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Il Mercato Centrale arriva a Torino. Dalla primavera 2019 al Palafuksas con Baronetto e Scabin

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4500 metri quadri su tre livelli all’interno del Centro Palatino di Porta Palazzo, che subirà un profondo restyling per l’occasione. Taglio del nastro previsto per marzo 2019, quando insieme agli artigiani del gusto torinesi esordiranno al mercato di Umberto Montano anche Matteo Baronetto e Davide Scabin, con due idee inedite. 

 

Il Mercato Centrale a Porta Palazzo

Il Mercato Centrale a Torino si farà, ma perché prenda forma bisognerà aspettare la primavera 2019. Come dirimpettaio avrà un mercato che di storia ne ha respirata tanta, quello di Porta Palazzo, che dal 1835 inscena in piazza della Repubblica uno spaccato di vita torinese destinato a evolversi con la città e i costumi di chi la abita. Il più grande mercato all’aperto d’Europa, con la Tettoia dell’Orologio per i prodotti dei contadini piemontesi, le drogherie storiche, il padiglione del pesce, i banchi di specialità etniche, che pure raccontano il presente di una città multietnica com’è Torino. Di là dai binari del tram che attraversano la grande piazza di forma ottagonale, il Palafuksas, realizzato su progetto di Massimiliano Fuksas a partire dal 1997 per sostituire l’obsoleto padiglione dell’abbigliamento, è per molti aspetti un’occasione mancata: travagliata la gestazione, poi sede di mostre temporanee e dal 2011 mall commerciale col nome di Centro Palatino, ben riconoscibile dal caratteristico profilo in vetro e metallo che gli è valso l’appellativo di Lampada di Aladino. Degli ambiziosi progetti iniziali ben poco si è concretizzato col tempo, e il Palafuksas non è mai riuscito a esprimere le sue potenzialità.

 

Il restyling del Palafuksas

Umberto Montano, però, sembra aver intravisto proprio nel controverso padiglione dell’abbigliamento di Porta Palazzo un’opportunità da non perdere per replicare a Torino la fortunata formula del Mercato Centrale, che a Firenze continua ad attirare ogni giorno migliaia di turisti in visita alla città, e anche a Roma è riuscito a valorizzare uno spazio della stazione Termini altrimenti destinato al degrado come la Cappa Mazzoniana. Così già la primavera scorsa l’imprenditore toscano festeggiava il primo traguardo sul percorso che porterà al debutto del polo gastronomico in città, annunciando di essersi aggiudicato la gara per la concessione del Palafuksas per 1 milione e 100mila euro, insieme al gruppo Human Company di Claudio Cardini. Un obiettivo centrato dopo anni di corteggiamento, con l’intenzione di stabilire un fitto rapporto di scambio con gli operatori e le botteghe storiche di Porta Palazzo. Ora si procederà con i lavori di restyling (già iniziate le demolizioni, da settembre via libera alla riformulazione degli spazi), in vista dell’apertura prevista per marzo 2019, ma già si profilano le prime collaborazioni celebri per restituire ai torinesi una struttura mai goduta a pieno dalla città. Tre i livelli a disposizione per una superficie complessiva di 4500 metri quadri, con il secondo piano destinato ad accogliere mostre ed eventi culturali, come le ghiacciaie recuperate per ospitare installazioni d’arte.

 

Il lab del formaggio, Baronetto e Scabin

Il Mercato Centrale come abbiamo imparato a conoscerlo a Firenze e Roma, invece, vivrà al primo piano dell’edificio, insieme alla scuola di cucina, un laboratorio didattico sul formaggio, un lounge bar. Vero fulcro del progetto saranno gli artigiani piemontesi che accetteranno di far parte del circuito, come Beppino Occelli, che sarà pure responsabile del laboratorio caseario. Ma le guest star del caso (anticipate dal Corriere della Sera) risiederanno al pian terreno, con due idee di ristorazione street food d’autore formulate per l’occasione: Matteo Baronetto, e con lui Michele Denegri proprietario del Cambio, hanno scelto di sposare l’iniziativa di Montano con un progetto legato alla Farmacia del Cambio. Mentre per Davide Scabin l’esordio in centro città passerà per l’ideazione di un concept inedito – Mondo Scabin – incentrato sulla condivisione di piatti d’autore per tutte le tasche. Soddisfazione per l’intesa la esprime l’assessore al commercio Alberto Sacco: “Sono certo che, dal prossimo anno, artigianato locale, scuola di cucina, attività commerciali, eventi culturali e spazi aggregativi faranno del Centro Palatino una delle mete più frequentate dai visitatori”. La speranza che il Palafuksas possa finalmente trasformarsi in una meta d’attrazione turistica della città torna ad accendersi.

 

a cura di Livia Montagnoli

foto L&M


Street food, sì, ma di pesce. 4 indirizzi tutti a provare a Catania

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Uno sguardo all’insù verso l’Etna, a Muntagna, come la chiamano da queste parti, e uno nel profondo mare, Catania traduce la sua duplice natura geofisica in una identità culinaria unica, con la cucina di pesce a fare la parte del leone. Anche in versione street food.

 

Nel capoluogo etneo che ha dato i natali al fenomeno Fud (ora anche a Palermo e Milano), la bottega che interpreta in chiave sicula e moderna il classico fast food, si affacciano oggi realtà nuove di street food mentre alcune di quelle esistenti già da tempo trovano una chiave diversa, informale e disinvolta – in una parola, appunto, “street” - per portare avanti tradizioni secolari legate al pesce e ai prodotti facili da consumare anche senza coltello e forchetta, in piedi o camminando. Più che puntare verso l’alta ristorazione, infatti, a Catania si preferisce proporre la tradizione della cucina di mare in versione cibo di strada (ma gourmet), con panini, taglieri o cartocci di pesce elaborati in menu che accostano sapori di una volta e abbinamenti nuovi, partendo sempre dalla materia prima, la cui scelta non è mai lasciata al caso.

Arancini con sugo di pesce

mm! Street Food

Come mm! Macelleria Marino e il loro nuovissimo mm! Street Food. Tutto ha inizio più di 30 anni fa con la storica macelleria della famiglia Marino che diventa palestra di vita e professionale per i fratelli Carmelo e Gaetano, che insieme oggi gestiscono il ristorante, la trattoria e il locale di street food di pesce. “Sono stato il primo, insieme alla mia famiglia” dice Carmelo “a servire nella macelleria di famiglia, tanti anni fa, i panini con la carne e il pesce che oggi sono diventati il famoso street food”. Studi agrari, esperienze all’estero e poi il ritorno nella sua Catania dove Carmelo, appresa sin da bambino l’arte di lavorare la carne, continua l’attività con il ristorante e la trattoria laddove un tempo c’era la famosa macelleria.

Il recentissimo mm! street food riprende la nostra tradizione dei panini con il pesce, ma con un menu totalmente nuovo che molti dicono gourmet e noi diciamo anche e soprattutto artigianale, naturale, locale, stagionale. Uno street food dove la differenza sta nella qualità delle materie prime e nel modo in cui il pesce viene lavorato”. Ed è Carmelo a trattare personalmente il pesce che sceglie ogni giorno da fidatissimi venditori negli adiacenti banconi della pescheria e lo propone in piatti che accostano sapori semplici ma mai banali. Il menu è veloce e fresco, studiato per un viaggio nei sapori dell’Isola, partendo proprio da Catania.

Come il fish burger di tonno con salsa di yogurt, insalata mista, pomodoro, provola affumicata o l’hot dog di pesce con caciocavallo ragusano, cipolla rossa in agrodolce, o la ciabatta con carpaccio di tonno e la mozzarella burrata. Ci sono anche i famosi arancini catanesi ma questa volta solo di riso bianco serviti su un sugo di pesce, le sarde a beccafico, la parmigiana di pesce spada e il coppo di pesce misto fritto. Ancora all’Isola è legata la scelta dei vini e delle birre artigianali, tutti rigorosamente made in Sicily.

 

 

Panino con tonno crudo

Fishiaria

Restiamo sempre nel cuore del centro storico di Catania, non lontano dalla brulicante e iconica pescheria, dove è nato Fishiaria, un progetto voluto da Giuseppe D’Aquino e Cristina Messina che hanno deciso di puntare principalmente sul pesce crudo e marinato per i piatti così come per i panini di mare, anche se di recente in cucina si prepara anche qualche piatto caldo. C’è il panino di tonno crudo, pomodoro, chips, stracciatella, guanciale, vellutata di basilico e mandorle e quello di polpo, nduja, rucola, cavolo nero in agrodolce e pomodoro. Tra i più gettonati anche il panino gourmet ai gamberoni crudi, maionese all’avocado, rucola, ciliegino, guanciale croccante e quello con alici, misticanza, tuma, pistacchio. Ancora e solo pesce crudo nei taglieri di misto mare, le tartare di orata, spigola, salmone, tonno e pesce spada; il carpaccio di pesce ma anche il ceviche di salmone servito con il mango, l’arancia, menta e mandorla.

Abbiamo scelto di proporre soprattutto pesce crudo perché volevamo creare un menu che avesse una linea di continuità pur nella varietà delle proposte” dicono Giuseppe e Cristina. “I nostri crudi sono sempre abbinati alla frutta fresca e le verdure nonché ai vini e alle birre siciliane” continuano “Stiamo puntando molto anche sui nostri cocktail. È un nuovo modo di gustare il pesce purché si scelga sempre la qualità e soprattutto la freschezza del prodotto locale”. Chiediamo loro perché a Catania manca un indirizzo di alta ristorazione. “Perché forse manca il pubblico o perché oggi un ristorante di un certo livello rappresenta un impegno non facile da gestire” rispondono, ma poi aggiungono “sono cambiati anche i tempi e le abitudini alimentari. Si preferisce una ristorazione facile, pratica, veloce ma di qualità. Quella del panino gourmet di pesce sembra essere perfetta perché coniuga tradizione e innovazione”.

 

Frittura

Scirocco, Sicilian Fish Lab

Sullo street food di pesce hanno puntato da tempo anche i ragazzi di Scirocco, Sicilian Fish Lab, un locale nato da una vecchia macelleria che si affacciava sulla pescheria e oggi recuperato nella forma di un chiosco con i tavoli all’aperto. Fritture di calamari, gamberi, seppioline, alici avvolte nei tradizionali cartocci di carta di paglia ma anche gli arancinetti di pesce, le sarde a beccafico, le polpettine di baccalà, gamberetti, alici. Piatti semplici, veloci, pesce fresco di giornata lavorato come da tradizione siciliana legata al cibo di strada.

 

Arancino di mare

Anchovy Fish Bar

Non lontano da Catania, ad Acitrezza, nella Riviera ciclopica famosa per le sue storie legate al mito (Ulisse) e alla letteratura (I Malavoglia di Giovanni Verga), c’è Anchovy Fish Bar dove troviamo ancora la formula del pesce proposto in street food in versione gourmet. Si parte sempre dalla tradizione siciliana, in questo caso gli arancini di pesce al nero di seppia e ricotta di bufala o ai gamberi e pistacchio, si continua con i classici “coppi” di paranza e fritto del giorno, fino agli ormai immancabili panini di mare ricercati nell’accostamento di pesce, formaggio e verdure. Come il panino Anchovy, un burgher di alici, cipolla caramellata, cremoso di caciocavallo e salsa in finocchietto selvatico o quello di tonno con pistacchi tostati e cipolla di Giarratana stufata.

A guidare la cucina c’è lo chef Danilo De Pietra che il proprietario Andrea Rosa ha voluto dopo aver maturato l’idea di un fast food di qualità. “Vogliamo comunicare al pubblico” dice Danilo “un nuovo modo di fare street food di pesce: di qualità. Perché nel classico cibo di strada catanese spesso la qualità manca, mentre noi puntiamo soprattutto sulla scelta attenta delle materie prime. Che per noi significa pesce fresco che viene da una filiera controllata, riso siciliano, verdure locali, formaggi siciliani”. Quale è la vostra proposta? “Abbiamo studiato insieme un menu stagionale dove il pesce viene lavorato e trattato in maniera minimale esaltando il gusto e l’odore”. Quando è che un panino diventa gourmet? “Quando c'è una materia prima di qualità e una personale interpretazione delle ricette con diversi ingredienti come formaggi, verdure, legumi, con l’apertura a ricette internazionale come il nostro panino con l’astice nel classico stile americano”.

 

mm! Street Food – Catania - via Pardo, 26 - 095 348897

Fishiaria Quality food and Cocktail - Catania - via Riccioli, 4/6 - 095 6179932- http://www.fishiaria.it/

Scirocco, Sicilian Fish Lab – Catania - piazza Alonzo di Benedetto 7 - 095 8365148
328 9237 991- http://www.sciroccolab.com/

Anchovy Fish Bar – Aci Castello (CT) - via Provvidenza - 095 711 6047

 

a cura di Liliana Rosano

 

 

 

 

Unforgettable con Christian Mandura a Torino. E il ristorante di Chieri diventa Geranio in Trattoria

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Classe 1990, il giovane chef piemontese ha sempre avuto le idee chiare. E dopo essersi fatto conoscere con le sperimentazioni del Geranio alle porte della città, cambia tutto e arriva a Torino con un ristorante di grande ambizione. Nuova pelle anche a Chieri, dove il Geranio diventa trattoria contemporanea. 

 

Da Chieri a Torino

Chi ha partecipato alle cene di Palazzo Saluzzo, negli ultimi mesi ha imparato a conoscerlo nel ruolo insolito di cuoco di palazzo. Ma Torino (e non solo) da tempo ha scoperto il talento di Christian Mandura, che a poco più di una decina di chilometri dalla città, in quel di Chieri, ha costruito un tassello dopo l’altro il suo quartier generale, facendo del Geranio uno dei più interessanti esiti della giovane cucina contemporanea italiana. Piemontese, con trascorsi al Noma e al Cambio di Matteo Baronetto, poco più che 25enne ha scelto di ripartire da casa forte di una consapevolezza maturata al fianco dei maestri – e ancor prima guardando sua madre, che con lui gestisce il ristorante di Chieri - e insieme di quella personalità spiccata che gli ha permesso di coniugare il desiderio di sperimentare con la necessità di garantire solide basi all’attività di famiglia. Così è nato il Geranio, capace di conquistare critica e pubblico: a pranzo la cucina rassicurante della mamma, la sera spazio all’esperienza gastronomica alimentata da una girandola di assaggi che valorizzano la materia prima locale. Con la stessa lucidità di visione, ora che è cresciuto abbastanza per cominciare a pensare ancora più in grande pur restando con i piedi per terra, Christian si appresta a fare il suo esordio in città: in una Torino sempre più intrigante per varietà e originalità di proposte (due novità dell’ultimo anno su tutte, Edit con i fratelli Costardi e Condividere nella Nuvola di Lavazza), Christian avrà il suo ristorante a partire dall’inizio di novembre.

 

Unforgettable

Una promessa mantenuta, se è vero che da tempo il giovane chef, neppure trentenne, desiderava trovare uno spazio per proporre qualcosa di molto personale su un palcoscenico capace di recepire il messaggio. Unforgettable - come si chiamerà il locale di via Valerio Lorenzo, non distante del santuario della Consolata, alludendo all’unicità dell’esperienza – è frutto dell’incontro con investitori che hanno creduto nelle idee messe sul piatto da Christian, lasciandogli carta bianca per sviluppare il concept in ogni dettaglio, dall’allestimento alle porcellane, passando chiaramente per la formula gastronomica, che a detta dello chef porterà una ventata di novità in città. E infatti il gruppo non nasconde le sue ambizioni, l’auspicio è quello di raggiungere riconoscimenti importanti, “ma lavorando sodo, perché qui ripartiamo da zero e il nostro percorso è tutto da costruire”. Conquistare la fiducia dei suoi commensali, del resto, sembra essere una sfida che piace molto a Christian, finora abituato a confrontarsi con una piazza di certo poco abituata alle sperimentazioni ardite, eppure con buon riscontro. Ecco perché a Torino la posta in gioco si alzerà ancora: “Abbiamo a disposizione più di 200 metri quadri di locale, ma serviremo solo 10 coperti per servizio, tre in tutto durante la giornata, quello del pranzo e due turni a cena, con tempi ben cadenzati. L’esperienza durerà 2 ore, partendo dal bancone dove si consuma il pasto per arrivare al salottino del caffè, che gioca un ruolo importante nel progetto”. L’allestimento degli spazi è stato curato dall’art director Francesco Longo: al completamento dei lavori si continuerà a lavorare nelle prossime settimane, ma l’orientamento è stato ben chiaro dall’inizio. Nel suo minimalismo contemporaneo il restyling degli spazi mantiene il fascino antico dell’edificio quattrocentesco, valorizzato da pezzi unici e illuminazione sapiente, come nel corridoio d’ingresso allestito a cantina, con le bottiglie incastonate tra i mattoni d’epoca attraverso un originale sistema di incastri, e punti luce ad accentuare la teatralità.

