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Mollo tutto. Cosa porta gli chef ad abbandonare la cucina?

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Solo temporaneamente o per sempre. Per alcuni cuochi la vita in cucina a un certo punto diventa insostenibile: stress, orari impossibili, mancanza di sonno o di vita sociale, lavoro nero, via via in un precipizio di fattori negativi che rende preferibile un cambio di vita.

In questo momento sono preda di un dubbio cosmico” scherza – ma neanche tanto – Leonardo Lucarelli (autore di quel Carne Trita che ha messo in piazza in bello e soprattutto il brutto del mondo dei ristoranti). “Da una parte mi spaventa un po' allontanarmi veramente dalla cucina, dall'altra è una vita impossibile”. Staccatosi dalla trincea dei fuochi negli ultimi tre anni, in cui ha fatto una full immersion nella scrittura e nella promozione del suo libro, oltre che preso l'abilitazione all'insegnamento nelle scuole parificate, si trova oggi nella condizione di guardare dal di fuori quel mondo amato-odiato.

 

Amore-odio

Cosa ti tiene legato alla vita da cuoco? “I soldi, principalmente” risponde, ma poi aggiunge “la cucina è un mondo che, per motivi economici, ma anche personali e di soddisfazione, conosco bene e in cui sto bene. All'inizio mi piaceva uscire all'una di notte e finire la serata con i colleghi, così come mi piaceva staccare e rimanere dentro ai locali in cui lavoravo, dove le persone pagavano per entrare a sentire musica. Mi pareva quasi una rivalsa sul mondo dei normali finire la serata lì”. Poi si cambia “quella voglia di vendetta sul mondo non ce l'ho più”, come cambiano le priorità “vorrei una vita un po' più normale” la cucina ruba il tempo e allontana dai ritmi degli altri e della famiglia “se vuoi accompagnare tuo figlio a scuola devi svegliarti alle 7, anche se fai il cuoco”. E questo sembra essere il mantra di tanti. Lo è stato diVittorio Fusariche ha chiuso qualche settimana con Il Pont de Ferr di Milano proprio per recuperare un ritmo più umano e ritornare in famiglia, a Iseo “ero per 5-6 giorni a settimana a Milano, lontano da mia moglie e mio figlio. Per la tua famiglia diventi una presenza assenza: un prezzo troppo alto” e, aggiunge “la serenità incide anche sul lavoro”. Lo stesso motivo che aveva spinto Entiana Osmenzeza a lasciare le cucine di Gurdulù a Firenze e godere con calma della maternità. Di alcuni si sono perse le tracce, lasciata la cucina, come di Paola Budel che ricordiamo al Venissa di Mazzorbo.

 

Lavoro, a quale condizioni?

La proposta che sto valutando io, ora, è quella tipica: 6 giorni a settimana con doppio turno” che significa almeno 12 ore al giorno che diventano facilmente 14, con un impegno fisico che può avere conseguenze anche serie sulla salute: “a settembre mi hanno diagnosticato un'insufficienza venosa in uno stadio avanzato, una tipica malattia professionale: troppe ore in piedi ferma” racconta Bianca Celano, che ha recentemente chiuso il suo QQucina Qui a Catania proprio per motivi di salute. “Non potevo più stare tanto in piedi, invece in quel periodo la mia brigata si è letteralmente smantellata, chi è andato a Milano, chi in Germania, chi voleva un ristorante suo. Per motivi diversi sono andati via e mi sono caricata anche del loro lavoro mentre cercavo di rimetter su la brigata” continua “sono tornata pure a fare la spesa, nel frattempo sono passati diversi cuochi e mi sono resa conto di quel che mi dicevano i miei colleghi: trovare qualcuno bravo e motivato, da far crescere qui a Catania è sempre più difficile, anche se pagato e messo in regola. A Catania c'è un fuggi fuggi dei cuochi” e così il lavoro diventava sempre più pesante “non potevo allontanarmi, continuavo a provare cuochi, molti sono mercenari, irrequieti, vogliono cambiare continuamente bruciando esperienze, mentre la cucina è un lavoro artigianale”. Arrivato il 31 dicembre decide di fermarsi. “Piuttosto che rovinare quel che avevo creato ho preferito spegnere i fornelli. È stato l'anno migliore da quando abbiamo aperto, ma non ce la facevo più. Mi riprendo salute e famiglia e poi quando avrò la forza, ricomincio”. Senza tranquillità le cose non andavano per il verso giusto “a Catania si va a mangiare tardi, la cucina chiudeva anche dopo mezzanotte: troppa fatica, tanta adrenalina, ma anche stress” riprende “non ero serena io e non i clienti lo percepivano. A fine giornata ci sembrava di essere stati in guerra”.

 

Quanto vale il lavoro da cuoco?

Nei contratti a chiamata o part time, per esempio quelli stagionali, per 10 o 12 ore prendi 80/90 euro al giorno” ci spiega Lucarelli, che specifica “con una parte, a volte fino a metà, in nero. A volte però ci sono anche premi produzione o extra forfettari”. Nella sua esperienza il nero c'è stato quasi sempre “minore nei ristoranti di livello più alto, niente in quelli blasonati”, ma spesso meno nero significa compensi più bassi “perché in certi posti guadagni meno ma impari e ti fa curriculum” riflette “tutto sommato sono esperienze giuste, che per me andavano fatte”. Una piaga, il lavoro sommerso, da affrontare, con il carico che porta con sé. Perché è presumibile che dove non vengono pagati correttamente i dipendenti, ci siano anche irregolarità nelle fatture in uscita e in entrata. Se risulta che i collaboratori lavorano meno ore di quanto non facciano nella realtà, probabilmente anche il ristorante non dichiara quanto lavora (quindi guadagna) effettivamente, pena una palese discrasia, da qui una possibile evasione fiscale. Di contro: chi non scontrina come modus operandi (vi è mai capitato in un locale affollatissimo uno scontrino dal numero progressivo troppo basso?), come giustifica l'acquisto di materie prime che poi non risultano vendute? È probabile che anche gli acquisti non siano in regola, soprattutto laddove non ci sono grandi aziende in campo – più rigide - ma piccole realtà. E un prodotto non tracciato potrebbe non rispondere alla normativa sulla sicurezza e produzione alimentare.

Insomma: il nero è un'ombra che si estende su diversi aspetti degli esercizi commerciali. “secondo l'Istat, il lavoro nero si aggira intorno al 56%: più della metà di tutta la forza lavoro che muove questo mondo non esiste” continua Lucarelli, la cui carriera di scrittore nasce proprio da un articolo del 2013 sul lavoro sommerso - parziale o totale - che ha incontrato nella sua vicenda professionale. Oggi i dati forse sono un po' diversi, si parla del 26% ma ci sono mille variabili, nel conteggio, che fanno schizzare verso l'altro questo dato. E se uno si rifiutasse? “Queste sono le regole del gioco: se non ti sta bene, vai; di cuochi ce ne sono”. In questo computo di malagestione si devono annoverare anche contributi non versati “nel 2011 mi risultavano 3 anni di contributi, lavoravo da 11, e non era nemmeno registrato il mio licenziamento da un posto chiuso da anni”, locali che aprono e chiudono sulle spalle di fornitori e dipendenti per incapacità o furbizia della proprietà “solo una volta ho fatto male i conti e ci ho rimesso 3 mesi dello stipendio” racconta “devi avere un bel pelo sullo stomaco, in questo mondo ci sto da 15 anni e ogni volta è una partita a scacchi”. Insomma: da qualunque parte la si guardi, è sempre una guerra. E il lavoro sommerso è così diffuso che - per avere un'idea – basterebbe ascoltare quale che si dice in fase di colloqui di lavoro, in cui si dichiarano candidamente lavori irregolari e altre anomalie. Ma anche confrontare curriculum con buste paga e contributi versati dai datori di lavoro, spesso gli stessi dipendenti non hanno consapevolezza di quel che dice il loro contratto nazionale, dei loro obblighi e diritti.

 

Questioni di contratti

Ma è davvero inevitabile? No, non è sempre così e non è ovunque così. Però l'irregolarità dilaga. “Il problema è anche a monte: il peso contributivo per i datori di lavoro è fortissimo” racconta Lucarelli “un locale normale che fa 50 coperti ha bisogno almeno di 3 persone in cucina e 3 in sala - e solo per un cuoco i 2mila netti diventano 4mila lordi - e spesso non ce la fa”. Conferma anche Fusari: “il costo del lavoro è altissimo, così se un ristorante ha bisogno di più persone per lavorare tutti meglio, diciamo 10 ore al giorno, spesso non può permettersi di assumerle, almeno non in modo trasparente” qui si crea lo spazio per quella zona d'ombra che accoglie pagamenti in nero e orari disumani. “Oggi l'aumento del costo del lavoro ha reso tutto più complicato” conferma Fabio Spada, ristoratore e presidente Fipe Roma “erende difficile l'equilibrio economico per le aziende, a qualsiasi livello”, negli anni '90 il carico fiscale era pari a 1/3 del fatturato “oggi è spesso al 40-45% del fatturato, ed è sempre più difficile far quadrare i conti . I motivi della crisi che vivono gli imprenditori in genere sono legati proprio al costo del lavoro. “Troppo alto. Non giustifichiamo il nero, l'eccessivo carico fiscale non può mai essere considerato un alibi. Ma i ristoranti sono sempre più in affanno per questa ragione”. Ma il nero c’è ed è un dato di fatto. “Il peso fiscale andrebbe alleggerito con benefici anche per i dipendenti, il problema riguarda ogni settore dell’economia ma è evidente che l’incidenza è maggiore in comparti produttivi in cui professionalità e manodopera non possono (fortunatamente) essere sostituiti da una macchina. In attesa che questo avvenga sarebbe comunque fondamentale che tutti rispettassero le stesse regole e pagassero le tasse. se oggi si vive in un panorama di concorrenza sleale non è per le grandi catene, Mc Donald's o altri, ma per chi non applica le norme e non rispetta la legge è non solo per quanto riguarda la tassazione” aggiunge Fabio Spada.

Succede poi che spesso chi è assunto venga schiacciato da extra e straordinari “che anche se pagati sono comunque troppi, ai limiti della sopravvivenza: bisogna considerare la retribuzione della squadra, non dei singoli” spiega Fusari, perché se uno pure fosse pagato il 50% in più ma fa 15 ore al giorno per 6 giorni a settimana, o copre il lavoro di 2 persone, i conti comunque non tornano. “Il lavoro straordinario costa comunque di più del lavoro ordinario” ricorda Spada. Certo, ogni assunzione apre alche altre questioni, ma il costo del lavoro straordinario, se correttamente conteggiato, è più alto. Dunque dal punto di vista dei costi, non conviene avere dipendenti che lavorano 14 ore al giorno, al posto di due che ne lavorano 8 e 6.

 

Il contratto nazionale

Servirebbe un contratto professionale adeguato, invece il nostro (contratto collettivo nazionale di lavoro da aziende del settore turismo) è sovrapponibile a quello di un operaio riguardo festivi, prefestivi e straordinari; è un mondo in cui è normale lavorare nei festivi e in cui ci sono straordinari” continua Fusari. Parliamo, in media, di contratti di 40 ore settimanali a fronte anche di 65-70 effettive (mentre il CCNL recita: “Il lavoro straordinario è consentito nel limite massimo di duecentosessanta ore annuali”).

“È un contratto che non viene rinnovato da più di 4 anni. Bisognerebbe sedersi a un tavolo di trattativatenendo presente che il mondo della ristorazione è cambiato. Un negozio, una fabbrica, un albergo e un ristorante hanno esigenze diverse”Spada parla soprattutto della possibilità di comprimere o distribuire le ore di lavoro in maniera diversa pur rispettando il monte ore contrattuale mensile. “Avremmo bisogno di nuove forme contrattuali che stimolassero una maggiore elasticità compensandola con una maggiore retribuzione oraria a favore del dipendente, senza incidere ulteriormente sulla parte contributiva e di tassazione a carico dell’azienda“, in sintesi: “insomma, minor carico fiscale e maggiore flessibilità, alcune attività non possono essere interrotte e riprese da un altro”, per esempio fermarsi a metà servizio e lasciare a un altro l'ultima ora e mezzo. I calcolo è semplice: in molti ristoranti, specie quelli di livello più alto, si comincia a preparare la linea intorno alle 3 di pomeriggio. 40 ore in 6 giorni a settimana fanno 6 ore e 40 al giorno. È pensabile che un capopartita vada via alle 21,40, a metà turno? No, è più credibile che finisca il turno, e allora varrebbe la pena di ragionare di contratti che tenendo presente questa realtà, rispettassero i limiti massimi di lavoro giornaliero.

 

Far quadrare i conti

Insomma: se assumere è troppo costoso come lo è pagare tutti gli straordinari, come si fa? “Come patron è veramente difficile far quadrare i conti” ammette Fusari, ma poco cambia se sei lo chef “perché se sei responsabile del lavoro lo vivi come tuo”. Gli stagisti rappresentano una risorsa: forza lavoro con un costo decisamente più basso (il compenso minimo è di 500 euro al mese con il contributo regionale con Garanzia Giovani, o di 800 euro senza), a fronte di una formazione professionale - “che dovrebbe essere riconosciuta” aggiunge Fusari. Ma i Italia i limiti sono stringenti: 1 stagista fino a 5 dipendenti, 2 fino a 19 e poi 1 ogni 10. Dunque 4 stagisti ogni 40 dipendenti. Basta affacciarsi nelle grandi cucine del mondo, quelle dei Roca o di Redzepi, per nominare le più vicine, per rendersi conto della differenza. “Dovrebbero essere consentiti e garantiti dei percorsi formativi” aggiunge Spada. “Che significa aumentarne il numero di stagisti – allineando le nostre imprese a quelle di altri paesi rendendo i nostri ristoranti molto più competitivi sul palcoscenico internazionale – ma controllando anche l'effettivo e corretto utilizzo degli stage come momento didattico”.

Nelle cucine, poi, diventa anche una questione di onore, “una sorta di machismo tra cuochi” lo definisce Lucarelli “una prova di forza, di lealtà. In quel contesto la cucina sta al primo posto, e se dici che hai finito le tue ore e te ne vai, gli altri non la prendono bene”. È una trincea, come la chiama lui, e in trincea vigono altre regole. Fatte di mancanza di sonno, bioritmi alterati, abitudini antisociali, pressione e stress oltre i livelli di norma, concentrazione a oltranza, tutte cose che hanno un peso “colleghi scoppiati, borderline, con tutto quel che ne consegue” ovvero 'doping' e abusi vari di cui è piena la letteratura di settore.

 

Come va la ristorazione?

Ma non esistono modelli che funzionano? “Quelli che vanno bene sono le attività familiari, le grandi catene o i grandi alberghi in cui il ristorante vale anche come strumento pubblicitario” ma per le piccole aziende è complicato, oberati da costi e burocrazia insostenibili – mediamente più pesanti di quelli di altri paesi – e lo è ancor di più nell'alta ristorazione, imprese in perdita per come sono strutturate, che si reggono su altri introiti: eventi privati, consulenze, sponsorizzazioni. Ma in questo ambito le cose – all'apparenza - vanno meglio, forse anche per via dei riflettori perennemente accesi che spingono ad attenersi alle regole, alla sete di scandali che non perdona il minimo errore agli chef più famosi, o semplicemente per una maggiore serietà. Sia come sia, una strada sembra essere quella di costruire organismi complessi, in cui il reddito è distribuito e dipende da diversi elementi, per esempio l'ospitalità: “la remunerazione di una stanza è maggiore di un piatto che ha dei costi di materie prime e lavorazione che in Italia si fatica a riconoscere”; si spiega meglio Fusari: “da noi il prezzo dei ristoranti è mediamente più basso di quello degli omologhi esteri”. Dunque con uno scontrino medio più alto i ristoranti potrebbero trovare un equilibrio oggi impossibile? “Avremmo, volendo, anche altri percorsi da seguire, i caffè o le osterie. Ma dobbiamo prima far comprendere il valore di certi piatti e certi prodotti”. Lui la chiama “una visione diversa e un po' olistica del cibo” che va oltre al singolo piatto o ristorante e intende l'ospitalità a tutto tondo, fruibile a più livelli, come elemento di conoscenza del territorio, di incontro e di snodo della comunità. Ma potrebbe bastare?

 

a cura di Antonella De Santis

 


Salon du Chocolat 2018. A Milano, la fiera del cioccolato di qualità

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Torna, dal 15 al 18 febbraio a Milano, il Salon du Chocolat, la manifestazione nata in Francia e dedicata al cibo degli dei. Eventi, laboratori e naturalmente tanti assaggi all'insegna della qualità.

La fiera

Terza edizione per la manifestazione più golosa dell’anno: il Salon du Chocolat raduna maitre chocolatier, pasticcieri, produttori e tutti gli esperti del settore per promuovere e valorizzare questo prodotto, consumato da molti ma conosciuto ancora da pochi. Nata in Francia 22 anni fa, la fiera è giunta finalmente anche in Italia nel 2016, trovando spazio al MiCo – Milano Congressi. L'evento si rivolge a tutti, dai professionisti agli appassionati, senza dimenticare i principianti che vogliono addentrarsi in questo ambito. Quattro giorni alla scoperta dell'intera filiera da cui il cioccolato prende vita, dalla fava al prodotto finale, un’occasione unica per cogliere le diverse sfumature aromatiche e imparare a distinguere un buon prodotto artigianale da uno industriale.

