorga dalla falda sotterranea perenne.

Cipolla di Certaldo: ancora oggi i certaldesi sono chiamati “cipolloni”, proprio per il loro stretto legame con questo prodotto. Si coltiva in terreni sabbiosi o argillosi e viene solitamente gustata sotto forma di confetture o creme da spalmare sul pane toscano.

Cipolla di Sermide: coltivata nei comuni vicini al Po, si distingue per il sapore molto dolce se cresciuta in terreni sabbiosi, per il carattere pungente se invece è stata raccolta da terreni argillosi.

Cipolla egiziana ligure: detta anche “cipolla albero”, affonda le sue radici in epoche lontane, anche se le sue origini non sono certe. Coltivata prevalentemente in Liguria, è molto diffusa nella zona di Ventimiglia e della Valle della Nervia. Dalla buccia spessa e coriacea, si adatta molto bene alla cucina ligure, e può essere impiegata sia cruda che cotta.

Cipolla di Brunate: bulbo dalla pezzatura medio-piccola e la forma ovale, con un profumo intenso e fragrante. In cottura si sfalda e assume sfumature ancora più dolci.

Cipolla di Cannara: uno dei prodotti più importanti di questa zona dell'Umbria, tanto da avere una Sagra dedicata. Coltivata fin dai tempi antichi, cresce in terreni ricchi di acqua e potassio, e risulta dolce, morbida e digeribile.

Cipolla di Banari: fra le colture sarde più note, la cipolla di Banari presenta un bulbo di dimensioni piuttosto grandi e dalla forma appiattita. È versatile e delicata, dà il meglio di sé se cotta al forno.

Cipolla bionda di Cureggio e Fontaneto: da sempre vocati alla coltivazione di patate e cipolle, i comuni di Cureggio e Fontaneto, nella pianura novarese, hanno fatto di questo bulbo il simbolo della propria cucina. Protagonista di frittate e zuppe contadine in passato, oggi viene utilizzata in tanti modi e per molto tempo: riesce, infatti, a conservare la propria dolcezza spiccata a lungo.

La ricetta: confettura di cipolle rosse

 

Piccola Bottega Merenda - viale Anicio Gallo, 59 - 0671510455 - www.facebook.com/piccola40mq

a cura di Michela Becchi

 

 

Operazione nostalgia. La rinascita delle trattorie: Licia e Goffi a Torino, Cicala a Genova, Moriggi a Milano. E il Diana di Bologna si salva

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Molte chiudono per la difficoltà di resistere al mercato della ristorazione che cambia. Ma le trattorie storiche sono un bene da salvaguardare. A Torino ci pensa il trio del Plin, con Cantina Licia ed EraGoffi. A Genova rinasce l'Ostaia Cicala, a Milano la Taverna Moriggi, mentre è tutto nuovo (ma vecchio) il Diana di Bologna. 

 

La trattoria oggi

L'Italia è ancora il Paese delle trattorie? Periodicamente torna alla ribalta il dibattito sul valore delle insegne popolari in quanto baluardo dell'italianità a tavola. Di rinascita della osterie, con quanto ne consegue in termini di valorizzazione di quella biodiversità gastronomica che l'Italia ha tutto l'interesse a difendere, si parla sempre più spesso nel mondo degli addetti ai lavori, guardando con fiducia al periodo felice delle cucine di territorio, maturate lontano dalle grandi città in decenni di rapporto continuativo con le filiere locali. E anche questa è storia (e presente) della ristorazione italiana. Ma pure in città, dove le mutate abitudini alimentari impongono di sperimentare nuove formule imprenditoriali, la cucina tradizionale vive la sua ribalta spinta dall'iniziativa di giovani cuochi decisamente a proprio agio tra ricette della nonna e ingredienti contadini da riscoprire. Poi c'è il caso degli autentici vessilli della ristorazione “classica” che la cucina tradizionale l'hanno tramandata strenuamente e oggi fanno fatica a sopravvivere, schiacciati dal nuovo che avanza in città. Indirizzi di quartiere che hanno finito per rappresentare l'immaginario gastronomico di un tempo che fu, condensando i ricordi di una o più generazioni di amanti della buona tavola. E insieme sono diventati luogo di ritrovo, memoria delle buone abitudini, dei pranzi in famiglia e dele serate goliardiche con gli amici. Per molti che chiudono (e alcuni, molto meno numerosi, che resistono), altri rinascono a nuova vita. E sono diverse le dinamiche che possiamo seguire in questo caso.

 

Il precedente. Le Beccherie a Treviso

Qualche anno fa Treviso si stringeva intorno alla sua insegna più celebre, quelle Beccherie aperte nel lontano 1939 che vantano grande fama ben oltre i confini della città per aver inventato (ma la paternità è contesa con il Friuli) il tiramisù all'inizio degli anni Sessanta. Nel 2014, dopo l'abbandono del patron Carlo Campeon, il locale sotto i portici di piazza Ancillotto riapriva i battenti per iniziativa di Paolo Lai, imprenditore della ristorazione già noto in città capace di ripensare gli spazi storici in chiave moderna senza dimenticare il passato, con uno staff giovane bendisposto a recuperare le ricette che hanno fatto la storia del luogo.

Torino. In azione il trio del Plin

Simile per intenti è l'operazione che negli ultimi giorni ha visto scendere in campo a Torino tre professionisti già affermati del settore per la prima volta insieme con l'idea di riabilitare la memoria di due note tavole cittadine, entrambe chiuse per cessata attività. Loro sono Alberto Fele, Lorenzo Careggio e Marco Pandoli, che la società appena costituita hanno scelto di chiamarla semplicemente Plin. Il primo obiettivo è stato Mama Licia, trattoria popolare negli anni Settanta (il periodo più fulgido) e più volte passata di mano con ambizioni crescenti e alterne vicende, fino alla chiusura definitiva. Da qualche giorno il locale di via Mazzini ha riaperto come Cantina da Licia, ripensando l'attitudine popolare dell'insegna – resta la cucina semplice e di territorio del passato (ci sono anche i plin con sugo di arrosto) – con la spinta in più di una cantina ben fornita, 250 etichette messe insieme con la collaborazione del sommelier Antonio Dacomo. Mentre strizza l'occhio alle tendenze moderne l'idea di proporre ogni pietanza in duplice variante, al piatto (Porcellana) o in panino (Pane). Completano l'offerta Legno e Carta, taglieri e cuoppi.

In parallelo i tre soci hanno rilevato un locale che di storia ne ha vista passare moltissima, l'ex trattoria Goffi del Lauro aperta in corso Casale nel 1893 e poi vissuta nel corso di tutto il Novecento servendo i piatti della tradizione piemontese alla Torino bene. Fino al solito epilogo. In questo caso l'operazione nostalgia (col logo che richiama una fronda di lauro in memoria dei trascorsi) ha portato a diversificare l'offerta triplicando le proposte: EraGoffi è la tavola contemporanea (e 5 menu tra cui scegliere, anche mescolando le carte: carnivoro, erbivoro, onnivoro, benessere, esploratore) affidata al giovane Lorenzo Careggio (ex Carignano); Cantina Goffi è la sala con unico tavolo per otto persone; Casa Goffi, invece, sarà la formula bistrot a partire dalla prossima primavera, quando sarà possibile sfruttare lo spazio all'aperto sul fiume.

Genova. Riapre l'Ostaia Cicala

A Genova, intanto, il revival si gioca tra i caruggi. Un mese fa l'Ostaia Cicala – insegna ultracentenaria nascosta nel dedalo del centro storico – ha riaperto i battenti per iniziativa di del titolare dell'adiacente Soul Kitchen, nella vicina piazza dell'Agnello. L'intenzione, anche stavolta, quella di restituire alla città un pezzo del suo passato, venuto meno qualche tempo fa con la malattia dell'ultimo proprietario. In questo caso il ripristino è stato filologico: gli arredi sono quelli di un tempo, rinvigoriti dalle operazioni di ripulitura dello spazo; la cucina è quella di “un'osteria ruspante”, che però sarà aperta dalle prime ore del mattino per le colazioni con cappuccino e focaccia, e poi nel corso della giornata per spizzicare qualcosa al bancone, tra panissa, insalata di muscoli, frisceu, cundigiun. Oltre a qualche piatto caldo in arrivo dalla cucina di Soul Kitchen, come trippa e stoccafisso. Si prosegue con l'aperitivo, tra vini al calice e cocktail (compreso il classico genovese Biancamaro, vino bianco e vermouth).

La “nuova” Taverna Moriggi a Milano

A Milano il caso di scuola è quello della Taverna Moriggi, dagli inizi del Novecento all'interno di un palazzo seicentesco (l'antico Palazzo dei Morigi) come osteria popolare, dagli anni Sessanta solida tavola votata alla cucina regionale di tradizione milanese e toscana, come le origini della famiglia Liopi, che l'ha gestita fino al 2011. Poi il locale ha chiuso, portando con sé la sua atmosfera da osteria della vecchia Milano. E dopo un lungo restauro conservativo, da qualche settimana una giovane brigata under 30 l'ha riaperta in forma di ristorante contemporaneo, seppur tra pavimenti in cotto, pareti in mattoncini a vista, boiserie (e persino due colonne antiche), che contribuiscono a scaldare l'atmosfera, denunciando il legame col passato. In cucina c'è Andrea Gurzi (classe 1990), che si è formato con Sergio Mei e riparte dalla tradizione meneghina, ripensando i classici della cucina locale, dall'ossobuco al riso al salto.

 

Bologna. Riapre il Diana

L'ultima storia è quella di una speranza mai persa, quella di tenere in vita un simbolo della cucina bolognese anche davanti alla città che cambia. Così il Diana, dal 1909 faro della ristorazione tradizionale all'ombra delle Due Torri, è sopravvissuto al rischio chiusura, più volte paventato nell'ultimo anno, e dopo quattro mesi di ristrutturazione ha riaperto nel nuovo assetto (obbligato) con ingresso su via Volturno (in luogo della storica entrata su via Indipendenza, ceduta a una nuova attività commerciale). Qui, però, nulla è cambiato, a cominciare dalla proprietà: presente al taglio del nastro Eros Palmirani - socio al 50% con la famiglia Galletti - vera memoria storica del ristorante, commis di sala alla fine degli anni Cinquanta e oggi orgoglioso proprietario del Diana. Con lui anche il sindaco Virginio Merola, e tantissimi bolognesi, a testimoniare l'affetto della città. Spazi di poco ridimensionati, arredi storici e soprattutto la cucina di sempre: tortellini in brodo, lasagne, carrello dei bolliti, torta di riso. Perché la tradizione a tavola non stanca mai. E può ancora raccontare tante storie, come quella di Irina Steccanella, che sulla cucina tradizionale emiliana ha costruito il suo percorso, e all'inizio del 2019 – dopo due anni trascorsi all'azienda agricola Mastrosasso – aprirà la sua trattoria in città, semplicemente Irina. Per continuare a scrivere la storia delle trattorie bolognesi.

 

Cantina da Licia – Torino – via Mazzini, 50 – www.cantinadalicia.it

EraGoffi – Torino – Corso Casale, 117 – www.eragoffi.it

Ostaia Cicala – Genova – Vico Cicala, 27

Taverna Moriggi – Milano – via Morigi, 8 – www.tavernamoriggi.com

Diana – Bologna – via Volturno, angolo via Indipendenza - www.ristorante-diana.it/

 

a cura di Livia Montagnoli


Entonote. L'associazione culturale che promuove gli insetti da mangiare

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Giulia Maffei e Giulia Tacchini hanno creato nel 2015 un'associazione culturale a Milano con lo scopo di divulgare il tema dell'entomofagia per comunicare i valori di sostenibilità e nutrizione degli insetti.

 

Come insegna lo storico dell'alimentazione Massimo Montanari il cibo non è buono o cattivo in assoluto, ma qualcuno ci ha insegnato a riconoscerlo come tale. E dunque, l'organo del gusto non è tanto la lingua, ma il cervello“un organo culturalmente determinato - si legge ne “Il cibo come cultura” - attraverso il quale si imparano e si trasmettono i criteri di valutazione. Perciò questi criteri sono variabili nello spazio e nel tempo: ciò che in una determinata epoca è giudicato positivamente, in un'altra può cambiare di segno; ciò che in un luogo è ritenuto una ghiottoneria, in un altro può essere rifiutato come disgustoso”. Esempio concreto e attuale è rappresentato dagli insetti, sdegnati da molti e al tempo stesso protagonisti di menu blasonati, come per esempio quelli di René Redzepi o di Alex Atala.

Entonote-piatto con sopra un grillo

Gli insetti da mangiare. La situazione in Italia

In Italia rappresentano ancora un tabù, sia culturalmente che legislativamente (gli insetti per uso alimentare in Italia sono vietati), eppure rappresentano per molti il cibo del futuro. Tra le sostenitrici degli insetti da mangiare, ci sono due Giulie: Giulia Maffei e Giulia Tacchini. Biologa e comunicatrice scientifica la prima, food designer la seconda; insieme hanno fondato a Milano nel 2015 Entonote, “un’associazione culturale che si occupa di divulgare il tema dell'entomofagia per comunicare i valori di sostenibilità e nutrizione che l’insetto commestibile si porta dietro”. Una tematica che hanno anche approfondito nel libro "Un insetto nel piatto: piccola guida al cibo del futuro". Ma che fanno esattamente? “Siamo un team creativo che organizza cooking show, workshop, allestimenti e laboratori o altri format a seconda delle richieste dei clienti. I quali sono di diverso genere: organizzatori di festival scientifici, organizzazioni private, aziende, agenzie nel campo della comunicazione e culturale. Il tema dell’entomofagia parla di storia, cultura, scienza, nutrizione, per questo motivo i nostri clienti sono molto vari”.