La sala, l’esperienza gastronomica

Molto diverso l’impatto con la sala, col bancone in mogano ebanizzato, gli sgabelli Philippe Starck in pelle bianca, il piano d’appoggio dei piatti in quarzite nera, una lama di luce che illumina la sequenza dei sottopiatti: “L’attenzione dovrà concentrarsi sul cibo, dietro al banco ci muoveremo in 3, ma non parlerei di cucina a vista nel senso occidentale del termine. L’approccio è ispirato alle cadenze misurate dei maestri giapponesi del sushi, lavoreremo pochissimo sulle cotture a vista, non ci saranno fumi e profumi invadenti. La immagino come un’esperienza di ispirazione orientale applicata a una proposta di cucina italiana contemporanea”. Per questo anche la mise en place sarà piuttosto particolare: “I piatti li ha disegnati per noi Anna Basile, ho voluto solo porcellane bianche, di forma rotonda, per ritornare a un’idea di pulizia che non distolga l’attenzione dal cibo. E infatti il 40% del menu sarà servito su un sottopiatto quasi invisibile: portate da mangiare con le mani, in attesa dell’assaggio successivo. Chi lavora in sala provvederà a passare un panno caldo sul piatto, per pulire tra una portata e l’altra”. Poi si articolerà il resto del menu, da mangiare con le posate, ma sempre con l’idea “di togliere tutto il trascurabile”. Qualche esempio dal primo menu (degustazione obbligata)? Caviale e patate, piccione e alloro, un caponet ripensato in forma di snack, con foglie di verza “vetrificate” a racchiudere il ripieno della ricetta tradizionale piemontese. “Circa 10-12 pezzi in tutto, con piatti giocati su un paio di elementi, per un menu equilibrato che proporremo inizialmente a 70 euro (eventuale pairing a 30 euro, anche in versione analcolica), perché non dobbiamo spaventare nessuno. Mi piacerebbe stimolare la curiosità di molti”.

 

Caffè e drink in salotto

A fine pasto, invece, comincerà l’esperienza caffè, in uno spazio nuovamente più intimo e caldo: “Serviremo moka, caffè espresso o filtro. E drink, in collaborazione con Salvo Romano del Barz8, che preparerà per noi cocktail già miscelati, pronti da servire”. Se la formula avrà successo Torino potrebbe essere la startup di un’operazione di respiro internazionale, “già si pensa a Barcellona, ma anche al Canada e al Giappone, dove la proprietà (attiva nel settore della moda e del lusso, ndr) lavora molto”.

 

Il Geranio in Trattoria. Nuova pelle a Chieri

Ma dal Geranio, cosa dobbiamo aspettarci? Grandi novità, che Christian annuncia con entusiasmo, consapevole di essere di fronte a un nuovo, duplice, inizio, che porta con sé molta adrenalina: “Io sarò fisso da Unforgettable, per questo il Geranio cambierà pelle, già a partire da settembre. Saremo una trattoria contemporanea di alto livello, con prezzi molto accessibili”. Dunque a pranzo si continuerà con la formula della mamma, la sera niente più percorsi arditi – “ma se qualcuno ce lo chiederà, almeno nei primi due mesi di rodaggio, siamo a disposizione” – ma una carta breve con 8 antipasti, 4 primi, 4 secondi e 4 dolci della tradizione piemontese. “Parlerei di un passo indietro per farne tre avanti, una nuova fase intelligente che abbiamo ribattezzato Geranio in Trattoria. Tra i piatti d’esordio l’omaggio a Bocuse, con il brodo di cipolla in purezza e funghi, servito in cocotte chiusa da un disco di pasta sfoglia. E poi l’anguilla in carpione, la carne cruda col tuorlo fritto, il filetto in crosta, la quiche lorraine vegetale con insalata di rinforzo”. Prezzi molto contenuti, con l’obiettivo di servire 40-50 coperti a sera, attirando anche il pubblico di Torino: 6-8 euro per antipasti vegetariani come l’insalata russa, 10 per vitello tonnato e tartare, primi sui 10-12 euro, secondi a 12-15 euro; e una formula da 4 portate a scelta a 28 euro, “per stare sotto la soglia psicologica dei 30, che è la fascia di prezzo su cui si assesta il nostro territorio”. Manca poco all’inizio: tra qualche giorno l’esordio del Geranio in Trattoria, a novembre la sfida più grande. Torino è pronta per Unforgettable.

 

Unforgettable – Torino – via Lorenzo Valerio, 5b – dall’8 novembre 2018

Geranio in Trattoria – Chieri (TO) – via Beppe Fenoglio, 4 -  da settembre 2018 – www.geranioristorante.it

 

a cura di Livia Montagnoli

 

In viaggio. Dove mangiare a Lisbona tra tradizione e giovani chef

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Il boom turistico di Lisbona non si ferma ed esplode anche la gastronomia. Nel numero di agosto del mensile del Gambero Rosso andiamo alla scoperta di nuovi format, nuove proposte e giovani chef. Qui un'anticipazione.

 

In continua evoluzione, la gastronomia lusitana si proietta nello scenario della cucina internazionale partendo da una forte tradizione legata al mare, al baccalà, al vino. I cuochi giovani spingono verso una sempre più forte sperimentazione e i piatti propongono fusion di ingredienti e di esperienze. La capitale, Lisbona, rappresenta bene il Portogallo moderno. Che ha neppure 40 anni.

Lisbona dopo Expo e i Campionati Europei di calcio

Con lo sguardo rivolto verso l’Oceano Atlantico e un territorio posizionato ai margini occidentali dell’Europa, sin da quando nei secoli scorsi le navi partivano dalla capitale Lisbona alla scoperta di nuovi territori, il Portogallo è una di quelle mete turistiche che non si possono certo definire convenzionali. O perlomeno che non lo erano sino a qualche anno fa. Un po’ perché era difficile capitarci per caso, vista la posizione geografica decentrata, e poi per l’isolamento politico, sociale ed economico dettato fino alla metà degli anni Settanta dalla lunga dittatura di Salazar. A seguire però le cose sono progressivamente cambiate in maniera drastica, con l’arrivo degli anni Novanta e una serie di eventi importanti come l’organizzazione dell’Expo '98 a Lisbona e i successivi Campionati Europei di calcio, oltre a una sempre maggiore facilità di integrazione all’interno della Comunità Europea anche grazie a nuovi collegamenti aerei. Certo, come tutti gli stati sudisti del Continente, il Portogallo ha vissuto una feroce crisi economica nell’ultimo decennio, ma il peggio sembra essere in qualche modo passato, almeno a giudicare dai trend positivi che riguardano la capitale Lisbona e i mercati del turismo. Basti pensare che perfino l’Iva sulla ristorazione, che qualche stagione fa era arrivata a toccare il 23%, è stata ora ribassata al 13%, per favorire ulteriormente la ripresa, con la capitale lusitana che da sempre accentra buona parte del turismo nazionale e vede in prima fila ben seimila ristoranti sul territorio urbano (l’8% dell’intero Portogallo), in un trend di crescita davvero importante. Tornando in città, anche solo a distanza di pochi mesi, ci si imbatte in nuovi locali, alberghi o ristoranti, che rappresentano bene la vitalità che si respira oggi sulle rive del fiume Tago.

Lisbona

I grandi vecchi

Se è vero che da un lato non sono pochi gli esercizi commerciali che chiudono con una certa rapidità – anche dopo meno di un paio di anni di vita – allo stesso tempo altri ne nascono, con nuovi concept e nuove stimolanti idee. La ristorazione, mai come in questo momento, vive una fase di positiva crescita: qui spesso si supera il lascito della tradizione popolare per andare alla scoperta di una nuova creatività. Oggi, se vogliamo, si raccolgono anche i frutti seminati da quei cucinieri di ultima generazione (da José Avillez a Henrique Sa Pessoa passando per Vitor Sobral) che hanno svolto il fondamentale ruolo di guida verso una nuova cucina più moderna. Ecco perché Lisbona è diventata in brevissimo tempo una destinazione foodie di tutto rispetto. Vediamo quali sono i giovani promettenti per organizzare un tour gastronomico a Lisbona, tra nuove aperture e indirizzi imperdibili.

Piatto di  Rui Silvestre del ristorante QuorumPiatto di Rui Silvestre

I giovani rampanti

Ultimo arrivato in ordine di tempo è il ventinovenne Rui Silvestre, che da pochi mesi ha inaugurato il suo ristorante Quórum nel quartiere del Chiado, sulle ceneri del ristorante temporaneo Sem Titulo. Giovane stellato del Bon Bon in Algarve, che ha da poco lasciato per seguire un nuovo progetto sempre nella regione più a sud del Portogallo, Rui Silvestre vive il suo locale di Lisbona come uno spazio un po’ sperimentale, nel quale mettere nel piatto un curioso mix di sensazioni che passano attraverso i suoi trascorsi (e le basi) in Francia alla corte di Christophe Bacquie e varie esperienze in giro per l’Europa. Anche le preparazioni qui rivelano un approccio molto global con l’attenzione verso la materia prima che arriva da diverse culture. Così la goiaba (frutto dell’America centrale) incontra il formaggio portoghese Serpa, e il baccalà (cucinato in varie sue parti, lingua confit compresa) viene animato dalle spigolosità del coriandolo e dalla cremosità dell’uovo. È un ristorante, il Quorum, che vuole attirare l’attenzione di una clientela giovane, grazie anche a prezzi calmierati e a uno stile molto cool, con musica elettronica in sottofondo, servizio spigliato, tavoli di legno e un giardino verticale. Senza dimenticare i dolci creativi di Joana Abreu, pastry chef di talento che ha seguito Rui Silvestre dall'Algarve.

Piatto di Diogo Noronha del ristorante PescaPiatto di Diogo Noronha

Cambiando quartiere e spostandoci nell’area urbana più hip del momento, la frizzante Principe Real, si incontra il Restaurante Pesca, aperto da meno di un anno e che vede come protagonista il giovane Diogo Noronha. Visto all’opera prima da Pedro e o Lobo e poi al Rio Maravilha, con Pesca (che come s'intuisce dal nome è un ristorante di solo pesce), Diogo compie un passo fondamentale nella definizione di uno stile di cucina sicuramente più personale e maturo, ma sempre eclettico e originale. Il pesce fa la parte del leone nel menu, certo, ma anche le verdure lasciano buone sensazioni, come accade per il cavolfiore grigliato al carbone, con crema di nocciole, purée di limone e taccole. Poi è chiaro che qui si passa soprattutto per l’ottimo polpo grigliato con patate, lattuga e vinaigrette di avocado, o per il riso all’astice con grano saraceno tostato e le erbe che arrivano dalla tenuta di Ria Formosa. Il menu di Pesca non è particolarmente esteso, ma i piatti sono sempre avvincenti e si affiancano bene anche con un pairing di cocktail preparati dal simpatico barman Fernão Gonçalves. Un consiglio da provare? Il suo Negroni aromatizzato al finocchio.

 

Nel numero di agosto del mensile del Gambero Rosso continua il racconto delle nuove aperture in città ad opera di altri giovani chef, da Antonio Galapito a Joao Rodrigues passando per Alexandre Silva e Miguel Castro e Silva.

 

a cura di Gualtiero Spotti

foto di Stefano Borghesi

 

 

QUESTO È NULLA...

Mensile di agosto-anteprima del servizio su Lisbona

Nel numero di agosto del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate l'itinerario completo. Un servizio di 10 pagine che include anche un approfondimento sul futuro della nuova cucina portoghese a firma di Pina Sozio, i consigli per scoprire il caratteristico pesce in scatola, 8 chef da conoscere assolutamente, l'utile infografica di Alessandro Naldi che mette in luce tutte le date fondamentali della storia portoghese. E ancora, un focus su José Avillez e lo street food (compresa una mappa del suo “impero”), gli indirizzi utili e il pronostico sulle future stelle.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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L’azienda Fonte Margherita salvata dal fallimento. E l’acqua del Pasubio rinasce grazie all’imprenditoria italiana

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Un ultracentenario impianto di imbottigliamento di acqua del Pasubio che rischia di chiudere, due professionisti con trascorsi diversi che fanno squadra e recuperano l’azienda. La storia dell’acqua delle Piccole Dolomiti salvata da un duo di imprenditori. 

 

L’azienda, dal 1845 a oggi

Ai piedi delle Piccole Dolomiti, da oltre 100 anni, due stabilimenti storici sorvegliano la natura circostante: Fonte Margherita e Sorgente Alba, che insieme rappresentano il più antico impianto di imbottigliamento del Veneto. Acquistata nel 2017 da Denis Moro, giovane imprenditore dell’alto vicentino a cui si è aggiunto, nel 2018, il Ceo dell’azienda metalmeccanica padovana Sariv Nicola Sartore, la realtà conta oggi tre sorgenti diverse da cui ogni stabilimento attinge: Camonda e Alba, Alba e Azzurra e Bolfe Giotti, per un totale di 13 milioni di bottiglie. Un’azienda che va da avanti da oltre un secolo, ma che rischiava di scomparire. Una storia che avrebbe potuto interrompersi, se non fosse stato per la lungimiranza del duo Moro/Sartore.

Risollevarsi a un passo del fallimento

Due professionisti che hanno scelto di unire le forze per rilanciare quello che fino a poco tempo fa era un impianto a un passo dal fallimento. E che oggi si presenta invece in una nuova veste, quella di un’azienda in attivo economico, grazie all’acquisizione da parte di Moro, che ha rilevato lo stabilimento di Valli del Pasubio, e la spinta imprenditoriale di Sartore, che si è impegnato fin da subito per far compiere al marchio quel salto di qualità necessario nel campo gestionale. “Quando sono arrivato, l’azienda veniva da oltre dieci anni di bilanci in rosso”, spiega, “è stato subito messo in atto un piano di rilancio che ha permesso di salvaguardare il patrimonio aziendale a quindici posti di lavoro già tre mesi dopo l’acquisizione”. E che ha consentito di raggiungere il giusto equilibrio e poter porre poi le basi per una crescita in positivo, “volevo portare all’interno nuove competenze”.

L’ampliamento dell’azienda

Un anno fondamentale, il 2018, che segna l’inizio di una nuova vita per il più antico impianto del Veneto. Un anno cominciato con nuovo vigore, una forza ritrovata e uno stimolo continuo, “grazie a un ulteriore ampliamento dell’organico e alla creazione di un nuovo reparto, le operations”. Ovvero l’attività principale, il core business che caratterizza la gestione operativa di un’azienda. “con l’esperienza di Nicola, le nostre forze sono concentrate nel ridisegnare i processi interni e portare assieme Fonte Margherita a un altro livello”.

Perché la necessità di una gestione di impresa

Perché, quando si parla di impresa, che si tratti di gastronomia, ristorazione o un altro settore, la capacità di reinventarsi, ripartire da zero, ricostruire e delineare nuovamente le linee di progetto, senza perdersi d’animo, con intelligenza e accortezza, ma anche con la giusta dose di coraggio per scommettere ancora, è fondamentale. Serve una mentalità aperta e dinamica, ma anche tanta esperienza, come quella di Moro, che ha alle spalle tanti anni nel mondo della finanza, un lavoro che lo ha portato a girare il mondo e fondare una sua banca d’affari, la Sky Island, che si occupa proprio di operazioni di salvataggio di aziende in difficoltà. E occorre anche l’arguzia di Sartore, che nel 2008 ha riconcepito la Sariv, trasformandola da azienda a gestione familiare a caso studio per la digitalizzazione industriale e Industry 4.0. La loro missione, oggi, è salvaguardare le acqua delle Piccole Dolomiti, tenendo sempre un occhio di riguardo al tema della sostenibilità ambientale: “Vogliamo prenderci l’impegno di sensibilizzare ed educare i consumatori”. L’imbottigliamento, infatti, avviene direttamente alla fonte, senza dover ricorrere alle aree industrializzate per l’estrazione, e la produzione è esclusivamente in vetro.

a cura di Michela Becchi

Ad Amatrice torna la sagra degli spaghetti all'amatriciana. Due anni dopo il sisma

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Due anni dal sisma che ha coinvolto l'Italia Centrale, due anni dalla disgrazia che si è abbattuta su Amatrice. E due anni senza la celebre Sagra degli spaghetti all'amatriciana, che ora si prepara a tornare, per dimostrare che ricominciare è possibile. 