Il programma

Un programma fitto di appuntamenti per una manifestazione che, ancora una volta, abbraccia più settori. A cominciare dal mondo della monda. La festa dei pregiati cacao, infatti, si apre con la sfilata di abiti in cioccolato, uno show pensato per valorizzare il gusto e il senso dell’estetica dei grani artigiani che hanno fatto delle loro opere dolci delle vere sculture. Naturalmente, cuore pulsante dell’evento restano gli interventi dei cioccolatieri, chef e pasticceri che presenteranno al pubblico le loro ricette, in cui mostreranno gli usi più insoliti e originali del cioccolato. Nel corso delle giornate, infatti, si susseguiranno sul palco dei Pastry Show diverse sessioni dedicate agli addetti ai lavori, che offriranno ai visitatori dimostrazioni pratiche della lavorazione del cioccolato, svelandone trucchi e tecniche. Dalle torte alle praline, dalle tavolette ai cremini, dal gelato ai biscotti, senza dimenticare creme spalmabili, bon bon e dragèes: al Salon du Chocolat, la fava di cacao diventa protagonista in tutte le sue sfumature, in pasticceria così come in cucina, coinvolgendo il pubblico con i suoi profumi avvolgenti e il gusto intenso. Alta attenzione, infatti, anche alla filiera del prodotto, e la sua tracciabilità, dai Paesi d’origine alla lavorazione finale, e spazio anche all’analisi sensoriale. Tra showcooking e laboratori, sul palco saliranno i professionisti del settore che insegneranno ai consumatori il modo migliore per approcciarsi all’assaggio del prodotto, degustandolo in maniera corretta e imparando a riconoscerne pregi e difetti. Non mancheranno, poi, le attività dedicate ai più piccoli, con lezioni di pasticceria nell’area Chocoland, dove tutti i bambini (insieme ai genitori) potranno imparare a realizzare dolci e biscotti sperimentando con i tanti tipi di cioccolato. Un’occasione unica, dunque, per scoprire specialità nuove, prodotti d’eccellenza, scegliere con più consapevolezza, e anche per acquistare, grazie allo spazio ChocoShopping che offre tutte le migliori prelibatezze della cioccolateria internazionale.

Eventi e protagonisti

Fra assaggi e laboratori, non possono mancare i seminari, dibattiti e forum dedicati al tema più dolce che ci sia, tenuti dagli operatori del settore che faranno il punto sul panorama del cioccolato italiano. Partendo da una domanda: perché gli italiani ne consumano così poco? A cercare di fornire una risposta, il maestro pasticcere Luigi Biasetto, mentre il team dell’azienda modicana CioKarrua spiegherà proprietà nutrizionali e vantaggi dell’utilizzo di carruba con il cioccolato. Ma quanto conta il cioccolato nel menu di un ristorante? Il dessert, si sa, è il ricordo finale di un pasto, per cui, specialmente nei ristoranti di un certo livello, deve essere all’altezza dell’intero percorso di degustazione. Lo conferma Luca De Santi, pastry chef del celebre Ratanà di Milano, che in carta non rinuncia mai a un buon dolce a base di cioccolato. Quest’anno, tra i 50 espositori che disporranno i propri stand sugli 8400 mq che MiCo ha messo a disposizione, ci sarà anche la Repubblica Dominicana. Il Paese caraibico sarà presente con le creazioni di della cioccolatiera Valeria Santoli, fondatrice della boutique di cioccolato “Oltreciocc” di Pavia e selezionata da Chococlub (Associazione Italiana Amatori Cioccolato) per realizzare una pralina speciale in occasione del salone. Non mancheranno i grandi nomi, da Davide Comaschi ad Andrea Besuschio, e presente anche l’immancabile Compagnia del Cioccolato, da anni impegnata nella diffusione della cultura del cioccolato di qualità, insieme a un’assortita schiera di gelatieri. E ancora Davide Longoni e Marco Colzani, per raccontare l’inossidabile connubio pane e cioccolato, Stefano Broccoli e il suo cioccolato crudo della Funny Veg Academy, Gino Fabbri e la sua ganache al cioccolato fondente, e tanti, tanti altri artigiani del gusto insieme per promuovere e valorizzare il prodotto più amato di sempre.

Salon du Chocolat – Milano – MiCo Milano Congressi, piazzale Carlo Magno, 1 – dal 15 al 18 febbraio 2018 - www.salonduchocolat.it/ita/2018/

a cura di Michela Becchi

Melegatti: Hausbrandt Trieste corre in aiuto. 1 milione di euro per la ripresa della produzione. E poi l'acquisizione?

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Il gruppo del caffè di Treviso si muove per salvare Melegatti, alle prese con un debito difficile da saldare, e di nuovo con gli stabilimenti fermi. Un milione di euro per finanziare la ripresa della produzione in vista di Pasqua, poi la proposta di acquisizione. Con l'idea di creare un grande gruppo made in Veneto, salvando l'eredità della storica azienda dolciaria.   

La crisi di Melegatti. Riassunto delle puntate precedenti

Nell'occhio del ciclone, Melegatti e i suoi lavoratori, si dimenano ormai da molti mesi. Una brutta storia di debiti, mancati pagamenti e cassa integrazione che ha scatenato una (per certi versi sopra le righe) mobilitazione generale per cercare di salvare una realtà storica dell'industria dolciaria italiana, quella del Pandoro Originale brevettato nel 1894 da Domenico Melegatti, il pandoro italiano più famoso nel mondo. Ma più di un secolo dopo, l'azienda veronese è costretta a fare i conti con una politica gestionale non sempre azzeccata (leggi l'apertura di un nuovo stabilimento all'inizio del 2017, che ha pesato sul bilancio ben più del previsto), aggravata dalla “faida” ai vertici tra le famiglie Ronca e Turco che finora hanno condiviso la proprietà di Melegatti. Una situazione già grave all'inizio dell'autunno, con i primi avvisi di cassa integrazione per un centinaio di lavoratori, poi peggiorata fino a sfiorare il baratro del fallimento, tra petizioni e gare di solidarietà talvolta fuori luogo (“perché non si fa lo stesso quando chiude un artigiano?” ha domandato qualcuno) per salvare il Natale del pandoro a suon di hashtag #NoisiamoMelegatti, interventi della politica e sfiancanti rimpalli in tribunale.

 

Il miracolo di Natale. Ma la Pasqua?

Poi la ripresa della produzione, in tempo per sfornare uno stock extra di 5mila pandori in vendita allo spaccio aziendale di Verona, un “miracolo di Natale”, l'ha ribattezzato la vox populi. E il ritiro della cassa integrazione, con un fiducioso riferimento alla ripresa regolare dell’attività dopo l'Epifania, in vista della Pasqua, con il supporto del fondo maltese Abalon e un prestito da 6 milioni di euro. Pericolo scampato, dunque, ma solo temporaneamente. I danni della cattiva gestione hanno portato la società ad accumulare 10 milioni di euro di esposizione con le banche, e 12 milioni di debiti verso i fornitori. Cifre che non si cancellano con la mobilitazione popolare. E non bastano neppure la buona volontà e l'attaccamento alla causa sfoderati dai lavoratori di San Giovanni Lupatoto: molti di loro, anche in sciopero e in cassa integrazione, hanno continuato a “vegliare” sul lievito madre, auspicando la ripresa della produzione. Un paio d'ore ogni giorno, nello stabilimento deserto e chiuso fino a data da destinarsi, per assicurarsi che le macchine impastatrici lavorino come devono, a temperatura costante; e aggiungere a tempo debito lievito e farina. Difficile, insomma, prevedere i prossimi mesi di Melegatti.

 

La discesa in campo di Hausbrandt

Almeno fino a qualche ora fa, quando Hausbrandt ha ufficializzato la sua discesa in campo. La casa produttrice di caffè di Nervesa della Battaglia (Treviso) ha firmato in tribunale un accordo da un milione di euro per finanziare la produzione di Pasqua. Di Fabrizio Zanetti, proprietario del gruppo trevigiano Hausbrandt Trieste 1892, le parole diffuse dal comunicato ufficiale, che sottolinea l'impegno a risanare le sorti di Melegatti nel nome di un'alleanza veneta, che fa presagire l'interesse all'acquisizione dell'azienda: “Hausbrandt acquisisce la procura generale per la campagna pasquale di Melegatti e la produzione delle colombe, scongiurando così la chiusura dell’azienda e salvaguardando la storia e la tradizione dello storico marchio veronese. L’obiettivo del Gruppo è quello di rilevare l’azienda per risanarla, garantendo una continuità industriale e creando un grande gruppo “Made in Veneto” per proporre al consumatore di oggi e soprattutto di domani una selezione di prodotti e abbinamenti, mixando le potenzialità di entrambe le realtà”. Obiettivo primario resta al momento quello di far ripartire rapidamente la produzione grazie alla cauzione iniziale, e poi procedere con la ristrutturazione del debito, per puntare all'acquisizione della società. Con il benestare, già accordato, della maggioranza dei soci Melegatti. Sperando che la vicenda si chiuda nel migliore dei modi. Soprattutto per i lavoratori di Melegatti.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Sanremo: ristoranti meno affollati, delivery, cucina casalinga. Come si mangia durante il Festival?

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Alzi la mano chi non cede, almeno per una serata, alla tentazione di mettersi davanti alla tv per una full immersion nella canzone italiana. Che sia per ascoltare la musica o per criticare gli abiti, per ridere dei comici o lasciarsi andare ai ricordi, quello con San Remo è un appuntamento fisso per molti, per altri è, invece, uno spauracchio da evitare approfittando dei ristoranti un po' più vuoti.

Dalla parte dei ristoratori

Che sia per passione o per curiosità, per una sola serata o per l'intera kermesse, per amore della musica o per il gusto del gossip più feroce, da soli o in compagnia, fatto sta che Sanremo è un appuntamento che coinvolge molte persone, più di quanto ci si aspetterebbe e con imprevedibili fedelissimi. Certo, non è come una finale di Champions (vero spauracchio dei ristoratori), ma la normale routine domestica per una settimana cambia, tanto o poco. Dipende dai casi. Non rileva differenze con altri momenti dell'anno in termini di clientela Marco Pucciotti, ristoratore e imprenditore del settore food che colleziona locali e ristoranti diversi per stile e proposta, ormai sono una decina (dal bistrot di stampo francese Epiro, alla trattoria Santo Palato, dalla pizzeria Sbancoall'ultimo nato con il format cockatil&pizza Blind Pig, fino ad alcune delle birrerie più note a Roma e Londra) che aggiunge “solo il calcio ha quel potere”. Diverso il discorso di Roberto Dominici, patron de Il Territorio, enoteca di quartiere (sempre a Roma) con una clientela di habitué e fedelissimi, che registra un calo nelle presenze complice anche la pioggia di questi giorni. E gli altri? “Nessunadifferenza”per Marco Ambrosino con il suo 28 posti di Milano che “però”dice “non ha risentito neanche delle partite di Champions”a testimonianza che il suo pubblico non è sensibile alle sirene dei grandi eventi. C'è differenza invece per Salvatore Salvo: (pizzeria Salvo da 3 generazioni) “potremmo dire che è una delle prime cose che ci ha insegnato nostro padre: nella settimana del festival la vendita è rallentata”, nella pizzeria di Francesco e Salvatore Salvo di San Giorgio a Cremano Sanremo si è sempre sentito “c'è stato un periodo in cui non cambiava molto, ma da qualche anno è tornato a sentirsi, anche se” aggiunge “è difficile valutare quanto incida realmente, perché questo è un periodo dell'anno un po' debole”. Certo chi fa servizio a domicilio può essere avvantaggiato dai grandi appuntamenti che incollano davanti alla tv, e anche stavolta è il calcio a fare la parte del leone - “campionato, Champions, mondiali: per le partite c'è il coprifuoco a Napoli” aggiunge Salvatore. Il calcio, in particolar modo se gioca il Napoli, è una variabile che incide anche per Giuseppe Iannotti e il suo Kresios a Telese Terme, ma il Festival non sposta molto, come non sposta per Simone Cipriani di Essenziale a Firenze “francamente non sapevo neanche ci fosse in questi giorni Sanremo” dice. Alcune attività hanno dunque vita più facile, quelle che, tradizionalmente, hanno un'offerta compatibile con il take away, più o meno organizzato che concede di godersi le proprie passioni senza interruzioni per cucinare.

 

 

L'alternativa delivery

Come ci si organizza per non perdere nemmeno una nota o un outfit del Festival della Canzone Italiana? Qualcuno si affida al più feroce junk food, altri si mettono ai fornelli prima della sigla o durante gli spot pubblicitari, molti - soprattutto se la visione è collettiva - si affidano ai delivery, il cibo a domicilio. Un settore che sta facendo passi da gigante nella qualità del prodotto, del servizio, e che sta entrando sempre di più nelle abitudini degli italiani (Giovanni Zezza, Head of Marketing Deliveroo Italia parla di una crescita costante nell'uso, settimana dopo settimana, con un aumento di ordini del 20% mentre per Just Eat alcune categorie, per esempio rosticceria e cucina libanese con felafel in testa, registrano incrementi che si aggirano intorno al 2000%, ma è un dato relativo) tanto che la app Qualiescegliere.it ha analizzato e confrontato i delivery più diffusi per aiutare i consumatori a districarsi tra marchi, proposte, offerte e strategie di marketing di vari servizi (ve ne avevamo parlato al loro apparire in Italia). Oggi che ordinare cibo di qualità con una app e vederselo consegnare a casa non è più così strano, comesi organizzano gli italiani? E cosa preferiscono mangiare davanti alla tv? “Pizza, burgers e gelati sono i cibi più richiesti” dicono da Foodora, gli fa eco Deliveroo, che nella sua classifica dei cibi più venduti proprio durante la prima serata di Sanremo annovera “Poke Crispy Salmon Bowl di Rose & Mary a Milano, la super tradizionale pizza Margherita di Trattoria Caprese a Monza e il Bacon Cheese Burger di Berretta Food & Wine di Roma”.Mentre per Just Eat i piatti più ordinati il 6 febbraio 2018 sono stati la pizza Margherita, i supplì, la diavola e le olive ascolane, insomma tutto il comparto legato alla regina del take away, per poi giungere ai nigiri al salmone e al chicken burger, infine gli arrosticini, complice forse la facilità di consumo, che non necessita di posate e piatti.

 

Nei giorni del Festival cambiano le preferenze, quelle individuate da Just Eat, che ha tracciato un profilo settimanale dei gusti in fatto di cibo a domicilio basandosi su un osservatorio di circa 10mila clienti: con il week end dominato dall'inossidabile binomio pizza e hamburger e i giorni precedenti i cui piadine e cibo messicano a sorpresa primeggiano nelle preferenze degli italiani il venerdì e il sushi il giovedì. Quando c'è Sanremo, per gli appassionati, ogni giorno è un evento e il calendario abituale salta: nella prima serata, oltre a pizza e hamburger – la prima preferita a Milano, il secondo a Roma, mentre cibo italiano e dolci detengono il primato a Bologna, secondo i dati della prima serata -anche panini (con Napoli a fare da capofila) e piadine, e poi messicano e indiano “due cucine solitamente non nelle prime dieci posizioni tra le cucine più ordinate in Italia, una scelta curiosa” non solo. A conferma che la kermesse canora viene seguita fino in fondo, anche una grande richiesta di gelato, altro cibo del cuore, “come post cena durante il Festival, che dura fino all’una di notte”.

 

Le offerte speciali

Molti ristoranti aderenti al nostro circuito in questi giorni fanno offerte speciali, consegne gratuite o altre proposte ad hoc” dicono da Foodora “e molti clienti – quelli che si ritrovano insieme per seguire Sanremo - approfittano dell'opzione invita 'i tuoi amici' con la quale si regala uno sconto di 8 euro a un amico che ordina per la prima volta con Foodora. Così fanno la prima prenotazione insieme e in più risparmiano”. Qualcuno ha pensato di giocare con la musica trovando l'abbinamento tra cantante e piatto: ci ha pensato Deliveroo chiamando in causa Diego Passoni - voce di Radio Deejay e conduttore di Citofonare Passonitrasmissione social dedicata al Festival – che ha realizzato una guida musicalgastronomica: Mario Biondi per esempio si abbina a una chateaubriand con salsa bernese: un piatto elegante e di sostanza, internazionale; Noemi all'amatriciana: piatto forte e saporito; per Enzo Avitabile e Peppe Servillo c'è il casatiello, un grande classico della tradizione napoletana. E via così, in un divertissement che vuole essere anche un suggerimento per i consumatori che si unisce a una serie di proposte speciali create per l'occasione da ristoranti di tutta Italia. “Nel periodo di Sanremo aumentano gli ordini di gruppo, soprattutto nella serata finale” dice GiovanniZezza di Deliveroo Italia.“C'è una crescita di circa il 25% su base settimanale, così è stato negli anni passati e così si sta confermando anche quest'anno” spiega e aggiunge: “Milano è sempre la città più avvezza all’utilizzo del nostro servizio. Tuttavia è interessante notare che anche nelle città 'minori' ci sono stati importanti aumenti negli ordini, grazie al Festival di Sanremo: Roma, Torino, Bergamo e Monza. Persino Genova e Brescia, lanciate di recente, hanno registrato un aumento importante - superiore al 40% - dopo la prima notte del Festival”. Per Just Eat la crescita nelle ordinazioni nella prima serata del Festival rispetto al 2017 è di oltre il +75%.

Per chi, invece, non ha alcuna voglia di seguire la competizione canora, rimangono ristoranti (un pochino) più vuoti e l'eco sui propri canali social, vera rivoluzione in fatto di appuntamenti televisivi, capaci di trasformare il sonnacchioso appuntamento in una gara di commenti e battute sagaci, che potrebbero convincere anche il più restio a cedere, almeno per un giorno, alla tradizione canora.

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

Alex Atala apre un hotel a San Paolo. Si chiamerà D.O.M. e ospiterà 5 ristoranti

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Un progetto imprenditoriale ambizioso, con l'obiettivo di presidiare un segmento dell'ospitalità finora inesplorato da Alex Atala, quello dell'hotellerie. La struttura sarà pronta solo nel 2021, ma lo chef brasiliano ha le idee chiare, e anche il D.O.M., in attività da 18 anni potrebbe trasferirsi all'interno dell'edificio. 