Un piatto che preparano le ragazze di Entonote

L’obiettivo di Entonote

L’obiettivo di Entonote è quello di indagare sui tabù alimentari, primo tra tutti l’insetto. “Attraverso i nostri eventi cerchiamo di comunicare i valori dell’insetto nel piatto per riuscire ad abbattere la barriera culturale che ci impedisce di vedere gli insetti come un comune alimento”. C'è chi ci prova proponendoli sotto forma di un alimento culturalmente familiare comela pasta (è il caso della collaborazione tra Riccardo Felicetti e Luciano Monosilio), loro, invece, puntano sugli insetti così come madre natura li ha fatti. “Siamo convinte che l'insetto nel piatto possa essere una nuova fonte di cibo sostenibile e ricca di nutrienti. Ad oggi è stato scientificamente dimostrato che nel mondo sono consumate, quindi possono essere considerate edibili, circa 1.900 specie di insetti. E quelle che si prestano al meglio per il mercato europeo sono Gryllodus sigillatus e Acheta domesticus - delle specie di grilli - le larve di Alphitobius diaperinus e Tenebrio molitor”. Che loro propongono all'interno di un menù di quattro portate, “si comincia, per esempio, con il grillo saltato con il cipollotto o la camola della farina essiccata con un pizzico di sale e pepe. E si continua con dei “classici” spaghetti aglio olio e battuto di grillo o dei ravioli ripieni di camole”.

Dei biscotti con gliinsetti che preparano le ragazze di Entonote

Ogni insetto ha un sapore caratteristico

C'è la camola del miele che ha un gusto molto delicato, simile a quello della mandorla o del pinolo, e la camola della farina che somiglia a un popcorn o al germe di grano bollito. La locusta, invece, ricorda un crostaceo e il grillo potrebbe sembrare un frutto secco con una nota che ricorda leggermente il pesce. L'elenco continua: “La termite di legno sa di tabacco, le formiche sono acidule, mentre quelle più grosse messicane ricordano le noccioline o i semi di zucca tostati, la larva di bambù ha un retrogusto di formaggio”. E come reagiscono le persone? “Alcuni incuriositi altri disgustati, ma la curiosità spesso supera il disgusto. Lavorando a questo tema da più di 7 anni, possiamo tranquillamente affermare che ogni anno c’è sempre più interesse e apertura mentale. E siamo certe che prima o poi gli insetti entreranno nella nostra dieta a partire da ristoranti e supermercati!”. Ora si tratta solo di attendere che qualche allevatore ottenga la certificazione EFSA così da poter mettere gli insetti in commercio, e nel frattempo le due Giulie continueranno ad organizzare eventi al solo scopo dimostrativo e divulgativo in nome di una legislazione che non sta al passo coi tempi.

 

www.entonote.com

 

a cura di Annalisa Zordan

 

Martini Cocktail e suoi derivati. Fenomenologia di un drink entrato nel mito

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Quella del Martini Cocktail è una passione che unisce stile, cultura, gusto e savoir faire. Un'associazione lo celebra e invita alla conoscenza del mito.

 

"Questa è una storia iniziata tanti tanti Martini fa, quando alcuni di noi si sono incontrati e conosciuti grazie a personaggi come Mauro Lotti", apre Valerio Berruti, firma di Repubblica, tra i fondatori e presidente dell'associazione Martini and Friends dedicata ai martiniani e alla cultura del Martini Cocktail. Come da Statuto, "L'associazione non ha fini di lucro: nasce per diffondere e conservare la storia, la cultura, lo spirito e la passione per il Dry Martini, attraverso l'organizzazione di attività culturali, mostre, realizzazione di guide e libri" che promuovano il mondo di questo storico drink. Motore dell'iniziativa presentata al The Gin Corner di Roma giovedì 18 ottobre, e fonte inesauribile di energia positiva è Barbara Ricci, The Gin Lady: "Il Martini è emozione, condivisione. Organizzeremo incontri mensili, il primo sarà fra un mese proprio con Mauro Lotti, per una Masterclass che ripercorrerà tutta la storia, le tecniche e gli aneddoti di questo cocktail. Inauguriamo oggi anche la nostra pagina Facebook, con una sezione aperta a tutti per condividere informazioni e racconti, e una parte riservata ai soci". Ospite d'onore della serata proprio, Mauro Lotti, il guru del Martini e personaggio di culto per i martiniani. Oggi, 80enne in grande forma, parla come in Blade Runner. "Lei immagina quante storie ho vissuto e ascoltato in cinquant'anni di preparazione di questo cocktail...? Ho imparato a conoscere le persone, a conversare con tutti, con ognuno nella sua lingua, ho visto cambiare mode, consuetudini sociali; ho visto alternarsi generazioni di potenti alla mia barra, donne e uomini cambiare vita; e sa che le dico? Ancora oggi ogni nuovo Martini mi insegna qualcosa".

Lo spirito del Martini Cocktail e il significato del lusso

Qualche anno fa Lotti ci disse che negli ultimi passi prima di arrivare alla barra lei sa già se quello è un martiniano, perché entra guardandoti negli occhi e non chiede distrattamente. Saluta offrendo e richiedendo attenzione. Certamente, è così e sempre così sarà”conferma e poi spiega “C'è la gente che va a bere e poi ci sono i martiniani. Solo questi ultimi hanno le capacità di apprezzare il meglio.

Oggi Lotti battezza un'associazione che gli ha conferito la presidenza ad honorem e celebra lo spirito di questo cocktail “Lo spirito del Martini Cocktail è tante cose, principalmente l'espressione di una cultura, un modo di vivere che presuppone un atteggiamento maturo al bere, è uno stile di comportamento”. Gli chiediamo di spiegarsi meglio “La regola del martiniano è due sono pochi, tre sono troppi" risponde sicuro. E aggiunge: “Si ricorda di Dorothy Parker? Diceva: Adoro farmi un Martini, massimo due, al terzo finisco sotto il tavolo, al quarto sotto il mio ospite. Ecco vede, essere martiniani vuol dire avere delle capacità, delle sensibilità, come per esempio il senso della misura, e soprattutto avere delle conoscenze”spiega ancora “Non ci può essere lusso senza conoscenza, dove con lusso si intende il meglio del meglio. Per poterlo riconoscere ed apprezzare, bisogna conoscerlo. Lusso è conoscenza”. Lotti su questo è categorico. Come dargli torto? Senza cultura il lusso non esiste, è solo lo "sciupìo vistoso" descritto da Thorstein Bunde Veblen (Theory of the leisure class, 1899). Che senso ha chiedere un Martini Cocktail senza sapere con quale gin? Come acquistare un abito sartoriale senza apprezzarne la particolare lavorazione artigianale, una cucitura o il pregio del tessuto. Secondo Veblen chi lo fa ricerca un accreditamento sociale. È di quel gigante del giornalismo italiano che fu Sandro Viola l’intuizione che il Martini Cocktail possa elevare rispetto alla platea degli altri cocktail (Repubblica, 2003). Poiché la cosa è nota c'è chi lo chiede pensando di acquisire così una rispettabilità. Ma questo non rende martiniani: “Consapevolezza, senso della misura, eleganza, il Martini Cocktail si concede a chi conosce il segreto di sorridere e far sorridere senza barzellette o maldicenze” spiega padre Angelo De Valeri (padre perché porge la coppa con due mani, come un sacerdote), barman della serata. Che entra nel dettaglio: “Si può chiedere qualsiasi cocktail a un barman e sarà preparato; ma un Martini si fa su misura, ad personam, sono necessarie richieste specifiche. Non esiste altro Martini Cocktail se non quello sartoriale”. Certi requisiti, infatti, non sono richiesti solo a chi berrà quel cocktail: se un martiniano ha la sensazione che il barman non sia all'altezza, si limiterà a chiedere un bicchiere d'acqua, o al massimo una birra (e cambierà bar).

 

Il Martini Cocktail perfetto

Gli appassionati riuniti dall’associazione Martini and Friends si limitano a tollerare ciò che per gli altri è pacifico, ovvero che il Martini Cocktail è composto da gin e vermouth e che è lasciata libertà per la guarnizione, oliva (3 per gli americani) o twist di limone (e non lime). Tollerano perché sanno che nella sua lunga storia ultracentenaria nel Martini Cocktail il vermouth ha progressivamente perso quote di importanza: non solo può non esserci nella coppa (ma solo sul ghiaccio nel mixing-glass), ma può anche essere presente solo simbolicamente. Si dice che Winston Churchill si limitasse a un inchino simbolico in direzione della Francia, da cui venivano i vermouth di scuola dry. Bunuel riteneva bastasse che la luce attraversasse la bottiglia di vermouth per colpire quella di gin. Ci sono alcuni che aggiungono il vermouth a voce sul mixing-glass; altri prendono la bottiglia di vermouth, chiusa – chiusissima - e le fanno fare 3 giri intorno alla coppa. Insomma: "LA" formula di un Martini Cocktail non esiste. E infatti gli iniziati al culto di questo drink ben sanno che uno perfetto non esiste. Ma concordano col dire che invece c'è, ed è quello fatto su misura e che ti sa emozionare. Ciò non toglie che ce ne sono alcuni 'cardinali': dei fari nella navigazione in quel mare magnum celato in una coppa.

I cardinali

Il primo dei cardinali è il Martinez, l'originario, al quale si riserva il rispetto speciale della paternità. Si perché i primi Martini Cocktail erano rossi e dolci e non cristallini e secchissimi come oggi. Il Martinez ha 1 parte di Old Tom Gin, 2 di vermouth rosso, 2 di maraschino, orange bitter e lemon twist. Semplicemente imbevibile per un martiniano dell'era moderna.

Poi c'è il Montgomery,15 parti di gin, 1 di vermouth.

Il Goldeninvece prevede la vodka e quindi ne fa un Vodka Martini: un martiniano volta lo sguardo.

Altro cardinale è l'Hemingway, 6 parti di gin e vermouth solo per lavare il ghiaccio. Il Martini Cocktail dell'era moderna.

Molto apprezzato dalla “setta” è l'Oyster Martini: 6 parti di gin, 1 e mezza di vermouth, 1 ostrica. Un vero e proprio sexy-Martini.

Per un Dirty Martiniinvece, alle 6 parti di gin e 1 di vermouth si aggiunge 1 parte di salamoia. È il Martini Cocktail perfetto per pasteggiare con piatti a base di pesce, per quanto sia il meno elegante. Così o bevve il Presidente Roosevelt quando firmò l’abolizione del proibizionismo.

Il Classic,4 parti di gin, 1 di vermouth, 3 olive.

Il Gibson,5 parti di gin, 1 di Noilly Prat, 2 cipolline.

Un ultimo cardinale è il Vesper,3 parti di gin, 1 di vodka, mezza parte di Kina Lillet, 1 fetta lunga e sottile di scorza di limone. C'è un però, ovvero che il Kina Lillet non si produce più e viene sostituito con il Lillet Blanc. Pur rispettando il talento di Ian Fleming che lo inventò per “007 Casinò Royale” nel 1953, non si annovera nella short list. Tanto per cominciare perché c'è vodka russa, tanto cara all'ex agente segreto Fleming negli anni della Guerra Fredda ma "altra roba", e poi perché è celebre per Bond. Ora, considerando il rapporto che 007 ha con le donne (quel maschilismo arrogante e sprezzante che considera la donna solo per il suo potenziale sessuale, e le si rapporta con fare predatorio), nello stile martiniano questa variante si ispira ad un modello stonato: James Bond non è un martiniano e lo “stile Martini” è altro.

 

L'essenziale

La neonata associazione Martini and Friends ha tra gli obbiettivi nel suo Statuto anche la promozione delle regole per l’esecuzione del Dry Martini. Parlare di regole in questo caso abbiamo visto non è semplice. C’è anche chi sostiene che “tutto ciò che sta in una coppa Martini è un Martini”. Non è così, ma tant’è. Ma visto che il vermouth ci può stare ma anche no, che c’è il partito dell’oliva e quello del twist di limone, che c’è chi usa anche la vodka, ci siamo chiesti cos’è che, senza se e senza ma, è assolutamente essenziale in un Martini Cocktail. Roberto Petronio, segretario generale dell’associazione: “L’unica cosa veramente essenziale è la temperatura. Se un Martini non è ghiacciato, semplicemente, non è”.

 

Aneddoti e citazioni: la creazione del culto

Impossibile censire tutti gli aneddoti e le citazioni su questo drink, ma una selezione a raffica si può fare.

Lo storico e scrittore statunitense Bernard De Voto sentenziò che "il Martini Cocktail è il più significativo dono degli Stati Uniti al mondo".

Cole Porter in Two Little Babes in the Wood cantava: “They have found the fountain of youth/ Is a mixture of gin and vermouth”(Hanno trovato la fonte della giovinezza / È una miscela di gin e vermouth).