 

La vita dopo il terremoto

Ripartire da zero non solo è possibile, ma necessario. Quando la vita di intere popolazioni viene tragicamente sconvolta da una calamità come quella del terremoto del 2016, andare avanti, voltare pagina, riprendere il ritmo abituale e ricominciare, anche dalle tradizioni più piccole, è l'unica soluzione. È proprio nelle vecchie abitudini, infatti, che bisogna trovare la forza per recuperare lo stile di vita di una volta. Le sagre di paese, per esempio, quelle dai sapori veraci e i profumi intensi che si spandono per la piazza e le vie del borgo, la musica diffusa in ogni angolo e il chiacchiericcio allegro dei compaesani. Ad Amatrice, fra tutte era la Sagra degli spaghetti all'amatriciana la festa per antonomasia che radunava non solo gli abitanti del comune ma anche tanti romani e buongustai dei dintorni, che si recavano nel borgo reatino appositamente per un assaggio del celebre primo laziale.

La sagra dell'amatriciana

Terra dalla cucina solida e robusta, Amatrice ha fatto della ricetta uno dei propri marchi di fabbrica. E la sagra ne era la migliore rappresentazione pubblica, un evento da non perdere per qualsiasi appassionato di gastronomia. Un appuntamento interrotto bruscamente due anni fa, poco prima di spegnere la 50esima candelina, ma che quest'anno torna, in una nuova, rinnovata veste che mantiene ben saldo il legame con il passato, ma che si propone come un punto di luce, una speranza per tutti gli abitanti, oltre che un esempio per le altre regioni colpite dal sisma. La Ripartenza è l'inequivocabile slogan dell'edizione 2018, in scena a fine agosto, con data da definire. “Credo che la storia di un popolo passi anche e soprattutto per le sue tradizioni, che sono imprescindibili e vanno tutelate e sostenute con ogni mezzo”, scrive in una nota il sindaco di Amatrice Filippo Palombini. E continua: “La Regione Lazio sta dando un supporto importante al Comune e alla nostra Pro Loco, che per mezzo secolo ha organizzato la sagra e che quest'anno è pronta a dare il suo insostituibile supporto alla tre giorni che ci apprestiamo a vivere tutti insieme”.

Il turismo gastronomico

Anzi, a rivivere, con la gioia di sempre e una ritrovata energia."La nostra Sagra è una delle tradizioni più belle di questa terra, e sicuramente la più famosa”, ha aggiunto Adriana Franconi, Presidente della Pro Loco di Amatrice, “siamo pronti per tornare a celebrarla come è stato per 50 anni. Sono lieta che per tre giorni, nelle nostre vie, potranno tornare a diffondersi gli odori della nostra salsa, che è un pezzo della nostra storia". Un appuntamento che per tempo ha generato un flusso di turisti notevole nella zona, e che proprio per questo ha intenzione di tornare nella sua terra d'origine, “ovviamente nel rispetto di tutte le condizioni di sicurezza, lanciando così un altro segnale importante alle comunità locali che faticosamente e caparbiamente vogliono tornare alla normalità”, ha commentato il presidente dellaRegione Nicola Zingaretti.

«Iniziare il dopo»

Certo, recuperare una festa così storica, così profondamente radicata nell'animo cittadino, simbolo di allegria e spensieratezza, non è facile, soprattutto per chi Amatrice l'ha conosciuta e vissuta prima di quel 24 agosto. Come ha spiegato il sindaco del comune, è inutile nascondere che “nulla sarà come prima e che per sempre ci sarà 'un prima e un dopo' quel 24 agosto. Il prima è finito proprio quando eravamo pronti per festeggiare la 50esima edizione della nostra festa”. Dimenticare è impossibile, risorgere è doveroso. E lo si fa anche e soprattutto con i piccoli gesti della quotidianità. Con una sagra che – siamo fiduciosi – continuerà ad attrarre ancora golosi di ogni dove, come prima. Più di prima. “Non abbiamo ancora voglia di 'festeggiare', ma abbiamo bisogno di iniziare 'il dopo'”.

a cura di Michela Becchi

Montalcino che cambia. Vol 4. Non solo stranieri. L'investimento della famiglia Cecchi

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Il Brunello continua a fare gola agli investitori. Ma, dopo tante compravendite straniere, l'ultimo colpo è stato messo a segno da un'azienda toscana che - già presente nel Chianti Classico, in Maremma e a San Gimignano - adesso ha deciso di scommettere su questa zona. L'intervista al direttore generale Leonardo Raspini.

 

Da qualche mese la casa vinicola Cecchi, con sede a Castellina in Chianti, ha acquistato, per un importo non dichiarato, un podere di 8 ettari a Montalcino di cui 6 già vitati (3 di Brunello, 1,5 di Rosso di Montalcino e 1,5 di Sant'Antimo). Di fatto è stata la prima, in ordine di tempo, azienda “italiana e toscana” a fare questo passo, dopo una lunga serie di cessioni a stranieri (Biondi Santi ai francesi, Poggio Antico ai belgi, Cerbaiona agli americani, Poderi Brizio agli argentini, ecc.), che abbiamo raccontato nei mesi scorsi. Una tendenza, quella della compravendita di cantine montalcinesi, che nei mesi e negli anni a venire, è destinata a continuare. Il Brunello sta sempre più attirando investitori da tutto il mondo - si stima che per un ettaro il prezzo medio di aggiudicazione sia attorno ai 700 mila euro - e d'altra parte molte aziende nate negli anni Settanta/Ottanta sembrano aver esaurito il loro ciclo vitale e ora i proprietari, impossibilitati a continuare l'attività per vari motivi (finanziari, di turn over, offerte allettanti, ecc.) stanno passando la mano. Montalcino, da questo punto di vista, è in pieno cambiamento – anche nel modo di sentire e vivere il territorio – che avrà il suo peso nella gestione del futuro della denominazione.

 

La famiglia Cecchi

La famiglia Cecchi, oggi di proprietà dei fratelli Andrea e Cesare,sin dalla sua fondazione (1893) è conosciuta per la produzione di vini toscani. Attualmente ha proprietà in Chianti Classico (Villa Cerna e Villa Rosa), San Gimignano (Castello Montauto), Maremma Toscana (Val delle Rose) e Umbria (Tenuta Alzatura), complessivamente la superficie vitata di proprietà, suddivisa tra le varie tenute raggiunge i 300 ettari, cui ora si aggiunge Montalcino che completa il presidio nelle aree più prestigiose della regione. L'azienda ha un fatturato consolidato di oltre 30 milioni di euro mentre la produzione è di 7 milioni e mezzo di bottiglie, la metà delle quali sono destinate ad oltre 50 mercati esteri. Proprio nell'anno dei 125 anni dalla fondazione, abbiamo parlato della nuova realtà montalcinese e dei progetti futuri con il direttore generale, Leonardo Raspini.

 

Negli ultimi anni Cecchi ha fatto delle importanti acquisizioni nelle zone più importanti della Toscana, in Maremma, in Chianti Classico e ora da qualche mese, anche Montalcino. Una domanda preliminare, l'azienda si ferma qui o pensa di crescere ancora?

Attualmente siamo in tutte le denominazioni toscane più importanti e ora anche nel Brunello. Il nostro obiettivo è sempre stato proprio questo: essere presenti nel cuore delle aree più prestigiose con una nostra azienda. Con Montalcino però, almeno al momento, ci fermiamo. L'obiettivo adesso è consolidare le nostre posizioni, valorizzando le singole proprietà, investendo in promozione ma soprattutto dedicandoci alla produzione e alla commercializzazione.

 

Quale è stata l'idea di fondo che ha guidato l'azienda a investire queste zone?

La famiglia Cecchi ha sempre avuto delle solide basi produttive in Toscana e la logica degli investimenti, in particolare della vecchia generazione, ha puntato ad ampliare e rafforzare questa presenza. Per noi, Val delle Rose in Maremma è stato il primo segnale di voler uscire dall'area strettamente chiantigiana e di confrontarsi con il Morellino che allora era agli albori. Il resto è stato una conseguenza di questa prima scelta: la Toscana si è sempre dimostrata una terra di investimento in grado di funzionare bene.

 

Montalcino come si colloca in questa strategia di investimenti mirati?

Montalcino rientra perfettamente in questo quadro. Dopo tutto il Brunello è sempre stato presente nei nostri listini: o come distributori o come imbottigliatori, ma lo abbiamo sempre proposto. Ora, però, l'impegno cambia sostanzialmente perché diventiamo produttori diretti. Per noi è stata una necessità commerciale ma anche di cuore perché da molti anni eravamo a caccia dell'occasione giusta.

 

Quali erano le vostre richieste, esattamente?

Non volevamo un'azienda qualsiasi: la cercavamo proprio in quell'area specifica, tra Sant'Antimo e San Polo e che quindi subisse l'influenza del Monte Amiata. Insomma, doveva essere un terroir con delle caratteristiche particolari, di posizione, di altitudine e di suoli, da cui ottenere un vino di finezza. Sarà questo il nostro approccio al Brunello.

 

Ci può descrivere la nuova azienda montalcinese?

Si tratta di una proprietà di 8 ettari complessivi di cui 6 di vigneto: 3 ettari di Brunello, 1,5 di Rosso di Montalcino e 1,5 di Sant'Antimo. I tre ettari di Brunello sono situati in parcelle diverse: la prima è nella parte più alta della valle che finisce a Sant'Antimo; poi c'è la vigna Pian Bossolino non molto lontano da San Polo, dai Barbi e a valle dei vigneti Biondi Santi; infine l'ultimo più vicino alle aree coperte. In tutto, ci sono circa 1000 metri quadri di fabbricati, cantina compresa, che sarà possibile utilizzare sin da subito.

 

Quando presenterete il primo Brunello interamente prodotto da Cecchi?

Avendo avuto la possibilità di scegliere tra il vino in maturazione abbiamo selezionato una partita dell'annata 2015 che sarà il nostro primo Brunello: rappresenterà la memoria dell'azienda e della vigna; la prima vendemmia interamente nostra sarà la 2018, che sarà messa in vendita nel 2022. Per ora, anche in base agli accordi con i vecchi proprietari, l'azienda non avrà un nome specifico. Gli dobbiamo cucire un vestito nuovo.

 

Nella presentazione delle vostre aziende non si parla più delle singole proprietà come fossero uniformi, ma si mettono in evidenza le peculiarità del sangiovese nelle diverse parcelle. Siamo di fronte a un cambiamento della cultura produttiva e non solo della comunicazione dell'azienda?

Sì, è vero. Anche se anche a Villa Cerna abbiamo sempre messo al centro i vigneti, a Villa Rosa c'era già una storia di singoli vigneti più definita – si tratta di cinque diverse unità produttive – quindi sin da subito abbiamo cercato di valorizzare questa impostazione lavorando per capire sempre meglio caratteri e peculiarità di ognuno, con analisi geopedologiche molto approfondite, conducibilità elettrica dei suoli, ecc. La valorizzazione delle peculiarità di ogni singola proprietà prevede proprio la possibilità di creare delle selezioni o dei crus. Èun'indicazione per il futuro e sarà naturalmente applicata anche alla nuova azienda di Montalcino e ai tre vigneti che la compongono.

 

A Montalcino è sempre esistito un legame molto stretto tra le aziende e il contesto non solo produttivo ma anche sociale. Siete la prima azienda "italiana e toscana" ad acquistare dopo tante cessioni a stranieri. Come pensate di interagire con il territorio?

Parteciperemo attivamente al Consorzio di tutela sia portando la nostra esperienza di produttori presenti anche in altri consorzi, sia mettendoci in rete con le altre aziende produttrici. Sarà un rapporto propositivo e di collaborazione con una realtà che ha fatto tantissimo per la valorizzazione ad alti livelli del proprio territorio

 

a cura di Andrea Gabbrielli


 

 

Deliveroo e il servizio di consegna notturno. Prende il via a Milano il nuovo progetto di delivery

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Inarrestabile la crescita dei servizi di food delivery. Fra i grandi marchi italiani, Deliveroo, che ora lancia una nuova iniziativa: la consegna notturna, che comincia a Milano ma che presto sarà estesa anche in altre città della Penisola. 

 

Il delivery

In principio erano solo pizze e cibo cinese, molto spesso di bassa qualità, ma oggi i servizi di consegna a domicilio sono sempre più attenti alle esigenze della clientela, e offrono una proposta ampia e diversificata. Piattaforme che continuano a raccogliere l’entusiasmo del pubblico, che alla cena fuori preferisce un buon piatto consegnato direttamente in casa propria. Complici i ritmi di lavoro e di vita sempre più serrati, marchi come Deliveroo si stanno gradualmente imponendo come punti di riferimento per un pasto di qualità. Che ora è disponibile anche a notte fonda, grazie al nuovo servizio lanciato dall’azienda italiana, già avviato a Milano.

La consegna notturna

Una novità che non tarderà a far parlare di sé, specialmente in un mese come quello di agosto, in cui i tanti italiani che rimarranno a casa potranno contare sul “late delivery” di Deliveroo, perfetto per una cena a serata inoltrata o uno spuntino di mezzanotte. Il servizio è stato lanciato all’interno della nuova piattaforma Marketplace+, ed è stato reso possibile grazie all’adesione di 10 ristoranti partner che hanno scelto di prendere parte al progetto. Attivo a Milano da fine luglio, il progetto arriverà presto anche in altre città italiane, e consentirà ai locali che effettuano le consegne con i propri rider di essere presenti sulla piattaforma. Grazie a Marketplace+, infatti, i ristoranti possono avvalersi dei rider gestiti in autonomia, aumentando il numero di ordini e ampliando la fascia oraria in cui effettuano consegne.

L’obiettivo

Con questa estensione, vogliamo dare un servizio aggiuntivo ulteriore ai nostri clienti, consentendo loro di poter ordinare il loro cibo preferito dove e quando vogliono”, ha commentato Matteo Sarzana, General Manager di Deliveroo Italy. “Abbiamo registrato un crescente interesse dei nostri clienti verso le consegne anche a notte inoltrata, e per questo motivo, in collaborazione con alcuni ristoranti aderenti a Marketplace+, abbiamo deciso di offrire loro la possibilità di poter ordinare in orari che a oggi non erano coperti”. Mister Pizza, Be Frites, PizzaLab, YougurtMe, Pizzeria San Cristoforo: sono solo alcune delle insegne che fin da subito hanno voluto scommettere sulle consegne notturne, ideali soprattutto per chi rientra in tarda serata dal lavoro. “Siamo sempre alla ricerca di nuove soluzioni per soddisfare le esigenze dei nostri clienti e questa novità va esattamente in questa direzione”. L’obiettivo? “Rendere la consegna notturna disponibile presto anche in altre città dove siamo presenti”. I nuovi orari consentiranno agli utenti di poter ricevere a domicilio il proprio ordine fino alle ore 3.00 durante i giorni feriali, e fino alle ore 5.00 nel weekend.

 


Le radici gastronomiche dell’Europa nella tradizione delle corti reali. Rosanna Marziale a Versailles per la Cena Europea

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La chef de Le Colonne sarà ambasciatrice della Reggia di Caserta e del suo territorio il prossimo 10 dicembre, quando Versailles ospiterà un grande evento per celebrare le tradizioni gastronomiche delle corti europee, nell’ambito del progetto A Place at Royal Table. A guidare la brigata Alain Ducasse. 