Alex Atala. La sua storia imprenditoriale fin qui

Bisognerà aspettare il 2021 per vederlo realizzato, ma il progetto in cantiere fa presagire i piani ambiziosi di Alex Atala, sempre più saldo nel confermarsi ambasciatore della cucina brasiliana nel mondo e grande imprenditore di se stesso. A San Paolo, nella sua città natale, lo chef ha ormai all'attivo 4 ristoranti – il D.O.M. è l'insegna che l'ha portato ai vertici della ristorazione mondiale, Bio, locale informale aperto all day long, l'ultima delle sue scommesse nella grande metropoli brasiliana – e una fondazione impegnata a studiare la biodiversità alimentare e la cultura gastronomica del Brasile, Atà, fondata nel 2013. Protagonista di una puntata monografica della serie Chef's Table, che ne ha ripercorso la carriera portando sullo schermo la sua filosofia gastronomica e di vita, di recente ha anche officiato i giochi del primo congresso gastronomico organizzato in Brasile, Fruto, da lui ideato per porre l'accento sulla lotta allo spreco e l'etica in cucina. Ora, invece, si appresta a portare a termine un'impresa decisamente più materiale, da imprenditore rampante qual è.

 

D.O.M., l'hotel

D.O.M. si chiamerà il suo hotel da 35 piani, come il ristorante da cui tutto ha preso le mosse. E ospiterà pure diversi ristoranti e format gastronomici guidati dal team che Atala ha messo insieme negli anni, con la possibilità che anche il D.O.M. (stavolta il ristorante) possa trasferirsi all'interno dell'edificio di Jardins, da cui dista poche centinaia di metri. In aggiunta ai 5 locali in cantiere, inoltre, il team dello chef si preoccuperà delle colazioni, del servizio in camera e dei catering per gli eventi. Di 50 milioni di dollari sarà l'investimento stanziato dal gruppo per concretizzare l'impresa, che per la prima volta vedrà Atala alle prese con un segmento dell'ospitalità che gli è sconosciuto, ma apre moltissime prospettive di crescita. Non a caso, prima di strutturare un piano d'azione, lo chef brasiliano ammette di aver guardato a chi ce l'ha fatta, in mente un modello ben chiaro, quello del NoMad che Daniel Humm e Will Guidara gestiscono in partnership con Sydell Group: “A Daniel ho chiesto molti consigli”, racconta oggi a Eater Atala.

Ma l'approccio resterà molto personale, e identitario, con l'idea di trasmettere agli ospiti il senso dell'ospitalità brasiliana. E anche per dialogare con la città, il ristorante su strada sarà aperto al pubblico. Il progetto di ristorazione, del resto, sarà ampio e diversificato, e prevede il coinvolgimento di chef con cui Atala ha già avuto modo di collaborare, come Rodrigo Oliveira di Mocotò.

 

a cura di Livia Montagnoli

Cucina di casa in Piemonte. Ricette: Vitello tonnato, Agnolotti del plin e Brasato al Barolo

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Il Piemonte è un vero paradiso per buongustai, che si tratti di vino, di prodotti o preparazioni tradizionali. Tra queste ci sono tre piatti che al sol pensiero fanno aumentare la salivazione: il Vitello tonnato, gli Agnolotti del plin e il Brasato al Barolo. Vi sveliamo le ricette.

Il Piemonte è una delle regioni italiane che meglio ha saputo e sa valorizzare le proprie produzioni alimentari. Dal vino al formaggio, dalla frutta alla verdura, dalle carni ai dolci e al cioccolato, rappresenta una miniera di straordinarie specialità conosciute oltre i confini nazionali. Basti ricordare il Barolo e il Barbaresco, la carne bovina di razza piemontese e il tartufo bianco d'Alba. Ciò vale anche per la Tonda Gentile o i prodotti caseari, che raggiungono apici di eccellenza vicini alla perfezione, oltre a essere lavorati in grande quantità e varietà; insomma una regione da gustare centimetro per centimetro. Con le dovute premesse sulle ricette regionali, che abbiamo precisato parlando del Veneto, eccone tre piemontesi: Vitello tonnato, Agnolotti del plin e Brasato al Barolo.

 

Vitello tonnato

Dici vitello tonnato ed è subito anni '80, ma la sua origine risale addirittura al Settecento. Si tratta infatti di una ricetta nata probabilmente nel Cuneese all’inizio del XVIII secolo, anche se la paternità del piatto è rivendicata pure da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Una cosa però è certa: all'epoca la ricetta non contemplava il tonno; “tonné” significava semplicemente “conciato” in francese. Si deve aspettare il 1891 per veder comparire il fatidico pesce, ovvero quando Pellegrino Artusi nella sua “Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” scrive nero su bianco la ricetta n° 363, quella del Vitello Tonnato.

 

Ingredienti per il vitello

1,2 kg di polpa di vitello ricavata dalla noce e tagliata in forma regolare

1 bicchiere di vino bianco secco

1/2 limone non trattato

1 cipolla

1 carota

1 costola di sedano

1 spicchio d'aglio

Qualche gambo di prezzemolo

5 o 6 filetti di acciughe sottolio

Qualche grano di pepe

1 cucchiaio di olio extravergine d'oliva

 

Per la salsa

250 g di tonno sottolio sgocciolato

2 uova freschissime

250 g di olio di arachide o di olio d'oliva dal gusto molto leggero

Succo di 1/2 limone

Pasta di acciughe

Pepe bianco

Sale

 

Praticate qualche foro nella carne con un coltellino appuntito e steccatela con i filetti di acciughe quindi legatela in più punti con spago da cucina per tenerla in forma.

Mondate e lavate cipolla, sedano e carota e affettateli grossolanamente. Mettete la carne in una casseruola che la contenga di misura, unitevi le verdure affettate, il prezzemolo, lo spicchio d'aglio spellato, la scorza e il succo del mezzo limone, i grani di pepe, il vino bianco e due bicchieri di acqua fredda non salate.

Incoperchiate e fate prendere l'ebollizione quindi abbassate la fiamma al minimo e proseguite la cottura per circa cinquanta minuti. Trascorso questo tempo, tirate su la carne, slegatela e mettetela in un contenitore rettangolare che la contenga giustamente. Unitevi il liquido di cottura, tenendo presente che la carne deve essere completamente sommersa quindi sigillate e lasciate raffreddare.

Al momento di preparare il piatto, sgocciolate il tonno dall'olio di conservazione e passatelo al mixer fino a ridurlo a purea quindi mettetelo in una ciotola, unitevi circa dieci centimetri di pasta di acciughe e diluite il tutto con qualche cucchiaiata del liquido di cottura della carne in modo da avere un composto liscio e fluido. Fate una maionese con uova olio e limone e un pizzico di sale, amalgamatela alla salsa di tonno e insaporite con una macinata di pepe bianco. La salsa deve risultare abbastanza fluida quindi, se necessario, aggiungete ancora un po' di liquido di cottura della carne.

Sgocciolate il vitello, asciugatelo con carta da cucina e affettatelo il più sottilmente possibile (chi la possiede usi l'affettatrice). Disponete le fettine di carne, a strati, in un piatto da portata profondo, coprendo ogni strato con parte della salsa. Sigillate il vassoio con pellicola trasparente e conservate la preparazione in fresco fino al momento di servirla. Decorate la preparazione con fettine di carota e con mezze foglioline di insalata oppure con piccoli capperi, disposti sulla superficie in maniera armoniosa.

 

Agnolotti del plin

“Plin” è il pizzicotto che viene dato per chiudere i tipici agnolotti piemontesi, caratterizzati dalla forma tradizionalmente quadrata. Prima di mettervi ai fornelli, tenete conto di due cose. Uno: la preparazione vi richiederà circa tre ore (1 ora di preparazione + 2 ore per il riposo). Due: gli agnolotti vanno gustati al naturale per assaporare il gusto del ripieno o al massimo conditi con burro, salvia e parmigiano o, secondo la tradizione, con sugo d'arrosto, parmigiano e tartufo. Assolutamente da bandire i condimenti a base di pomodoro che ne coprirebbero il sapore mentre è da provare l'antica abitudine di gustarli affogati dentro una ciotola di buon Dolcetto.

 

Ingredienti per la sfoglia

1/2 chilo di farina

11 tuorli d'uovo

80-100 g di acqua fredda

Semolino

 

Per il ripieno

300 g di polpa di maiale (preferire il carré disossato)

200 g di polpa di vitellone ricavata dalla noce

1 coscia di coniglio

300 g circa di scarola

50 g di burro

50 g di olio extravergine d'oliva

Una bella manciata di parmigiano grattugiato

3 uova intere

1 cipolla media

1 carota

Rosmarino

Noce moscata

Sale e pepe

 

Tagliate tutte le carni a bastoncini di circa 1 x 2 centimetri. Tritate grossolanamente la cipolla e la carota e fatele appassire con il rosmarino in un largo tegame con l'olio e il burro. Prima che le verdure prendano colore, unitevi la carne e fatela rosolare a fuoco vivo per qualche minuto girandola spesso.

Quando la carne avrà preso colore, insaporite con sale e pepe e mettete il tegame nel forno già scaldato a 190° C proseguendo la cottura per circa un'ora, trattando la carne come un arrosto, girandola cioè ogni tanto e bagnandola con un cucchiaio di brodo solo se attaccasse troppo.

Nel frattempo mondate e lavate la scarola e scottatela per qualche minuto in acqua salata.

Scolatela, strizzatela fra le mani e aggiungetela alle carni cinque minuti prima di toglierle dal forno in modo che si insaporisca (questa prima parte può essere preparata anche il giorno prima).

Terminata la cottura, passate carni e verdura, con tutto il fondo di cottura, dal macina carne lasciandole cadere in una ciotola.

Unitevi il parmigiano, le uova intere, la noce moscata e regolate di sale e pepe. Lavorate il composto con le mani fino ad averlo ben omogeneo, quindi copritelo e tenetelo in fresco fino al momento di usarlo.

 

Setacciate la farina sulla spianatoia, fate la fontana, unitevi i tuorli d'uovo e l'acqua e impastate energicamente fino a che la pasta sarà diventata ben liscia. Deve risultare poco più morbida di quella delle tagliatelle. Copritela con un panno e lasciatela riposare una mezz'ora. Staccatene un pezzo e passatelo alla macchinetta della pasta, iniziando dallo spessore più alto e arrivando al più sottile. Una volta pronta la striscia, disponetevi, a circa due centimetri di distanza uno dall'altro, dei mucchietti di ripieno grossi quanto una ciliegia.

Ripiegate la pasta su se stessa e fatela aderire sul davanti premendo con il pollice disteso. Saldate i singoli agnolotti con un pizzicotto (plìn) quindi, usando la rotella dentata, tagliate prima tutta la fila e poi separatamente i singoli agnolotti.

In attesa di cuocerli, sistemateli su un canovaccio leggermente spolverato di semolino. Copriteli con un altro canovaccio e fateli riposare al fresco, per un'ora o due, prima di cuocerli.

Lessateli in abbondante acqua salata in ebollizione lasciandoli cuocere per quattro o cinque e scolateli tirandoli su con la schiumarola.

 

brasato al barolo

Brasato al Barolo

Brasare vuol dire cuocere lentamente dentro un recipiente coperto. Detto così sembra semplice, ma allora cos'è che differenzia un brasato da uno stufato? O da uno stracotto? È la rosolatura, che serve a dorare la superficie esterna della carne in modo che i succhi si coagulino rapidamente e formando la crosticina. È solo a questo punto che si può procedere a bagnare l'alimento (con il Barolo, in questo caso) e infornarlo o incoperchiarlo per completare la cottura. Attenzione: la carne va lasciata marinare nel vino per tutta la notte. Quindi organizzatevi di conseguenza.

 

Ingredienti

1,5 kg di polpa di manzo parte della coscia

1 bottiglia di Barolo (anche Nebbiolo non troppo giovane)

50 g di lardo

1 cipolla grossa

1 carota

1 costola di sedano

2 spicchi d'aglio

1 foglia di alloro

2 chiodi di garofano

½ cucchiaino di pepe in grani

40 g di burro

2 cucchiai di olio extravergine d'oliva

Farina

Sale e pepe

 

Riducete il lardo a striscioline lunghe e sottili, salatele, pepatele e lardellate con esse il pezzo di carne nel senso della lunghezza. Ponete la carne in una ciotola, copritela con tutto il vino, quindi aggiungete la cipolla spellata e tagliata a pezzetti, la carota e il sedano mondati, lavati e affettati, gli spicchi d'aglio spellati, i chiodi di garofano, la foglia di alloro e i grani di pepe. Coprite la ciotola con pellicola trasparente e lasciate marinare la carne, al fresco, per tutta la notte.

Al momento della cottura, estraetela dalla marinata, asciugatela con carta da cucina e infarinatela dopo averla legata con qualche giro di spago.

In una casseruola con il fondo pesante e di misura adeguata, fate scaldare l'olio e il burro quindi rosolate bene la carne da ogni parte a fuoco non troppo alto. A rosolatura avvenuta, estraete la carne e, nel fondo di cottura, fate appassire gli odori della marinata ben sgocciolati.

Rimettete la carne nella casseruola, salatela, pepatela e fatela insaporire per qualche minuto negli odori quindi unite il vino della marinata, coprite e fate cuocere a fuoco dolcissimo per circa 3 ore. Girate il pezzo di carne di tanto in tanto e fate attenzione che il sugo non si asciughi troppo, in tal caso aggiungete qualche cucchiaio di brodo.

A cottura ultimata, togliete il brasato dalla casseruola, privatelo dello spago e lasciatelo intiepidire per poterlo tagliare più facilmente. Passate al setaccio il sugo di cottura con tutte le verdure, mescolando, incorporatevi una noce di burro impastata con poca farina per addensarlo.

Tagliate la carne a fette piuttosto spesse, sistematele sul piatto da portata e copritele con il sugo caldissimo. Il contorno ideale del brasato è il purè di patate.

 

Cucina di casa in Veneto. Ricette: Sarde in saor, Risi e bisi e Baccalà alla vicentina

 

 

Anteprime Toscane. Si parte con BuyWine: anche i piccoli consorzi tentano il business

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Gli incontri b2b aprono la kermesse, poi la "collettiva" alla Fortezza da Basso. Le attese dei grandi e soprattutto dei piccoli Consorzi, presenti per la prima volta. Numerosi i buyer interessati a scovare realtà familiari e convenienti. Nel 2017 il 50% tra venditori e compratori dichiara di aver fatto affari.

Largo ai più piccoli in queste Anteprime Toscane e in questo BuyWine, giunti nel 2018 all'ottava edizione. Già, perché la folta presenza delle Doc cosiddette "minori", che partecipano dal 2014, ha trovato e sta trovando riscontro positivo nelle preferenze di stampa, buyer, operatori stranieri, interessati a conoscere certamente i big del vino (tra cui Brunello, Nobile, Chianti Classico), ma allo stesso tempo disposti a scoprire piccole aziende, prodotti di livello a prezzi contenuti, novità e realtà da raccontare. Ed è qui che la Toscana, così sfaccettata, a tratti divisa, ma proprio per questo estremamente variegata, sa mostrare il suo lato migliore. Da Terre di Càsole a Val di Cornia, da Carmignano a Montecarlo di Lucca, sono diverse le squadre di produttori che hanno deciso di fare il proprio esordio oppure di confermare la propria presenza, riconoscendo il ruolo economico che rivestono queste due manifestazioni collegate. I vini toscani nel 2017 hanno inanellato un +3,3% tra gennaio e settembre (rispetto a una media Italia del +6,6%) per un valore di 665,6 milioni di euro (dato Istat). Il 2015 e il 2016 si chiusero con 902 milioni e 917 milioni di euro.

 

L'edizione n.8

Apre oggi le danze il BuyWine, con 215 imprese toscane (65 biologiche) e 190 buyer (di 39 Paesi) attesi al padiglione Spadolini della Fortezza da Basso di Firenze, metà dei quali per la prima volta all'evento. Otto gli educational tour programmati in 14 aree di produzione. Il bilancio sull'edizione 2017 stilato dagli organizzatori di PromoFirenze (azienda speciale della Camera di Commercio) dice che sono stati 5.180 gli incontri b2b con un altissimo grado di soddisfazione degli operatori(89% di giudizi positivi). È questo il momento più atteso dalle aziende. Qui si firmano i contratti, grazie a centinaia di trattative tra produttori, importatori, distributori, buyer della Gdo e dell'Horeca. Sono Stati Uniti, Canada, Cina, Danimarca, Corea del Sud e Brasile le bandiere più frequenti, ma per la prima volta ci saranno compratori da Azerbaijan, Colombia, Marocco, Libano, Perù e Thailandia. Tornano dopo alcuni anni quelli di Norvegia, Svizzera e Ucraina.

Al BuyWine 2018, finanziato dalla Regione Toscana con oltre 450 mila euro, aziende e buyer prendono parte singolarmente. I costi di partecipazione per i buyer oscillano tra 180 e 500 euro, mentre per le aziende si va da 750 euro a 900 euro più I.v.a. Non è, pertanto, un affare dei consorzi di tutela che scendono in campo da sabato, con l'Anteprima collettiva regionale (al costo di 1.800 euro più I.v.a.), in programma sempre alla Fortezza da Basso, con un ospite speciale: sarà Sting, star internazionale della musica, ad aprire le danze, in qualità di titolare della Tenuta il Palagio (in provincia di Firenze), gestita con sua moglie Trudie Styler.

 

I neofiti di BuyWine

Sono 11 i consorzi presenti all'Anteprima collettiva su un totale di 16 partecipanti. Per alcuni si tratta della prima volta. È il caso della Doc Terre di Càsole e del consorzio guidato da Giacomo Baffetti: circa duecentomila bottiglie (tutte di rossi e senza vini bianchi), 160 viticoltori interessati e una decina di cantine associate e un discreto fermento grazie all'arrivo negli ultimi 4-5 anni di acquirenti stranieri da America, Cina e Irlanda. "Parteciperemo con tre aziende. Vogliamo farci conoscere" sottolinea "e provare ad aprire i nostri orizzonti verso i mercati extra europei". Il consorzio, nato dieci anni fa, è sinora rimasto un po' nell'ombra; la svolta si è avuta quando alcuni produttori hanno deciso di vinificare e imbottigliare, invece che conferire le uve a una delle grandi cooperative del Chianti Docg come quella di Colle val d'Elsa (i territori delle due Dop in parte si sovrappongono). "Ora puntiamo a migliorare l'offerta enoturistica sul territorio in collaborazione con la Camera di commercio di Siena".