Nel film Il laureato, Mrs Robinson (Ann Bancroft) va al Taft Hôtel e, prima di iniziare la sua storia di sesso con Benjamin (Dustin Hoffman), ordina un Martini.

In nemmeno due capitoli di "Di là dal fiume e tra gli alberi" di Hemingway, c’è spazio per una dozzina di Martini. "Prendiamone un altro" disse alla ragazza. “Lo sai che non ne ho mai bevuti prima di conoscerti". "Lo so. Ma li bevi talmente bene".

Woody Allen al bar con una signora; si siede ed ordina “2 Martini molto secchi”. La signora con lui dice “Come sa cosa bevo?”, e lui “Ah anche per lei? Ne faccia 3!”.

Di particolare acutezza Carolina Cutolo, che in Martini Eden(Nutrimenti Editore - 2014) scrive: "Tutto si svolge tra due persone separate dal bancone di un bar. Una, quella in piedi, esegue con calma e concentrazione, rivolgendo preghiere laiche a una divinità senza nome. L’altra spera di aver scelto il momento giusto, si predispone, beve. Se entrambe saranno state all’altezza della propria parte del rito, la persona seduta avrà accesso ai segreti e ne offrirà a quella in piedi. Il Martini Cocktail è un mito assoluto che raccoglie intorno a sé adepti come iniziati di un’antica religione, una minoranza silenziosa che resiste superbamente al declino alcolico che la circonda".

 

Associazione “Martini and Friends” - The Gin Corner - Roma - via della Pallacorda, 2 – info@martiniandfriends.com

 

a cura di Dario Pettinelli

A Torino la Caffetteria Vegetale Integrale di Antonio e Stefano Chiodi Latini. Acque vegetali per il cappuccino e niente croissant

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Antonio Chiodi Latini è un cuoco d'esperienza e nell'ultimo anno ha portato al successo il suo bistrot vegetale-integrale a Torino. Così, da qualche giorno, ci riprova con suo figlio Stefano, con la caffetteria che non serve croissant e concentra l'esperienza sul caffè. Ma si può anche mangiare. 

 

Torino città vegan friendly

Tra le città d'Italia, Torino è quella più aperta alle istanze del fronte vegano. Lo dice l'impegno dell'amministrazione Appendino per promuovere sul territorio comunale iniziative rivolte a chi segue la dieta veg, lo confermano a più riprese i riconoscimenti della stampa internazionale, con la città sempre ben posizionata nella classifica delle mete vegan friendly: premiata dall'Indipendent nel 2017, acclamata Eden dei vegani sull'inserto viaggi del New York Times dell'estate scorsa. Ma è soprattutto il gran numero di indirizzi a disposizione di vegetariani e vegani che non vogliono rinunciare a mangiare fuori casa senza infrangere i propri comandamenti a confermare l'attitudine di una città che per tradizione è invece patria indiscussa di agnolotti, vitello tonnato, brasati e bollito misto.

 

Chiodi Latini New Food. Lo chef che esalta il mondo vegetale

Chiodi Latini New Food è uno dei casi più apprezzati: la storia di questo bistrot votato alla cucina vegetale comincia in collina, come parentesi dell'apprezzato Villa Somis, dove la famiglia Chiodi Latini – Antonio e Stefano, padre e figlio – ha iniziato a sperimentare un menu solo vegetale da agricoltura (homemade) biodinamica, per pochi coperti, con l'idea di accontentare le richieste di una nicchia sempre più nutrita. In via San Quintino, papà Antonio è arrivato poco più di un anno fa consapevole di aver imboccato la strada giusta: pochi tavoli e cucina a vista per adattare la cucina vegetale-integrale teorizzata da Campbell e Steiner (prodotti vegetali proposti nella forma più vicina allo stato naturale) al contesto urbano. Un bistrot apprezzato dall'esordio perché frutto di una seria riflessione sulla filosofia che guida l'approccio alla cucina vegetale, e per l'indubbia padronanza di un cuoco navigato come Chiodi Latini (dai Nove Merli di Piossasco a Villa Somis, fino all'estate condotta da Stefano, che ora segue il padre in città). E non spaventi il binomio “vegetale integrale” che orienta un menu comunque goloso ed equilibrato, senza pretesa di arringare le folle o necessità di ricorrere a surrogati, e invece centrato sul desiderio di valorizzare in tutto e per tutto gli ingredienti vegetali. Il new food di Chiodi Latini – a pranzo in versione bistrot, la sera per una cena più ricercata – è per esempio una giardiniera piemontese, un bollito di coste, una pasta ripiena (senza uova) con verza e tartufo, i cavatelli con broccoli, una crema parmantier per intingere tre varietà di patate accompagnate da spuma di soia. Questo è quello che è stato fin qui.

La nuova Caffetteria Vegetale Integrale

Un anno dopo la nuova sfida si chiama Caffetteria Vegetale Integrale, ed è operativa da poche ore in via Bertola, sotto la guida di Stefano Chiodi Latini. L'obiettivo? Proporre una colazione che superi il confine tra dolce e salato e che non preveda l'utilizzo di materie prime di origine animali. E offrire alla città una spazio dove vivere per tutta la giornata l'esperienza del vegetale integrale. Si comincia dal caffè, che è il centro di una ricerca concentrata sempre sul mondo naturale, ma anche sulla riscoperta culturale di un prodotto a lungo banalizzato, e oggi indagato con nuova attenzione: tre miscele e cinque diverse alternative tra cui scegliere, in un range di proposte che spaziano dall'espresso al V60, dal chemex al french press.

Il cappuccino, invece, si prepara senza latte, con acque vegetali autoprodotte di soia, mandorla, riso e avena. Al banco del bar c'è Marco Tesconi (ex Lavazza), con lui la pasticcera Alessia Semeraro (per torte all'acqua e pasticceria vegetale integrale; banditi i croissant!), mentre Stefano chiude il cerchio in veste di chef. A pranzo, si ripropone la formula bistrot (ma si può mangiare anche fuori orario), con quattro proposte per un pranzo sano, veloce e buono (dai 12 ai 18 euro), dove troverà spazio anche il caffè come ingrediente di cucina. Per l'aperitivo (dal giovedì al sabato l'apertura si prolunga fino alle 22) cocktail che fanno largo uso di spezie e fermentazioni.

Tra le bevande analcoliche immancabili gli estratti, l'orzo, la cicoria, le acque vegetali, gli infusi. Un laboratorio di idee che nella sperimentazione e nell'amore per il vegetale trova i suoi punti di forza.

 

Caffetteria Vegetale Integrale – Torino – via Bertola, 20 – www.chiodilatininewfood.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Grandi chef e gelato gastronomico: i magnifici 12 che vanno Gelato d’Oro 2019

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Una sfida all'ultimo gelato ha messo alla prova 30 chef con altrettante ricette dolci e salate per la prima selezione per il Gelato d'Oro 2019. Una sfida che porterà ala nascita della Nazionale Italiana di Gelateria, chiamata a difendere il tricolore alla IX Coppa del Mondo di Gelateria.

 

L’alta cucina osa e scopre il gelato artigianale, o meglio lo riscopre, visto che già in passato i cuochi delle famiglie aristocratiche ne avevano intuito la pregevole duttilità, traendone ispirazione per raffinate creazioni.

 

 

 

images/articoli/Food/2_-_Andrea_Incerti_Vezzani_del_ristorante_Ca_Matilde_a_Quattro_Castella_RE_con_la_ricetta_Pizza_pomodoro_ciliegino_confit_basilico_greco_e_gelato_al_mascarpone_e_aliciAndrea Incerti Vezzani. Pizza, pomodoro ciliegino confit, basilico greco, gelato al mascarpone e alici

 

La new vawe del gelato

Un alimento familiare di cui all'apparenza si potrebbe fare a meno (anche se per gli appassionati è molto difficile riuscirvi), ma che conquista spazio, connotandosi sempre più come un alimento di qualità. E mentre aumentano le gelaterie gourmet che utilizzano solo ingredienti naturali, senza addensanti né coloranti, studiano ricette originali (come censito, ogni anno, dalla nostra guida Gelaterie d'Italia) anche l’alta cucina ha riscoperto il gelato naturale, non solo nei dessert al piatto. Lungi dall'essere una semplice alternativa del dessert, oggi il gelato abbatte gli steccati diventando protagonista di ricette dolci e salate, conquistando un proprio ruolo in antipasti, primi e secondi piatti entrati di prepotenza nei menu delle tavole di mezza Italia.

images/articoli/Food/18_-_Christian_Cecconi_chef_e_gelatiere_con_la_ricetta_Cacciucco-san__Dalla_Toscana_al_Giappone-DSC_6209.jpgChristian Cecconi. Cacciucco-san. Dalla Toscana al Giappone

È il cosiddetto gelato gastronomico: una prova di abilità che impone di dosare con perizia la quantità di sale e zucchero, bilanciando accuratamente il sapore, facendo attenzione che la struttura si mantenga spatolabile anche alle basse temperature di conservazione, e richiede di gestire con cura le dinamiche del servizio, per mettere a segno creazioni di spiccata piacevolezza ed estetica. E proprio queste potenzialità sono quelle indagate dalla prima selezione dedicata al gelato nella ristorazione di Sigep Gelato d’Oro 2019, una competizione che si pone l’obiettivo di fondare la Nazionale italiana di gelateria, chiamata a difendere il tricolore alla IX Coppa del Mondo di Gelateria che si disputerà nel 2020. La prima sfida c'è stata il 22 ottobre alla Carpigiani Gelato University di Bologna, in cui 30 chef arrivati da tutte - o quasi - le regioni italiane, si sono confrontati sul gelato e le sue declinazioni salate.

 

images/articoli/Food/6_-_Marco_Visciola_del_ristorante_Il_Marin_di_Genova_con_la_ricetta_Spaghettino_bottarga_kumquat_e_karkad-DSC_6146.jpg

Marco Visciola. Spaghettino bottarga kumquat e karkadè

La sfida

Gli chef, una volta scelto quale piatto preparare - tra antipasto, primo, secondo e dessert - hanno realizzato la loro ricetta in 45 minuti, cucinando e impiattando sotto l’occhio vigile della giuria che poi ha effettuato il tasting, assaggiando con curiosità e attenzione il gelato in 30 diverse interpretazioni: sposato alla pasta e fagioli, agli spaghetti, alle animelle, al tartufo, alla pizza, al piccione, alla patata lessa. Alto il livello qualitativo, concettuale ed estetico dei piatti, assaggiati e valutati tenendo conto di criteri di valutazione internazionali e delle linee guida della Coppa del Mondo di Gelateria in cui si prendono in esame consistenza, temperatura, sensazioni tattili e gustative. Al termine della giornata sono stati indicati i dodici finalisti che andranno in finale al Sigep di Rimini in gennaio 2019.

 

images/articoli/Food/7_-_Antonio_Danise_di_Villa_Necchi_alla_Portalupa_di_Gambol_PV_con_la_ricetta_Rosso_di_Mazara_salsa_ponzu_e_sorbetto_di_carote_e_zenzero-DSC_6147.jpgAntonio Danise. Rosso di Mazara, salsa ponzu e sorbetto di carote e zenzero

I criteri di valutazione

Regole chiare e la presenza costante di un gelatiere campione del mondo in ogni sessione, hanno indicato i parametri fondamentali da seguire nelle giurie internazionali. Fondamentali morbidezza e satinosità: il gelato non deve essere duro o compatto al momento dell’assaggio, mentre si espande sulla lingua e nel palato. Un prodotto di qualità deve esprimere cremosità, quella piacevole sensazione vellutata di morbida pienezza, e non una tessitura ruvida e granulosa, con cristalli di ghiaccio. L'assaggio deve sprigionare una piacevole sensazione di fresco, non di freddo o di eccessiva umidità del prodotto; il boccone deve essere gradevole e sciogliersi progressivamente, fondendo in bocca, e non colando velocemente.

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Anche il finale è importante: il sapore, dopo l’assaggio, deve essere lungo e intenso, in luogo di un’eccessiva sofficità e sensazione di assenza di corpo, che al palato scompare rapidamente. Tra i parametri di valutazione anche il gusto del gelato (che rimane sempre un elemento soggettivo), la contestualizzazione del gelato all’interno del piatto e l’equilibrio complessivo della ricetta; l’aspetto estetico inteso come armonia cromatica, le consistenze e la presentazione del gelato; ma anche l’armonia al palato e la creatività espressa dal concorrente.