 

Il progetto che riscopre le corti attraverso la tavola

In tempi di convivenza difficile e minacciate scissioni, c’è chi lavora per ribadire il profondo legame identitario e i rapporti culturali che uniscono l’Europa. A Place at Royal Table è, non a caso, un progetto di cooperazione comunitaria ideato dalla rete delle residenze reali europee (sì, esiste un network che le riunisce, dal 1995) per celebrare l’anno europeo dei Beni Culturali, indetto per il 2018. Ed è un’eredità storica che passa anche attraverso il cibo e le tradizioni gastronomiche d’Europa, come vuole dimostrare l’impegno delle 21 istituzioni culturali coinvolte, che finora (e per tutto l’anno) hanno organizzato numerose iniziative sul tema in 12 Paesi dell’UE. Il focus si concentra sulle tradizioni tramandate dalle corti d’Europa nel corso dei secoli, e il prossimo 10 dicembre darà vita a un grande evento ospitato alla reggia di Versailles. Protagonisti gli chef di tutte le residenze reali del Vecchio Continente, o meglio i cuochi contemporanei che ogni “corte” ha scelto per rappresentare e portare in tavola le proprie tradizioni culinarie.

 

L’adesione della Reggia di Caserta

Del circuito fa parte anche la Reggia di Caserta, che in passato aveva abbandonato l’associazione European Royal Residences, ma per volontà del direttore Mauro Felicori – fautore di una importante sferzata per rilanciare la prestigiosa residenza vanvitelliana, oggi di nuovo tra le mete d’attrazione più visitate d’Italia -  è tornata a far parte della rete, che garantisce di scambiare conoscenze e suggerimenti per la manutenzione e la tutela dei siti storici, condividendo buone pratiche con le altre residenze reali.

 

Rosanna Marziale a Versailles. La Cena Europea

Dunque all’European Dinner che prenderà forma alle porte di Parigi parteciperà per Caserta, e per l’Italia, Rosanna Marziale, che del territorio e del suo prodotto di punta, la mozzarella di bufala (oggi la sede del Consorzio di tutela è ospitata presso le cavallerizze delle Reggia), è ambasciatrice di lunga esperienza, chef patronne del ristorante Le Colonne. A guidare lei e gli altri chef partecipanti sarà Alain Ducasse, in rappresentanza dei fasti di Versailles, dove da qualche anno lo chef francese gestisce un’attività di ristorazione al Pavillon Dufour. Sarà una cena “dal valore comunicativo molto forte” racconta Felicori ad Artribune, e questo “si inserisce in un discorso più vasto di promozione culturale. Non vogliamo promuovere solo la Reggia, ma anche il territorio, visto che la nostra è una terra di agricoltura meravigliosa”. E la reunion francese sarà anche un’occasione per rintracciare le radici comuni dell’alta cucina europea, recuperando ricette e menu storici di corte che raccontano secoli di interazioni, viaggi, contaminazioni culturali e gastronomiche. Agli ospiti di Versailles tutto questo sarà servito attraverso il filtro dei più talentuosi chef dei giorni nostri, pronti a far tesoro di tecniche e preparazioni maturate proprio all’interno delle cucine di corte e attualizzate secondo le conoscenze contemporanee. Del network fanno parte, tra gli altri, Schloss Schonbrunn per l’Austria, il Parques de Sintra in Portogallo, il Palazzo di Carlo V in Belgio. Mentre l’Italia è rappresentata anche dalla Venaria Reale di Torino, che partecipa al progetto A Place at the Royal Table con una serie di conversazioni sui costumi a tavola di casa Savoia (lo scorso giugno anche la Reggia di Caserta ha ospitato una “rievocazione” storica, con il pic nic borbonico Merienda Real).

Tutte le iniziative del progetto

 

a cura di Livia Montagnoli

Volcanic Wines. Quanto vale per l'Italia il vino dei vulcani?

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Cresce l'interesse internazionale per i vini da territorio vulcanici e il nosto Paese punta sul marchio unico. Attenzione, però, a non trasformare questo fenomeno in un fuoco di paglia. Il valore aggiunto? Carta dei suoli e analisi scientifiche.

 

Il fenomeno dei vini vulcanici o, meglio, dei vini da suoli vulcanici, è tra i più interessanti delle ultime stagioni. Da alcuni anni, la critica internazionale ne discute, i degustatori professionisti ne esaltano le caratteristiche e i buyer hanno già intravisto l'affare. Inoltre, la comunità scientifica (non tutta) sta ascoltando e appoggiando le sollecitazioni dei produttori. Insomma: è un momento felice. Dal 2017 si nota anche un'accelerata nella comunicazione che parte dalla vigna e arriva a un consumatore più evoluto e più interessato alle particolarità e, se vogliamo, agli aspetti legati allo storytelling evocativo sui vini dei vulcani.

La prima convention internazionale tenuta a New York lo scorso marzo, su iniziativa del master sommelier John Szabo (autore del libro Volcanic Wines: Salt, Grit and Power, uscito nel 2016), ha sottolieato le potenzialità di questi prodotti dando loro un posto di rilievo tra i vini del terzo millennio.

 

Caratteristiche comuni dei suoli e dei vini vulcanici

"È evidente una relazione tra suoli composti da basalti, tufi, pomici e la ricchezza gustativa e l'equilibro che si riscontra normalmente nei vini prodotti" commenta Sandro Gini, presidente del Consorzio del Soave "Questa relazione va spiegata, argomentata, documentata". Ma di quali caratteristice parliamo? "I suoli costituiti da rocce vulcaniche hanno valori di macro-porosità più alti, queste rocce possono immagazzinare risorse idriche fino al 100% del loro peso, rilasciandola molto lentamente". Sono dunque un'importane riserva idrica per l'apparato radicale della vite, soprattutto in annate secche e siccitose. "Inoltre, le radici respirano attivamente e traggono giovamento dal contatto con rocce che presentano porosità riempite di sostanze gassose, fornendole per i bisogni della pianta".

"I basalti, poveri in silicio e ricchi in magnesio e ferro, tendono ad assorbire tra l'85% e il 99% dei fosfati". Servono irrigazioni meno frequenti anche in virtù delle forti capacità drenanti di queste rocce che possono portare rapidamente i nitrati a contatto con le falde idriche, con conseguente fenomeno di eutropizzazione.

Ma non tutti i suoli vulcanici hanno caratteri positivi per la viticultura. Per esempio le pomici hanno scarsa capacità di assorbire acqua e i terreni originati da colate laviche recenti possono presentare condizioni fisico-chimiche svantaggiose per quasi ogni coltura.

"I terreni vulcanici sono di vari tipi, a seconda del tipo di materiale di cui è composta la roccia" sottolinea Marco Sabellico (curatoredella Guida vini d'Italia del Gambero Rosso) "E nei vini queste differenze sono evidenti". Ma si individuano elementi in comune? "Profondità espressiva, nel senso di una maggiore struttura, sapidità, acidità e, per usare un termine molto discusso, mineralità. Vale a dire, i sentori fumé, iodato, di roccia". Sono prodotti che possono arrivare alla complessità, capaci di invecchiare. Ovviamente gioca un ruolo determinante la tecnica interpretativa della singola cantina. Ma accade spesso che quando ti trovi di fronte un gran vino scopri che nasce su un suolo vulcanico, in Italia e non solo.

Ci son anche voci dissonanti, come quella di Alex Maltman - docente di Geologia all'Università di Aberystwyth, in Galles – che in Vineyards, Rocks, and Soils: The Wine Lover’s Guide to Geology(aprile 2018), sostiene che non ci sono relazioni tra i suoli e le caratteristiche dei vini. Secondo lui, parlando di questi prodotti, non si considerano elementi come altidudine, aspetti microbiologici, umidità, temperatura.

Soave

Le aree mondiali di produzione

Napa Valley (California), Casablanca Valley (Cile), Santorini (Grecia), Kaiserstuhl (Germania), Rias Baixas e Canarie (Spagna), Isole Azzorre e Madeira (Portogallo), Alture del Golan (Siria e Israele), Yarra Valley (Australia) sono aree di questa grande famiglia, che spesso si fregia anche di riconoscimenti come quello Unesco appena ottenuto dalla regione di Puy de Dome (Loira), che include la denominazione Cotes d'Auvergne.

Spostandoci sui suoli italiani, l'elenco è lungo: alcune zone nel territorio di Soave e dei Monti Lessini, i Colli Euganei in provincia di Padova, il territorio della Valsesia nell'Alto Piemonte, il Lazio con i Castelli Romani, Montefiascone, Pitigliano e Sorano, l'Umbria con Orvieto, la Campania coi Campi Flegrei e il Vesuvio, la Basilicata col Vulture, la Sicilia con l'Etna, Pantelleria e le Isole Eolie, la Sardegna con Mogoro. Un totale di 17 mila ettari, e una produzione potenziale di oltre un milione di ettolitri. Oggi, 19 territori sono riuniti nell'associazione Volcanic Wines network. Il marchio Volcanic Wines è detenuto dal Consorzio del Soave, che lo ha registrato nel 2013 mettendolo a disposizione delle aziende con un preciso regolamento d'uso. La novità è che partendo dall'attuale mappa dei suoli vulcanici, consorzi e produttori vogliono arrivare a una certificazione scientifica. E una parte della comunità scientifica risponde positivamente a questta richiesta.

 

Il ruolo della scienza e le richieste dei vignaioli

Tra gli obiettivi del network ci sono certificare l'esistenza dei suoli vulcanici e vitati italiani, mapparli con chiarezza, facilitare la comunicazione all'esterno. Il dialogo con alcuni atenei italiani è in corso e un contributo decisivo potrebbe arrivare dalla Società geologica italiana (La Sapienza, Roma) così come dall'Università di Firenze; a settembre prossimo a Milo, sull'Etna - nel decennale dell'evento Vulcania - potrebbero essere annunciate importanti novità. Il network vuole trovare un accordo col mondo accademico, che potrebbe aprire la strada a una comunicazione istituzionale strutturata sui vini da suoli vulcanici e sul loro rapporto col territorio;: una ghiotta opportunità per i produttori vitivinicoli, che potranno veicolare ulteriori elementi distintivi senza essere accusati di faciloneria. Di fronte a una carta dei suoli vulcanici italiani, sarà necessario certificare e verificare ogni singola azienda che insiste su quei territori, per evitare abusi sul marchio distintivo.

 

I territori italiani e il vulcano

Non tutti i vulcani sono uguali. L'opportunità di disporre di un marchio unico che, su basi scientifiche, possa identificare questa tipologia crea molto interesse. Il consorzio del Soave, presieduto da Sandro Gini, fa un po' da motore del movimento. "A dieci anni dall'evento Vulcania, l'innovativo concetto dei vini dei vulcani ha fatto veramente tanta strada" dice Gini "trovando nel suo percorso interesse e condivisione sia da parte dei produttori, dei comunicatori e dei consumatori". Da un punto di vista economico, è ancora "troppo presto per certificare una diversa valorizzazione dei vini vulcanici, ma sicuramente sul fronte comunicazionale questo è un vantaggio strategico".

Cosa pensano, allora, i consorzi delle grandi aree italiane? Marco Calaon, presidente del Consorzi vini Colli Euganei, è convinto dell'importanza della mappatura reale, basata sulla zonazione, per stabilire chi si potrà fregiare della vulcanicità: "Non potevamo restare fuori da questa opportunità per tutto il nostro territorio. Anche se solo metà dei nostri 3mila ettari vitati potrà fregiarsi dell'aggettivo vulcanico". E Franco Zanovello, imprenditore storico all'interno della Doc e attuale presidente della Strada del vino dei Colli Euganei, ribadisce: "Vogliamo spingere i viticoltori a suddividere le viti a seconda dei suoli. Un lavoro che porterà giovamenti anche al territorio in chiave enoturistica", considerando che il distretto termale conta 4 milioni di presenze annue.

Tra i più convinti sostenitori c'è il Consorzio vini Pitigliano e Sovana. "Nell'ultimo workshop tenuto sui Colli Euganei abbiamo discusso su come dare al marchio Volcanic Wines una base scientifica", afferma il neo ri-eletto presidente, Edoardo Ventimiglia "e se arriveremo a una mappa italiana la potremo certamente usare per fare una migliore promozione. Il vulcano è evocativo, il consumatore è curioso e il tema genera interesse". Nel caso del consorzio toscano, la zona classica della Doc aderente ai comuni di Pitigliano e Sorano coinciderà con la parte vulcanica, secondo precise regole che andranno ad affiancare il disciplinare di produzione.

Per il Consorzio vini Frascati, rimasto finora un po' alla finestra, il vulcanesimo è presente nelle brochure consortili e alcune cantine fanno espliciti richiami in etichetta al legame con l'antico vulcano dei Castelli Romani. Paolo Stramacci, presidente consortile, non ha dubbi: "Potremmo essere interessati a usare il marchio Volcanic Wines, ma prima dobbiamo fare alcuni passaggi all'interno del consiglio d'amministrazione. Se ne parlerà alla prima occasione utile".

Nell'area della Doc Aglianico del Vulture, l'ex presidente del consorzio e attuale membro del cda, Carolin Martino, guarda della comunicazione: "Notiamo che il racconto sui vini vulcanici fa presa: presentare i cru e identificarli coi vari tipi di terreno incuriosisce il consumatore. Nel nostro territorio non tutto è vulcanico. Tuttavia, ritengo utile" sottolinea "che i consorzi aderiscano all'idea del marchio nazionale, compreso il nostro, per aumentare la riconoscibilità".

E c'è il giusto interesse anche in Piemonte, che può vantare nel "supervulcano" della Valsesia uno degli esempi più caratteristici. "Non siamo ancora membri del network ma è una delle cose che vorrei valutare", afferma Lorella Zoppis, presidente del Consorzio di tutela Nebbioli Alto Piemonte, ricordando i lavori in corso sui territori di Boca e di Bramaterra per arrivare a una precisa indagine pedologica del territorio e a una zonazione. "Faremo anche un progetto" aggiunge Zoppis "per valutare gli aspetti geologici e geochimici, compresa l'identificazione degli isotopi, in funzione della tracciabilità dei vini". Innegabile il valore sul fronte del marketing: "Ma se si fa comunicazione dobbiamo muoverci con un supporto scientifico. Non vogliamo cavalcare l'onda per avere solo visibilità".

Giuseppe Mannino, alla guida del Consorzio vini dell'Etna (5 milioni di bottiglie): "Un vulcano attivo che, in un modo o in un altro, rappresenta una peculiarità rispetto ad altre zone. È giusto che ogni discorso su questi vini poggi sul sapere scientifico. Noi, in questo momento, stiamo lavorando sul Dna dei nostri vitigni Nerello Mascalese e Carricante". Non altrettanto attivo, il consorzio, sul fronte delle iniziative del circuito Volcanic Wines, soprattutto negli ultimi due anni: "Stiamo vivendo una crescita esponenziale, ma non intendiamo snobbare nessuna iniziativa. Anzi, pensiamo ci siano punti in comune con questo network italiano".

E i prezzi? Per ora tutti d'accordo. Coltivare su suoli vulcanici comporta basse rese e costi di produzione elevati. Quindi, è giusto che siano più alti rispetto alle medie.

 

Strategie di marketing

Secondo Andrea Rea (Wine Management Lab – Sda Bocconi) la rete dei vini vulcanici va nella giusta direzione: differenziarsi nel mercato del vino spesso omologato alle tendenze e creare un valore percepito dal cliente. Un marchio trasversale internazionale renderebbe il progetto più credibile e più gestibile, promuovendo anche territori non ancora valorizzati. Ma nel panorama italiano, già carico di brand (Italia, territorio, cantina, vitigno), la crescita del marchio Volcanic Wines dovrebbe accompagnarsi a un ridimensionamento del brand Italia. Gli elementi su cui puntare sono quelli identitari del territorio vulcanico, caratteri comuni e aggreganti per i produttori, in cui il vino emerga come prodotto della cultura e del saper fare dell'uomo, da affiancare a partnership con iniziative storico-culturali e artistiche sviluppate sul tema dei vulcani. Contemporaneamente converrebbe strutturare l'offerta: il 70% di vini "fine" (espressione di territorio) che puntano sulla specificità dell'esperienza territoriale; il 25% di vini "trendy" (per conquistare la fascia di mercato più frivola) e un 5% di vini "icon" (grandi vini, capaci di legittimare tutta la categoria).

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 5 luglio

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Mangiare in aereo. Le ultime idee dalla ristorazione di bordo: come gli astronauti sui voli Lufthansa, la fattoria all’avanguardia di Emirates

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Per migliorare il servizio di ristorazione in volo, le grandi compagnie di linea cercano soluzioni innovative, collaborano con celebri chef, propongono servizi su misura. Le ultime idee più originali? La fattoria verticale di Emirates e i pasti per astronauti di Lufthansa. 