La curiosità dei buyer non mancherà per un'altra piccola Doc toscana, come Montecarlo di Lucca. Con 16 aziende, circa 200 ettari e una produzione poco al di sotto del milione di bottiglie, la squadra diretta da Gino Fuso Carmignani vede nell'evento fiorentino un'occasione importante: "Vogliamo esserci anche noi, i costi di partecipazione non sono proibitivi e già diversi compratori hanno chiesto di visitare il nostro territorio, che è in un buon momento. Da un punto di vista economico, la Doc riesce a vendere e consumare l'intera produzione". L'interesse su questa zona è alto: divenuta famosa per il Montecarlo bianco, negli anni ha ottenuto i migliori riconoscimenti dagli esperti proprio per i suoi vini rossi.

 

La Val di Cornia e i vini delle isole toscane

Terza presenza ad Anteprime e Buy Wine per la Doc Val di Cornia, estesa sul territorio di cinque comuni tra le province di Livorno e Pisa. Per le venti aziende, riunite sotto la presidenza di Stella Giomi Zannoni, il momento è delicato. A fronte di un trend calante per le produzioni a Doc, il consorzio sta ragionando al suo interno sulla valorizzazione della Docg rosso: "Negli ultimi anni sta prendendo vigore" dice Zannoni "e abbiamo bisogno di eventi come questo, che ci consentono di avere un confronto qualificato, anche per capire come reagisce il mercato". A Firenze, non mancheranno neppure i vini delle isole toscane. Marcello Fioretti, presidente del Consorzio di tutela della Doc Elba, partecipa per la seconda volta. Dieci le cantine coinvolte sulle 18 associate, che in totale producono ogni anno circa 400 mila bottiglie su 150 ettari: "Posto che al Buy Wine ogni azienda fa il suo percorso, le Anteprime garantiscono una visibilità a livello di stampa internazionale all'intera Doc. Ecco perché è utile esserci", rileva Fioretti. Alla collettiva saranno presentati i bianchi 2017 (Ansonica e Vermentino su tutti) e i passiti del 2015 e 2016. "Il trend della vendemmia 2017 è stato per noi in controtendenza rispetto alla media regionale. Abbiamo raccolto un po' di più del 2016" osserva "grazie ai nostri suoli argillosi che hanno mitigato gli effetti della siccità".

 

Consorzi al gran completo

Tutti gli undici associati al Consorzio di tutela dei Vini Carmignano saranno coinvolti nella due giorni fiorentina, con le annate 2015, 2016 e (per il Barcoreale) con la 2017. Il presidente Fabrizio Pratesi ricorda come l'export, col 65-70%, rappresenti lo sbocco principale di questi vini della provincia di Prato, ma evidenzia con soddisfazione un cambiamento significativo: "Da qualche anno, le aziende del Carmignano stanno credendo sempre di più in questo vino che, nella nostra provincia, è diventato un elemento di orgoglio. Prima, non eravamo profeti in patria, mentre oggi nelle zone limitrofe ai due comuni della Doc, la ristorazione li propone, il consumatore li apprezza, anche per l'ottimo rapporto qualità-prezzo, ed è orgoglioso di appartenere a una zona come questa". Spazio, come sempre, alle annate 2015, 2014 e 2016 per la Doc Cortona, interprete italiano del vitigno Syrah, la cui prima vendemmia risale al 2000: "Da 7 cantine che eravano siamo diventate quasi 50 per un export pari a circa l'80% della produzione, che in media è di 500 mila bottiglie", spiega Marco Giannoni, alla guida del consorzio dei produttori. "Siamo obbligati a esportare" afferma con un po' di delusione "anche perché l'Italia non riesce a tutelare le imprese in tema di riscossione dei pagamenti". Per questa Doc aretina, in ogni caso, lo stato di salute è buono: nonostante una annata 2017 col 50% in meno di prodotto, sul territorio ogni anno nascono nuove cantine: "E quasi tutte si stanno iscrivendo al nostro consorzio". Quasi tutte presenti le imprese imbottigliatrici della Doc Pitigliano e Sovana: "Impossibile non partecipare a questa vetrina internazionale, una sorta di circuito in cui bisogna esserci", dice il presidente Edoardo Ventimiglia, che attende per domenica 11 febbraio l'arrivo di diversi buyer dall'estero.

 

Chi punta sul biologico

Scommette, invece, sulla propria anima biologica il Consorzio di tutela Montecucco, nato nell'anno 2000, che oggi associa 66 aziende con una produzione di 1,2 milioni di bottiglie. "Il 66% del nostro Sangiovese Docg è biologico. Questa è un'importante leva per buyer e importatori", rileva il vice presidente Giovan Battista Basile, che riconosce l'efficacia della formula delle Anteprime Toscane e degli incontri business to business al padiglione Spadolini: "Il nostro giudizio è positivo, esportiamo il 65% del fatturato e con questa iniziativa molte aziende sono riuscite a trovare mercati e nuovi sbocchi. Tuttavia, a stampa e operatori vogliamo comunicare l'idea che il nostro territorio non è solo vitivinicolo, ma dotato di una originalità rispetto ad altre aree della nostra regione". Lo faranno anche ad Alberese, lunedì 12 febbraio, dove 17 cantine del Montecucco presenteranno i vini assieme a quelli dei cugini della Doc Morellino e della Doc Maremma Toscana (75 i partecipanti nel complesso). Cammino biologico anche per la Doc Valdarno di Sopra, realtà da 200 mila bottiglie annue che sta conquistando via via la fiducia dei produttori: "Le rivendicazioni a Doc sono in crescita ed entro il 2018 vogliamo trasformarci in una Doc interamente biologica", annuncia il direttore consortile, Ettore Ciancico. A Firenze saranno 15 le cantine aretine presenti e circa 40 le etichette.

 

Chi tenta il business

Nel 2017, il 50% di venditori e compratori ha dichiarato di avere instaurato un rapporto commerciale o di essere in trattativa; ma anche che il rapporto d'affari prosegue stabilmente dopo Anteprime e BuyWine con una media di tre operatori. Presupposti che la giovane Doc Maremma Toscana non può non tenere presenti in questa edizione 2018, a cui prenderà parte con 74 vini. La denominazione è in crescita: "Siamo passati da 5,5 a 5,7 milioni di bottiglie nel 2017, le cantine stanno gradualmente incrementando i vini rivendicati a Doc" rileva il presidente del Consorzio, Edoardo Donato "e i mercati, soprattutto Nord Europa e Stati Uniti, stanno dimostrando un interesse crescente. Questo evento per noi sarà un test molto importante per verificare la capacità dei nostri vini, e del nostro territorio, di farsi apprezzare da un pubblico di addetti ai lavori".

 

La nuova edizione di Chianti Lovers

Chianti Docg e Morellino di Scansano, oltre agli specializzati, apriranno le porte anche al grande pubblico. La nuova edizione 2018 di "Chianti Lovers" interesserà entrambe le denominazioni. Oltre 100 le cantine del Chianti, 500 le tipologie di vino e più di 2 mila i visitatori attesi. "Il Morellino" osserva Giovanni Busi, numero uno del Chianti Docg"è stato il primo ad accogliere la nostra proposta di immaginare un futuro di collaborazione fra consorzi alle Anteprime. Una collaborazione che riteniamo non più prorogabile se vogliamo continuare a essere competitivi a livello internazionale confrontandoci con un mercato sempre più difficile".La Docg, che nel 2017 ha incrementato del 5% le vendite in Italia e all'estero, deve fare i conti con un calo di volumi pari a 40 milioni di bottiglie (rispetto a una media di 100 milioni annui) ed è in attesa della dichiarazione Mipaaf sullo stato di calamità: "Consentirà di far respirare soprattutto la parte agricola della denominazione", conclude Busi. A Chianti Lovers, la Doc Morellino di Scansano parteciperà con 20 aziende che faranno degustare l'annata 2017 e la riserva 2015: "Stiamo lavorando per far sì che la domanda estera cresca, produciamo mediamente dieci milioni di bottiglie ma finora siamo intorno al 20-25%" osserva il direttore del consorzio, Alessio Durazzi "una percentuale ancora bassa, ma con enormi potenzialità di crescita. I nostri vini hanno tutte le caratteristiche per piacere all'estero. E affiancarsi a un vino simbolo nel mondo come il Chianti Docg è per noi un'occasione davvero importante".

 

 

Il calendario delle Anteprime Toscane

 

9 e 10 febbraio – Buy Wine 2018

Firenze, Fortezza da Basso – Padiglione Spadolini

www.buy-wine.it

 

10 febbraio - Anteprima Collettiva Regionale

Firenze, Fortezza da Basso – Padiglione Cavaniglia

(Carmignano, Casole d’Elsa, Colline Lucchesi, Cortona, Elba, Maremma Toscana, Montecarlo di Lucca, Montecucco, Pitigliano e Sovana, Val di Cornia e Valdarno di Sopra)

www.buy-wine.it

 

11 febbraio - Chianti Lovers con il Morellino

Firenze, Fortezza da Basso - Viale F. Strozzi, 1 – Pad. Cavaniglia

www.consorziovinochianti.it

 

12-13 febbraio - Chianti Classico Collection

Firenze - Stazione Leopolda V.le F.lli Rosselli, 5 (Porta al Prato)

www.chianticlassico.com

 

13-14 febbraio - Anteprima Vernaccia di San Gimignano

San Gimignano, Museo di Arte Moderna e Contemporanea De Grada – Via Folgore 11

www.vernaccia.it

 

14-15 febbraio - Anteprima Vino Nobile di Montepulciano

Montepulciano, Fortezza Medicea, via San Donato, 21

www.anteprimavinonobile.it

 

16-17 febbraio - Benvenuto Brunello

Montalcino, Chiostro Museo di Montalcino, Via Ricasoli 31

www.consorziobrunellodimontalcino.it

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri dell' 8 febbraio

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Prosecco House a Londra. Continua il culto delle bollicine italiane in Gran Bretagna

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Inarrestabile il successo delle bollicine del Nord Est Italia nel Regno Unito. Un prodotto che sta conquistando il palato di tutti, tanto da spingere una giovane imprenditrice e creare un nuovo format, un bar che serve solo Prosecco.  

Il successo del Prosecco

Che il Prosecco sia un prodotto di qualità gli italiani lo sanno da tempo, ma questo dato di fatto è meno diffuso all’estero. O almeno, lo era fino a qualche tempo fa. È della scorsa estate, infatti, la notizia di una netta inversione di tendenza, soprattutto fra i cittadini della Gran Bretagna, oggi fra i maggiori estimatori di bollicine italiane al mondo. A dirlo era stata la giornalista Olivia Blair sul magazine The Independent, in un articolo in cui analizzava, passo dopo passo, i dati dell’International Wine and Spirit Research (Iwsr), oltre a quelli sulle vendite che le principali case produttrici hanno effettuato nei negozi e dagli store digitali, dal biennio 2013-2014 a oggi. Secondo queste ricerche, il Prosecco, non è più il “cugino povero” dello Champagne, ma rappresenta, anzi, la prima scelta di tutti gli inglesi in cerca di un buon vino. Fra i numeri che più colpiscono, quelli del colosso del commercio al dettaglio inglese Sainsbury, che in 4 anni ha aumentato del 40% l’anno le vendite del Prosecco Conegliano DOCG Superiore, ma anche quelli di Tesco, che parlano di una crescita del 26% delle vendite solamente nei primi 6 mesi del 2017. Dati significativi, in continuo sviluppo, che continuano ad aumentare, surclassando la popolarità delle bollicine francesi.

Il bar

Una passione “cultish”, come l’hanno definita i media britannici, ovvero un interesse diffuso che è diventato quasi un culto, un’icona sociale. Cavalcando l’onda di questa tendenza di consumo, l’imprenditrice Kristina Issa inaugura oggi, 9 febbraio 2018, nel palazzo di One Tower Bridge di Londra, Prosecco House, un bar tutto dedicato alle bollicine del Nord Est con oltre 20 etichette diverse, selezionate accuratamente dalla titolare. Un locale che si propone come luogo ideale per l’aperitivo, con specialità tutte italiane, dai taglieri di salumi e formaggi ai sottoli, senza dimenticare panini e focacce farcite, ma che rimarrà aperto fino alle 23 (mezzanotte nel weekend), assolvendo quindi anche la funzione di cocktail bar. Oltre a ordinare un buon calice di vino, infatti, da Prosecco House si possono gustare classici drink a base di Prosecco, come lo Spritz, il Bellini e altri cocktail speciali realizzati dal team di giovani bartender.

Il design

A progettare gli spazi, la stessa Kristina, insieme all’interior designer Justyna Czarnoba. Insieme, le due donne hanno optato per un look vintage, caratterizzato dall’utilizzo del velluto, con sgabelli e poltrone, marmi italiani, tavoli in bronzo antico con superfici in vetro specchiato, tutto giocato sui toni del blu e del verde, richiamo deciso a quello stile anni ’70 che sembra essere tornato molto in voga fra i locali più innovativi. E che garantisce un bel contrasto con il gioco di luci creato dal bancone retroilluminato con tanto di bottiglie esposte, e dalla parete refrigerata che si estende lungo un lato della sala. Insomma, un nuovo indirizzo all’insegna del gusto (con ben 5 etichette di Prosecco in esclusiva, introvabili da qualsiasi altra parte a Londra), di quell’atmosfera da Dolce Vita italiana che negli anni è diventata un’icona di stile a livello internazionale. Reinterpretata però con personalità e freschezza, attraverso una proposta dinamica e mai banale. Un format destinato a replicarsi? Intanto, attendiamo le prime recensioni della stampa inglese. 


L'Emilia Romagna nel piatto. Chi ci prova in altre città: Gusto Parmigiano a Milano, la Ferramenta del gusto emiliano a Torino

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Generosa e iconica, la cucina emiliana annovera specialità conosciute in tutto il mondo. Ma la sfida vera è quella di valorizzare i prodotti di un territorio dalla grande vocazione agroalimentare. A Milano ci provano Gusto Parmigiano e Via Emilia, a Torino la Ferramenta del gusto emiliano e Al Piccolo. Ma gli esempi si moltiplicano in giro per l'Italia. 

Il mito della cucina emiliana

Della tradizione gastronomica emiliana si è sempre detto che mette tutti d'accordo. Verace e generosa, si nutre di grandi materie prime e porta in tavola molteplici variazioni sul tema, perché ogni città (ogni famiglia) è orgogliosa di tramandare la propria ricetta. Una prerogativa che accomuna tutta la cucina regionale d'Italia, ma che in Emilia ha finito per generare un vero e proprio mito dell'opulenza nel piatto, icona senza tempo del buongustaio che sa godere dei piaceri della vita. Un mito fatto di sfogline e mortadelle, stagionature di parmigiano e aceto balsamico, ragù alla bolognese, gnocco fritto e salama da sugo. Tutti protagonisti di una tradizione che ci mette poco a diventare macchietta quando si ragiona per stereotipi mal replicati (persino in una roccaforte del gusto come Bologna, periodicamente, si torna a denunciare l'abuso e lo stravolgimento della tradizione locale uso turistico), e che invece regala grande soddisfazione quando le materie prime sono quelle giuste, e lo spirito dell'operazione tende a un obiettivo ben definito: intrattenere a tavola e rendere servigio a un'identità gastronomica molto antica, popolare e raffinata insieme, sostenuta da grandi filiere.

 

I tortellini di Massimo Bottura

Si pensi, per esempio, ai tortellini con la crema di Parmigiano che da un mese a questa parte si possono ordinare nel cuore di Firenze, comprimari di lusso nel menu di suggestioni dal mondo abilmente concertato per l'Osteria Gucci da Massimo Bottura e Karime Lopez Condo: il Parmigiano è quello di Bianca modenese, generoso, dal gusto intenso. E pur impegnato a concepire un progetto gastronomico che si distingue per apertura culturale, lo chef della Francescana non ha potuto fare a meno di inscenare ciò che gli riesce benissimo, l'esaltazione della tradizione emiliana, delle sue radici e dei suoi prodotti, sotto gli occhi del mondo. Ma l'eccellenza di una cucina regionale si racconta anche con semplicità in piccoli avamposti che nascono oltre i confini prestabiliti.

Milano. Gusto Parmigiano e Via Emilia

Come a Milano, vetrina di tanti progetti in cerca di un posto al sole. Da un paio di settimane è arrivato in città Federico D'Amato, figlio d'arte del più celebre Gianni, chef patron del Caffè Arti e Mestieri di Reggio Emilia (aperto nel 2013 insieme a Federico all'interno di un palazzo storico della città), e prima ancora di quel Rigoletto di Reggiolo costretto a chiudere per danni strutturali dopo il terremoto del 2012. Quella della famiglia D'Amato, insomma, è la storia di una cucina emiliana solida, di territorio, ma contemporanea, tra bolliti all'aria di Lambrusco e tagliatelle al ragù di tre carni, o Erbazzone contemporaneo. E a Milano, in via della Moscova, Federico ha intenzione di raccontarlo con Gusto Parmigiano, al motto di Buono, Sano, Emiliano. Gastronomia e cucina per valorizzare i prodotti emiliani, in vendita al banco e a tavola per l'ora di pranzo, l'aperitivo, una cena a base di taglieri di qualità (e nomi dei produttori rigorosamente segnalati), freddi (salumi e formaggi) o caldi, con il tris di primi emiliani. A pranzo un menu breve che alterna proposte fredde a primi di tradizione – le lasagne a km 220, i cappelletti burro e parmigiano 24 mesi – zuppe, piatti contadini come la frittatina di porri e spinaci e invenzioni divertenti, come il Cheese Parmigiano Reggiano Burger, dove il parmigiano è protagonista (e sostituisce la carne), ingentilito da un ketchup di mela. In carta anche la Verticale di Parmigiano Reggiano. Prezzi contenuti e comfort food di grande soddisfazione.