 

 

Giuseppe_Francica_de_La_Corte_dellHotel_Villa_Abbazia_a_Follina_TV_Trota_laccata_alla_soia_crema_di_mandorle_di_Toritto_cavolo_cappuccio_fermentato_e_gelato_alla_carota_e_ara.jpgGiuseppe Francica. Trota  laccata alla soia crema di mandorle di Toritto, cavolo cappuccio fermentato e gelato alla carota e arancia

I vincitori

Le 30 ricette sono state vagliate da una giuria di gelatieri, chef e giornalisti. I prescelti sono Andrea Incerti Vezzani del ristorante Ca’ Matilde a Quattro Castella (RE) con la ricetta Pizza, olive, capperi, gelato al mascarpone e alici; Marco Visciola del ristorante Il Marin di Genova con la ricetta Spaghettino bottarga, kumquat e karkadè; Antonio Danise di Villa Necchi alla Portalupa di Gambolò (PV) con la ricetta Rosso di Mazara, salsa ponzu e sorbetto di carote e zenzero; Giuseppe Francica del ristorane La Corte dell’Hotel Villa Abbazia a Follina (TV) con la ricetta Trota laccata alla soia, crema di mandorle di Toritto, cavolo cappuccio fermentato e gelato alla carota e arancia; Flavio Costa de ristorante 21.9 di Piobesi d’Alba (CN) con la ricetta Cipolla di Montoro caramellata con il suo sorbetto e fonduta d’alpeggio; Marco Martinelli, chef e docente di Cast Alimenti, con la ricetta Oltre l’estate, zuppa di pomodoro tardiva”; Christian Cecconi, chef e gelatiere, con la ricetta Cacciucco-san. Dalla Toscana al Giappone;

Paolo_Barrale_chef_del_ristorante_Marenn_di_Sorbo_Serpico_AV_con_la_ricetta_Carciofi_scampi_e_gelato_dacciuga-DSC_6217.jpgPaolo Barrale. Carciofi scampi e gelato d'acciuga

Paolo Barrale, chef del ristorante Marennà di Sorbo Serpico (AV) con la ricetta Carciofi, scampi e gelato d’acciuga; Diletta Poggiali, chef freelance e contributor di Cucina Naturale, con la ricetta Pasta e fagioli alla bolognese; Luca Cai, chef de Il Magazzino Osteria Tripperia di Firenze con la ricetta Collo di Pollo ripieno di Frattaglie su Rosti di Patate di Cetica, con gelato gastronomico alla maionese, variegato con Senape di Digione a l’Ancienne e Pepe Nero di Sarawak Vecchie Piante, varietà Kuching; Antonio Mezzalira, chef e gelatiere di Golosi di Natura di Gazzo (PD) e contributor per riviste di settore, con la ricetta Origini; Stefano Pinciarolichef del ristorante PS di Cerreto Guidi (FI) con la ricetta Piccione in 4 modi.

 

images/articoli/Food/13_-_Flavio_Costa_de_ristorante_21_9_di_Piobesi_dAlba_CN_con_la_ricetta_Cipolla_di_Montoro_caramellata_con_il_suo_sorbetto_e_fonduta_dalpeggio-DSC_6172.jpgFlavio Costa. Cipolla di Montoro caramellata con il suo sorbetto e fonduta d'alpeggio

La Carpigiani

La sfida si è tenuta all’interno della Carpigiani Gelato University, head quarter dell'azienda fondata nel 1946 da Poerio e Bruto Carpigiani. Inventore, quest'ultimo, della famosa Autogelatiera. Oggi sono 300 i modelli di macchine da gelato dell’azienda di Anzola Emilia (Bo), che ospita - nella sua sede - l’Università del gelato, una vivace attività formativa, decine di eventi per diffondere la cultura del prodotto, e un Museo, con 1.000 mq. di immagini, attrezzature e macchine originali, che ripercorrono 5.000 anni di storia del gelato. Tanto remote sono infatti le origini di questo prodotto che si fa risalire all'Antico Egitto, quando si trovano testimonianze di un alimento simile, una mistura a base di neve e frutta, cui fa riferimento anche l’Antico Testamento quando Abramo consiglia al figlio Isacco di dissetarsi con una bevanda di latte di capra e neve. E mentre Alessandro Magno imponeva ai suoi di stivare in grandi buche nel terreno ingenti quantità di neve, che poi consumava dolcificata con il miele, gli antichi Greci trovavano refrigerio nel sorbire bevande rinfrescanti al limone, melograno, miele e neve. Usanza molto in voga anche tra le classi agiate dell’Antica Roma, ci conferma Plinio il Vecchio che parla di una ricetta a base di ghiaccio tritato proveniente dal Vesuvio e dall’Etna, miele e succhi di frutta, ma sarà durante il Rinascimento che il gelato, reso più raffinato e cremoso, raggiungerà la notorietà, deliziando l’aristocrazia e giungendo a Parigi, da dove continuerà a diffondersi nei cinque continenti, identificato come una specialità tipicamente italiana.

images/articoli/Food/15_-_Marco_Martinelli_chef_e_docente_di_Cast_Alimenti_con_la_ricetta_Oltre_lestate_zuppa_tardiva_di_pomodoro-DSC_6187.jpgMarco Martinelli. Oltre l'estate zuppa tardiva di pomodoro

a cura di Luca Bonacini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amatriciana. Storia, origini e aneddoti di una ricetta mitica

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Abbiamo cercato di capire qual è l'origine dell'amatriciana attraverso i ricettari “storici”. Ecco cosa abbiamo scoperto.

 

Molti piatti della tradizione vengono considerati immutabili nel tempo, ideati in un lontano passato e rimasti identici fino a oggi, testimoni del gusto dei nostri antenati. Ricette come quella dell’amatriciana, per esempio, possiedono un’aura eterna e sfidano il susseguirsi delle generazioni come veri e propri monumenti della gastronomia. Fin da piccoli ci siamo abituati al loro sapore e alla ricetta di famiglia, tramandata di generazione in generazione, secondo una precisa formula tradizionale sospesa nel tempo. In realtà non è così.

La tradizione evolve nel tempo

Tutte le ricette, anche quelle più tradizionali si evolvono nel tempo e, a volte, ci si accorge delle variazioni solo a distanza di anni. Iniziamo dicendo che l’amatriciana non è citata da nessun autore antico: non se ne trova menzione in nessuno dei grandi ricettari composti tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento. Ancora, la ricetta dei Maccheroni colla pancetta o col prosciutto riportata nel “Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza”del 1904 di Giulia Lazzari Turco non può essere considerata un’amatriciana vera e propria anche se si possono riscontrare alcune somiglianze. Infine non viene registrata nemmeno dalle pubblicazioni esplicitamente dedicate alle specialità regionali di inizio secolo: tra il 1908 e il 1910 vengono dati alle stampe i primi tre ricettari in cui sono descritti i piatti delle grandi città italiane. Alla voce “Roma” mancano l’amatriciana, la carbonara e la gricia, e non è registrato nemmeno un piatto di pastasciutta propriamente detto. Vengono unicamente descritti primi piatti al forno, come gnocchi e pasticcio di maccheroni, oppure minestre in brodo: di Pasqua, di gnocchi, di semolino e di fave.

La prima ricetta dell'amatriciana

La prima ricetta dell’amatricianaviene invece riportata da Ada Boni nel celebre “Il talismano della felicità” del 1927e la preparazione rivela più di una differenza da quella attuale: il guanciale viene tritato (e non tagliato a cubetti), messo a soffriggere con strutto e cipolla a cui vengono aggiunti pomodori freschi spellati. Gli spaghetti conditi con questo sugo sono serviti con pecorino – oppure parmigiano, o un misto tra i due formaggi - e abbondante pepe. Il dato interessante è che Ada Boni riconosca la tipicità locale della ricetta: “Nonostante il loro titolo provinciale, sono invece un piatto caratteristico della cucina romana, specialità ricercata in molte osterie e trattorie di Roma”.

Prima del 1927 sono rare anche le semplici citazioni del piatto e le prime appaiono sulla carta stampata: nel 1916 nella rivista mensile “Noi e il mondo” (supplemento del quotidiano “La Tribuna”) e l’anno successivo all’interno di un articolo de “La Stampa”, e in entrambi i casi è riportata l’antica denominazione di “spaghetti alla matriciana”. È molto probabile, dunque, che questo piatto dovesse essere già diffuso nel periodo immediatamente precedente alla Grande Guerra, quantomeno nella Capitale, ma considerando l’assenza di altre notizie possiamo stabilire che la sua creazione risalga al massimo agli inizi del secolo.

Guanciale

Pancetta o guanciale? Tritato o a cubetti?

A partire dalla pubblicazione del 1927 l’amatriciana conoscerà la propria fortuna e sarà replicata in diversi ricettari con altrettante varianti, segnandone una lenta ma costante evoluzione. Se si esclude quella di Adolfo Giacquinto del 1931 che riporta praticamente la stessa ricetta del Talismano della felicità, le successive fino al 1948 sostituiscono il guanciale con la più comune pancetta, riducendola di solito a cubetti anziché tritarla. Ancora Felix Dessì ne “La signora in cucina” del 1955 (tra l’altro il primo ricettario italiano a riportare la ricetta della carbonara) propone una versione con un battuto di pancetta, aglio e cipolla, in aggiunta a pomodori spellati e parmigiano o pecorino, a scelta. Per il piccante in questa ricetta è ammesso anche il peperoncino, una strada aperta nel 1937 daH.P. Pellaprat che avrà sempre maggiore fortuna e sostituirà il pepe in quasi tutte le preparazioni. La pancetta tende a scomparire a partire dai primi anni ‘60 lasciando spazio al guanciale e, nello stesso periodo, il pecorino diventa protagonista, senza più varianti o tagli con il più popolare parmigiano. La prima ricetta che si avvicina maggiormente a quella considerata oggi “tradizionale” la troviamo ne “La cucina familiare” del già citato Pellaprat del 1965 e prevede guanciale a cubetti, la polpa di pomodori spellati, pecorino grattugiato, peperoncino oltre all’immancabile cipolla, presente in quasi tutte le ricette fino allo scadere degli anni ’90.

I cannelloni di Sora Maria & Arcangelo ad Olevano RomanoI cannelloni di Sora Maria & Arcangelo ad Olevano Romano

Amatriciana tra le ricette tipiche romane, ma mai quanto i cannelloni

In questo periodo gli spaghetti all’amatriciana sono ormai entrati a pieno titolo nell’olimpo delle ricette tipiche romane insieme alla carbonara, ma esistevano altri piatti tradizionali da cui subivano ancora una spietata concorrenza. Se si si prende, ad esempio, la “Guida gastronomica e turistica d’Italia” del 1960-61, nella città di Roma i ristoranti che pubblicizzano la carbonara e l’amatriciana sono in totale otto (su quarantadue), salomonicamente divisi in quattro per l’amatriciana e quattro per la carbonara, con un solo ristorante che le propone entrambe. È interessante notare che l’importanza di questi due piatti viene completamente eclissata dalle diciotto citazioni riservate ai cannelloni.

La vera (e unica) ricetta dell'amatriciana esiste?

Nel periodo del boom economico l’amatriciana trova una propria canonizzazione che ammette poche, anzi pochissime, varianti e gli ingredienti si attestano definitivamente sul solo guanciale (di Amatrice), il pomodoro, il pecorinoromano e il peperoncino. Sebbene la cipolla sia uno degli ingredienti più longevi della ricetta, presente già nella prima edizione della Boni e proposta da quasi tutti gli autori successivi, oggi tende a essere esclusa dalla preparazione. Non compare ad esempio nel “Disciplinare di produzione della salsa all’amatriciana”, approvato nel 2015 dal Comune di Amatrice, dove viene introdotto, però, il vino bianco per sfumare il guanciale – ignorato invece da quasi tutti gli autori precedenti – e la possibilità di utilizzare i pelati al posto del pomodoro fresco. Il peperoncino diventa facoltativo,mentre il pecorino, uno dei tre pilastri essenziali per la riuscita del piatto, diventa un “abbinamento consigliato”.

Ma la vera domanda è un’altra: tra tutte le varianti che la ricetta ha collezionato in novanta anni di vita, esiste la vera ricetta dell’amatriciana tradizionale? Qualcuno potrebbe dire che è quella originale di Ada Boni, oppure quella della trattoria romana di fiducia dove andate da sempre, ma potrebbe anche essere quella che vi cucinava vostra nonna. In realtà non c'è una risposta più giusta delle altre. Anche se la nonna non sbaglia mai!

 

a cura di Luca Cesari

 

 

 

Anteprima Vini d'Italia 2019. Premi speciali: i vini dell'Anno

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Quali sono i migliori vini d'Italia? Ecco un focus sulle etichette che hanno conquistato il premio come Bollicina dell'Anno, Bianco dell'Anno, Rosso dell'Anno, Rosato dell'Anno, Dolce dell'Anno.

 

Dopo avervi raccontato, regione per regione, il panorama vitivinicolo con i vini che hanno conquistato i Tre Bicchieri 2019, massimo riconoscimento nella guida Vini d'Italia 2019, siamo arrivati al top della classifica, i campioni tra i campioni che si sono aggiudicati i premi speciali. Quelli assegnati ai migliori in assoluto delle nostre batterie d'assaggio, che si sono distinti nella loro categoria. Bianco, rosso, bollicine, dolce. E da quest'anno anche rosato. Oggi vi raccontiamo proprio questi vini, dando voce ai loro produttori.

Bollicine dell'Anno. Franciacorta Nature 61 '11. Guido Berlucchi & C.