 

Mangiare in volo

Che mangiare bene a bordo di un aereo sia ancora un terno al lotto non è un luogo comune. Troppo spesso anche le più blasonate compagnie di linea offrono (nel migliore dei casi, perché spesso parliamo di servizi a pagamento) pasti trascurabili e insapore, dimenticando completamente gusto ed estetica. Negli ultimi anni, però, non pochi gruppi del settore hanno scelto di puntare su un miglioramento dei servizi al passeggero che passa anche dalla qualità dell’offerta gastronomica (un sito per viaggiatori che non vogliono rischiare brutte sorprese recensisce le migliori e peggiori esperienze col cibo in aereo). E in questo senso non sono mancati esperimenti con grandi chef al servizio delle esigenze di volo (con menu ideati ad hoc per essere facilmente riscaldati e serviti ad alta quota, e persino qualche estemporanea apparizione a bordo, per cucinare in occasione di tratte speciali) e team esperti al lavoro per ideare nuove soluzioni esclusive. Contemporaneamente anche l’offerta degli aeroporti, sempre più inclini a ospitare moderne food hall, è migliorata in direzione di una proposta più variegata e di qualità: non pochi chef hanno deciso di sposare la causa e diversi sono gli scali aeroportuali gourmet rintracciabili nel mondo, da Heathrow a Londra all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, che ormai quasi due anni fa inaugurava un nuovo terminalad alta concentrazione di insegne ambiziose, con gli Attimi di Heinz Beck, la cucina di Cristina Bowerman per Autogrill, il ristorante di Michelangelo Citino (senza dimenticare l’Open Bistro di Antonello Colonna, veterano dello scalo romano).

 

La fattoria verticale di Emirates

Ma c’è pure chi progetta ambiziosi piani per il futuro, come l’Emirates Flight Catering, la compagnia che fornisce prodotti e alimenti agli aeroporti emiratini: in accordo con il gruppo Crop One, specializzato nella realizzazione di fattorie verticali, la compagnia finanzierà la costruzione della fattoria verticale più grande del mondo, a partire dal prossimo inverno a Dubai. I lavori richiederanno oltre un anno per essere completati, ma quando la struttura di oltre 12mila metri quadri sarà operativa garantirà l’approvvigionamento di prodotti sempre freschi (365 giorni all’anno, senza l’utilizzo di pesticidi e in ambiente controllato con strumenti digitali di precisione) per le oltre 100 compagnie aeree e i 25 lounge aeroportuali del Dubai International Airport serviti da Emirates. L’ambizione del progetto fa già parlare della più grande operazione di ristorazione aerea del mondo, anche per la netta riduzione dell’impatto ambientale in termini di emissioni di anidride carbonica legate al trasporto dei prodotti (oggi gli Emirati importano l’85% dei prodotti alimentari, mentre la fattoria verticale restituirà 2700 chili di frutta e verdura al giorno, senza dispendio eccessivo di risorse idriche). 

 

Cibo per astronauti… In aereo

Di tutt’altro stampo è l’operazione fin quasi goliardica di Lufthansa, già molto attiva nello sviluppo di soluzioni innovative per coccolarei propri clienti a bordo. Dalla fine di agosto la compagnia tedesca offrirà ai passeggeri che volano in business class su voli a lungo raggio in partenza dalla Germania la possibilità di ordinare un pasto molto speciale. L’obiettivo? Simulare per il tempo di un pasto l’impressione di essere nello spazio, in compagnia degli astronauti di una missione spaziale. Anzi, una nello specifico, quella della stazione spaziale ISS, dove il tedesco Alexander Gerst e il suo team si trovano dall’inizio di giugno. All’inizio dell’anno, infatti, anche il gruppo LSG Lufthansa ha collaborato con l’Agenzia spaziale europea per ideare sei pasti calibrati sulle esigenze di un astronauta in vista della missione tedesca; le stesse pietanze saranno servite su richiesta in business class, in speciali contenitori simili a lattine, molto simili a quelli utilizzati dall’equipaggio della stazione spaziale. Ma non c’è da aspettarsi specialità astruse: come molti astronauti obbligati a trascorrere molti mesi lontano da casa, anche Gerst, originario della Svevia, ha scelto di portare con sé piatti che gli ricordassero la cucina di tutti i giorni, seppur ripensata tenendo conto dell’assenza di gravità. Quindi largo a spatzle, pollo con funghi e ragù, maultaschen (una pasta ripiena tipica della Baviera). Non si può dire che i creativi di Lufthansa manchino di originalità.

 

a cura di Livia Montagnoli

Nasce il marchio Prodotto di montagna. Centinaio per la valorizzazione delle imprese montane

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Firmato dal Ministro delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo il decreto che istituisce il marchio identificativo del regime di qualità “Prodotto di montagna”. I primi passi di Centinaio. 

 

Il ministro

È sull’esponente leghista Gian Marco Centinaio che il nuovo governo italiano ha scelto di fare affidamento per portare avanti le linee programmatiche del contratto di governo redatto da Lega e M5S in materia di tutela dell’agricoltura, sostegno della piccola pesca e made in Italy. Dopo aver ricevuto un primo cartellino giallo lo scorso 9 luglio, quando la filiera nazionale del vino gli ha inviato una lettera-appello con cui lo ha invitato a velocizzare alcune pratiche fondamentali per tutto il comparto, come la nomina del Comitato nazionale vini del Mipaaf e il bando Ocm promozione, Centinaio continua il suo percorso destreggiandosi fra i principali nodi del settore agroalimentare italiano.

Il marchio

Fra le prime mosse, la creazione di un nuovo marchio di qualità, il Prodotto di montagna, che identifica tutte le materie prime che provengono da zone montane e gli alimenti trasformati, stagionati o maturati in montagna. “Tutelare i prodotti di montagna vuol dire premiare il lavoro di migliaia di piccole e medie imprese che contribuiscono a tenere viva l’economia del nostro Paese”, ha spiegato il Ministro in una nota. “Questo vuol dire anche riconoscere il valore sociale, ambientale e turistico di queste aree”. E aiutare il pubblico a selezionare con consapevolezza gli ingredienti: “Con questo marchio, inoltre, sempre nell’ottica della maggiore trasparenza e tracciabilità, sarà più facile per i consumatori riconoscere e scegliere queste produzioni Made in Italy”.

Il settore agricolo montano

Il logo – verde, con una montagna stilizzata – può essere utilizzato sui prodotti previsti dal regime di qualità omonimo (attualmente, non è ancora disponibile il disciplinare per ottenere il marchio). Ma quanto conta, oggi, l’agroalimentare montano per il comparto nazionale? Secondo i dati della Fondazione Montagne Italia, il valore dell’agricoltura montana in Italia è di 9,1 miliardi di euro (6,7 miliardi negli Appennini e 2,4 miliardi nelle Alpi). Proprio in occasione della nascita del nuovo marchio, poi, l’Uncem (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani) ha rivelato i dati relativi agli occupati nel settore, che tra il 2011 e il 2016 sono aumentati del 10% nelle province alpine.

Il valore delle imprese di montagna

Numeri che “confermano quanto il comparto, con le sue filiere, sia importante”, ha commentato Marco Bussone, Presidente nazionale Uncem. E continua: “Con le associazioni di categoria, grazie al lavoro che il Ministro Centinaio e tutto il Mipaaf stanno facendo, vogliamo valorizzare e far crescere le imprese e alimentare una nuova consapevolezza culturale nel consumatore”. Secondo Bussone, il marchio permetterà ai cittadini di “riconoscere più facilmente dalle etichette le produzioni e supportare queste attività e il loro valore non solo economico, ma sociale e ambientale”. Proprio nei giorni scorsi, infatti, Uncem ha lanciato il programma “Compra in valle, la Montagna vivrà”, per invitare il pubblico a scegliere botteghe e imprese agricole artigianali delle Alpi e degli Appennini.

a cura di Michela Becchi

Ciccio Sultano. Vi presento Pastamara. Il nuovo locale di Vienna

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Massimo riserbo ancora per la prossima apertura di Ciccio Sultano a Vienna, negli spazi del Ritz Carlton. Nonostante questo, però, siamo riusciti ad avere qualche dettaglio del nuovo locale dello chef del Duomo di Ragusa.

 

Di lui vi abbiamo parlato diffusamente, di quell'avventura che ormai ha raggiunto la maggiore età nel cuore di Ragusa Ibla, il suo Duomo (Tre Forchette nella guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso) che ha appena rinnovato, dei progetti per il futuro, del desiderio sempre più frequentemente accarezzato di tornare alla terra e del progetto l'Aia Gaia, del lavoro sul pane, cuore di un'identità gastronomica che, insieme alla triade olio-grano-sale, costituisce il profilo intimo del suo approccio al cibo e alla terra.

 

Alla sua sicilianità profonda ed emotiva che oggi, alla soglia dei 50 anni, si appresta a portare fuori dai confini nazionali. Dove e quando lo ha dichiarato lui, attraverso i suoi canali social, con post che hanno interrotto il sonnolento passaggio di mezzo agosto, bruciando di fatto anteprime e fughe di notizie e assicurando il riserbo necessario in operazioni del genere. A Vienna, a dicembre, all'interno del Ritz Carlton, lo storico albergo a un passo dallo Staatsoper, il Teatro dell'Opera. Lì – in uno spazio contemporaneo e accogliente firmato dagli spagnoli Tarruella Trenchs Studio (autori del Cellar de can Roca, di Rocambolesc e del ristorante del Basque Culinary Center per capirci), scelti dalla proprietà, “o meglio dal General Manager” - troverà casa il suo ristorante affacciato sulla lobby del grande hotel “possiamo paragonarla a una piazza, aperta sul mondo e al tempo stesso riservata” scriveva “dove la qualità assoluta del cibo e delle preparazioni mettono in gioco la semplicità, tra cucina educata e cucina gourmet, in un contesto elegantemente informale”. Si chiamerà Pastamara, un richiamo al nome dialettale della cioccolata, che identifica come emblema del viaggio, quello “dal Nuovo al Vecchio Mondo” spiegava “da Ragusa a Vienna, dal Mediterraneo alla Mitteleuropa. Oggi, il cioccolato è l’alimento che dopo il sale viaggia di più per il pianeta. E così, nel logo Pastamara, la fava di cacao si è trasformata simbolicamente in macchina volante, un po’ Zeppelin, un po’ mongolfiera”. Un angolo di Trinacria nella capitale austriaca dove, dalla colazione alla cena, Sultano officerà il rito laico della tavola attraverso i tipici sapori isolani. Questo è quanto è stato raccontato finora. Ma come sarà, più precisamente, il Pastamara? Lo abbiamo chiesto allo chef.

 

 

Che cucina sarà quella di Pastamara?

Una cucina che si pone a metà tra quella che definisco “educata” dei Banchi e quella gourmet del Duomo. Coesisteranno le due formule in un ambiente molto smart e senza fronzoli.

 

È la rivincita della cucina regionale anche nell'alta ristorazione all'estero?

Più che cucina tipica siciliana è la mia cucina: punto più sulla fragranza che sulla tradizionalità, sulla mia tradizione e non quella della mamma o della nonna. Quel che andrò a fare a Vienna è una cucina che ricorda il progetto Dominazioni del Duomo (che ripercorre nei piatti le dominazioni succedutesi in Sicilia, ndr) e ricorda il nostro ristorante 4 o 5 anni fa. Ed è, appunto, un incontro tra i Banchi e il Duomo.

 

In che modo sta lavorando per questa apertura a distanza?

Sono due le strade che puoi prendere quando fai un'operazione del genere: una è fare piatti semplici e facilmente ripetibili, altra è mettere un tuo chef che conosce la tua cucina. Ho scelto questa seconda via: uno dei miei ragazzi è lì già da 8 mesi per provare menu e ricette.

 

Quale sarà la sua presenza a Vienna?

Farò l'apertura, ovviamente, affiancato da Marco Corallo, il mio sous del Duomo che in queste situazioni delicate è sempre presente; e ci sarà anche Francesco Milicia, il mio junior sous chef.

 

 

Quali sono i fornitori cui si rivolgerà a Vienna?Riuscirà a mantenere il rapporto con piccoli produttori artigianali o, inevitabilmente, si dovrà rivolgere ad altri più grandi e strutturati?

Molti prodotti partono dal ristorante e arrivano a Vienna attraverso una piattaforma di Urbino, questo per avere un unico fornitore che riunirà i vari distributori e fornitori. Per esempio avremo i gamberi rossi di Giacalone di Jolanda de Colò, sempre attraverso questa piattaforma. Farò come quando vado all'estero per cene o settimane siciliane: gli preparo un pallet con tutto e lo spediscono.

 

Riguardo ai prodotti della sua azienda agricola, l'Aia Gaia?

Col mio socio di Aia Gaia stiamo vedendo se si riuscirà a spedire polli uova e formaggi, ma è una azienda piccola e non è facile, per spedire fuori dalla Sicilia bisogna avere il bollino Ce.

 

Per il pane invece, su cui sta lavorando tanto a Ragusa?

Alcuni, quelli di piccolo formato, li farà il mio chef, gli altri un forno di Vienna che lavora bene, Öfferl. Gli spediamo le farine, da grani antichi e non solo: tumminia, perciasacchi, simeto, arcangelo, da mixare con altre. Peppe Cannistrà (responsabile di Banchi che supervisiona la produzione del pane) sta interagendo con loro, perché certe farine vanno spiegate.

 

Ci saranno anche i prodotti a marchio Sultano?

Sì, avremo un corner con i miei prodotti in vendita.

 

 

Che tipo di piazza è quella austriaca? L'ha studiata?

C'è il GM dell'hotel, lui sa tutto sul modo di vivere e muoversi a Vienna. Ci sono abitudini diverse, ovviamente, c'è il momento dell'aperitivo, quello prima dello spettacolo all'Opera e il dopo teatro, e ognuno ha le sue dinamiche. Per esempio prima degli spettacoli si consuma un pasto veloce, un piatto e via. Bisogna poi considerare che ci sono i clienti interni del Ritz Carlton.

 

Ci sarà un adeguamento della proposta allo stile di vita e ai gusti viennesi?

Una cucina deve sempre contaminarsi, altrimenti significa che non è conviviale, e se va in un posto deve aprirsi, è un modo per rispettarlo. Bisogna sempre essere ospitali, soprattutto noi che ci occupiamo di ospitalità. Ma questo sempre senza snaturarci.

 

Può farci un esempio?

Amano mangiare il bollito, e anche da noi si mangia. Quindi va bene il bollito, ma con la cottura che piace a noi, magari accanto metteremo un elemento che piace a loro. Così per la polpetta di carne, l'hamburger: ci sarà, ma nel modo in cui lo abbiamo pensato noi. È una contaminazione intelligente, che non deve essere forzata.

 

Quanto incide l'ambiente in cui si trova il ristorante?

Ovvio che sei al Ritz Carlton, in un ambiente in cui le persone si rilassano, bevono un cocktail, bisogna a volte anche scendere ai compromessi, ma sempre in un certo modo.

 

Ti fermi al ristorante o il tuo impegno coinvolge anche altre offerte dell'hotel?

No, solo il ristorante, ma non è escluso che un cliente in stanza ordini da Pastamara, e al cliente del Ritz Carlton non si può dire di no.

 

Ha provato qualche ristorante? Quali sono gli indirizzi da privare secondo lei?

Sono stato allo Steirereck im Stadtpark, è stata una bella esperienza. Ma ho provato soprattutto le trattorie, dove si mangiano Wiener schnitzel, bollito e lingua. Mi colpisce che ristoranti così semplici cucina semplice siano sempre pieni.

 

Il cuore di questo Pastamara, ha rivelato, è nel viaggio, in che modo si declina nel caso di una cucina contaminata come quella siciliana?

Pastamara è il nome del cioccolato, che in origine era considerato una spezia e solo dopo diventa il cioccolato come lo conosciamo noi. Basta pensare agli mparatigghi modicani, quei biscotti di cioccolato e carne, erano un energizzante dell'esercito borbonico, che consentiva di portare con sé un pezzo di carne che si manteneva a lungo. E al mole poblano. Il cioccolato diventa un dolce solo dopo diverse evoluzioni. Cose di cui in Sicilia è rimasta traccia, da quando era il centro del mondo. Oggi sono rimasti la storia, i ricordi e i grandi monumenti.