A Milano, del resto, da qualche mese procede anche l'esperienza di Via Emilia, bottega gastronomica con cucina, a soli tre civici di distanza da Gusto Parmigiano, meno di 200 metri l'uno dall'altro: si compra, si mangia, si impara a stendere la pasta col mattarello, frequentando i corsi di cucina emiliana che frequentemente tengono banco con la supervisione di Rina Poletti. Le ricette sono quelle della tradizione regionale (emiliana e romagnola), tra gramigna con salsiccia e passatelli in brodo, galantina, friggione e cotoletta alla bolognese, La Petroniana; i vini in abbinamento del territorio, la sala raccolta tra il banco della gastronomia e gli scaffali a parete ricolmi di prodotti in barattolo, sott'olio, conserve, aceto balsamico. Apertura diurna, dalle 9 alle 19.30.

Torino. La Ferramenta e Al Piccolo

A Torino, intanto, alla fine del 2017 ha aperto i battenti La Ferramenta del gusto emiliano, manifesto d'intenti sin dall'insegna. Il ristorante di San Salvario apre a pranzo e cena, e propone prodotti selezionati nelle Terre di Canossa, tra le province di Modena, Reggio e Parma. Dietro l'impresa quattro amici appassionati di cucina emiliana, in sala il raccconto introduce ai piatti di tradizione: salumi e formaggi, cappelletti in brodo e tortelli (di zucca, patate e porri, verdi al burro e salvia), e per cominciare la giardiniera di Nonna Loretta o l'Erbazzone in crosta con pancetta di Canossa e pomodori confit. Ma anche il Club Sandwich della Ferramenta che impila tigelle farcite con salame, crudo, pancetta, pomodoro e maionese. Sempre all'ombra della Mole, esordisce anche la gastronomia emiliana Al Piccolo di Sergio D'Onofrio, originario di Mirandola. Un'apertura in controtendenza, mentre tante gastronomie storiche della città cessano l'attività, per far scoprire ai torinesi la pasta fresca all'uovo, i maccheroni al pettine, il ragù e lo gnocco fritto. Da asporto o per il consumo sul posto (ma lo spazio è piccolo).

L'esempio di PastaZalla

Chi nel settore ormai lavora da anni, e ha trovato l'intuizione giusta per farsi conoscere ben oltre le mura del quartier generale romano - una piccola boutique gastronomica al quartiere Nomentano, oggi chiusa – è PastaZalla. La bottega è nata nel 2012 per iniziativa di Daniele Capozzi, l'obiettivo quello di fare impresa valorizzando il tortellino emiliano, il mitico turtlen. Poi il progetto, fortissimo sui social network, ha preso altri canali, raggiungendo privati e ristoranti (fornendo anche Eataly Ostiense e da qualche mese il Mercato Centrale di Termini) tramite ordini online. E nel frattempo la gamma dei prodotti (tutti selezionati sul territorio bolognese) proposti si è ampliata a comprendere passatelli e gramigna, maccheroni al torchio e salse pronte, come il ragù. Ma anche brodi, confetture di visciole, torta di riso. Il posto della bottega al Nomentano, invece, l'ha preso Pasta Giorgi, negozio di alimentari che, tra l'altro, continua a vendere i tortellini di Zalla.

 

E il truck dei passatelli

Ci spostiamo in Romagna e chiudiamo la rassegna con l'idea itinerante di Simone Silvani, chef a bordo di un food truck per portare in giro l'arte dei passatelli. Aspasso è la sua idea, nata l'estate scorsa, gli ingredienti sono selezionati sul territorio regionale, le ricette della tradizione interpretate per sposare la causa del passatello da passeggio. Ennesima conferma della versatilità della cucina regionale.

 

Gusto Parmigiano - Milano - via della Moscova, 24 - 0289070837

Via Emilia - Milano - via della Moscova, 27 - www.bottegaviaemilia.com 

La ferramenta del gusto emiliano - Torino - via Giacosa, 10a - www.laferramentadelgustoemiliano.it 

Al Piccolo – Torino – via Bagetti, 18 - 01119763930

Pasta Giorgi - Roma - via Ignazio Giorgi, 47 - 0664810115

 

a cura di Livia Montagnoli

Libri. A tavola coi re. La cucina ai tempi di Luigi XIV e Luigi XV

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Tante e sorprendenti le somiglianze culturali con la nostra epoca di celebrity chef nel periodo che, dal Re Sole in poi, rese la cucina centrale nella cultura francese e da qui amata e imitata nel resto del mondo.

Francia e cucina. Due argomenti molto sviscerati e intimamente correlati nel nostro immaginario, certo. Non prendiamo l'argomento, però, per declinarli nel mondo odierno fatto di guide, classifiche, bistronomie e chef. Eccoci di colpo calati nel Seicento e nel Settecento, l'epoca del Re Sole e del suo Beneamato successore, quei Luigi XIV e XV che sdoganarono la cucina, rendendola moda, cultura, scandalo e argomento di conversazione.

 

L'autrice

Francesca Sgorbati Bosi, traduttrice e saggista, appassionata del secolo dei lumi, racconta in questo delizioso volume - edito da Sellerio - il momento storico in cui la gastronomia diventò chiave dell'identità nazionale francese, attraverso la figura del cuoco, che si fece centrale nella società nobiliare e borghese. Senza risparmiarsi in gustose curiosità su eventi noti (ad esempio si scende nello specifico sugli accadimenti e le motivazioni che precedettero il suicidio di un maître famosissimo al tempo come Vatel) o nel riportare i ricettari dell'epoca nel dettaglio, tra jus, ragoût, potage e bouillon. Quest'ultimo, insieme ad altre basi, diventò fondamentale nel processo di razionalizzazione delle preparazioni: il rigore (e il conseguente successo) della struttura “francese” in cucina passò anche e soprattutto dall'ottimizzazione dei processi, che, suddivisi e categorizzati in modo da poter essere gestiti a piacimento, permettevano di variare i piatti con minore dispendio di tempo e risorse.

Le stagioni della cucina francese

A fine '600 si abbandonò la sovrabbondanza di spezie, aceto e di zucchero nei piatti, a favore di erbe aromatiche, frutta e verdura (prima ingiustamente colpevolizzate per antiche credenze mediche). Nella teoria di una “nuova cucina” (si, proprio nouvelle cuisine) si accorciavano i tempi di cottura, si criticavano le salse troppo coprenti, si esortava a rispettare il gusto dei cibi (soprattutto ne Les délices de la campagne di Nicolas de Bonnefons, 1654). Certo, nonostante molti avanzamenti concettuali e l'auspicio di parecchi cuochi a modernizzare i piatti con un avanzamento verso l'essenzialità e la semplicità dei sapori, le preparazioni si costruivano sempre con un numero eccessivo (ai nostri occhi) di ingredienti che spesso tra loro non c'entravano nulla.

Basta un'occhiata a testi sacri come Le Cuisinier françois (1651) di François Pierre de la Varenne o Le Cuisinier royal et bourgeois (1705) di François Massialot per rendersene conto. Da quest'ultimo, ad esempio, prendiamo la lapalissiana ricetta del potage di cappone alle ostriche: “Dopo aver disossato il cappone, conservatene la pelle e farcitela con un trito di carne di cappone, grasso di bue o di midollo, lardo, erbe aromatiche, sale, pepe, noce moscata, rossi d'uovo. Chiudete la pelle e mettetela a cuocere nel brodo. Passate in padella ostriche, champignon e farina, poi aggiungete il tutto al cappone quando sarà quasi cotto. Servite con succo di limone e champignon”.

I cambiamenti comunque ci furono e furono molto sensibili nella pratica della tavola, traghettando i pasti verso l'età moderna. Il dolce venne spostato alla fine del pasto, negli entremets che precedevano l'ultima portata, cioè il dessert di frutta. Si abbandonò l'uso di bestie scenografiche, come cigni, gru e pavoni, a favore della carne degli animali da allevamento, dal pollame al maiale.

 

Dalla cucina galenica a quella edonistica

Argomentando con dovizia di particolari e facendo ricorso a numerose fonti bibliografiche, la Sgorbati Bosi rende innanzitutto evidente una cesura fondamentale accaduta in quel periodo: tra Medioevo e Rinascimento ancora a tavola ci si basava sugli insegnamenti medici di Galeno (e quindi di Ippocrate e Empedocle) e sulla divisione dei cibi in caldi/freddi/umidi/secchi, categorizzazione per cui, ad esempio, la frutta fresca era considerata il male mentre spezie e salse erano viste come medicamenti. Il salto al Seicento del Re Sole vide lo sdoganarsi del cibo da vincoli religiosi, culturali e veterosalutistici: si mangiava per gusto e per piacere, oltre alle sontuose prelibatezze dei reali finalmente si prendeva in considerazione anche l'organizzazione della tavola borghese e nasceva la figura del gourmet. Nell'atmosfera edonistica settecentesca l'intenditore di cibo e vino diventò di moda nel bel mondo: i commediografi prendevano spesso di mira i costeau, gli esperti che al solo assaggio erano in grado di riconoscere da che costone (costeau, appunto) di una collina arrivasse il vino di un certo terroir.

 

La letteratura enogastronomica

I commensali dovevano essere fini degustatori per riconoscere le qualità dei cuochi e molti nobili esibivano come vanto in società le proprie capacità culinarie. Con una clientela di tale spessore ed esigenze, i prodotti rinomati diventarono oggetto del desiderio, dai polli di Bresse al burro di Isigny, contribuendo a cementare nell'immaginario europeo la grandezza francese tout court. Nel '600 e nel '700 tra i profondi cambiamenti che modernizzarono la tavola ci fu sicuramente la proliferazione della letteratura enogastronomica. I testi, concentrati prima sull'orgoglio nazionalistico e poi sull'idea di elaborare moderni manuali scientifici, parlavano già nei titoli: Le Cuisinier François, Le Jardinier François, Le PatissierFrançois, Le Cuisinier Gascon, Le Cuisinier Moderne, Nouveau traité de la cuisine, La Nouvelle Cuisine, La Science du maître d'hôtel cuisinier,avec des observations sur la connaissance & propriétésdes alimens.

 

La nascita dei ristoranti

La regia dei pranzi reali restava sempre enorme e complicata, i servizi e i menu erano infiniti e costituivano vere e proprie occasioni pubbliche, in cui i re facevano sfoggio della sontuosità di corte. La strutturazione e la ricchezza dei pasti era talmente radicata nella mentalità dell'epoca che pure il 12 agosto del 1792 (due giorni dopo la presa delle Tuileries e la deposizione di Luigi XVI) è documentato che alla famiglia reale in ostaggio dell'Assemblea Legislativa fu servito un pranzo composto da 2 potages, 8 entrées, 4 arrosti, 8 entremets. Sul mangiare fuori proprio il regno di Luigi XVI determinò il cambiamento definitivo (e non la Rivoluzione Francese, come spesso si pensa): i traiteurs che offrivano consommè ebouillon restaurant (da cui la parola ristorante) si diffusero nel costume, cominciarono a farsi pubblicità sulle riviste, inserirono i tavoli separati, ebbero il permesso di stare aperti fino a sera tardi. La Rivoluzione non fece altro che diffondere a macchia d'olio le insegne, perché i tanti cuochi, rimasti disoccupati per la scomparsa dell'aristocrazia, aprirono attività private: si pensi che se ne contavano già centinaia nell'Almanach des gourmand del raffinato Grimod de la Reynière (1805), la prima guida gastronomica con recensioni di ristoranti. Ma questa è tutta un'altra storia.

 

A tavola coi re. La cucina ai tempi di Luigi XIV e Luigi XV - Francesca Sgorbati Bosi - Sellerio Editore Palermo - 464 pp. - 20€

 

a cura di Pina Sozio

 

 

Colazioni del mondo. Australia: Vegemite, avocado con uova, lamingtons, anzac biscuits

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Ci sono i biscotti con avena e cocco, le tortine ricoperte di cioccolato, ma anche la crema spalmabile di estratto di lievito: tutte le specialità più curiose che caratterizzano la tavola australiana al mattino. 

La colazione in Australia

Quella della Terra dei Canguri è una cucina di cui si parla poco ma che riserva golose sorprese agli amanti dei sapori netti e gli aromi decisi. Una tavola frutto di diverse contaminazioni culturali, a cominciare da quella britannica, la prima ad attecchire dopo il lungo processo di colonizzazione che da fine Settecento a inizio Novecento contribuì a forgiare l’identità (anche gastronomica) di questa terra rigogliosa. Non si possono dimenticare, però, le più antiche usanze lasciate in eredità dagli indigeni che occuparono questo territorio sconosciuto per più di 50mila anni, sviluppando un modello di dieta arcaico, quello dei cacciatori-raccoglitori, i cosiddetti bush tucker. La svolta avviene dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la prima ondata di immigrazione multiculturale che modifica abitudini e costumi della popolazione, alimentazione compresa. Oggi, la tavola australiana  vive un ritorno al bushfood (cibo della boscaglia) delle origini, senza smettere però di ricercare una cucina contemporanea, grazie soprattutto agli chef più giovani che stanno cercando di definire il carattere della ristorazione locale. Una gastronomia, dunque, complessa e sfaccettata, in parte ancora da costruire, ma che può fare affidamento su ricette, piatti e prodotti singolari. A cominciare dalla prima colazione.

Vegemite, la crema di estratto di lievito

Partendo, in particolare, da una delle specialità più controverse di tutte, uno di quei prodotti in grado di spaccare in due la schiera di consumatori: pro e contro. Probabilmente uno dei primi sapori che torna alla memoria di chiunque abbia intrapreso un viaggio in Australia: la Vegemite, la crema spalmabile dalla consistenza collosa a base di estratto di lievito. Si tratta di un marchio registrato della Kraft, la più grande azienda alimentare dell’America settentrionale e la seconda al mondo, subito dopo la Nestlé. Gli australiani la chiamano “our national food”, “cibo nazionale”, e da anni l’hanno battezzata icona culturale del Paese. Per gustarla al meglio, occorre spalmarla su una fetta di pane in cassetta tostato e imburrato, ma può essere anche (a piccole dosi) utilizzata in cucina, oppure per accompagnare i formaggi.

 

Vegemite

Love it or hate it: dalla Marmite inglese alla Vegemite

Creata a Melbourne nei primi anni ‘20, la Vegemite è una versione australiana dalla cugina britannica Marmite, prima crema di estratto di lievito del mondo, nata nel Regno Unito e da subito divenuta oggetto di dibattiti: con il suo odore pungente e il sapore caratteristico (in molti lo associano al gusto umami), la Marmite ha infatti polarizzato l’opinione dei consumatori tra estimatori e detrattori, diventando famosa in tutto il Paese con il celebre slogan “Love it or hate it” (“Amala o odiala”). Colpito dal gusto particolare di questa specialità made in UK, nel 1922 il fabbricante australiano Fred Walker chiese al chimico Cyril Callister di realizzare un prodotto simile. Inizialmente guardata con diffidenza dai consumatori, la salsa ha iniziato a raccogliere i favori del pubblico australiano attorno agli anni ’30, quando Walker ha garantito alla Kraft tutti i diritti del prodotto, facendo così leva su un marchio già conosciuto e popolare. Tanto da diventare, durante la Seconda Guerra Mondiale, uno dei cibi più consumati fra le truppe.

Avocado con uova: la moda del superfood

Seppur di origine latino americana, l’avocado non manca mai sulle tavole degli australiani al mattino, solitamente accompagnato con uova strapazzate o in camicia, oppure formaggi e prosciutto. Un frutto che sta spopolando in tutto il mondo, recentemente sotto la lente di ingrandimento dei maggiori esperti del settore per via della tendenza sempre più diffusa di consumarlo a tutte le ore, dalla colazione al pranzo, un’abitudine che ha scatenato una vera “avocado-mania”, con la creazione di format appositamente pensati per promuovere questo frutto esotico, gli avocado bar. Una specialità che può fregiarsi, secondo la moderna scienza nutrizionale, dell’appellativo di superfood. Ma perché? Ricco di grassi e piuttosto impietoso per computo di calorie - sono circa 170 quelle contenute in 100 grammi di prodotto – il bilancio di pro e contro del frutto appartenente alla famiglia delle Lauracee restituisce un risultato decisamente incoraggiante: a fronte di un'alta percentuale di grassi monoinsaturi (quelli, per intenderci, che contrastano il livello di colesterolo cattivo nel sangue e operano da protettori dell'apparato cardiovascolare), e una più ridotta quantità di grassi polinsaturi (omega3), l'avocado contiene pochissimi carboidrati e per questa combinazione è un buon regolatore della glicemia, quindi ottimo per i diabetici.

 

avocado

Per lo stesso motivo è spesso consigliato nelle diete dimagranti, anche se dev'essere consumato con moderazione  (ed è sconsigliato, per esempio, a chi soffre di insufficienza renale, per l'alto contenuto di potassio). Altre qualità sono l'apporto di vitamina A ed E (antiossidanti e antiradicali liberi), K e D, di fibre che rallentano l'assorbimento degli zuccheri, di glutatione, valido alleato contro l'invecchiamento cellulare. Panacea di tutti i mali, dunque, no, ma sicuramente un prodotto ben conciliabile con una dieta sana.