Si deve alla geniale visione di Franco Ziliani, all'inizio degli anni Sessanta, la nascita della moderna Franciacorta, divenuta terroir d'elezione per le Cuvée Metodo Classico. Oggi alla cantina Guido Berlucchi ci sono i figli di Franco, che stanno affrontando con successo il passaggio generazionale: Arturo, enologo, Cristina al marketing e Paolo, al commerciale.“La produzione del Franciacorta è iniziata nelle cantine Guido Berlucchi, da un’idea di nostro padre” raccontaCristina“La prima annata, storica, del 1961, ha segnato un momento di profonda trasformazione di tutto il territorio e ha dato il via a quella che è oggi una delle aree di produzione di Metodo Classico più qualitative al mondo”. Un'azienda capace di esprimere al meglio il potenziale del territorio, puntando su qualità e sostenibilità: “Attenzione, amore e rispetto per il territorio e per la terra, sono le fondamenta culturali su cui nostro padre Franco ha costruito l’azienda e ha cresciuto noi. Già nel 2000 l’azienda ha iniziato a usare prodotti a basso impatto, privilegiando quelli che salvaguardano gli insetti utilie ricorrendo a essenze erbose che bloccano il propagarsi di varietà infestanti; nel 2006 il progetto Mille1Vigna ha permesso di eliminare gli appezzamenti non conformi ai nostri severi standard qualitativi e nel 2016 la Guido Berlucchi ha concluso la conversione all’agricoltura biologica di tutti i vigneti di proprietà”. Il premio come Bollicine dell'Anno va al Franciacorta Nature 61 '11: “un Franciacorta Millesimato, cuvée di chardonnay (70%) e pinot nero (30%) prodotta con uve provenienti esclusivamente da alcuni dei nostri migliori vigneti aziendali: Arzelle, Rovere, San Carlo e Ragnoli; vigne con una media di 20 anni e ad alta densità di impianto. Le uve sono state raccolte a mano alla maturità ottimale nella seconda decade di agosto 2011” continua Cristina “Siamo prima di tutto molto orgogliosi che il riconoscimento come Bollicine dell’Anno sia stato meritato da un Franciacorta, a testimonianza del grande percorso qualitativo che della nostra regione in questi -soli- 57 anni. La scelta di un Dosaggio Zero sottolinea la qualità intrinseca del territorio, che permette di ottenere dei Metodo Classico di straordinario equilibrio e personalità senza sciroppo di dosaggio”.

Berlucchi - Borgonato di Corte Franca (BS)- piazza Duranti, 4 –  030 984381 - https://www.berlucchi.it/

Bianco dell'Anno. Capo Martino '16. Jermann

Erano gli anni Settanta quando Silvio Jermann assunse le redini aziendali da lì l'escalation che ha consacrato i suoi vini non solo nel panorama nazionale ma anche mondiale. Sono nati il celebre W... Dreams..., il Vintage Tunina e soprattutto il Capo Martino, quest'anno per noi Bianco dell'Anno: “Il Capo Martino prende il nome dalla omonima collina di Ruttars, nel cuore del Collio goriziano, acquistata nel 1991 e già utilizzata come punto di osservazione durante la Guerra” afferma Silvio Jermannun appezzamento di 7,5 ettari dove si coltivano varietà tradizionali autoctone, friulano in maggior parte poi ribolla gialla, malvasia e picolit. Il Capo Martino nasce dall’idea di ottenere un bianco da diverse varietà vinificate in modo tradizionale, come faceva mio padre Angelo, con breve macerazione sulla buccia e una fermentazione e affinamento per 12-16 mesi in botti di rovere di Slavonia da 7-8 ettolitri arrivando, quindi, sul mercato due anni dopo la vendemmia”. E così che l'annata 2016 ci regala questo vino di grande fragranza e sapidità marina. “Grande annata la 2016, l’ottima sanità delle uve, ottenuta con condizioni metereologiche ideali, ci ha permesso di scegliere ancor meglio il momento di vendemmia consentendo il raggiungimento di un’interessante bouquet aromatico. La nostra filosofia è ancorata alle tradizioni di famiglia e a un forte legame con il territorio di confine in cui ci troviamo, incrocio di culture mitteleuropee che da sempre cerchiamo di riflettere nei nostri vini e il Capo Martino esprime questi concetti con eleganza, corpo e complessità. Siamo soddisfatti dei risultati ottenuti e investiamo costantemente in progetti innovativi al fine di migliorare sempre la qualità dei nostri vini per non fermarci e raggiungere nuovi obiettivi”. Un degno riconoscimento per un duro lavoro.

Jermann - Ruttars, Dolegna del Collio (GO) - Località Trussio Ruttars, 11A - 0481 888080 - https://www.jermann.it/

Rosato dell'Anno. Valtènesi Chiaretto Molmenti '15. Costaripa

Terza generazione di viniviticoltori, da sempre dediti al rosato “perché è la vocazione di questo territorio” spiega Mattia Vezzola dell'azienda Costaripa che racconta la Valtenesi come una terra di cultura provenzale, cui è vicina idealmente e non solo per il clima. Col sud della Francia condivide l'attitudine ai rosé, oggi oggetto di nuovo interesse. Tanto che, in soli 4 anni, si è passati da un milione a quasi 2 milioni di bottiglie. Merito di un mercato che riscopre i rosati, “un antidoto al formalismo” li definisce lui: “vini riservati, amati da chi non ama mettersi in mostra”, versatili e capaci di grandi sorprese, soprattutto quando prodotti in zone vocate. Come il Valtènesi Chiaretto Molmenti '15, che si aggiudica il nuovo premio Rosato dell'Anno. Un vino che rompe con il pregiudizio che questi vini vadano bevuti giovani: “volevamo dargli carattere, personalità e longevità”. Per farlo hanno fatto scelte precise: vigne di 45 anni, 5500 piante per ettaro, equivalenti a circa 70 quintali e 35-37 ettolitri per ettaro, per complessive 5500 bottiglie. Due anni di tonneau e un lungo affinamento in bottiglia. Il risultato è un vino dal colore tenue, “un cipria perla leggermente carico”, profumi primari di viola, pepe, frutti rossi e legno d'ulivo, melograno e pesca di vigna. Un vino lungo, persistente, dalla tessitura più sostenuta dei provenzali che accettano un 20% di uve bianche. Qui no, ci sono groppello al 50% - “il vitigno più vicino in assoluto al pinot nero” - e un 30% di marzemino, 10 di barbera e 10 di sangiovese. E “il cuore di ogni acino, la parte più nobile”. Tutto questo è supportato da due parole: longevità e leggerezza: “noi facciamo foulard, non cappotti né pantaloni”.

Costaripa - Moniga del Garda (BS) - via Della Costa, 1/a - 0365 502010 - http://costaripa.it/

Rosso dell'anno. Brunello di Montalcino Duelecci Ovest Ris. '12. Tenuta di Sesta

"Mio nonno ha piantato le prime vigne negli anni '60; le nostre prime bottiglie riportano in etichetta l'annata '66, poco prima che la Doc Brunello di Montalcino fosse istituita": Andrea Ciacci, insieme alla sorella Francesca e al padre Giovanni, è alla guida di Tenuta di Sesta, l'azienda ilcinese che quest'anno si è guadagnata il Premio Speciale Rosso dell'Anno con il Brunello di Montalcino Duelecci Ovest Riserva 2012. "Ci prendiamo cura di 35 ettari vitati nella zona di Sesta, a sud di Montalcino, tra Sant'Angelo in Colle e Castelnuovo dell'Abate, su terreni magri, ricchi di calcare e inserti argilloso-ferrosi". Le vigne esposte a sud permettono una perfetta maturazione delle uve, anche nelle annate più fresche e, mentre sono aperte verso il mare per il passaggio di brezze calde, una catena di colline le difende dall'aria fredda proveniente dall'Appennino. "La 2012 è la prima annata della Riserva Duelecci; le uve provengono da un vigneto omonimo di circa tre ettari, ma a seconda dell'andamento climatico dell'annata, volta per volta decidiamo quale sezione dedicare a questa etichetta. Nella 2012, annata abbastanza calda, insieme a Lorenzo Landi, il nostro enologo, abbiamo optato per la parte ovest; per la 2013 invece abbiamo scelto la parte est". Secondo Tre Bicchieri della storia aziendale e subito un Premio Speciale: "un riconoscimento inaspettato, che rappresenta il frutto del rinnovamento, agronomico e enologico, che abbiamo intrapreso dal 2007".

Tenuta di Sesta -Castelnuovo dell'Abate Montalcino (SI) - Loc. Sesta - 0577 835612 - http://www.tenutadisesta.it/

Dolce dell'Anno. Piemonte Moscato Passito Doc La bella estate '16. Vite Colte

Ci sono vent'anni di esperienza dietro il Piemonte Moscato Passito Doc “La bella estate”. Il Dolce dell'anno, premio speciale per la guida Vini d'Italia del Gambero Rosso 2019, nasce da molto lontano. L'annata 2016, quella che ha ottenuto il favore degli esperti, è un mix di tecnica in vigna e di arte enologica. Ed è anche la sintesi del lavoro di Vite Colte, il progetto avviato a Barolo due anni fa che coinvolge 180 viticoltori su 300 ettari di vigneto e mette assieme il sapere contadino e la più moderna agronomia. Un'idea di alta qualità, come spiega il presidente Piero Quadrumolo, che si concretizza già alla base: “Ogni socio mette a disposizione una piccola parte di vigneto, che viene curato in modo particolare, solitamente si trova in posizioni ventilate per difendere le piante dalla peronospora. Nel caso del nostro Moscato passito, abbiamo scelto di giocare sugli aromi varietali”. In due decenni di produzione, la sola surmaturazione in pianta non ha dato i risultati sperati “ma col tempo” spiega Quadrumolo “siamo riusciti a trovare un equilibrio, bilanciandola con un appassimento delle uve in fruttaia. L'obiettivo era ottenere un vino aromatico, col timbro varietale del Moscato, non stucchevole e con una discreta acidità”. Oggi La bella estate, la cui produzione media è di 15 mila bottiglie (formato 0,75 litri, con prezzo franco cantina di 20 euro), è particolarmente apprezzato negli ambienti dell'alta cucina piemontese, dalle Langhe all'Alto Novarese e Verbano. “Ci piacerebbe produrne qualche bottiglia in più ma non è così automatico, dal momento che le quantità dell'annata 2016 sono state decise nel 2012. Siamo convinti che questo premio di cui siamo orgogliosi determinerà un aumento degli ordini” conclude Quadrumolo “e vorrà dire che staremo per un po' più a lungo senza il nostro prodotto”.

Vite Colte - Barolo (CN)- Via Bergesia, 6 - 0173 564611- http://www.vitecolte.it/

 

 

 

A Roma il Festival della Gastronomia si sdoppia. L'inedito Boulevard Merulana e il talento Emergente

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Dal 27 al 30 ottobre torna il Festival della Gastronomia ideato da Witaly. Si parte a Palazzo Merulana, per la prima volta al centro di un evento che parte dalla gastronomia per rilanciare il quartiere. Poi i consueti appuntamenti con il talento e l'eccellenza gastronomica alle Officine Farneto. 

 

Il Festival della Gastronomia. Nascita ed evoluzione

Un anno fa chiedevamo a Lorenza Vitali e Luigi Cremona perché l'allora nascente Festival della Gastronomia non fosse un festival gastronomico come tutti gli altri. Con i fondatori di Witaly, prolifici ideatori di eventi dedicati al mondo degli addetti ai lavori (e non solo), facevamo il punto su un settore saturo di proposte, che spesso difettano in originalità. Su quel copia/incolla che il nuovo format cercava di superare proponendo un patchwork di eventi selezionati con occhio curatoriale, facendo tabula rasa del superfluo e invece mettendo insieme percorsi che condividono intenti e obiettivi. Un anno dopo, il Festival della Gastronomia cambia spazio, ma non connotati. E per la prima volta atterra all'Esquilino, a Palazzo Merulana, dal 27 al 30 ottobre, con l'idea di aprirsi al quartiere attraverso una manifestazione (nella manifestazione) di piazza, battezzando l'esordio di Boulevard Merulana.

 

Boulevard Merulana. Il Festival in trasferta al Rione Esquilino

L'ultimo arrivato sulla scena è un evento che prende spunto dalla rete di imprese che riunisce i commercianti della zona nell'associazione omonima presieduta da Simona Braghetta, e trova modo di esprimersi negli spazi riaperti al pubblico di recente di quello che è un simbolo della rinascita culturale del Rione, Palazzo Merulana. Da qui, in coerenza con le premesse poste da Witaly, la voglia di farsi cassa di risonanza della manifestazione esordiente (di “emergenti” di talento, da queste parti, se ne intendono). Dunque il taglio del nastro si consumerà a Palazzo Merulana sabato mattina. A seguire i cooking show di chef navigati e nuove leve della cucina, e insieme una ricca programmazione di spettacoli e performance artistiche che prenderanno forma all'Auditorium di Mecenate a cura di Medina Roma e Alessandro Dall'Oglio. Ma saranno le attività commerciali di via Merulana il vero fulcro dell'esperienza gastronomica, aperte fino a sera per ospitare cantine vinicole e aziende gastronomiche protagoniste del percorso di degustazione (gli assaggi si pagano in gettone Merulano, distribuito presso due punti di cambio).