 

Parla sempre di cucina come di improvvisazione jazz. Questo si verifica anche nel caso di un locale come Pastamara o solo al Duomo è possibile applicare l'idea dell'impro?

Quando guardi lavorare un capopartita, vedi che non ha le movenze del pasticcere che gramma tutto.In cucina non è così, e anche se se lo fai non basta perché il prodotto cambia sempre, e nel lavorare cambia leggermente la ricetta e anche il sapore, e anche chi lo mangia non sempre ha lo stesso potere di accoglienza verso un determinato piatto. Come nell'impro jazz, in cui quel che hai iniziato non è sempre uguale, prende altre vie, ma poi ritorna a essere riconoscibile.

 

Rit Carlton ha alberghi in tutto il mondo: ci dobbiamo aspettare una presenza di Ciccio Sultano anche in altre città?

Beh, magari! Ma intanto iniziamo da questo.

 

 

Il Duomo - Ragusa - via Capitano Bocchieri, 31 - tel. 093 2651265 - www.cicciosultano.it

Pastamara – Austria – Vienna – Rit Carlton - Schubertring 5-7- +43 1 31188- http://www.ritzcarlton.com/en/hotels/europe/vienna

 

a cura di Antonella De Santis

Rural Festival 2018. L'appuntamento con la biodiversità in Emilia

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Torna uno dei festival più attesi dagli amanti dell'agricoltura, ancora una volta nel Parmense. È il Rural Festival, fiera della biodiversità che fa luce sul patrimonio rurale dell'Emilia Romagna, la Toscana e, quest'anno, anche della Liguria. 

 

Il festival della biodiversità

A Rivalta di Lesignano de' Bagni parlare di biodiversità non è un mero esercizio di stile. Lo testimonia da cinque anni a questa parte la manifestazione che raduna agricoltori e allevatori della zona – la fertile Food Valley parmense – al Parco Barboj, nella fattoria dell'azienda Rosa dell'Angelo. E come potrebbe essere altrimenti in questa terra collinare che custodisce come un'arca di Noè la memoria di razze autoctone pregiate e varietà molteplici di uve storiche, mele antiche, fichi e pomodori, zucca Violina e pera nobile? Così anche quest'anno, l'8 e il 9 settembre, il patrimonio rurale dell'Appennino Tosco-Emiliano si mette in vetrina al Rural Festival, a breve distanza da storici centri enogastronomici come Langhirano e Traversetolo.

I prodotti

Due giorni di festa all'aria aperta per scoprire una quarantina di aziende custodi di razze animali e varietà ortofrutticole dimenticate, disseminate tra le province di Parma e Reggio Emilia. Produttori attenti che offriranno in degustazione assaggi di arrosticini di pecora Cornigliese, carne fresca di Cinta Senese, pane di grano del Miracolo e Marocca di Casola, polenta Formenton Ottofile Garfagnana, testaroli della Lunigiana con farro, gnocchi di patata Cetica, polpa di pomodoro Riccio di Parma e molto altro ancora, in quella che non è semplicemente una mostra-mercato, ma una vera esperienza di cultura gastronomica all'interno di una riserva dove uomo e natura convivono all'unisono.

La quinta edizione

Novità di quest'anno, le specialità della vicina Liguria. Il motto? Tornare indietro per andare avanti e guardare al futuro. Si potranno quindi assaggiare le prelibatezze degli stand gastronomici, confrontandosi direttamente con i produttori, ascoltando le loro storie, e recuperando quel legame innato con la natura che spesso dimentichiamo. In mostra anche modelli di trattori Landini e Lamborghini realizzati tra gli anni '30 e '50, che verranno messi in moto dagli esperti per la gioia dei bambini ma anche degli adulti. E poi un parco animale di antiche razze, come il suino di Cinta Senese, il cavallo Bardigiano, l'asino Romagnolo e Amiatino, la vacca grigia Appenninica e la gallina Romagnola, tanto per citarne alcuni. Per sottolineare ancora una volta il valore fondamentale di quell'economia sana e sostenibile che fa leva sul recupero di antiche tradizione e sulla tutela dei valori contadini. Dopo due anni di gemellaggio in terra toscana, per questa edizione il Rural non fa tappa a Gaiole in Chianti, ma presenterà comunque tante eccellenze della Toscana in terra emiliana, da gustare in compagnia all'insegna della convivialità.

Rural Festival – Rivalta Lesignano de' Bagni (PR) – 8-9 settembre 2018 - www.rural.it/festival/

a cura di Michela Becchi

Thomas Keller debutta in Florida. A Miami il ristorante ispirato dal mitico Surf Club

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Lo chef del The French Laundry, a capo di un solido gruppo di ristorazione, inaugura il suo primo ristorante a Miami, nello spazio che un tempo ospitava il celebre The Surf Club. Design e cucina in linea con la storia del luogo, con allestimenti Art Deco e classici della cucina continentale. 

 

Thomas Keller, chef e imprenditore

Si è lasciato ispirare dall’anima vintage del vecchio club di cui ha preso il posto, iconico ritrovo degli anni Trenta sulla spiaggia di Miami. E così il primo progetto di Thomas Keller in Florida è fortemente intriso dello spirito del luogo (inaugurato dal tycoon Harvey Firestone nella notte di Capodanno del 1930 e frequentato da personaggi del calibro di Frank Sinatra, Dean Martin, Elizabeth Taylor, Gary Cooper, Winston Churchill) negli spazi e sul menu. Lo chef californiano, uno dei più celebrati protagonisti della storia della cucina americana degli ultimi decenni (negli anni Ottanta fondamentale il suo passaggio in Francia), è a capo di un solido gruppo di ristorazione, dal quartier generale di Yountville (20 anni nel 2014 e una recente ristrutturazione per il mitico The French Laundry) al Per Se di New York, passando per il concept Bouchon (Bar o Bakery), replicato in California, New York e Las Vegas. E da qualche giorno il The Surf Club Restaurant di Miami (adiacente all’hotel Four Seasons at The Surf Club progettato da Richard Meier e inaugurato un anno fa, con la collaborazione di Antonio Sersale, patron del resort Le Sirenuse di Positano, che all’interno della struttura di Miami ha portato Le Sirenuse Restaurant e Champagne Bar), su Collins Avenue, si è aggiunto alla famiglia, dopo anni di anticipazioni che preannunciavano il debutto di Keller in città.

 

The Surf Club Restaurant a Miami

L’approccio che sin dall’inizio ha animato l’operazione di ripristino della vecchia allure del club è legato alla voglia di regalare agli ospiti del ristorante un contesto ideale per incontrarsi e celebrare occasione speciali, proiettandoli indietro nel tempo all’epoca del sogno americano, quando la fiducia nel futuro orientava il Paese. Dunque tra le chiavi di volta del progetto il glamour gioca un ruolo importante, negli allestimenti che omaggiano l’Art Deco – con profusione di lampadari in stile, boiserie, superfici che riflettono la luce – come sull’orientamento della cucina, che interpreta i classici della ristorazione continentale per mano di Manuel Echeverri, da tempo nella squadra di Keller. Cominciando con gli appetizer ideati per il momento dell’aperitivo – in abbinamento i classici della miscelazione del post Proibizionismo – dalla crab cake alla Caesar Salad preparata al tavolo, al cocktail di gamberi, per proseguire con i piatti principali, che dichiarano numerose influenze europee: fettuccine all’Alfredo con tartufo, aragosta del Maine alla Thermidor, filetto alla Wellington, parmigiana di melanzane, sogliola alla mugnaia, pollo arrosto per due, filet mignon e molteplici variazioni sul tema della bistecca. Tarte au citron e torta al cocco per finire. E cantina importante con referenze in arrivo da tutto il mondo.

 

www.surfclubrestaurant.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 


La storia di Leonardo Panza. Da Mantova a Praga a Reggio Emilia, passando per Colorno

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Le prime prove nel ristorante di famiglia, gli studi all'Alma, e di nuovo qualche esperienza fino alla prova in solitaria, nel 2012. Pochi mesi prima del terremoto in Emilia che rese inagibile il suo ristorante. Da allora Leonardo Panza ha trascorso un periodo all'estero prima di tornare in Italia, alla guida di Taglierè, a Reggio Emilia.

 

Dare a tutti la possibilità di mangiare bene, con una cucina “pulita”, comprensibile, senza azzardi, con pochi elementi nel piatto e sapori netti e definiti. È la filosofia di Leonardo Panza, chef mantovano che a 31 anni, nel suo diario di vita e di cucina, ha già scritto tanti capitoli diversi. Dall’insegnamento appassionato e severo del padre alla formazione nella “prima” Alma di Marchesi, alla decisione di chiudere il ristorante di famiglia per aprirne uno proprio, reso inagibile dopo poco dal terremoto che colpì l’Emilia nel 2012, all’esperienza come executive chef in un lussuoso ristorante italiano a Praga. L'ultima tappa di Panza è a Reggio Emilia. Da gennaio 2018 è da Taglierè, un locale da 30 coperti gestito dagli imprenditori Simone Ferrari e Dario Donelli.

Leonardo Panza

I primi passi

Frequentavo la cucina di mio padre al ristorante La Cinciana di Mantova da quando avevo 6 anni” racconta lo chef. “A 11 anni svolgevo già diverse mansioni: dal garzone al “vice cuoco”, nei limiti di ciò che potevo fare, naturalmente. La basi le ho imparate tutte da lui che fino ad oggi è stato il maestro più severo che ho avuto. Proprio da lì, da quella cucina tradizionale mantovana, viene la mia impostazione di cucina classica, che poi ho imparato a rivisitare grazie agli studi, e a contaminare con altri ingredienti”.

L’approdo alla Scuola Internazionale di Cucina Italiana, l’Alma di Colorno, fondata dal compianto Gualtiero Marchesi, non è stato immediato. Nel mezzo, ci sono stati diversi stage nel mantovano e due stagioni come capo partita al Le Beau Rivage in Corsica. “Oggi mi reputo molto fortunato” racconta “perché nel 2009, quando iniziai a frequentarla, Alma era nata da poco ed era ancora una piccola realtà con classi da 20 allievi (contro gli 80 di oggi), attentamente selezionati. Alcuni anni dopo vi tornai come assistent chef nelle dimostrazioni di cucina. La trovai molto cambiata, soprattutto per i grandi numeri di allievi e insegnanti che contava, era diventata a impostazione quasi 'industriale'. Tuttavia, fu un modo per rivedermi con occhi diversi anni dopo, ma soprattutto per rispolverare fondamentali e dettagli. Lo stage da diplomando, Panza lo svolse a L’Arsenale, allora stellato Michelin, sotto la guida di Fabio Granata, prima che questi si trasferisse a Singapore.

Polpo alla brace, fagiolini verdi, datterini, olive taggiasche

Il ristorante di famiglia, la prova in solitaria e il terremoto

Sempre nel 2009 presi le redini del ristorante di famiglia” prosegue Panza “e due anni dopo entrammo nella guida ristoranti de Il Sole 24 Ore. Mantenni la direzione classica della cucina di mio padre, rivisitandola però in modo fresco, col senno del giovane cuoco che in parte metteva in pratica ciò che aveva imparato e in parte si lasciava andare all’ispirazione del momento. In pratica rivoluzionai il menù tradizionale, modernizzandolo e alleggerendolo. Ma poi – da giovane qual ero – presi una decisione che non mi portò fortuna”. E racconta: “Decisi di chiudere il ristorante di famiglia. Era il 2012 e desideravo impormi con un locale e uno stile miei. Investii molto denaro per aprire il L’eonardo” ricorda.“Era nel Palazzo della Ragione di Mantova, in pieno centro storico, in un’atmosfera tra il romantico e l’antico. Non feci in tempo a dimostrare quasi nulla, perché il terribile terremoto dell’Emilia del 2012 colpì anche noi. Il Palazzo era sotto la protezione dei Beni culturali, che tolse l’agibilità ai locali. Fui costretto a svendere – nel vero senso della parola – tutto il mobilio. Andò tutto in fumo, ristorante e sogni”. Panza andò avanti grazie a consulenze professionali, stagioni estive (al ristorante Gourmet Resort di S. Teodoro in Sardegna), lezioni in Alma, e la gestione del ristorante del Paradise Resort & Spa a San Teodoro.

 

L'esperienza di Praga

Poi arrivò una svolta. “Mi assunsero come executive chef al lussuoso ristorante italiano Hostaria Manesova 78, nel cuore di Praga. Lavorare in una metropoli, in un ristorante aperto dalle 11 di mattina all’1 di notte, con l'accesso a ogni tipo di ingrediente, anche alcuni che non avevo mai utilizzato prima, fu una vera occasione per esprimermi la massimo. Mi trovai improvvisamente a gestire 30 dipendenti, fornitori, candidati, assunzioni e ovviamente la cucina. Fu una vera palestra”. All’Hostaria Manesova 78, Panza iniziò a contaminare la cucina italiana con gli ingredienti cechi che man mano conosceva. “Presi a sperimentare, studiare, cercare di capire cosa desideravano i miei clienti senza ancora saperlo” racconta. “Presentai 'Il viaggio della tartare', una verticale in quattro preparazioni che passava dagli Stati Uniti al Giappone, attraverso l’Italia e la Repubblica Ceca. In un unico piatto stretto e lungo si cominciava dagli States con una tartare in un minipanino da hamburger con burro di arachidi e salsa piccante, entrambe preparate da noi. A rappresentare l’Italia era una battuta di Fassona piemontese condita con olio toscano e limoni di costiera e colorata con julienne di verdure che simulavano il pinzimonio. Per la Repubblica Ceca” continua “pensai a carne a km zero proveniente da una fattoria delle prime campagne di Praga con salsa tartara alla loro maniera, salsa d’uovo e verdure in agrodolce. Infine, a rappresentare il Giappone era un tataki di carne fatto scottare su una piastra ardente e poi messa in acqua e ghiaccio e servito su foglia d’ostrica”. Sul fronte del pesce, una creazione fortunata fu un'altra verticale, questa volta di tonno. “Il sashimi di tonno” riferisce Panza “era un piatto con nove pezzi di tonno leggermente affumicati, tagliati a coltello, in cui si percepivano, ovunque, tante influenze diverse: dal taglio giapponese al tonno crudo all’italiana, a quello condito con bietola, agrumi, lemongrass, lamponi e via dicendo. Fidelizzò molti clienti”.

Risotto barbabietola e caprino

Il rientro in Italia

Passare dalla carne al pesce alle verdure, ma sempre all'interno di una cucina comprensibile. È il bagaglio che Panza ha portato in Italia terminata l’esperienza a Praga. “Non amo l’idea di fossilizzarmi su un filone” precisa. “Per me è fondamentale concentrarmi essenzialmente sulle tecniche per la lavorazione degli ingredienti, dal più nobile al più povero (che poi è quello che preferisco). Prendiamo ad esempio l’erbazzone reggiano. Mi piace presentarlo scomposto, ma sempre fedele alla tradizione. Così diventa una doppia cialda di pasta sfoglia salata con all'interno il pesto classico dell’erbazzone. Non inseriamo elementi nuovi, ma li 'giriamo', mantenendo lo stesso sapore e rendendo il prodotto più leggero e digeribile”. Come in altre preparazioni firmate Panza, il sale è ridotto al minimo: “Cerco di togliere, piuttosto che di aggiungere” sottolinea “apprezzo i sapori netti e definiti, un piatto con pochi elementi, ma tutti altamente selezionai. Mi ispiro alla cucina di Niko Romito, che in carta ha le tagliatelle cacio e pepe o la zuppa di pomodoro con verdure di stagione da Spazio”.

L'uovo nell'erbazzone

 

Territorio, falsi errori, scienza e arte in cucina

Sento fortissimamente il legame con il territorio” aggiunge. “Alcuni piatti mi piace 'sbagliarli' apposta. Il polpo alla brace che ho in carta al Taglierè, per esempio, è overcooking, ha una cottura lunghissima. Poi viene raffreddato e cotto alla brace. Il risultato è un polpo che risulta croccante fuori e quasi burroso dentro”. E prosegue: “Questo contaminare tutto con tutto non lo capisco. Apprezzo piuttosto chef come Cannavacciuolo, che premia la materia prima. Considero più 'marchesiano' lui di tanti altri anche suoi ex allievi”. Panza invece? Come si pone rispetto a certe istanze? “Personalmente vado a periodi. Mi lascio ispirare da ciò che mi sta intorno. Non mi servono viaggi lontani o esperienze inaspettate, mi basta farmi trasportare dal tempo, dall’umore, da ciò che vedo o che sento. Artista in cucina? Sì, ma con un grado di scienza che consiste nell’accostare senza esagerare, con libertà”.