Lamingtons, i dolcetti del Lord del Queensland

Fra creme saporite e avocado ripieni di uova strapazzate, non mancano ricette dolci, perfette per accompagnare una buona tazza di tè o caffè. Protagonisti della pasticceria australiana sono i lamingtons, piccoli dolcetti di pan di Spagna farciti con confetture di frutta e ricoperti di cioccolato e scaglie di cocco essiccato. Nati, come spesso accade, per errore. A ripercorrere le origini di questa prelibatezza, Maurice French, professore di storia dell’Università del Queensland, che sostiene che la storia del dolce sia legata a doppio filo con Lord Lamington, in servizio per il Governatore del Queensland dal 1896 al 1901. L’ipotesi più accreditata vuole che sia stato lo chef del Lord, Armand Galland, a creare questa specialità con gli avanzi del giorno prima: per ammorbidire il pan di Spagna, il cuoco immerse le fette nel cioccolato, e le cosparse poi con l’unico ingrediente che aveva a disposizione, il cocco, sempre presente nella sua credenza per via delle origini tahitiane della moglie. Gli ospiti di Lord Lamington gradirono così tanto quel dolce improvvisato che chiesero allo chef di avere la ricetta. Altro racconto, invece, attribuisce la nascita del dolce alla cameriera del Lord, che fece cadere accidentalmente la torta nel cioccolato. Poiché non voleva sporcarsi le mani, Lamington chiese che la fetta venisse ricoperta di cocco, in modo da risultare asciutta.

 

lamingtons

Anzac biscuits: i biscotti dei soldati

Dalla torte alla pasticceria secca: a fare la parte del leone sul fronte dei biscotti sono gli anzac biscuits, frollini diffusi in tutta l’Australia e Nuova Zelanda, a base di fiocchi d’avena, farina, cocco disidratato, zucchero, burro, golden syrup (sciroppo dolce prodotto con zucchero caramellato, acqua e limone), bicarbonato di sodio e acqua bollente. Il nome deriva dalla sigla delle forze armate australiane e neozelandesi (ANZAC, appunto): sembra, infatti, che in tempo di guerra le mogli dei soldati fossero solite inviare ai loro cari questi biscotti, perché erano quelli maggiormente in grado di mantenere la freschezza anche nei lunghi periodi di tempo del trasporto via nave. Da non confondere con i cosiddetti “wafer Anzac” o “tavolette Anzac”, una specie di gallette dure fornite all’esercito come sostitutivo del pane. Secondo un’altra teoria, il legame con l’Anzac, e quindi con la guerra, deriva invece dall’usanza delle famiglie dei soldati di vendere questi biscotti in giro per la città per raccogliere fondi per le provviste da inviare all’esercito in guerra. In qualsiasi caso, oggi questi dolcetti secchi sono i protagonisti dell’Anzac Day, commemorazione che si tiene ogni anno in Australia e Nuova Zelanda il 25 aprile in memoria di tutti i caduti.

 

Anzac

La ricetta: gli anzac biscuits di Lorenza Barletta e Ludovica Frigieri

Ingredienti

150 g. di farina 00

100 g. di zucchero di canna

70 g. di fiocchi d’avena

50 g. di farina di cocco essiccato

120 g. di burro

2 cucchiai di golden syrup (o miele)

1 cucchiaino di bicarbonato

1 cucchiaio di acqua bollente

In una ciotola mescolare la farina, i fiocchi d’avena, il cocco essiccato e lo zucchero di canna. In una casseruola, sciogliere il burro con il miele (o il golden syrup), e aggiungere poi il bicarbonato precedentemente sciolto in un cucchiaio di acqua bollente (il composto a contatto con il bicarbonato farà una schiuma). Versare ora il composto di burro sugli ingredienti secchi. Mescolare bene con l’aiuto di una spatola o con le mani e poi cominciare a formare delle palline, da schiacciare a forma tonda (diametro di circa 3-5 cm). Adagiare i biscotti sulla teglia foderata di carta da forno e cuocere in forno preriscaldato a 160°C per 15/20 minuti circa, fino a che non prenderanno il classico colore ambrato.

a cura di Michela Becchi

Colazioni del mondo. Francia: croissant, madeleine, crêpes

Colazioni del mondo. India: naan, upma, puttu, masala chai

Colazioni del mondo. Regno Unito: English breakfast, porridge, muffin inglesi

Colazioni del mondo. Stati Uniti: cereali, pancakes, doughnuts, bagel, French Toast

Colazioni del mondo. Brasile: açai bowl, bolo de fubà, pão de queijo, frutta tropicale

Colazioni del mondo. Grecia: baklava, loukoumade, koulouri, yogurt

Colazioni del mondo. Giappone: misoshiru, tofu, dashimaki, doroyaki 

Colazioni del mondo. Italia: cappuccino e cornetto, biscotti, ciambellone, pane e marmellata

Lugana, Allegrini acquista 40 ettari. Presto al via i lavori per la nuova cantina

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L'azienda veronese di Marilisa Allegrini sceglie di investire in un bianco in forte ascesa, il Lugana, con l'acquisto di 40 ettari da impiantare entro il 2018. La Allegrini a Tre Bicchieri, sulle motivazioni della scelta. 

Allegrini. Progetti d'espansione

Due anni fa l'affitto di dieci ettari vitati, ora l'acquisto di altri 40 ettari da impiantare entro il 2018. Allegrini sceglie di puntare in forze sul Lugana, una delle denominazioni italiane con i più alti tassi di crescita degli ultimi anni. Il brand vitivinicolo che fa capo alla Corte Giara srl (oltre 30 milioni di fatturato nel 2016, per l'85% realizzato all'estero) sbarca così a Pozzolengo (Brescia) e acquisisce non solo terreni ma anche fabbricati, su cui nascerà nel giro di pochi anni un nuovo sito produttivo. Una nuova cantina. L'ammontare dell'investimento non è stato reso noto ma l'obiettivo è quello di disporre, nel giro di cinque anni, di un potenziale produttivo di 400 mila bottiglie su 50 ettari, dieci dei quali affittati tre anni fa a Desenzano e i cui vini saranno sul mercato dal 2019. I nuovi impianti viticoli dovrebbero essere realizzati entro il 2018. L'affare è stato concluso a gennaio e a spiegare a Tre Bicchieri le ragioni di questa scelta è la stessa Marilisa Allegrini: "Si tratta di una proprietà unica, in territorio leggermente collinare. Ci siamo fatti attrarre da questo territorio perché nel nostro portafoglio vini mancava un bianco importante". Sinora, il lavoro, tranne poche eccezioni, si era concentrato soprattutto sulla grandi Dop rosse del Made in Italy: Amarone della Valpolicella (Allegrini e Corte Giara), Brunello di Montalcino (San Polo) e Bolgheri (Poggio al Tesoro). "Se penso al vino Lugana penso sopratutto alla Germania come primo mercato di riferimento", aggiunge Marilisa Allegrini "ma sono convinta che così come c'è stata molta curiosità per i nostri varietali, è il caso del nostro Vermentino di Bolgheri, penso ci sia la possibilità di conquistare mercati importanti con il Lugana come quello americano e soprattutto quello asiatico. Non faremo vini di pronta beva ma punteremo a valorizzarne la longevità". Si lavorerà su rese inferiori a quelle del disciplinare della Doc.

Obiettivo alta qualità

Da un punto di vista qualitativo, l'obiettivo, come spiega Franco Allegrini, è "occupare, anche all’interno di questa denominazione il segmento di alta qualità. È una Doc che ci piace, non molto vasta (circa mille ettari), non ci sono cantine sociali, e la competizione tra i produttori è indirizzata all'alta qualità". La nuova cantina, i cui lavori dovrebbero iniziare entro l'anno, sarà affidata ai membri più giovani della famiglia: "Daremo una grande responsabilità ai nostri figli" aggiunge Marilisa "che verranno coinvolti fin dall’inizio sia nelle decisioni operative che in quelle strategiche".

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pesce e ristoranti di mare: meglio d'inverno che d'estate. I grandi chef ci spiegano perché

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Sfatiamo un mito: la cucina a base di pesce fresco non è appannaggio solo dell'estate. I periodi freddi sono forieri di una pesca di stagione che garantisce origini controllate, filiera corta, rispetto dell’ecosistema marino e risparmio economico.

“Mi saprebbe dire per caso dove vanno le anatre quando il lago gela”? chiedeva il Giovane Holden di J.D. Salinger a proposito dell'inverno a Central Park. Provocando, applichiamo il topos letterario alla cucina di mare: i ristoranti che in agosto placano la nostra voglia di spaghettate vista arenile, che fine fanno quando cade il gelo? Terminata la calca turistica, non caleranno mica la saracinesca?

La stagionalità della pesca

La risposta è (quasi mai) no, ma per capire il perché occorre operare un ribaltamento semantico. Infatti la pesca (e di conseguenza, molti grandi locali di mare) si trovano nel pieno della loro attività proprio d'inverno, mentre è a ridosso dei mesi estivi che spesso devono (o decidono di) fermarsi. Scelta paradossale? Nemmeno un po'. Chi conosce il mondo ittico sa che la pesca ha una stagionalità, esattamente come l'agricoltura, ma per ragioni diverse, dettate dal momento della riproduzione della fauna marina, dalle sospensioni temporanee della pesca, dalle migrazioni dei grandi piccoli pelagici, dai cambi di temperatura. I cuochi che (per ragioni etiche, ecologiche o semplicemente di selezione qualitativa) scelgono di utilizzare in cucina solo pescato selvaggio, fresco, locale o mediterraneo, si pongono automaticamente limiti molto pesanti.

Così la Vecchia Marina di Roseto degli Abruzzi, tavola in cui si officia la poesia del mare (una delle migliori trattorie d'Italia per la guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso) resta chiusa durante il fermo pesca in Adriatico, un mese tra agosto e settembre. “Ci prendono per pazzi perché d'estate chiudiamo”, ci racconta Gennaro D'Ignazio, in cucina insieme alla sorella Loredana, e coadiuvato in sala da Giovanni Parnanzone, marito di quest'ultima. Gennaro, del resto, si reca alle aste di persona, nelle notti dal martedì al venerdì, dove confluisce il prodotto pescato dalle marinerie con licenza di pesca a strascico. La più vicina è a Giulianova, ma nell'arco di poche decine di chilometri ci sono quella di Pescara e, a nord, quella San Benedetto del Tronto. La scelta ricade sul luogo dove c'è il pesce migliore nel pieno della stagionalità.

Pesci. Ph Lido Vannucchi

In alcuni casi è preferibile mangiare il pesce d'inverno, anche per motivi ecologici

Perdo molto tempo a parlare ai miei clienti di queste questioni: nell'Adriatico è assolutamente preferibile mangiare il pesce d'inverno. D'estate c'è la ressa per la richiesta, i prezzi si alzano, i marinai lavorano meno di fino, tendono ad andare di fretta con lo strascico, fattori che vanno a discapito della qualità”. E soprattutto c'è un problema di temperature: “Il nostro mare è chiuso, ha poche correnti e si riscalda molto. Alcune volte la temperatura d'uscita è intorno ai 25 gradi, un grado di calore pericoloso per la proliferazione batterica. Èmolto più difficile trattare il pescato d'estate, chi non lavora bene si porta a casa un prodotto scadente”.

Per preferire il pescato invernale c'è poi, non da ultima secondo D'Ignazio, una ragione ecologica: la pesca a strascico, che già di per sé ha un impatto ambientale forte, andrebbe scoraggiata d'estate, dato che quello è il periodo in cui si rischiano i danni più grossi.
I pesci vanno a riprodursi nelle acque calde; alcuni di quelli che vivono al largo, nella fase riproduttiva si avvicinano alle coste, a basse profondità. Sarebbe facile catturarli in tali momenti, ma vorrebbe dire predare il mare della popolazione futura. Ed è proprio durante i periodi riproduttivi, per favorire un buon ripopolamento degli stock, che scatta il famoso “fermo pesca”.

Le ragioni del fermo pesca

Cos'è? L'espressione è chiara: una sospensione temporanea dell'attività di pesca, con calendari stabiliti zona per zona da un decreto ministeriale, per tutelare alcune specie ittiche e garantirne, appunto, la riproduzione.Un tentativo di regolamentazione, avviato dal Ministero delle Politiche Agricole, che blocca le imbarcazioni con reti a strascico, reti a divergenti e reti volanti per 30/40 giorni consecutivi (la pesca oceanica è fuori dalla normativa, così come la pesca al gambero di profondità, che ha regole tutte sue). Il provvedimento decide per l'anno in corso: ad esempio, nel 2017, si è cominciato nell'alto Adriatico (da Trieste ad Ancona) dal 31 luglio al 10 settembre - nel pieno della stagione turistica, quindi - per finire con il tratto costiero da Livorno a Imperia, fermo tutto il mese di ottobre. Nei periodi di stop i prezzi naturalmente si alzano: ristoratori e commercianti, che solitamente lavorano sulla prossimità, reperiscono il pesce in altre coste e la limitata produzione locale dovuta alle barche della piccola pesca, che possono ugualmente operare, non soddisfa la domanda. Aumenta poi la possibilità di trovarsi nel piatto prodotto non fresco, allevato o straniero.

Gianfranco Pascucci e Gino Amoroso

La chiave è nel rapporto con i fornitori

Non dobbiamo essere estremisti e far finta che non esistano la grande pesca e le importazioni”: Gianfranco Pascucci, cantore della cucina di mare nel suo Pascucci al Porticciolo di Fiumicino, tenta di assumere una visione empirica. “Io sono un piccolo, faccio trenta coperti. Non dobbiamo dimenticare i numeri: è lì che si gioca la battaglia. Il pesce importato ricopre gran parte del mercato, bisogna occuparsene, approfondire e divulgare. Ci sono zone del mondo in cui le tradizioni di pesca sono antiche e danno da vivere a intere comunità. Le importazioni non sono il male assoluto: il male vero è non distinguere se si incentiva con gli acquisti un tipo di pesca distruttiva piuttosto che un altro”. Attentissimo all'ecosostenibilità e ambasciatore delle oasi WWF, Pascucci è pure noto per la materia prima eccezionale che trasforma nella sua cucina. “La chiave è nel rapporto con i fornitori. Quando si crea una relazione virtuosa con il pescatore, si riesce anche a indirizzarne il tipo di pesca e gli standard qualitativi”. Circuito privilegiato che in estate, per forza di cose, viene a mancare: “Agosto è un mese che non sopporto, il mercato impazzisce, i prezzi si impennano, si lavora sotto pressione e la qualità ne risente. In quel periodo domina un certo tipo di economia e di domanda che non mi interessa assecondare”. E la squadra di Pascucci al Porticciolo fa una scelta controcorrente: chiude il locale nelle settimane a ridosso di Ferragosto, quelle che in teoria sanerebbero i conti economici.

Elogio alla stagione fredda

Qui parte un autentico elogio alla stagione fredda: “Il mare d'inverno è una possibilità. Dà l'opportunità al cuoco di mostrare altro, di far conoscere nuovi abbinamenti ai clienti. Le persone non vengono da te per il sole e godersi in spensieratezza lo spaghetto con la tellina e il vino bianco fresco. Vengono da te perché sono curiosi di provare la cucina di mare, non la cucina di pesce”. Così, mentre il turismo di massa e le ferie (spesso) obbligate ci costringono a rivolgere la nostra attenzione al mare solo d'estate, proprio nei giorni d'inverno ci sarebbe modo di scoprire un mercato vario, un ventaglio differente di sapidità, pesce di pezzatura eccezionale. Gianfranco racconta l'incanto della burrasca, che finisce lasciando un tesoro di abbondanza a disposizione dei pescatori. “Il mare d'inverno è una sorpresa continua, lo devi scoprire. Si può giocare, i sapori sono profondi. Il mare d'inverno è concettuale. Con i suoi profumi, le sue incostanze, lo scirocco e la tramontana, i venti violenti e contrari che celebrano quella magia tra le onde che è la mareggiata”.

alici. Ph Lido Vannucchi

Con le temperature basse il pesce è migliore

Si entusiasma per la pesca nelle giornate fredde anche Luciano Zazzeri, patron de La Pineta, sulla spiaggia di Marina di Bibbona. Nello storico ristorante di famiglia – con lui diventato punto di riferimento internazionale – impara da piccolo a conoscere e praticare tecniche e tempi del mare (la barca oggi la usa poco, la cucina non lascia tempo, ma suo cugino supplisce a mestiere). Pescatore, amante dell'orto e della caccia ai colombacci, si schiera a favore dell'inverno: “Senza la calca estiva possiamo sì fare una buona spesa e cucinare in libertà, ma è proprio il pesce a essere migliore con le temperature più basse”. Entrano in gioco questioni di conservazione, ma anche le caratteristiche organolettiche della fauna marina e dell'habitat circostante. “Con il crudo è evidente: un pesce eccezionale dà un crudo eccezionale. Nella stagione calda alcune specie diventano grasse: le orate, ad esempio, oppure le ostriche, che assumono una consistenza quasi lattiginosa”. Non tutto chiaramente è migliore: “Il cappone in estate è delizioso, è gentile, ora è asciutto e si pesca poco. La pezzogna - quella vera, la napoletana o la livornese – è, invece, signora d'inverno. E così palamite, spigole, orate, gallinelle, San Pietro. Gli scampi sarei pazzo a comprarli a 80 euro al kg a dicembre quando non sono neanche imperdibili”. La spesa fuori stagione non ha senso: “È antieconomica e i prodotti sono meno buoni. Funziona come per i vegetali, non si scappa”. La cucina dello Zazzeri conquista tutti, gourmet e palati più conservatori. Luciano nasce in sala, per questo non scorda quanto sia importante che i cuochi conoscano bene il servizio e gli ospiti. E quando questi cercano qualcosa che non ha a disposizione? “Se i prodotti non sono al meglio qui non li trovano. È una questione di serietà. Il cuoco ha in mano la salute delle persone: io usando buon pesce, extravergine e cotture delicate non faccio altro che rispettare i miei clienti”.