 

Chef e pizzaioli emergenti alle Officine Farneto

Conclusa l'esperienza Boulevard Merulana, dal 28 al 30 ottobre (ma già il 27 con le prime sfide) il Festival della Gastronomia torna al quartier generale che l'ha visto crescere e cambiare pelle negli anni, le Officine Farneto. E ritornano i consueti appuntamenti con il talento Emergente, la competizione, in più batterie, tra giovani chef under 30, fino alla proclamazione del Miglior Chef Emergente d'Italia 2018 (in parallelo, la gara che vede scontrarsi i giovani pizzaioli più talentuosi della Penisola, spesso a bottega da grandi maestri della pizza). Si comincia con le selezioni Centro e Sud (al Nord già selezionati Christian Mandura e Christian Fava tra i cuochi, Alessandro Cecchetti e Federico Russo per i pizzaioli), mentre lunedì e martedì sarà la volta delle finali nazionali, con tema obbligatorio (il fritto) e mistery box. La sfida tra pizzaioli, invece, si conclude lunedì 29, con la preparazione di una pizza fantasia con ingredienti locali. In programma anche la finale nazionale di Emergente Sala, la presentazione della guida del Touring Club Italiano dedicata ad Alberghi e Ristoranti, la giornata dedicata alle Migliori Botteghe della Capitale e il più goliardico appuntamento inedito con il mondo del barbecue, protagonista nella corte all'aperto delle Officine Farneto.

 

Festival della Gastronomia - Roma  - dal 27 al 30 ottobre - festivaldellagastronomia.com

 

a cura di Livia Montagnoli


Eatsready è l'idea per ripensare la gestione dei pasti aziendali. Addio ai buoni pasto, spazio al pagamento digitale

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Nata dall'idea di tre soci italiani, la startup milanese si è fatto conoscere sul mercato del mobile order & pay, con una piattaforma dedicata a chi vuole ordinare e pagare online prima di ritirare il suo pasto al ristorante. Con lo stesso strumento si propone di innovare il mercato dei buoni pasto. Ecco come. 

 

Order & pay. Cos'è Eatsready

Eatsready è una startup italiana che asseconda il trend del cosiddetto “mobile order & pay”. In pratica una piattaforma digitale a disposizione degli utenti che vogliono ordinare online, pagare in anticipo e poi ritirare all'ora prestabilita l'ordine. Di fatto, e come rivela il nome dell'app (che si propone come “lifestyle app” al servizio delle necessità dei clienti), il mercato di riferimento è quello della ristorazione, sempre più incline a processare le “comande” digitali, che si tratti di food delivery operato da realtà specializzate o di take away. Nello specifico, la piattaforma è nata un anno fa a Milano – con l'obiettivo di arrivare a presidiare altre città italiane – per iniziativa di Giacomo Alpago, Fabio Manola e Luciano De Franco, e subito ha raccolto l'interesse di più investitori. Quindi Eatsready oggi si presenta così: una mappa per scoprire gli indirizzi milanesi che hanno aderito al circuito, la possibilità di consultare il menu di ciascuno, scegliere e personalizzare il proprio ordine, pagare (previa registrazione sulla piattaforma e associazione di un metodo di pagamento) e indicare l'orario di ritiro, quando il cliente potrà usufruire di una corsia preferenziale identificandosi tramite il “pick up point”. Diverse le insegne a disposizione, da Pescaria a Orticello Take Away, a Burgez, Maido, Wagamama e Mascherpa.

 

I limiti dei buoni pasto

Consolidato il giro d'affari, però, l'ultima intuizione del gruppo è quella di lanciarsi nel mercato corporate, intercettando le difficoltà di gestione e utilizzo dei ticket restaurant, una realtà statica e poco incline a rinnovarsi nonostante i limiti dimostrati dagli ultimi fatti di cronaca (la crisi dell'operatore Qui Group ha scoperchiato un enorme vaso di Pandora), con il 70% del flusso che resta di tipo cartaceo e presenta ostacoli e lungaggini per tutti gli attori coinvolti. Ma pur sempre un segmento molto remunerativo: in Italia il mercato dei buoni pasto vale 3 miliardi di euro (allo0,72% del Pil, per 190mila posti di lavoro), quasi 2,5 milioni di lavoratori ne usufruiscono e sono circa 150mila gli esercizi convenzionati che li accettano. È chiaro che il problema non può essere ignorato.

 

Pagamenti digitali per la pausa pranzo al lavoro

L'idea di Eatsready è quella di mettere l'app al servizio dei dipendenti che usufruiscono del pasto giornaliero aziendale, come alternativa all'utilizzo di ticket restaurant. Servendo al contempo anche le aziende che vogliono semplificare la gestione dei sistemi di pasto, offrendo loro una piattaforma digitale che si interfaccia direttamente con i lavoratori. Il primo passo, a luglio scorso, ha visto interfacciarsi il gruppo con l'Agenzia delle Entrate, che qualche settimana fa si è pronunciata a favore di Eatsready sulla possibilità di utilizzare l'app come strumento per fornire servizi di mensa aziendale. Con lo stesso trattamento fiscale dei buoni pasto – e questo è importante per garantire la deduzione dei costi ai datori di lavoro e l'assenza di tassazione per i lavoratori – Eatsready potrà proporre alle aziende il suo sistema di pagamento digitale per i pasti, con le stesse modalità applicate fin qui agli utenti privati. E il sistema sarà brevettato entro la fine del 2018. Sarà in grado di semplificare il settore?

 

a cura di Livia Montagnoli

Il 25 ottobre è il World Pasta Day. 20 anni di festeggiamenti per il prodotto italiano più amato nel mondo

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Nel 1998 Ipo e Aidepi istituivano la giornata partendo da Napoli. Quest’anno i festeggiamenti ufficiali si spostano a Dubai, confermando quanto la pasta sia diventata patrimonio universale amato in tutto il mondo. Tutti la vogliono, la rete la celebra e tante sono le storie che ne fanno un vero collante culturale. 

 

20 anni di World Pasta Day. A Dubai

Sarà Dubai la capitale dei festeggiamenti per il World Pasta Day che ogni 25 ottobre, da venti anni a questa parte, torna a celebrare il ruolo di un alimento che se un tempo si limitava a rivendicare le sue origini italiane e la lunga storia che lo lega all’identità della Penisola oggi è sempre di più patrimonio universale e collante culturale. Così, 20 anni dopo la prima celebrazione della giornata in suo onore – era il 1998 – i festeggiamenti ufficiali per la pasta si trasferiscono da Napoli agli Emirati Arabi (ma l’evento ha girato tutto il mondo, da New York a Barcellona e Mosca, e l’anno scorso è approdato a San Paolo del Brasile), con i 20 ristoranti italiani di Dubai chiamati a valorizzarla con speciali menu pasta proposti dal 26 ottobre al 2 novembre, e l’ICCA (celebre accademia di cucina emiratina) alle prese con l’ideazione di ricette che esplicitino l’evoluzione della pasta in prodotto globale, proponendo mix di ingredienti coerenti con le culture alimentari più presenti nel Paese, senza dimenticare che proprio alla Sicilia araba del IX secolo si fa risalire la diffusione degli ittriya, fili sottili di pasta essiccata precursori degli spaghetti.

 

La pasta piace al mondo. I pasta show americani

Dunque mentre l’Italia si conferma campione nei consumi con 26 chili di pasta procapite all’anno e fucina inesauribile di idee – tra ricette tradizionali e moderni studi sul prodotto oggi sono oltre 300 i formati di pasta made in Italy, dalla pasta secca a quella all’uovo – è la sua diffusione nel mondo (è l’alimento italiano più apprezzato all’estero, specie in Germania, UK, Stati Uniti, Francia e Giappone; a contenderle lo scettro solo la pizza) a rendere meglio l’idea della portata rivoluzionaria di un alimento così versatile. Negli Stati Uniti, per esempio, dove la nutrita comunità italo-americana ha adattato al nuovo mondo le proprie abitudini in materia di pasta (si legga, soprattutto, spaghetti with meatballs), da qualche tempo a questa parte è il momento del pasta-show: sono moltissimi i ristoranti di impostazione italiana che celebrano la manualità di sfogline e chef intenti a stendere la sfoglia e produrre pasta fresca in moderni laboratori a vista, che intrattengono i commensali in attesa del piatto. E questo succede un po’ in tutto il Paese, da New York (dove Misi è ora l’indirizzo più acclamato della serie) a Denver, Detroit e Los Angeles (alla trattoria Felix di Evan Funke): lo spettacolo della pasta piace, ed è decisamente instagrammabile.

 

Pasta grannies e Pasta Evangelists

Quanto la pasta possa essere mediatica lo sa bene Vicky Bennison, giornalista e videomaker inglese che quattro anni fa cominciava a girare la Penisola in cerca di nonne italiane che potessero condividere con lei i segreti della pasta fatta in casa, e oggi si ritrova per le mani un gran numero di video che alimentano il successo del suo canale YouTube – Pasta Grannies – e delle nonnine star (nonna+pasta= boom di visualizzazioni). Che anche il mondo anglosassone ami la pasta, del resto, lo conferma un’altra storia di successo imprenditoriale che denuncia radici italiane: Alessandro Savelli e James McArthur sono i Pasta Evangelists che due anni fa hanno partorito l’idea vincente, consegnare pasta fresca a domicilio. La startup si è messa in moto nel 2016, a settembre 2018 le porzioni consegnate hanno superato le 10mila unità, e questo grazie agli accorgimenti perfezionati dai due soci, che porta a porta recapitano kit completi per preparare un piatto di pasta italian style, compatibili con la buca delle lettere e refrigerati, per garantire la conservazione delle salse fino all’effettivo utilizzo. E infatti i ragazzi hanno raccolto 2 milioni di investimenti in due anni, e oggi consegnano a Londra e in tutta l’Inghilterra moltissimi formati regionali come i malloreddus e i conchiglioni, i tortelli, le trofie e le pappardelle.

 

Il Pasta World Championship a Milano

Ma anche il Pasta World Championship, di scena oggi a Milano, conferma che la pasta unisce tutto il mondo: sono 18 gli chef under 35 provenienti da differenti Paesi in gara per aggiudicarsi il titolo di Master of Pasta nell’evento annuale organizzato da Barilla, che per la prima volta coincide con il World Pasta Day. Per chi volesse partecipare da casa, invece, l’hashtag è #WorldPastaDay: con l’invito a condividere le foto della propria pasta preferita per una spaghettata social.

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Nuno Mendes torna a Lisbona. Il suo primo progetto portoghese al nuovo Bairro Alto Hotel

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Lo chef portoghese ha lasciato la sua città giovanissimo, cuoco giramondo per inseguire la sua passione. Da più di 10 anni calca il palcoscenico gastronomico londinese, ma nel 2019 sarà direttore creativo food&beverage per il Bairro Alto Hotel, che riapre il prossimo aprile completamente rinnovato su progetto di Souto de Moura. 

 

Nuno Mendes. Un portoghese a Londra

Alle sue origini gastronomiche Nuno Mendes non ha mai rinunciato, nonostante da più di 10 anni abbia scelto di vivere e lavorare stabilmente a Londra, dove nel 2006 esordiva con il gastropub Bacchus, presentando alla città un modo nuovo di intendere la cucina d'autore. Poi è stata la volta del mitico Viajante: aperto nel 2010, un anno dopo conquistava la prima stella, anche per la capacità di coniugare l'alta cucina con la riscoperta della cucina popolare (quella portoghese). Con buona pace di molti nostalgici, l'esperienza si è conclusa nel 2014, quando lo chef portoghese ha iniziato la collaborazione con il Chiltern Firehouse Hotel di Marylebone, dove il suo ristorante è presto diventato meta prefiletta del jet set londinese. Nel 2015, a confermare quanto sia forte il legame con le sue radici portoghesi , è arrivato anche il tapas bar Taberna do Mercado, all'interno dell'Old Spitafields Market: un progetto concluso la primavera scorsa, da quando la presenza al mercato di Mendes ha subito un netto ridimensionamento (nel frattempo, però, lo chef ha avviato a Shoreditch un nuovo progetto sul modello degli hidden restaurant, Maos, 16 posti attorno a un unico tavolo per un'esperienza di degustazione d 14 portate che fonde suggestioni portoghesi e giapponesi). Mentre a un anno fa risale la pubblicazione del suo ultimo libro, Lisboeta, un ricettario che si muove tra gli ingredienti e i piatti tipici di Lisbona, la città dov'è cresciuto e che più ha segnato il suo rapporto col gusto e la cucina. Da quei tempi la scena gastronomica della città è molto cambiata, al passo di una nuova generazione di chef che ha cambiato il ritmo della ristorazione locale (Gualtiero Spotti ci ha portato alla scoperta dei nuovi format gastronomici di Lisbona sul numero di agosto del mensile del Gambero Rosso).

Il ritorno a Lisbona. Il nuovo Bairro Alto Hotel

E anche Nuno Mendes si prepara a salire sulla giostra, annunciando un ritorno che dopo molti anni trascorsi in giro per il mondo (a 19 anni partiva per seguire la sua passione) fa notizia: sarà lui, a partire dalla primavera 2019, a firmare la carta del nuovo ristorante (con bar) del Bairro Alto Hotel, tra gli alberghi più prestigiosi del centro città (in Praca Luis de Camoes), che alla fine del 2017 chiudeva per ristrutturazione, ponendo fine anche al percorso del Flores do Bairro, il ristorante guidato da Bruno Rocha. L'hotel 5 stelle lusso riaprirà il prossimo aprile dopo il rinnovamento degli spazi e l'ampliamento (da 55 a 87 camere e nuovi spazi comuni) curato da Eduardo Souto de Moura, e Mendes sarà direttore creativo del Food&Beverage di quella che per il Bairro Alto si preannuncia come una nuova era, soprattutto sul versante gastronomico.