Ricordo di zuppa di pesce

Democrazia gastronomica

Questa idea si sposa bene con l'obiettivo di essere accessibili a tutti. “Chi dice che per mangiare bene bisogna spendere almeno 80 euro?” si chiede Panza. “Il mio approccio è più easy. Vado al macello e mi scelgo la bestia intera. La compro tutta e man mano la utilizzo nelle preparazioni, nei tagli, nei piatti. La forza del Taglierè è anche questa: un concetto semplice”. Facile nei prezzi come nello spirito: “Vuoi una selezione di salumi o formaggi? Te la servo a prezzi competitivi con una qualità alta. Desideri assaggiare un solo gambero rosso di Sicilia? Eccolo servito, magari 'intrappolato' in una fetta di prosciutto di Parma stagionato oltre 30 mesi e messo sulla brace pochi secondi. Ogni ingrediente qui ha un suo peso” continua “anche l’olio, il sale (sono sempre alla ricerca di quello migliore) e il pepe (quello nero di cayenna)”. Riguardo la materia prima, sulla carne il ristorante gioca facile, potendo contare su suini neri di Parma e vacche di razza Chianina allevati allo stato brado dell’azienda agricola del padre di uno dei due soci, Simone Ferrari. Sono queste carni che, spesso, forniscono la materia prima per i salumi selezionati da Taglierè.

Coniglio in porchetta e cime di rapa

 

Tagliarè: la forza della selezione

La forza del locale è rappresentata anzitutto dalla proposta di salumi e formaggi (e così si comprende anche il suo nome). La selezione di salumi, con molti presidi Slow Food, resta fedelmente nella zona e va dal culatello al crudo di Parma, alla spalla cotta tagliata a coltello, alla spalla cruda di Palasone, al salame Mariola, alla coppa piacentina, alla pancetta nostrana. Il Parmigiano Reggiano è quello prodotto con latte delle Vacche Rosse (Reggio Emilia), della Bruna Alpina (Parma) e della Bianca Modenese, stagionati dai 24 fino ai 100 mesi. Chiude il cerchio la degustazione di formaggi erborinati di mucca, capra e pecora, selezionati “secondo il tempo e le stagioni”, con affinamento firmato De Magi.

Da sinistra, in piedi, Simone Ferrari, Angelo Principe e Dario Donelli; seduti, Simone Soldi, Leonardo Panza e Danilo Musardo.
 
Panza è aiutato dal suo secondo, Simone Soldi, 21 anni, mentre in sala ci sono Angelo Principe e Danilo Musardo. Quest’ultimo, sommelier del locale, guida nella scelta tra i circa 80 vini in carta. Per ora. Perché il 21 settembre Tagliarè si rinnoverà: restyling del logo, restauro della facciata, ampliamento dei locali e della cantina, negli spazi adiacenti al ristorante, che ospiteranno anche degustazioni speciali ad accompagnare un programma di eventi dedicato alla fusione tra cucina e arti. E nel futuro, Panza cosa vede? “Uno stage in Giappone o in Francia. L’importante è conoscere il più possibile. Continuare a imparare. Ma senza dimenticare mai le proprie radici”.

 


Taglierè - Reggio Emilia - corso Garibaldi, 32 A/B (346,61 km) - 0522 452964

 

a cura di Alessandra Ferretti

 

Bora Kitchen Truck. La cucina su ruote che segue i ciclisti in gara

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Ancora novità nel mondo delle cucine su ruote: arriva il food truck per le corse di ciclismo, che segue gli atleti negli spostamenti durante le gare, fornendo loro piatti nutrienti, sani e squisiti. Il progetto dell’azienda tedesca. 

 

L’azienda

Era il 2008 quando la Bora Lüftungstechnik GmbH, azienda tedesca specializzata in sistemi di aspirazione per piano cottura, lanciò il metodo di aspirazione dei vapori verso il basso, determinando così il tramonto della classica cappa aspirante nelle cucine. Ma questo è solo uno dei tanti progetti innovativi del brand, che da sempre ha puntato tutto sul risparmio energetico e l’estetica funzionale. CEO di Bora è Willi Bruckbauer, amante dell’architettura, del design, della cucina ma anche del ciclismo. Non è un caso, infatti, che Bora sia sponsor di una squadra tedesca di professionisti che disputa le più grandi corse del mondo, con una squadra di 27 ciclisti di rango.

 

Il truck

Proprio dalla passione per il ciclismo, nasce il progetto Bora Kitchen Truck, una cucina su ruote alle corsie di ciclismo, che segue la squadra nei vari spostamenti durante le gare. A ideare il truck, Bruckbauer, Ralph Denk, team manager di Bora, e Robert Gorgos, nutrizionista sportivo, tre ex ciclisti che conoscono bene le piste e le esigenze degli atleti. La proposta, infatti, si basa su prodotti biologici ed eco-sostenibili, lavorati con cura e interpretati con attenzione da uno chef guidato dal medico. Merluzzo in pasta di farro alla birra al malto, asparagi verdi e mango grigliati, involtini di vitello con insalate di erbe, agrumi e manchego, wrap con avocado, cipolla rossa e bisonte arrostito: sono solo alcuni esempi dei piatti a disposizione dei ciclisti, preparati espressi nel truck.

 

Il libro di ricette

Quando la squadra è in gara, devo adattare l’alimentazione e il pasto dei ragazzi alla materia prima reperibile in zona”, ha spiegato Gorgos. “Se non sono con loro, fornisco allo chef le indicazioni per la spesa in base a stagione e territorio”. Un menu in continua evoluzione, quindi, che cambia a seconda del clima e del luogo, assecondando i ritmi della natura e delle produzioni locali. Ma non finisce qui: Bora ha inoltre ispirato il pluripremiato chef tirolese Andreas Senn a creare un ricettario sui generis, “10-10”, ovvero ricette che si preparano in 10 minuti e con 10 minuti di cottura, prendendo come esempio i piatti preferiti degli atleti, per un totale di 27 ricette, una per ogni ciclista della squadra.

 

Lo spazio per gli eventi

Il truck, inoltre, non è solo cucina: può trasformarsi anche in una location per eventi, elevandosi fino a 30 metri di altezza, per ospitare cooking show, seminari e cuochi di tutto il mondo. Un progetto curioso e originale, che sottolinea l’importanza del legame fra cibo e alimentazione, e che soprattutto fa luce su una cucina sana, sostenibile ma che non rinuncia al gusto, dimostrando che mangiare bene è possibile anche per chi è costantemente alle prese con le competizioni sportive.

www.bora.com/it/it/bora-revolution-tour/

 

a cura di Michela Becchi

Straordinario alle porte di Catania. La festa di fine estate del cibo di strada fuori dal comune

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Da un’idea di Andrea Graziano, ospite di Barbara e Marco Nicolosi alla Tenuta Barone di Villagrande di Milo, torna la kermesse che riunisce cuochi, artigiani del gusto e produttori di vino per una serata all’insegna del cibo di strada “straordinario”. Ecco chi parteciperà all’evento il 30 agosto. 

 

Il buono e il bello della Sicilia

Che Andrea Graziano non sia un imprenditore della ristorazione come tanti è chiaro a tutti quelli che, negli ultimi anni, sono entrati in contatto con l’universo di Fud. La Bottega Sicula “inventata” dal catanese mecenate del buono e del bello ha dapprima proposto sull’isola, tra il quartier generale di Catania e Palermo, un nuovo modo di fare promozione territoriale attraverso il cibo; di recente il modello è stato esportato a Milano, replicando sui Navigli la formula che così tanti riconoscimenti ed estimatori ha raccolto sul suo cammino. Il segreto? Comunicare l’eccellenza con semplicità, freschezza e modernità, fuori dagli stereotipi che spesso connotano l’enogastronomia siciliana agli occhi di chi si avvicina ai sapori dell’isola. Quindi ben venga l’adozione di un vocabolario inedito – un anglosiculo dichiaratamente goliardico – soluzioni di design, tecniche di cucina che valorizzano i prodotti del territorio, purché il focus resti sempre sulla rete di produttori locali che è cresciuta insieme al progetto. E mentre Fud seminava bene (dal 2012 a oggi sono arrivati i 2 locali di Catania, quello di Palermo, l’ultimo nato milanese), Andrea Graziano si spendeva per dare voce alla sua città: così, attorno al concept Fud Off è nato l’Off Festival, che mette in comunicazione i cuochi di diverse regioni d’Italia; così, la primavera scorsa proprio Andrea Graziano ha curato lo spazio gourmet dello Street Food Fest al suo esordio in città.

 

Cibo di strada Straordinario

E da due anni a questa parte il patron di Fud organizza pure un festival del cibo di strada che sin dal nome rivendica la sua unicità: Straordinario è una festa fuori dal comune in una regione che la tradizione del cibo di strada ce l’ha impressa nel Dna. Alla Tenuta Barone di Villagrande, ai piedi dell’Etna, il 30 agosto prenderà forma la seconda edizione della kermesse ideata da Graziano in collaborazione con Marco e Barbara Nicolosi, un modo per festeggiare la fine dell’estate e l’inizio dell’imminente vendemmia all’insegna del cibo. Nutrito il parterre degli ospiti, con 20 chef, 12 maestri dello street food, 16 cantine dell’Etna, tutti riuniti a Milo per onorare una comune visione della terra e della materia prima, fondata sul rispetto e sulla condivisioni di valori culturali. Sarà soprattutto una festa di piazza, dal tramonto e per tutta la notte, con i cuochi in arrivo da tutta Italia e dall’isola chiamati a mettere in scena un banchetto ispirato dai prodotti del territorio. A fare gli onori di casa i siciliani Giulia Carpino, Valentina Chiaramonte, Accursio Craparo, Tony Lo Coco, Gioacchino Gaglio, Angelo Pumilia, Claudio Ruta, Dario Di Liberto, Fabrizio Mantovani, Alessio Marchese, Giuseppe Raciti, Joseph Miceli, Lina Castorina, Lorenzo Ruta, Alfio Visalli. E poi gli ospiti, che saranno pure premiati per il loro impegno “straordinario” sul lavoro: Filippo La Mantia, Eugenio Roncoroni, Simone Padoan, Pasquale Torrente, Giacomo Gironi (in rappresentanza degli uomini di sala). Ma i riflettori saranno equamente condivisi con aziende agricole e artigiani dell’isola che offriranno le proprie specialità, dalla mortadella d’asino alla porchetta di suino nero cotta alla brace, al cioccolato di Modica. In abbinamento ai vini delle cantine dell’Etna. Chi saprà stupire i commensali conquisterà a fine serata il titolo al piatto più Straordinario. Appuntamento il 30 agosto, dalle 19.30 (costo del biglietto 65 euro, navetta disponibile dal centro di Milo, a pochi chilometri da Catania).

 

Straordinario – Milo (CT) – Tenuta Barone di Villagrande – il 30 agosto 2018 – www.eventostraordinario.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Dal vino al Made in Italy. Il Belpaese visto dalla Cina

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Che Italia cercano i cinesi online? L'analisi Business Strategies-Wine Monitor svela le keyword più digitate nel Paese del Dragone. Tante le sorprese: arredo, design e turismo stracciano il vino italiano. E “Made in Italy” quasi non esiste.

 

 

Il sondaggio

I mobili italiani battono il food tricolore; il Made in Italy riguarda solo il design; il vino rosso è praticamente sinonimo di vino. Sono solo alcune delle curiosità che vengono fuori dallo studio dell'Osservatorio Paesi Terzi di Business Strategies, in collaborazione con Nomisma Wine-Monitor, sulla percezione e il posizionamento del Made in Italy in Cina. L'analisi dimostra che, se i consumatori cinesi sono ancora lontani anni luce dal conoscere il food&wine del Belpaese, non si può certo dire che la nostra conoscenza del mercato cinese sia molto più approfondita. Insomma, nonostante gli sforzi, non parliamo ancora la “stessa lingua”. Ma vediamo nel dettaglio.

Il sondaggio, fresco di analisi (si riferisce al mese di giugno 2018), è stato eseguito con keyword in lingua originale e in lingua inglese sui maggiori social network cinesi, Weichat e Weibo, oltre che sul sul principale motore di ricerca del Paese, Baidu (studio, quest'ultimo, che prende in considerazione gli ultimi 12 mesi: giugno 2017-giugno2018).

 

Made in Italy Vs Italia

Partiamo con lo sfatare un luogo comune: la percezione e conoscenza del “Made in Italy” all'estero. Le analisi su Baidu mostrano, infatti, che la parola simbolo del lifestyle italianoè usato nel Paese del Dragone con un'accezione un po' diversa dalla nostra, ovvero per indicare i processi della manifattura in senso stretto, perdendo quindi il suo senso evocativo. Digitando la parola su WeChat, i primi articoli che compaiono riguardano un articolo di Sohu (piattaforma simile a Wikipedia) che spiega quali marchi sono Made in Italy; articoli sui prodotto Made in Italy realizzati in Cina; pagina di scarpe Made in Italy; pagina dedicata al cioccolato Made in Italy e Adv di Puma. Nessun riferimento al vino, quindi. Pochissimi al food. La situazione non si discosta, poi, di molto su Weibo, dove i primi due risultati rimandano al post di un architetto sulla Milano Desing Week e al post di un utente su un braccialetto Gucci.

Quello che per noi è Made in Italy” commenta la ceo di Business Strategies Silvana Ballotta in Cina è un termine praticamente vuoto o al massimo relativo a grandi brand del lusso.Credo che sia un po' la sintesi della ricerca che ci obbliga a interrogarci su come il consumatore cinese veda il nostro Paese e ad agire di conseguenza”. Una rivelazione in un certo senso sorprendente, visto che esiste tutta una letteratura, un po' troppo “generosa”, sul concetto di “Made in Italy” all'estero. A confermare quanto il termine abbia una bassissima presa in questo mercato, basti sapere che nell'ultimo mese la parola “Made in Italy” compare su Baidu (il motore di ricerca cinese, paragonabile al nostro Google) mediamente solo in 20 ricerche al giorno in lingua cinese e in 70 ricerche in lingua inglese. C'è, invece, un'altra keyword che ha un seguito ben maggiore ed è genericamente la parola “Italia”, digitata giornalmente, nel solo mese di giugno, 9200 volte. Praticamente il doppio rispetto alla media di 4.300 dell'ultimo anno. E si badi bene, digitata anche più della parola “Francia”, che arriva a giugno a 8200 ricerche. Appurato ciò, resta da capire cosa si intenda, secondo la “lingua cinese del web”, con la parola “Italia”. Nel 34% dei casi riguarda info generali; per il 26% arte e design; per il 23% il turismo; per l'8% lo studio; per il 4% il cibo e per l'1% (ancora troppo poco!) il vino. Mentre all'interno della keyword “Francia”, il vino (loro!) pesa per il 6%.

 

L'Italia è l'Europa?

C'è, poi, da tener presente che la conoscenza geografica cinese dell'Italia è ancora bassissima. Si pensi che non di rado ci si imbatte in ricerche come “Quale Paese è l'Italia?”, “L'Italia è l'Europa?”. E che l'unica città ricercata tra le top 50 query è Milano. “Nell'affrontare questa ricerca” è il commento del direttore Wine Monitor-Nomisma Denis Pantini ci aspettavamo che ci fossero diverse lacune, ma non che la conoscenza dell'Italia e dei suoi vini fosse così bassa. Appare invece evidente che bisogna partire da un livello base di formazione, cercando un linguaggio più vicino a quello cinese per non rischiare incomprensioni. Risulta, poi, alquanto sorprendente vedere che le ricerche correlate alla parola 'vino' siano così poche rispetto ad esempio a 'mobili italiani' (50 menzioni i primi, 2200 i secondi; ndr). Sapevamo che di strada da fare ce ne fosse parecchia, ma ci aspettavamo quantomeno che food&wine viaggiassero alla stessa velocità di altri settori, come ad esempio il turismo, che invece da aprile a giugno 2018 incassa il 26% delle ricerche contro appena il 5% di vino e cibo messi insieme. Considerato, poi, che i social in Cina rappresentano un canale mediamente colto, non osiamo pensare quale sia la percezione che nelle campagne e nelle periferie hanno dell'Italia e dei nostri prodotti”.