 

a cura di Pina Sozio

foto di Lido Vannucchi

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di febbraio del Gambero Rosso, un'edizione tutta nuova in questi giorni in edicola, trovate anche un focus sulle ragioni delle stagioni secondo Gennaro D'Ignazio e gli approfondimenti dello chef Mauro Uliassi e dei professionisti del banco Beppe Gallina e Gino Amoruso. Un servizio di 10 pagine dedicato al mare d'inverno, che include anche la top ten dei ristoranti di pesce aperti fuori stagione, i dieci pesci tipici dell'inverno rappresentati dai bellissimi disegni di Marcello Crescenzi e un utile glossarietto dei pesci sconosciuti.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Cucina di casa in Sicilia. Ricette: Panelle, Pasta alla norma e Calamari alla messinese

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Tre ricette siciliane facili da replicare a casa. Basta seguire passo passo le istruzioni per creare delle dorate panelle, un'impeccabile pasta alla norma e dei succulenti calamari alla messinese.

Parlare di cucina regionale è sempre riduttivo, già ve lo abbiamo specificato, figuriamoci quando si parla di Sicilia, un’isola al centro del Mediterraneo che tuttora mostra le tracce delle molteplici culture che vi si sono stabilite negli ultimi due millenni. Il risultato è una cucina ricca di sfumature e praticamente impossibile da codificare, anche se ci sono indubbiamente alcuni piatti iconici, come per esempio le panelle o la pasta alla norma, di cui vi sveliamo le ricette.

Panelle

Se in Italia si dovesse scegliere una capitale dello street food, senza dubbio sarebbe l'intera regione siciliana ad avere la meglio. E Palermo ne sarebbe città con primato indiscusso. Basta nominare soltanto alcune delle specialità da passeggio per rendersi conto che non potrebbe essere altrimenti: ci sono le arancine, che a Catania prendono il nome di arancini, il mitico panino ca' meusa, lo sfincione o le panelle, delle sfiziose frittelle di ceci che farciscono spesso dei morbidi panini ricoperti con semi di sesamo. E poi c'è lo street food meno conosciuto con i cudduruni, le crispelle catanesi, le bolognesi, le bombe e ancora le cartocciate, le cipolline o le sfoglie. Insomma le vie dello street food alla siciliana sono infinite. Noi vi sveliamo la ricetta delle panelle.

Ingredienti

250 g di farina di ceci

Prezzemolo

Sale

Olio di oliva per friggere

Setacciate la farina in una ciotola e, sbattendo con la frusta, diluitela con un litro di acqua fredda. Sciogliete bene i grumi e versate il composto in una casseruola a fondo pesante. Unitevi un bel pizzico di sale e mettete la casseruola sul fuoco regolando la fiamma a metà.

Mescolando continuamente con un cucchiaio di legno, fate alzare l'ebollizione e proseguite la cottura della polentina per una ventina di minuti fino a quando avrà la densità di una crema. Mescolate senza interruzione perché il composto si attacca facilmente e, alla fine, unitevi un cucchiaio di prezzemolo tritato.

Ungete con poco olio il tavolo di marmo o la placca del forno e versatevi la polentina. Spianatela immediatamente con una spatola ad uno spessore di un centimetro scarso e lasciatela raffreddare. Una volta fredda diventerà compatta e consistente e si staccherà facilmente: tagliatela a quadretti o a piccole losanghe e friggetela in abbondante olio molto caldo (175° C) fino a quando le panelle avranno preso una leggera doratura. Scolatele, passatele su un doppio foglio di carta da cucina e servitele caldissime dentro a dei panini all'olio ricoperti con semi di sesamo.

Pasta alla norma

Pasta alla Norma

Il nome di questo piatto tipico di Catania è un omaggio al concittadino Vincenzo Bellini e alla sua opera “Norma”. Per gustarlo in pieno vi consigliamo di raccogliere in ogni forchettata un po’ di pasta, ricotta, sugo di pomodoro e un pezzetto di melanzana. Buon appettito.

Ingredienti

350 g di spaghetti

800 g di pomodori San Marzano ben maturi

600 g di melanzane scure

2 spicchi d’aglio

100 g di ricotta salata (cacioricotta) grattugiata

Olio extravergine d’oliva

Basilico

Sale e pepe

Mondate e lavate le melanzane quindi, senza sbucciarle, tagliatele a fettine sottili, cospargetele di sale fino e lasciatele spurgare per un’oretta dentro un colapasta. Tuffate per un attimo i pomodori in acqua in ebollizione quindi passateli in acqua fredda e pelateli. Divideteli in due, privateli dei semi e tritateli finemente.

Fate scaldare due cucchiai d’olio in una larga padella e fatevi imbiondire gli spicchi d’aglio leggermente schiacciati quindi versatevi i pomodori e un paio di ciuffetti di basilico (sia il basilico che l’aglio andranno scartati una volta che il sugo sarà pronto). Salate, pepate e lasciate cuocere a fuoco vivace per una decina di minuti. Sciacquate le melanzane e asciugatele premendole dentro un panno quindi fate scaldare abbondante olio nella padella dei fritti.

Mettete a cuocere la pasta e intanto friggete le fettine di melanzane fino ad averle ben dorate. Via via che sono pronte, scolatele e passatele su un doppio foglio di carta da cucina. Scolate la pasta al dente, versatela nella padella con il sugo caldo, spolveratela con metà della ricotta e con qualche foglia di basilico spezzettata e mescolate bene. Dividete la pasta in quattro piatti e cospargete la superficie di ogni porzione con il resto della ricotta e con le melanzane fritte.

Calamari al pomodoro

Calamari alla messinese

È una ricetta molto semplice, ma per la riuscita del piatto è importante sapere che il calamaro ha una struttura termoresistente: il suo strato esterno non lascia penetrare facilmente il calore. Quindi nel caso di questo mollusco, a giocare un ruolo fondamentale è il taglio. Lo racconta Gianfranco Pascucci nel suo libro "Com'è profondo il mare”: “La cultura asiatica nel trattare questo ingrediente può essere un'illuminante. Sul calamaro nei piatti orientali spesso si vedono tagli incrociati, che incidono la superficie per intenerirne le fibre e permettere al calore di agire velocemente. Io procedo eliminando la "pelle" più esterna e tagliando la carne in strati sottilissimi, ricomponendo poi il mollusco in una sorta di millefoglie. In tal modo il passaggio sulla piastra garantisce una perfetta rosolatura esterna e un'umidità interna che mantiene il calamaro tenero, al giusto grado di cottura”. Se invece volete andare sul sicuro, togliete completamente la “pelle” esterna.

Ingredienti

1 kg di calamari molto freschi

300 g di pomodori maturi

3 cucchiai di olio extravergine d'oliva

1/2 bicchiere di vino bianco secco

1 cipolla media

2 spicchi d'aglio

1 cucchiaio di capperi sotto sale

1 cuore di sedano

1 manciata di olive verdi dolci

Prezzemolo

Peperoncino

Sale

Staccate i tentacoli dei calamari dalle sacche e svuotatele dalle interiora e dalle cartilagini. Rimuovete anche la pellicina quindi lavatele e tagliatele a strisce. Pulite anche i tentacoli togliendo il becco e gli occhi quindi spellateli e tagliateli a pezzi.

Tritate la cipolla e, separatamente, anche gli spicchi d'aglio e il prezzemolo. Snocciolate le olive e sciacquate i capperi. Mondate il cuore di sedano dai filamenti e tagliatelo a fettine insieme alle foglioline più tenere. Tuffate i pomodori in acqua in ebollizione, passateli sotto l'acqua fredda, pelateli e spezzettateli.

Scaldate l'olio in un tegame e fatevi rosolare dolcemente la cipolla. Quando comincia a prendere colore, unite i calamari e il trito di aglio e rialzate la fiamma. Fateli rosolare mescolando spesso e quando sono quasi asciutti, sfumate con il vino e salate.

Dopo pochi minuti, unite le olive, i capperi, il sedano, il prezzemolo e i pomodori. Abbassate la fiamma, incoperchiate e proseguite la cottura per circa un'ora mescolando ogni tanto e controllando che il sugo non si asciughi troppo; in questo caso, unite mezzo mestolo di acqua calda. Servite la preparazione bel calda.

 

Cucina di casa in Veneto. Ricette: Sarde in saor, Risi e bisi e Baccalà alla vicentina

Cucina di casa in Piemonte. Ricette: Vitello tonnato, Agnolotti del plin e Brasato al Barolo

Tutti pazzi per lasagne e pasta al forno. Origini e curiosità sulla pasta preferita dagli under 35

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Non la carbonara, o gli spaghetti al pomodoro, ma la pasta al forno nelle sue molteplici interpretazioni regionali. È la ricetta a base di pasta preferita dagli under 35 secondo il sondaggio di Aidepi, e i motivi sono svariati: piatto dell'infanzia e della convivialità, ricetta versatile e pure antispreco. Ma dove è cominciato tutto? 

Una ricetta senza tempo

Chi l'ha detto che la lasagna è buona solo di domenica? Sempre più difficile da trovare sulla tavola di tutti i giorni, la pasta al forno – che si tratti della regina lasagna, di cannelloni o timballi di maccheroni – continua a rappresentare uno dei più forti legami affettivi con la tradizione casalinga degli italiani. E l'ultima ricerca Doxa-Aidepi non fa che confermarlo, assegnando a lasagne &Co. lo scettro tra le ricette a base di pasta preferite dagli under35. Una vittoria ancor più significativa perché strappata contro avversari insidiosi e nazional popolari, come la carbonara o gli spaghetti con le vongole. E che proprio nel radicamento della pasta al forno sull'intero territorio nazionale, nelle molteplici varianti regionali, trova il proprio punto di forza, protagonista nelle occasioni conviviali, ma anche estremamente versatile, e tutt'altro che passata di moda, non solo per il significato che porta con sé. Al passo con i tempi che cambiano sono le ricette che la reinterpretano per incontrare nuove esigenze di gusto, leggerezza, praticità; quello che non cambia, invece, è il valore emotivo, e identitario, che la pasta al forno incarna, non solo in qualità di piatto delle feste, “ma perché racconta al meglio la versatilità della pasta e la sua anima conviviale, gustosa e accogliente”,per dirla con le parole di Riccardo Felicetti, pastaio trentino e presidente di Aidepi.

 

Un piatto antispreco

Molto attuali, invece, le potenzialità antispreco di una ricetta nata proprio come piatto di recupero: timballi e pasticci sono da sempre soluzioni casalinghe per riutilizzare avanzi e prodotti prossimi alla scadenza, uno svuotafrigo per eccellenza che stando alle ultime stime sullo spreco alimentare tra le famiglie italiane (in media sprechiamo ben 145 chili di cibo procapite all'anno) assume una valenza in più, garantendo nuova vita alla pasta del giorno prima, tra gli alimenti più di frequente oggetto di spreco (in percentuale, il 3,5% sul totale dello spreco domestico).

 

Lasagne&Co. Le origini

Ma qual è l'origine della ricetta? Difficile individuare natali comuni a tante varianti regionali, anche se la letteratura classica viene in soccorso col testo più studiato dagli appassionati di archeologia gastronomica: Apicio, nel De re Coquinaria, descrive la ricetta delle lagane con porri e ceci, tramandando alla storia una tradizione molto popolare nella Roma antica, che delle cosiddette lagane - strisce o losanghe di pasta stese a mano e fatte con farina di grano tenero (al nord), o semola di grano duro (a sud), solitamente fritte o cotte al forno – faceva largo impiego. Parenti nel nome, le lagane, in realtà erano utilizzate per pasticci con carne che ben poco hanno a che fare con le nostre lasagne. La storia dei secoli a seguire, invece, rende omaggio a una specialità evidentemente sempre più presente (e più simile alla ricetta moderna) sulle tavole della Penisola, come conferma la nascita di una corporazione “dei cuochi e dei lasagnari” nella Firenze medievale. All'epoca, e nei banchetti di corte di cui si racconteranno i fasti, la lasagna assume sembianze che oggi non facciamo fatica a immaginare, bollita in brodo di carne o acqua e poi disposta a strati, farcita con abbondante formaggio, ma anche in versione dolce, con zucchero e cannella (testimonianze scritte già nel Liber de Coquina trecentesco).

Le varianti regionali

Nella disputa dei campanili, invece, sono due le tradizioni che con più forza si contendono la paternità della ricetta, a Nord e Sud del Paese: Bologna con la sua alternanza di sfoglie all'uovo (anche verdi, con spinaci) condite con besciamella e ragù alla bolognese; Napoli, che tra le sfoglie acqua e farina dispone una farcitura ricca, a base di ragù al pomodoro, polpettine di carne fritte, ricotta, provola, pecorino o altri latticini a piacere. In Campania, la prima ricetta documentata di lasagne al pomodoro risale al 1881, nel testo La vera cucina napolitana di Francesco Palma. E il folclore ne tramanda la passione di Ferdinando, soprannominato, non a caso, Re lasagna. La codificazione del piatto, invece, si fa risalire ad alcuni ristoratori bolognesi, che all'inizio del Novecento sdoganarono per la prima volta la lasagna al ristorante, prima che Paolo Monelli, nel 1935, ne consacri definitivamente la ricetta nel suo Ghiottone Errante. Sulla mappa regionale, però, rintracciamo moltissime altre interpretazioni del genere: i vincisgrassi marchigiani, con rigaglie di pollo, animelle, midollo, cervella bovine e tartufo, le lasagne da fornel sulle Dolomiti, la variante con pane carasau in Sardegna e quella con scrippelle (strati di crepes sovrapposti) in Abruzzo. E poi timballi al forno in tutte le salse, dal rinascimentale pasticcio di maccheroni alla ferrarese al celebre timballo siciliano del Gattopardo in scrigno di pasta frolla.

 

Perché il giorno dopo è più buona?

Oggi che la tradizione, fortunatamente, non passa di moda, Aidepi, da tempo impegnata nell'operazione We Love Pasta, propone i suoi consigli per valorizzare al meglio la pasta al forno, tra suggerimenti utili per la cottura perfetta (meglio utilizzare pirofile in vetro o ceramica) e accorgimenti per bilanciare il rapporto tra pasta e condimento. E poi tanta libertà, perché il bello della pasta al forno è che va d'accordo con tutti i formati. Via libera dunque a rigatoni, mezze maniche, ziti, candele e paccheri, spaghetti o tagliolini. Per chiudere, la risposta a una certezza che tutti abbiamo riscontrato sul campo: perché la pasta al forno il giorno dopo è più buona? Il motivo è scientifico: il passaggio nel forno essicca la pasta, fissando la gelatinizzazione degli amidi e la consistenza della pasta, soprattutto negli strati superficiali, conservandola al dente anche per ore, o giorni a seguire. Buon appetito!

 

a cura di Livia Montagnoli


San Valentino. 8 film romantici a tema food

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Se siete a corto di idee, ecco 8 film romantici da vedere comodamente a casa. Se poi volete stupire il partner, vi suggeriamo 4 ricette etniche per un San Valentino speciale.

Alcuni film tolgono il fiato, sono travolgenti, violenti, dolorosi, a tratti oscuri. Altri sono leggeri, ironici, necessari. In ogni caso, fanno pensare e ispirano. No, non è il nostro campo ma abbiamo comunque selezionato 8 film romantici, da vedere magari in compagnia, che hanno come tematica principale il cibo. In più vi sveliamo 4 ricette (a essi ispirate) per stupire il partner, ça va sans dire. Se poi non volete cucinare affidatevi ai santi servizi di food delivery.

Locandina del film Io sono l'amore di Guadagnino

Io sono l’amore

Il film diretto da Luca Guadagnino - il regista di Call me by your name, praticamente il titolo del momento, candidato a ben quattro premi Oscar - è la storia di una famiglia lombarda borghese, composta dalla moglie russa Emma (interpretata dalla bellissima Tilda Swinton), il marito e i tre figli, il cui equilibrio fittizio è sconvolto dall'arrivo di Antonio, un giovane chef di talento interpretato da Edoardo Gabbriellini. È anche la storia d'amore e seduzione tra il cuoco ed Emma, che finalmente riesce a lasciarsi andare alla passione, veicolata dai piatti preparati dallo chef per lei, come accade per la zuppa Ukha. Piatto tipico russo fatto tradizionalmente con salmone, merluzzo o pesce persico cotti in una casseruola piena di acqua, patate e prezzemolo. Che lo chef nobilita e serve in maniera impeccabile proprio per stupire l'amata. Piccola curiosità: nel film non si vedono piatti qualunque, il creatore è nientepopodimeno che Carlo Cracco. Noi vi diamo la ricetta classica, così potete replicarla a casa.

zuppa Ukha

Ingredienti per la zuppa Ukha

1 pesce intero pulito (meglio se di acqua dolce)

Acqua

3 foglie di alloro

2 patate a cubetti

6 carote tagliate a metà

1 cipolla tritata

Prezzemolo e aneto tritati

Sale e pepe in grani q.b

Mettere il pesce pulito in una pentola con il pepe e l'alloro, versare l'acqua (la quantità di acqua dipende dalla consistenza che si vuole ottenere). Portare a ebollizione e cuocere per circa 25 minuti, fino a quando il pesce non sarà cotto. Filtrare il brodo di pesce attraverso un setaccio a maglia fine. Mettere da parte il pesce e levare la pelle e le lische. Rimettere il brodo nella pentola e aggiungere le patate e le carote. Unire la cipolla e cuocere per altri 15 minuti o fino a quando le patate sono cotte. Unire il pesce alla zuppa e cuocere per altri cinque minuti. Guarnire con prezzemolo e aneto.