 

L'offerta gastronomica. 5 spazi per mangiare in hotel

Cinque saranno gli spazi di ristorazione all'interno della struttura: un ristorante-bar sul rooftop al quinto piano (BAHR), il Terraco (naturale complemento di BAHR), la Pastelaria gourmet riservata ai pasti informali, il Mezzanino (un bar) e il cocktail bar 18.68 con appetizer firmati Mendes. Lo chef, al suo primo impegno in città (molte, nei mesi scorsi, le dichiarazioni d'amore di Mendes per la sua città, dove si è detto entusiasta di tornare con un progetto di ristorazione tanto ambizioso), coordinerà l'intera proposta, mentre Bruno Rocha resterà executive chef. L'obiettivo è comune: dimostrare che la cucina portoghese merita un posto nella grande ristorazione internazionale, partendo dalla valorizzazione delle proprie radici. 

 

a cura di Livia Montagnoli

 

La pasta italiana in Lombardia. 20 formati tipici e la ricetta dei tortelli di zucca

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Carne, pesce di lago, polenta ma anche tanta pasta. La Lombardia a tavola si presenta con sapori sinceri e intensi, paste all'uovo dalle farce golose e saporite. Gli assaggi da non perdere e la ricetta dei tortelli mantovani. 

 

Una cucina solida, eterogenea, sfaccettata eppure integra, saldamente legata al passato e ai sapori di una volta, quelli più autentici e sinceri di una tavola povera, frutto di un'antica pratica pastorale, che lascia spazio però alle incursioni del pesce di acqua dolce. Elegante e discreta, sul fronte gastronomico la Lombardia sa presentare quanto di buono riserva un territorio composito e variegato. C'è Bergamo, con i suoi piatti corroboranti e sostanziosi, Brescia con la sua cucina contadina delle valli e dell'entroterra, e poi il bacino d'acqua dolce più grande d'Italia, il lago di Garda, circondato dalle montagne custodi di un'oasi microclimatica che stupisce con oleandri e ulivi, aranci e palme. Milano, ormai da anni in pieno fermento gastronomico, la tradizione rurale di Mantova, il lago di Iseo, fonte inesauribile di ricette a base di pesce locale. A unire le tante facce della stessa anima lombarda è la regina indiscussa della cucina nazionale: la pasta. Che qui assume sfumature succulente e sontuose, con una serie di tortelli e ravioli ripieni con gli ingredienti più disparati. Ecco quali sono i formati più caratteristici.

 

agnolini mantovani

Agnolini mantovani

Già preparati alla corte dei Gonzaga, gli agnolini sono una pasta ripiena di stracotto di manzo, salamella di suino, pancetta e parmigiano, racchiusi in un impasto di farina, semola, uova e acqua (talvolta sostituita con il latte). L'origine della ricetta viene attribuita tradizionalmente a Libussa, cuoca al servizio della duchessa Isabella, che realizzò per prima una pasta pressoché simile alla versione attuale. Il formato è simile a quello del tortellino emiliano, ma si differenzia nel ripieno e nelle dimensioni leggermente più grandi. Viene servito generalmente in brodo.

Bardele coi morai

Tagliatelle particolarmente spesse e a base di farina, foglie di borragine, uova e sale: sono le bardele coi morai, condite con burro, salvia e parmigiano e diffuse nella provincia di Bergamo e nel Veneto. Per realizzarle, occorre impastare la farina con le foglie di borragine (i morai, appunto) lessate e tritate finemente o passate al setaccio, aggiungere poi uova e un pizzico di sale. Una volta riposato, l'impasto viene tirato non troppo sottilmente e tagliato in striscioline.

Bertù

Un tempo il bertù veniva preparato ogni 7 ottobre, in occasione della festa della Madonna del Rosario, istituita dal Papa per ringraziare la Madonna che aveva protetto le armate cristiane contro i turchi nella battaglia di Lepanto del 1571. Infatti, si dice che la forma a mezzaluna di questi ravioli sia dovuta proprio al simbolo dei vessilli turchi catturati a Lepanto. Chiamati anche gai, che in dialetto significa orecchie d'asino, i bertù si preparano con farina, uova e sale e vengono farciti con cotechino, parmigiano e uova, conditi poi con burro e pancetta. Sono diffusi in tutto il Bergamasco, in particolare a San Lorenzo di Ravetta.

 

bigoli

Bigoli

Una sorta di spaghetto (ma molto più spesso) di grano tenero e acqua, molto diffuso nella Lombardia orientale e in Veneto, caratterizzato da una consistenza piuttosto ruvida che trattiene bene sughi ricchi e robusti. Ne esistono diverse varianti, da quella scura con farina di grano saraceno a quella all’uovo, ma in qualsiasi caso, la peculiarità resta il diametro ampio, di circa 3-4 millimetri. Per realizzarli, in passato veniva utilizzato il bigolaro, un torchio con trafila in bronzo creato da Bartolomio Veronese, maestro pastaio di Padova noto come “Abbondanza”, che nel 1604 ottenne il brevetto dal Consiglio comunale per questa sua invenzione. Fra i condimenti più utilizzati, il pocio, termine che fa riferimento al recipiente di coccio nel quale veniva preparato il sugo di pollo, ma anche una salsa a base di cipolla, tonno e acciughe, oppure con il brodo di anatra o con le aole, sardelle di lago. Sulla nascita del nome, due diverse teorie: dal latino bycolus, bacherozzo, per sottolinearne le umili origini, oppure dal dialettale bigat, bruco, per via della forma.

Cadunsei

Diffusi soprattutto in Val Camonica, in particolare ad Artogne, i cadunsei sono protagonisti di molte sagre e feste di paese regionali. Si tratta di mezzelune all'uovo ripiene di un misto di carni, salame, amaretti, odori e formaggio grattugiato, un tempo preparati invece con interiora di pollo e nocciolo di pesca. In alcuni borghi, si aggiunge anche un po' di menta piperita. Per gustarli al meglio, si utilizza un condimento semplice, solo un po' di burro fuso per far risaltare i sapori della farcia.

 

casonsei

Casonsei

Detti anche casunziei o casonzieri, ciraoncié, i casonsei sono dei ravioli di farina, uova e sale, ripieni di carni aromatizzate con noce moscata nel Bresciano, oppure patate, salame agliato, salsiccia, spinaci e formaggio in Val Camonica. Vengono consumati con burro e formaggio e sono tipici soprattutto delle valli bergamasche e della provincia di Brescia. Fra le prime tracce scritte, il “Baldus” di Teofilo Folegno della prima metà del Cinquecento, ma altre fonti attestano la loro presenza già dalla fine del Trecento. Sono solitamente preparati per le grandi occasioni e le ricorrenze religiose.

Caicc

In dialetto bresciano caicc significa cuneo: il termine fa infatti riferimento alla forma di questo raviolo che un tempo, in mancanza degli amaretti, veniva profumato con il nocciolo delle pesche o le mandorle amare. Oggi viene preparato con un impasto fatto di poche uova, acqua e farina, e farcito con carni, amaretti, bietole, aromi e formaggio grattugiato. In passato, invece, erano le rigaglie di pollo, insaporite con farina di mais e aceto e cotte in un fondo di burro e cipolla, le protagoniste della ricetta. I caicc vengono conditi con burro, salvia e formaggio e sono generalmente consumati durante la di festa di San Valentino.

Calhù

Fra i piatto simbolo dell'alta Val Camonica, i calhù, che devono il loro nome al costume tipico dei paesi della valle, un pantalone di ampie dimensioni indossato tradizionalmente dagli uomini. Oggi sono tra le specialità più prelibate della ristorazione locale, ma per molto tempo sono stati preparati solo in occasione delle feste. Per realizzarli, occorrono farina, acqua e poche uova, da lavorare a lungo fino a ottenere un impasto liscio e sodo. Dalla sfoglia tirata sottilmente si ricavano dei dischetti da riempire con patate, salame e spezie e chiudere a mezzaluna. Ancora una volta, la salsa più indicata è quella semplice a base di burro e salvia.

 

canederli

Canederli

Celebri gnocchi di pane raffermo, farina, uova, speck, prezzemolo e parmigiano, conosciuti anche con il nome tedesco knödele presenti in quasi tutto il Nord Italia, dal Friuli Venezia Giulia alle Alpi lombarde e venete. Ne esistono molte varianti, ognuna con ingredienti e proporzioni diverse, tanto che Felice Libera nel suo “L'arte della cucina: ricette di cibi e dolci, manoscritto trentino di cucina e pasticceria del XVIII secolo” ne elenca più di quindici. Ancor prima, sono citati in un ricettario di fine Settecento, dove vengono descritti come “cuscinetti di nudeln”, gnocchetti di acqua e farina lessati nel latte e utilizzati come farcia di un raviolo quadrato, successivamente passato nell'uovo sbattuto e fritto. L'utilizzo del pane raffermo in cucina è indice di cucina povera: per far fronte alla mancanza di materie prime, gli italiani hanno da sempre recuperato gli avanzi, creando piatti nuovi e gustosi, unendo al pane ormai vecchio i pochi ingredienti a disposizione. Nei canederli sono racchiusi tutti i sapori tipici dell'alta montagna: le erbe di alpeggio, gli insaccati, i formaggi, e poi funghi e brodi a insaporire, senza dimenticare il semplice condimento a base di pangrattato rosolato nel burro.

Fojade

Nella Val Brembana, incastonata tra il palco delle Alpi Orobie, sono le fojade a farla da padrone: delle larghe lasagnette non tropo sottili condite con funghi e formaggi. Un piatto antico della tradizione pastorale, nato fra i boschi di alta montagna, dove i pastori, per far fronte ai lunghi periodi trascorsi nella natura, si reinventarono raccoglitori di funghi. In autunno, infatti, si celebra la Sagra delle fojade, ricetta storica già citata nel Baldus di Folegno.

 

pizzoccheri

Pizzoccheri

Tipici della Valtellina, i pizzoccheri sono una specialità di Teglio e Tirano, una sorta di tagliatelle più spesse a base di farina di grano saraceno, farina 00 e acqua. Si cucinano tradizionalmente con patate, verze, burro fuso e formaggio (Casera o Bitto), ma sono molte le varianti nate nel tempo. Le origini del nome sono incerte, anche se si pensa che possa derivare da pita, pane in arabo, o forse da bizocuhs, parola con cui si identificavano un tempo i bizzochi, gli aderenti a una setta eretica di frati minori condannati da Bonifacio VIII. Particolarità di questa pasta sta nell'utilizzo del grano saraceno, uno di quelli che più facilmente si è adattato ai terreni poveri e montuosi.

Pasta reale

L'aggettivo reale si riferisce al suo ruolo d'elezione in passato, quando era ancora appannaggio di pochi, una prelibatezza riservata alle famiglie più abbienti. Nei ricettari, infatti, compare raramente. Oggi, invece, è una pasta comune, molto diffusa anche nella produzione industriale, popolare un po' in tutta la regione. La preparazione è piuttosto inusuale, simile a quella della pasta choux: si uniscono acqua, farina e burro e si fanno cuocere sul fuoco fino a quando l'impasto non si stacca dalle pareti. Si toglie il recipiente dalla fiamma, si versano le uova una alla volta e poi si inserisce l'impasto in una tasca da pasticceria, per ricavarne delle palline da cuocere in forno. Una volta pronte, si tuffano nel brodo e si gustano calde.

Scarpinocc

Nell'Alta Val Seriana la pastorizia ha costituito per secoli la principale forma di sostentamento delle popolazioni. Per questo, in molti piatti tipici si ritrova un grande uso di latticini, come nel caso degli scarpinocc, ravioli schiacciati leggermente al centro e ripieni di formaggio, pangrattato, aglio e spezie. La forma ricorda le antiche calzature valligiane, in uso fra gli abitanti di Parre fino a qualche decennio fa, e indossate fin dal Settecento insieme al costume nazionale in occasione delle feste. A insaporirli, ancora burro e formaggio locale grattugiato.

Strozzapreti

Nell'Italia Centro-Meridionale, gli strozzapreti sono una pasta corta di origini remote, citata più volte nella letteratura romanesca, in particolar modo nei Sonetti di Gioachino Belli. In Lombardia, invece, sono degli gnocchi di erbette e odori che vengono cucinati nel periodo di Carnevale, soprattutto nella zona di Trezzo.

 

spatzle

Spätzle

I celebri gnocchetti della bassa Germania sono molto diffusi anche in Svizzera, Francia, nel Tirolo, in Trentino e nella Valtellina. Solitamente accompagnati da piatti di selvaggina, possono essere serviti anche come minestra. Si tratta di un impasto di farina di grano, grano saraceno, acqua e uova (a cui, talvolta, si aggiunge anche il latte), che viene fatto cadere nel brodo o nell'acqua salata attraverso uno strumento apposito simile a una grattugia piatta, che conferisce la tipica forma allo gnocchetto. Ne esiste poi anche una variante verde a base di spinaci, gli spinatspäztle, conditi tradizionalmente con burro, formaggio e speck, anticamente preparati con spinaci selvatici ed erbe spontanee. Una ricetta già presente nei ricettari casalinghi trentini più antichi. Antenati degli spätzle sono i “bisi di pasta”, che si preparavano facendo colare la pastella da un setaccio direttamente nel burro fuso, prima di essere cosparsi di formaggio e poi immersi nel brodo. Altra preparazione simile è quella dei maneghi de zuc, il cui impasto veniva fatto passare attraverso una siringa nel burro di frittura.