 

Prospettive e prossimi obiettivi per il sistema Italia

Questi risultati” gli fa eco Ballotta “sono lo specchio di flussi commerciali in Cina e la prova che il sistema Italia deve rafforzare la propria attività, muoversi compatto e unito, dimenticando le tante questioni tipicamente nazionali. Se non sapremo ascoltare adesso che siamo solo all'inizio, quando i giochi saranno fatti, il rischio sarà quello di restare fuori. Anche in questa direzione va il programma Taste Italy! Wine Academy, nato dall'accordo tra Business Strategies e Shanghai Morning Post, per diffondere il lifestyle italiano direttamente in Cina, grazie ai corsi della nostra wine school e alle rubriche dedicate al vino made in Italy sulle pagine dello Shanghai Morning Post e sui suoi diversi canali media e social, compresa una pagina Wechat e una piattaforma e-commerce”.

 

Vino Vs vino rosso

Altra curiosità da non trascurare per capire le abitudini di consumi cinese riguarda il confronto tra “vino” e “vino rosso”: la prima parola è paradossalmente ricercata meno della parola “vino rosso”, 1627 digitazioni in media al mese negli ultimi 12 mesi su Baidu contro 2882. “Un dato comprensibile” spiega Pantini “visto che per molti cinesi il vino è tutt'ora solo rosso. Le due parole sarebbero, quindi, praticamente dei sinonimi. Tanto che tra le query correlate a questa ricerca, è molto gettonata quella volta a capire la differenza tra vino e vino rosso”.

Andando più nel dettaglio, la maggior parte delle query correlate alla keyword “vino” si riferisce al metodo di produzione (65%), seguite dalle tipologie (es. “vino rosso/bianco”, “vino ghiacciato”, “vino francese” 19%) e alla “scadenza del vino”. Domande generiche che cambiano con la parola chiave “vino rosso” (ovvero il vino più bevuto dai cinesi). Qui la prima macro-categoria di query associate riguarda brand e rating (26%), modalità di consumo (25%), poi effetti e benefici del vino rosso, prezzi, info vini di importazione. Senza trascurare ipareri e i consigli di persone fidate, che corrispondono soprattutto agli influencer di settore, come Lady Penguin o Brunel.

 

Italia Vs Francia

Abbiamo visto sopra che nell'ultimo mese la parola “Italia” ha battuto la parola “Francia” nelle ricerche su Baidu. Ma possiamo dire lo stesso per il vino? Decisamente no. La parola chiave “vino francese”, con una media di circa 800 ricerche al mese nell’ultimo anno, registra il doppio delle ricerche di “vino italiano”.

Dal confronto tra i profili degli utenti che cercano la keyword “vino francese” rispetto a “vino italiano” si evince che l'utente italian wine lover, per lo più proveniente da Pechino e Shangai, è più giovane rispetto all'utente che si informa sui vini francesi. Molto netta, poi, la differenza di genere: nella ricerca “vino rosso italiano” la percentuale di uomini è del 63%, mentre scende al 56% per i french lovers.

Se ci spostiamo alle menzioni su WeChat, vedremo che la differenza Italia-Francia appare molto più marcata. Infatti, secondo il WeChat Index (il nuovo mini-programma interno all'applicazione che analizza i trend e la popolarità degli argomenti, dando un punteggio in base a numero di ricerche, risultati, qualità degli stessi, etc...), “Vino rosso italiano” spunta un indice di 3.182, contro il ben più alto punteggio di 33.360 del “vino rosso francese”.

Sui social, così come nella realtà, c'è un gap importante rispetto alla Francia, ma non incolmabile” chiosa Ballotta “Credo anzi che il vino stia facendo lo stesso percorso che 30 anni fa ha fatto la moda: se prima i brand più conosciuti – da Dior a Chanel – erano tutti francesi, nel tempo i nostri marchi – da Armani a Versace –sono riusciti a farsi strada per superare le distanze”. Magari partendo proprio dai social.

 

Italia. Le keyword più cercate su Baido

 

Ora italiana 2300

Mobili italiani 2200

Lingua italiana 950

 

(periodo aprile-giugno 2018)

 

Italia. Lekeyword più curiose digitate su Baido

 

Quale Paese è l'Italia? 110

L'Italia è l'Europa? 50

Come si mangia la pasta? 100

(periodo aprile-giugno 2018)

 

Lekeyword agroalimentari più digitate su Baido

 

Italia

Cucina italiana 130

Specialità italiane 110

Foto di pasta 110

Come mangi la pasta? 100

Vino rosso italiano 60

Vino italiano 50

Ristorante italiano 40

 

TOT. CIBO-VINO 610 5%

TOT. VINO 120 1%

 

(periodo aprile-giugno 2018)

 

a cura di Loredana Sottile

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 19 luglio

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Il miglior olio delle Marche. La produzione regionale e le aziende

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Un'azienda giovane, di appena 11 anni, che fin da subito ha puntato tutto su una produzione di alto livello, realizzando oli di ottima fattura, espressioni straordinarie dei frutti del territorio. La storia de Il Conventino di Monteciccardo. 

 

L'olio nelle Marche

Un anno fondamentale per le Marche, quello della scorsa campagna olearia del 2017, momento cruciale che ha segnato l'esordio dell'Igp Marche, riconoscimento che raccoglie il grande potenziale degli oli regionali in un disciplinare rigido e intelligente. Un passo determinante che rappresenta un nuovo inizio per una tradizione antica: già nei testi del Duecento, infatti, si trovano testimonianze del pedaggio pagato dalle navi marchigiane che approdavano sul Po, che consisteva in venticinque libbre di olio. Oggi, i produttori più giovani stanno facendo conoscere sempre di più il fascino delle cultivar locali in tutta la Penisola: varietà come l'ascolana tenera, dal tipico sentore di pomodoro con la sua foglia, la raggiola, più amara con note di mandorla verde e carciofo, la sargano di Fermo, dalle sensazioni di mela verde ed erba tagliata, la mignola, piuttosto amara e piccante, il piantone di Mogliano, più delicato, l'ascolana dura con nuance vegetali di cardo. Tanto per citarne alcune.

 

Il Conventino di Monteccardo

Fra i migliori rappresentanti dell'olivicoltura marchigiana, la famiglia Marcantoni, dell'azienda di Monteciccardo, in provincia di Pesaro Urbino, che nell'ultima edizione della guida Oli d'Italia del Gambero Rosso si è aggiudicata il premio come miglior fruttato medio grazie al suo Frà Bernardo, un monocultivar di ascolana tenera.

L'azienda

Tutto ha inizio nel 2003, quando papà Egidio acquista la tenuta de Il Conventino di Monteciccardo, ma è solo nel 2007 che nasce ufficialmente l'azienda agricola, “con la prima produzione di olio nel nostro frantoio, voluto e studiato da papà”, racconta Mattia, attualmente al timone dell'attività. Oggi, le piante sono 7.600 in tutto, prettamente di cultivar autoctone, e il frantoio si è evoluto, dotandosi di macchinari con una tecnologia sempre più alta e sofisticata. Con la collaborazione dell'agronomo Giuseppe Colantoni, “con cui siamo orgogliosi di lavorare ancora”, l'azienda ha saputo in breve tempo imporsi come punto di riferimento per l'olivicoltura di qualità nella zona.

 

frantoio

Il frantoio

In principio fu un piccolo frantoio da 4 quintali l'ora, una macchina che negli anni ha subìto così tante variazioni fino a diventare, oggi, un impianto di ultima generazione: “Per ogni nuova campagna, inserivamo una modifica. La nostra fortuna è stata quella di iniziare l'attività in tempi recenti, quando le informazioni sull'extravergine erano già alla portata di tutti”. Il frantoio aziendale è ora firmato Mori-TEM, e offre la possibilità di lavorare ogni oliva in maniera diversa: “Possiamo cambiare il numero di giri del frangitore, e abbiamo delle gramole verticali a temperatura controllata di 24°C in cui possiamo inserire l'azoto”. Questo perché, secondo i diversi esperimenti messi in pratica dall'azienda, la gramolatura in atmosfera d'azoto “contribuisce all'innalzamento della qualità del prodotto, in particolare allo sviluppo di polifenoli”, gli antiossidanti presenti nell'olio.

Le varietà locali

Protagonista assoluta del miglior fruttato medio dell'anno è l'ascolana tenera, “un'oliva molto delicata, al punto che temo non ci sarà durante la prossima campagna. La neve, con seguente gelata, ha distrutto le piante, che hanno poca resistenza alle basse temperature”. È un'oliva che ha una certa sensibilità anche agli attacchi di mosca, “la buccia è sottile e si rompe facilmente”. Quando la stagione è buona, però, è una delle prime a maturare, “viene raccolta attorno al 5/6 ottobre”. Particolarmente legata alla zona, invece, è la raggiola, “dal dna simile a quello del frantoio, ma dalla forma più allungata”, una cultivar che invaia molto lentamente, “rimane verde fino a fine ottobre, inizio novembre”, e che è più resistente agli attacchi parassitari, “ma ugualmente sensibile al freddo”.

 

Conventino, ulivi

La cura in campo

Comunque vada l'annata, la parola d'ordine per un bravo olivicoltore è sempre la stessa: monitoraggio. Un controllo continuo e certosino, per assicurarsi che le piante siano forti e vigorose, specialmente se si sceglie di aderire alla filosofia del biologico, che bandisce i trattamenti chimici per debellare mosca e simili. “Abbiamo preso questa decisione dal 2011, utilizziamo tutto ciò che è consentito, prodotti derivati dal zolfo rame, lo spintor fly, il caolino. La chiave di tutto è monitorare l'uliveto con costanza”.

La comunicazione e la vendita

Un progetto relativamente nuovo, quello de Il Conventino, che si è comunque dovuto scontrare con i tanti tasti dolenti del settore olivicolo, a cominciare dalla ristorazione: “I ristoratori cominciano ora a incuriosirsi e porre più attenzione all'extravergine, anche se ancora c'è molto da lavorare”. Fondamentale è la comunicazione, “che in questo momento gioca un ruolo determinante. Organizziamo periodicamente visite guidate su prenotazione, anche in lingua inglese, e partecipiamo a eventi e manifestazioni”. Ma la presenza ai festival non basta: “Facciamo molta fatica ad arrivare ai consumatori esteri durante le fiere. La maggior parte dei clienti stranieri sono persone che sono venute a trovarci: osservando di persona l'ambiente, le piante, il prodotto è più facile essere catturati dal fascino di questo mondo”. Fra i maggiori acquirenti, qualche paese nord europeo e poi Giappone e Taiwan, “ma l'export per noi vale solo un 10% del fatturato totale”.

 

olive

Il panorama marchigiano

Il resto delle vendite avviene in Italia, online e nei negozi specializzati. E naturalmente nel punto vendita aziendale: “Per fortuna, la regione sta crescendo, grazie soprattutto ad associazioni come l'Assam Marche e professionisti del calibro di Barbara Alfei”, capo panel Assam, esperta assaggiatrice, portavoce dell'olivicoltura marchigiana e promotrice della qualità dell'olio italiano. “Inoltre, il ricambio generazionale sta favorendo lo sviluppo di una produzione di livello: fino a qualche tempo fa, qui in zona eravamo davvero pochi, 3 o 4 aziende, a lavorare con criterio. Ora, per fortuna, tanti colleghi hanno cambiato rotta e intrapreso la strada giusta”.

 

Conventino vigne

Gli altri prodotti e il futuro dell'azienda

Otto persone, più un'altra ventina di operai nel periodo di raccolta, costituiscono la squadra de Il Conventino, uno dei rari casi in cui la vecchia guardia, capitanata da papà Egidio, non ha rappresentato un ostacolo per il rinnovo dell'azienda, ma anzi, ne ha posto le basi. “Siamo felici di quello che abbiamo ottenuto fino a oggi. In futuro, ci piacerebbe concentrarci sulla creazione di un turismo legato all'olio: in zona non c'è un grande flusso di vacanzieri, ma ci piacerebbe far diventare la nostra azienda un'attrazione da visitare”. Una sorta di turismo agricolo, legato all'extravergine ma anche al vino. “Abbiamo vitigni autoctoni locali, il bianchello e la lacrima, l'aleatico e il sangiovese. Il vino rappresenta circa il 60% del nostro fatturato”. Ma ci sono anche i cioccolatini e la crema spalmabile all'olio realizzata dalla cioccolateria Bruco di Jesi, “una piccola produzione disponibile solo in azienda”, i distillati e il miele. Qualche novità? “Vorremmo lavorare a un blend di alto profilo aromatico. Attualmente, ne produciamo solo uno base con olive leggermente più mature, che vengono molite insieme. Un giorno, vorremmo dedicarci all'arte del blend a partire da diversi monocultivar”.

I migliori oli delle Marche

Tre foglie

Olio Extravergine di Oliva - Del Carmine – Ancona - www.aziendadelcarmine.it

Monocultivar Ascolana Tenera - Gioacchino Garofoli - Castelfidardo (AN) - www.garofolivini.it

Monocultivar Piantone di Mogliano Bio - I Tre Filari - Recanati (MC) - www.itrefilari.it

Frà Bernardo Monocultivar Tenera Ascolana Bio - Il Conventino di Monteciccardo - Monteciccardo (PU) - www.conventinomonteciccardo.bio

Risveglio Monocultivar Raggiola - Massimo Mosconi – Emozioneolio - Serrungarina (PU) - www.emozioneolio.com

Monocultivar Ascolana Tenera – Montecappone - Jesi (AN) - www.montecappone.com

Monocultivar Ascolana Tenera - Olive Gregori - Montalto delle Marche (AP) - www.olivegregori.it

Monocultivar Picholine - Poldo Service - Castelfidardo (AN) - www.poldoservice.it

Evoo Monocultivar Ascolana Tenera Bio - Tenuta 100 Torri - Ascoli Piceno - www.evoo.it

Due Foglie Rosse

Monocultivar Piantone di Mogliano Bio – Bonfigli - Falerone (FM) - www.aziendabonfigli.it

Monocultivar Piantone di Mogliano - Casolare della Quiete - Corridonia (MC) - www.casolaredellaquiete.it

Oleo De La Marchia Monocultivar Ascolana - Del Carmine – Ancona - www.aziendadelcarmine.it

Oleo De La Marchia Monocultivar Frantoio - Del Carmine – Ancona - www.aziendadelcarmine.it

Monocultivar Moraiolo - Fattoria Le Terrazze - Numana (AN) - www.fattorialeterrazze.it

Monocultivar Mignola Bio - I Tre Filari - Recanati (MC) - www.itrefilari.it

Monocultivar Raggia Bio - I Tre Filari - Recanati (MC) - www.itrefilari.it

Frà Giocondo Monocultivar Leccino Bio - Il Conventino di Monteciccardo - Monteciccardo (PU) - www.conventinomonteciccardo.bio

Frà Pasquale Monocultivar Raggiola Bio - Il Conventino di Monteciccardo - Monteciccardo (PU) - www.conventinomonteciccardo.bio

Spalià Monocultivar Ascolana Tenera - L' Olivaio Frantoio Oleario - Castelleone di Suasa (AN) - www.lolivaio.it

Sbarrè - Luigi Zura Puntaroni - San Severino Marche (MC)

Olio Extravergine di Oliva - Oleificio Venturi Agape - Sassocorvaro (PU) - www.olioagape.it

a cura di Michela Becchi 

Oli d'Italia 2018 – Euro 13,90 – disponibile in libreria e online

Oli d'Italia 2018, la guida dedicata all'olio extravergine di oliva. Ecco i premiati

Il miglior olio della Sicilia. La produzione regionale e le aziende

Il miglior olio dell'Umbria. La produzione regionale e le aziende

Il miglior olio dell'Abruzzo. La produzione regionale e le aziende

Il miglior olio della Campania. La produzione regionale e le aziende

Il miglior olio della Puglia. La produzione regionale e le aziende

Il miglior olio del Trentino Alto Adige. La produzione regionale e le aziende

Olio extravergine di oliva. Glossario essenziale per conoscere l'oro verde

 
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