 

tagliatelle

Tagliatelle

Pasta iconica della tradizione emiliana, le tagliatelle sono ormai da tempo diffuse in tutta la Penisola, abbinate a sughi diversi a seconda della zona, e la Lombardia non fa eccezione. La leggenda narra che sia stato Zafirano (o Zaffirino), cuoco alla corte di Giovnni II Bentivoglio, ad inventarle in occasione della visita di Lucrezia Borgia a Bologna. Secondo il racconto popolare, infatti, il cuoco si sarebbe ispirato proprio ai capelli biondi della donna per creare le celebri tagliatelle. Originariamente riservate ai giorni di festa, venivano consumate anche dalle famiglie meno abbienti: nelle campagne, durante l'autunno, i contadini facevano scorta di uova per il periodo invernale, conservandole nelle lòle, delle giare di terracotta, con una soluzione di acqua e calce. Il condimento preferito dai contadini era il sugo di salsicce accompagnato con i piselli, mentre i più benestanti utilizzavano un ragù di carni miste. La prima versione moderna delle tagliatelle è descritta da Giacinto Carena nel “Vocabolario domestico” del 1859: “Con farina intrisa in pochissima acqua non fredda, messevi talora delle uova, si fa la pasta sur un tagliere o sul coperchio rovesciato della madia: il pastone dimenato, brancicato e infarinato, si spiana e si assottiglia col Mattarello o Spianatoio, riducendolo in ampia sfoglia; e questa ravvolta su di sé e incartocciata, tagliasi con coltello trasversalmente in fila o listerelle”.

 

tortelli

Tortelli

Il nome deriva dal latino turtae indica una preparazione farcita: inizialmente, infatti, la turta era una sorta di torta rustica composta da due strati di pasta e ripiena di verdure. Preparazione di origini remote, i tortelli sono presenti già nei primi ricettari in volgare, seppur con formati diversi. Quelli preparati in occasione della vigilia, solitamente, sono farciti con ricotta oppure spinaci o zucca.

 

tortelli cremaschi

Tortelli cremaschi

Farina, acqua e poche uova per l'impasto, amaretti, uvetta, cedro candito, mustazzitt, menta, parmigiano e spezie per il ripieno. Sono gli ingredienti che compongono i tortelli cremaschi, particolarmente apprezzati nella zona di Crema ma presenti in tutto il territorio. Dei tortelli triangolari simbolo di festa, le cui origini sono da sempre contese fra i vari paesini del Cremasco. Si distinguono per l'impiego del mustazzitt, un biscotto duro e speziato che viene sbriciolato all'interno della farcia.

 

tortelli di zucca

Tortelli di zucca

Protagonista assoluta della cucina locale, la zucca mantovana dà il meglio di sé in una delle paste più celebri della Lombardia: i tortelli di zucca, mezzelune o ravioli rettangolari di pasta all'uovo ripieni di zucca mantovana, amaretti, mostarda di Cremona, parmigiano e noce moscata. Molto diffusi anche nelle zone di Cremona e Brescia, i tortelli venivano preparati un tempo in occasione della vigilia di Natale, conditi con abbondante burro e parmigiano. Fra i primi a darne testimonianza, il poeta vernacolo Ettore Berni, che ne descrive la forma a cappello napoleonico, parte del costume dei portatori di vino della Mantovana: “...dag la forma d'on capèl;/ e s'at vol po' fart' onor,/ d'on capèl da “portador”;/ e s'at vol chi diventa fin/ fai pu gros d'on agnolin”. A rendere speciale la ricetta, l'utilizzo della zucca del territorio, caratterizzata dalla dolcezza pronunciata, tanto da essere impiegata per tempo come dolcificante in mancanza dello zucchero.

Tortelli sguazzarotti

Ancora tortelli, stavolta a base di fagioli borlotti e salsa saorina: sono i turtei sguassrot, i tortelli sguazzarotti, molto in voga fra la cucina rinascimentale della corte dei Gonzaga. A fare la parte del leone, la salsa saorina, antica preparazione a base di vin cotto, zucchero, noci, mele, zucca e buccia d'arancia, aromatizzata con cannella e chiodi di garofano. Vengono serviti tiepidi o freddi, conditi con questa salsa che è presente, in minor parte, anche nel ripieno.

La ricetta: tortelli di zucca

 

a cura di Michela Becchi

 

Dove trovare il Tartufo bianco dell’Appennino bolognese

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Sale la febbre per il tartufo, il pregiato tubero che ogni anno conquista la tavole degli appassionati. E se pure esistono varietà che nascono in diverse stagioni dell'anno, è l'autunno il momento più importante, con la raccolta delle specie più pregiate.

 

Bianco pregiato, bianchetto, nero, nero estivo. Sono le principali declinazioni con cui si può identificare il fungo della famiglia delle tuberacee, quello che sulla tavola prende il nome di tartufo. Un vero e proprio tesoro sotterraneo che nasce e si sviluppa solo in terre con determinate caratteristiche e dall’equilibrio perfetto. In Italia solo alcuni territori possono fregiarsi di questo tesoro, e sono distribuiti un po' in tutto il Paese. Alcuni molto noti, altri meno, sono tutti meta di un turismo enogastronomico che si concentra nei periodi in cui si trova il prezioso tubero e dove, ogni anno, si traccia un bollettino dell'andamento stagionale di questo prodotto, fortemente condizionato dal clima. Cominciamo oggi un racconto delle mete imperdibili per gli amanti del tartufo.

 

Il bianco pregiato dell'appennino bolognese

La zona intorno a Bologna è una di quelle chiave per il tartufo; il re della tavola è il bianco dell’appennino. Lo è a tal punto che, a fianco di storiche vie che attraversano le colline fuori Bologna - tra le più famose ci sono la Via degli Dei e la Francigena - si è creata una sorta di strada del tartufo che parte da Bologna, passa dalla Valsamoggia, e attraversa tutto l’Appennino, invadendo piazze e dando vita a una vera e propria celebrazione di questo gioiello della terra che vede in Savigno una delle sue città d'elezione.

Il bianco pregiato qui matura fra settembre e dicembre, in boschi di nocciolo, pioppo nero e bianco, salice bianco, quercia, cerro, roverella, tiglio, carpino bianco e nero. È di colore giallo ocra,ha una una bella compattezza di gleba, una profanazione rotonda, robusta e costante con sentori floreali, agliacei e di sottobosco.

L'annata 2018

Questo 2018 si sta rivelando piuttosto positivo rispetto alle sfide della siccità della scorsa annata: il caldo-umido alternato a periodi di pioggia ad alte temperature ha permesso al tartufo locale di crescere in modo ottimale e, a raccolta appena iniziata, presenta già profumi intensi e forti, indice di ottima qualità. In Appennino il suo valore si attesta, per ora, in un range tra i 2.500 euro al chilo fino ai 3.500 euro, a seconda delle dimensioni. La raccolta è regolamentata e, per il bianco, viene autorizzata fino alla fine di dicembre. Poi si passa al bianchetto.

È un anno particolare per il tartufo. Una produzione media ma di grandissima qualità”.A dichiararlo è Luigi Dattilo, fondatore trentaquattro anni fa a Savigno della Appennino Food Group, che con i suoi 46 dipendenti e le sue tre sedi estere è tra i maggiori in Italia nella raccolta, conservazione e commercializzazione dei tartufi. I suoi vanno letteralmente in giro per il mondo e quelli raccolti in Appennino possono essere degustati - nel giro di ventiquattro ore - nei ristoranti degli Emirati Arabi, a Hong Kong o a Shanghai. Dattilo è il primo al mondo ad aver realizzato anche un’app dedicata al tartufo e utilizzata dagli chef di tutto il mondo: “basta un click per connettersi con la nostra pagina web che mostra, in tempo reale, i tartufi disponibili appena raccolti e, attraverso una minuziosa descrizione, le caratteristiche organolettiche. Allo chef - dice Dattilo - non resta che scegliere quello che più gli piace e nel giro di poche ore, attraverso un percorso costantemente tracciato ed una conservazione rigorosissima, arriva direttamente nella cucina del suo ristorante. In tutto il mondo”.

 

L'acquisto

Se il tartufo invece lo si vuole utilizzare nella cucina di casa, ci sono alcune importanti regole da seguire. All'acquisto l'esemplare non deve presentare difetti che ne alterino le caratteristiche organolettiche: una maturazione insufficiente o diversi stadi di deperimento che compromettano l'odore con esalazioni di ammoniaca o metano o formaldeide, macchie brune sul perizio rivelatrici di micosi, parassiti, consistenza gommosa, indice di una conservazione non ottimale o di poca freschezza. Come conservarlo? “Rigorosamente in frigo a una temperatura di +2, +4 gradi, in un contenitore, avvolto in carta assorbente che deve essere sostituita rigorosamente ogni paio di giorni” dice Dattilo. “Da sfatare poi la conservazione del tartufo nel riso: è assolutamente vietato”.

 

Le feste

I mesi di ottobre e novembre sono ideali per andare alla scoperta di questo prodotto, soprattutto a tavola. Tartufesta è il nome della manifestazione itinerante d’autunno dell’appennino bolognese. In tutti i fine settimana e attraversando i territori votati alla raccolta, si possono scoprire luoghi e soprattutto sapori legati al tartufo, lo si può acquistare fresco direttamente dai raccoglitori e lo si può assaggiare nelle cucine allestite per l’occasione, nelle declinazioni classiche o con qualche guizzo di contemporaneità, rispettando sempre un disciplinare rigoroso. L’uovo sembra essere il compagno ideale del tartufo, e assieme alla tagliatella e alla cotoletta diventano l’abbinamento perfetto in questi giorni di festa.

C’è poi una festa nella festa. A Savigno il tartufo bianco pregiato viene celebrato nei primi tre fine settimana di novembre con una grande Festival internazionale del tartufo bianco, giunto alla 35° edizione, che prende il nome di Tartòfla dalla sua espressione dialettale. Solo lo scorso anno per Savigno sono passate oltre 40 mila persone che hanno acquistato direttamente dai raccoglitori, pranzato nei ristoranti o negli spazi comuni messi a disposizione dalla proloco, bevuto vini dei colli bolognesi e assaggiato prodotti della valle. La manifestazione coinvolge la piazza centrale e le vie limitrofe accogliendo – oltre al tartufo - anche altre specialità locali. Ma le iniziative includono anche passeggiate naturalistiche, spettacoli e tanti appuntamenti enogastronomici. Proprio in occasione del Festival sarà inaugurata, giovedì 1 novembre, la Via del Tartufo, un percorso da trekking che offrirà la possibilità di immergersi tutto l’anno nelle bellezze paesaggistiche e nelle delizie enogastronomiche di Savigno che, proprio in questa occasione vedrà la presenza di una guida escursionistica, un Tartufino e il suo cane che daranno una dimostrazione pratica della caccia al tartufo.

Ristoranti

E poi ci sono i ristoratori dell’appennino che durante tutto il periodo della raccolta (ma in realtà il tartufo lo si trova, nelle sue varie espressioni, quasi tutto l’anno) propongono specialità che si muovono sulla linea di confine tra ricette ultraclassiche e nuove proposte.

Proprio a Savigno risiede uno dei punti di riferimento della gastronomia dell’appennino e del tartufo: da Amerigo 1934, Due Forchette per il Gambero Rosso e una stella Michelin, che con il tartufo prepara tagliolini semplicissimi in cui il tartufo bianco è il vero protagonista, oppure l’uovo alla Amerigo in cui il tartufo rapè abbraccia un tuorlo morbidissimo e un albume più strutturato.

A Castiglione dei Pepoli Lucia Antonelli, chef della Taverna del Cacciatore il tartufo lo offre dall’antipasto al dolce. Lo grattugia a scaglie su una caciotta fritta di montagna, lo mette su passatelli ripassati nel burro e lo offre a fine pasto in un dolce che prende proprio il nome di tartufino.

A Sasso Marconi, all’Antica Hostaria Roccadi Badolo il tartufo lo si propone sulle immancabili tagliatelle all’emiliana o su gustosi sformatini arricchiti di lamelle profumatissime.

 

https://www.cittametropolitana.bo.it/tartufesta

http://www.tartufosavigno.com/ www.facebook.it/tartofla

Amerigo 1934 - Savigno (BO) - via Guglielmo Marconi, 14/16 - 051 670 8326 - https://www.facebook.com/Amerigo1934/ http://www.amerigo1934.it

Taverna del Cacciatore - Castiglione dei Pepoli (BO) - Via Cavaniccie, 6 - +39 0534 91143 - http://tavernadelcacciatore.com/

Sasso Marconi, all’Antica Hostaria Rocca - Badolo (BO) - via Brento, 4- 051 847506 - http://www.hosteriadibadolo.it/

 

a cura di Tommaso Costa

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