 

Locandina del film Lunchbox

Lunchbox

Ila prepara tutti i giorni il pranzo al marito, lo impacchetta in una lunchbox e lo consegna al dabbawalla che glielo porterà. Il film indiano ci introduce così al fenomeno dei dabbawalla: da oltre un secolo ogni giorno a Mumbai circa 5.000 fattorini trasportano duecentomila dabba (tipici portavivande indiani in acciaio) con i pasti che le mogli preparano per i mariti pendolari che lavorano negli uffici del centro della più grande città indiana, dove è ambientato il film. I dabbawalla si muovono a piedi, in bicicletta o con carretti trainati a mano e sono praticamente infallibili. Ma con questi numeri l'errore umano è comunque dietro l'angolo, come nel caso di Ila, il cui pasto cucinato con amore finisce nelle mani di Saajan, da poco rimasto vedovo. Dall'errore nasce un rapporto epistolare e un sentimento tra i due; non vi sveliamo di più. Ovviamente nel corso del film si susseguono varie ricette, tutte create dallo chef Aesha Majithia coadiuvato dal food stylist Nitin Tandon. Un tripudio di colori e ingredienti non facile da gestire: si legge in un'intervista al food stylist che i chapati (tipici pani indiani) che si vedono nel film sono praticamente tutti crudi, così come il Kkrela (melone amaro indiano cotto in padella) per evitare l'effetto pallido o avvizzito, con astuzie che i food photographer conoscono bene. Delle molteplici ricette vi sveliamo quella dei Malai Kofta, polpette vegetariane in una crema di yogurt. Prima di accingervi, considerate che vi servirà il paneer, formaggio tipico indiano che si può preparare a casa con latte e limone: basta scaldare il latte fino a bollore per poi versare una miscela di acqua e limone, quando il latte è completamente cagliato, il composto va filtrato, strizzato dall'acqua in eccesso e compresso posizionandolo sotto un peso per alcune ore. Et voilà il gioco è fatto.

Malai Kofta

Ingredienti per i Malai Kofta

2 patate medie bollite e sbucciate

200 g di paneer

2 cucchiai di panna

5 anacardi tritati

1 peperoncino verde piccante tagliato finemente

1 cucchiaio di uvetta ammollata e asciugata

1 cucchiaino raso di garam masala (spezie indiane)

1 cucchiaino raso di curcuma

1 cucchiaino raso di coriandolo

Farina q.b.

Sale q.b.

Olio per friggere

Schiacciare le patate, aggiungere il sale a piacere e mettere da parte. Miscelare tutti gli altri ingredienti creando una pasta. Fare dei dischi con la pasta di patate e mettere un po' del preparato nel centro di ciascuno. Sigillare i bordi e formare le polpette. Friggere ciascuna di esse fino a doratura. Scolarle e metterle da parte.

Per la salsa

2 cipolle tritate

2 spicchi d'aglio schiacciati (facoltativi)

3 pomodori passati

120 g di yogurt

120 g di anacardi tritati

1 cucchiaino raso di cumino
1 cucchiaino raso di curcuma
1cucchiaino di semi di coriandolo macinati
½ cucchiaino di peperoncino piccante in polvere
1 manciata di foglie di coriandolo
¼ cucchiaino di Garam Masala

Olio e sale q.b.

In una padella scaldare l’olio, aggiungete i semi di cumino e dopo qualche secondo, la cipolla. Quando la cipolla è dorata, aggiungere la curcuma, i semi di coriandolo macinati e il peperoncino. Aggiungete i pomodori passati e poi lo yogurt e gli anacardi tritati grossolanamente. Far cuocere per qualche minuto finché non si è ottenuta una consistenza cremosa. Aggiustare di sale e aggiungere le foglie di coriandolo tritate. Immergendovi i koftas al momento del servizio.

 

I protagonisti del film Come l'acqua per il cioccolato

Come l’acqua per il cioccolato

“Como agua para chocolate”. È la tipica frase messicana per indicare una persona in preda alla passione, quindi è bollente come l'acqua necessaria per fare la cioccolata calda. In questo film ambientato in Messico nei primi anni del '900, le persone in preda alla passione sono Tita de La Garza e Pedro. Purtroppo la ragazza, essendo la più giovane tra le figlie, non ha il diritto di sposarsi perché deve accudire la madre fino alla morte. Pedro non si dà per vinto e decide di sposare la sorella di Tita al solo scopo di restare accanto alla sua innamorata. Una storia d'amore travagliata, dove l'unico maniera di comunicare (e godere) è attraverso la cucina e i manicaretti preparati da Tita. Uno di questi sono i Chiles en Nogada, dei peperoni ripieni sommersi di salsa alle noci.

Chiles en Nogada

Ingredienti per i Chiles en Nogada

8 peperoni

300 g di carne di vitello macinata

300 g di carne di maiale macinata

2 spicchi di aglio

½ cipolla tritata fine

2 pomodori tagliati a dadini

1 mela sbucciata e tagliata a dadini

1 pera sbucciata e tagliata a dadini

1 pesca sbucciata e tagliata a dadini

½ banana tagliata a dadini

80 g di mandorle pelate e tritate

80 g di pinoli

80 g di uvetta sultanina

Arilli di melograno q.b.

Prezzemolo tritato finemente q.b.

Sale e pepe q.b.

Abbrustolire i peperoni sulla piastra e avvolgerli in uno strofinaccio pulito per 30 minuti, quindi pelarli e praticare un'incisione verticale su un lato. Togliere i filamenti e i semi lasciando intatti i gambi. Scaldare l'olio in una padella larga, soffriggere la cipolla tritata, l'aglio e il pomodoro a fuoco medio alto per 2 o 3 minuti. Aggiungere la carne macinata e cuocere per circa 5 minuti. Quando la carne è dorata, aggiungere la mela, la pera e la pesca. Cuocere per altri 3-4 minuti. Infine aggiungere la banana, l'uvetta, le mandorle, i pinoli. Condire a piacere con sale e pepe, mescolare bene e cuocere per altri 5 minuti. Aggiungere il prezzemolo tritato e togliere dal fuoco. Lasciar raffreddare, poi riempire i peperoni e coprirli con la salsa alle noci. Guarnire con i semi di melograno e il prezzemolo tritato.

Per la Nogada (salsa di noci)

1 tazza di latte

300 g di noci fresche pelate

100 g di formaggio di capra

Sale e pepe q.b.

Frullare tutti gli ingredienti fino a ottenere un composto liscio. Aggiustare di sale e pepe.

 

I protagonisti del film Amore cucina e curry

Amore cucina e curry

Dopo la tragica scomparsa della madre il giovane Hassan si trasferisce dall'India all'Europa con la famiglia. Una volta arrivato a Saint-Antonin-Noble-Val, un piccolo paese nel sud della Francia, decide di aprire un ristorante, dimostrandosi peraltro uno chef provetto. Ma il ristorante di famiglia si ritrova a fare concorrenza al Le Saule Pleureur di proprietà di Madame Mallory, chef di fama internazionale. Inizia così una guerra culinaria e culturale tra i due, almeno fino a quando la passione di Hassan per la cucina francese e per Marguerite (interpretata da Charlotte Le Bon), la bellissima sous chef di Madame Mallory, non riuscirà ad amalgamare le due culture, regalando nuovi sapori apprezzati addirittura da Madame, anche quando si tratta di un piatto “semplice” come l'omelette; che il giovane chef indiano reinterpreta regalando un risultato “saporito, fresco, caldo al palato”.

Ingredienti per le Omelette

6 uova fresche

60 g di burro chiarificato

Cerfoglio finemente tritato

Erba cipollina finemente tritata

Dragoncello finemente tritato

Prezzemolo finemente tritato

Curry

Sale e pepe bianco q.b.

Mettere le erbe in acqua bollente salata e subito dopo raffreddarle con acqua ghiacciata, strizzarle e tritarle finemente. Rompere le uova in un'ampia bowl, aggiungere le erbe, il curry, il sale e il pepe. Scaldare una padella ampia e porre il burro al centro, versare il composto, regolare la fiamma a metà e proseguire la cottura per tre o quattro minuti scuotendo leggermente la padella. Quando l’omelette sarà dorata servirla piegata in due.

 

Se proprio non avete voglia di cucinare passiamo ad altri titoli, ovviamente sempre romantici e sempre a tema food.

 

Film Il sapore del successo

Il sapore del successo

Adam Jones è uno chef stellato che ha distrutto la sua carriera a causa dell'abuso di droga e alcol, e del suo caratteraccio. Dopo essere scomparso per tre anni, passati a New Orleans a sgusciare un milione di ostriche come penitenza per espiare le sue colpe, decide di rimettersi in gioco gestendo il ristorante di un suo vecchio amico Tony (innamorato di lui). Lo fa con l'ausilio dei migliori chef in circolazione, compresa la bella e brava Helene. Nel corso dei mesi riuscirà a riscattarsi e a innamorarsi.

 

Locandina del film di Tutte le donne della mia vita

Tutte le donne della mia vita

Davide è un cuoco di successo incapace di prendersi alcuna responsabilità. Per questo motivo non ha mai voluto aprire un ristorante tutto suo, e tanto meno è riuscito a mantenere un rapporto stabile con le donne che hanno attraversato la sua vita. Compresa la moglie del titolare del ristorante in cui lavora, il quale ovviamente lo licenzia. Davide ritorna così nella nativa Stromboli dove un malore lo costringe a ripercorrere la sua vita. Un evento che lo fa riflettere molto su tutte le donne che ha desiderato, amato e lasciato.

 

Locandina del film chef

Chef

Jacky Bonnot è un cuoco talentuoso costretto a misurarsi con taverne e luoghi più disparati finendo sempre con l'essere licenziato per via della sua intransigenza. Cacciato dall'ennesimo ristorante, trova impiego come imbianchino in una casa di riposo per riuscire a sbarcare il lunario, fino a che Alexandre Lagarde, famosissimo chef in crisi di ispirazione, lo coinvolge in un progetto. Senza spoilerare, vi anticipiamo che le cose si mettono bene anche sul fronte sentimentale.

 

Mangia Prega Ama

Elizabeth Gilbert (interpretata dalla stupenda Julia Roberts) ha una vita apparentemente appagante: un matrimonio felice, una bella casa e un buon lavoro. Ma tutto questo sembra non bastarle per essere felice, sente un desiderio interiore di allontanarsi da tutto. Intraprende così un viaggio intorno al mondo. Soggiorna alcuni mesi in Italia, dove si avvicina ai piaceri della tavola, e poi fa tappa in India, dove trascorre il suo tempo meditando. Immancabile anche la storia d'amore, dunque buona visione.

 

a cura di Annalisa Zordan
 

Pizza d'autore. Le novità del 2018: Social Pizza a Milano, Sorbillo a Roma, Masardona e fratelli Salvo a Napoli

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Cresce la qualità, si diffonde il verbo della pizza d'autore, con i pizzaioli più noti incentivati a confrontarsi con progetti imprenditoriali ancora più ambiziosi. A Milano la pizza arriva persino in Triennale, mentre a Roma tutti attendono l'arrivo di Sorbillo. E Napoli? Non sta a guardare. Prossime aperture: Isabella De Cham, Masardona, Vincenzo Capuano. E i fratelli Salvo sulla Riviera di Chiaia. 

Italia unita nel segno della pizza, mai come in questo momento storico della gastronomia nazionale, che registra l'emancipazione di un settore in grande espansione (geografica) e crescita (professionale e qualitativa). Ne è testimonianza – e volàno verso traguardi futuri – il riconoscimento che l'Unesco ha recentemente accordato all'Arte del pizzaiuolo napoletano, oggi patrimonio immateriale dell'umanità in quanto tradizione identitaria e culturale. Come pure il fermento che la guida Pizzerie d'Italia del Gambero Rosso fotografa da qualche anno a questa parte, raccontando le gesta di maestri pizzaioli sempre più consapevoli delle potenzialità della pizza sul mercato nazionale (ed estero), e per questo capaci di proporsi non solo come artigiani del mestiere, ma anche come imprenditori capaci. Anche a questo, oltre ai benefici di una sperimentazione costante e diffusa su prodotti, tecniche di lievitazione e cottura, si deve la moltiplicazione di realtà meritevoli in tutta la Penisola, con particolare interesse a investire sulle piazze più attrattive del momento, Milano in primis.

Milano. Trapizzino e la Social Pizza in Triennale

In città ogni giorno apre una nuova pizzeria: Gino Sorbillo, con 4 insegne, è ancora il re dei pizzaioli in trasferta; Stefano Callegari, invece, ha appena esordito col suo Trapizzino, primo esperimento al Nord per l'angolo di pizza più famoso nel mondo, premiato dalla grande affluenza di pubblico del debutto. Ma di pizza, da qualche giorno, si parla anche in una destinazione insolita come la Triennale, dove ha preso forma l'esperienza della Social Pizza firmata Cristian Marasco. La pizzeria del museo, negli spazi del caffè al piano terra, è l'ultimo tassello del progetto di ristorazione affidato da un paio d'anni a questa parte al gruppo Vista, che mette insieme Ugo Fava, Stefano Cerveni Marco Giorgi, e assolda alla causa il pizzaiolo campano che a Merate (Lecco) guida la pizzeria di famiglia Grotta Azzurra. Impasto da lievito madre, cottura in forno elettrico e ingredienti del territorio per una carta che alterna classici e proposte originali, come la 4 Formaggi Italia-Francia (Fiordilatte del Casaro, Crème fraiche d’Isigny, Camembert e un erborinato naturale di Guffanti al miele di melata) o la Gambero rosso ( con gamberi rossi di Mazara del Vallo, stracciatella pugliese, erba cipollina e chips di patata viola). Per ora solo a pranzo.

 

Gino Sorbillo a Roma

Scendendo nella Capitale, l'orizzonte non è meno affollato di novità in divenire, anche se per salutare il debutto di Gino Sorbillo (ancora lui!) in città bisognerà aspettare più di qualche mese. Il pizzaiolo partenopeo, ormai consolidata la leadership meneghina e acclamato come una star in America (dove entro il 2019 dovrebbe moltiplicare la sua presenza, in partnership con l'imprenditore Shintaro Akatsu), ha confermato la prima apertura a Roma entro il prossimo autunno. Secondo le prime indiscrezioni la ricerca del locale giusto sarebbe ancora in corso, mentre è certa l'importazione in città di una formula già ampiamente testata, il modello dei Tribunali declinato nelle varianti regionali che hanno debuttato da Pizza Gourmand a Milano. Anche nella Capitale lo sforzo economico dovrebbe essere sostenuto dall'investimento dell'imprenditore giapponese.

Lievito Pizza & Birra. Con Stefano Callegari

Più prossimo all'esordio è invece il progetto Lievito Pizza & Birra, frutto del sodalizio inedito tra i ragazzi di Tyler e i fratelli Benedetti del Banana Republic. La pizzeria, un grande spazio da circa 150 coperti, eredita i locali del Terno Secco di via Andrea Doria, zona Prati. E si avvale della consulenza amichevole di Stefano Callegari, che per i ragazzi ha studiato il menu, messo a punto l'impasto e fornito i ragazzi che lavoreranno al forno. La pizza, quindi, sarà quella con cui Stefano si è fatto conoscere in città: in carta rosse, bianche e speciali, cult by Callegari compresi, dalla Greenwich alla Saltimbocca. Con focus sulle pizze della tradizione romana. Prima un'ampia scelta di fritti, panatura croccante (un altro marchio di fabbrica Callegari), tante variazioni stagionali sul tema supplì, baccalà pastellato con crema di ceci e qualche proposta inedita, in via di perfezionamento. Alla pizza si accompagnerà una cucina di contorno, sfizi da pizzeria come i fagioli all'uccelletto, i ceci al rosmarino e proposte della tradizione romana da spizzicare in attesa della pizza. Da bere Birra del Borgo, partner del progetto, con 6 spine a rotazione. Alla progettazione dello spazio, invece, ha lavorato l'architetto Francesco Cotone (vedi Saulo), con l'idea di raccontare l'atmosfera di una moderna trattoria romana: mattoncini, lampade a filamento, tavoli in legno con piano in piastrelle bianche, boiserie. In sala forno a legna a vista e possibilità di mangiare al bancone o ai tavoli alti. E opzione consegna a domicilio con packaging studiato su misura. Inaugurazione prevista per fine febbraio.

Stessa finestra temporale di riferimento per chi attende l'esordio di Pier Daniele Seu in zona Porta Portese: è quasi tutto pronto per l'inaugurazione di Seu Pizza Illuminati in via Bargoni, che debutterà a cavallo tra febbraio e marzo.

La Masardona, foto di Luciano Furia

Napoli. La pizza fritta: Isabella De Cham e La Masardona

Ma se gli ultimi mesi hanno decisamente decentrato l'attenzione verso le grandi città del Nord (ricordiamo anche l'esordio di Guglielmo Vuolo a Verona, l'arrivo di Renato Bosco a Torino, nell'ambito del progetto Edit e la recentissima inaugurazione di Gennaro Battiloro in Versilia, per la prima volta con un locale suo), il 2018 si preannuncia ricco di novità anche sulla scena della pizza napoletana... A Napoli. Si comincia all'insegna della pizza fritta: oltre al debutto solista di Isabella De Cham, che entro la fine di febbraio porta la sua pizza fritta alla Sanità, in piazza Vittoria tiene banco il raddoppio della Masardona, dei fratelli Cristiano ed Enzo Piccirillo. La vecchia e la nuova scuola a confronto, dunque: i fratelli del calzone fritto più famoso di Napoli inaugureranno la nuova sede di Chiaia all'inizio di marzo, stessa formula, circa 25 coperti a disposizione e tanto take away, con apertura a pranzo e cena. Poco distante, con tempi ancora da definire, arriverà pure Vincenzo Capuano, della dinastia Capuano's, volto noto della pizza per le sue innumerevoli apparizioni televisive (tanto per confermare quanto la figura del pizzaiolo abbia ormai raggiunto la fama tributata agli chef). Dopo lunghi trascorsi all'estero, Capuano concretizzerà il “sogno napoletano”, aperto a pranzo e cena in un locale d'angolo con cinque vetrine e dehors sulla piazza.

I fratelli Salvo sulla Riviera di Chiaia

Tempi più lunghi, e grande attesa, per l'esordio a Napoli centro dei fratelli Salvo, Salvatore e Francesco, che alla guida della pizzeria di famiglia di San Giorgio a Cremano hanno rinsaldato anno dopo anno la propria fama, fatta di mestiere che scorre nel sangue, grande competenza tecnica e servizio puntuale e attento in sala. Una pizza da Tre Spicchi che finalmente replicherà in città, con il respiro di un progetto meditato a lungo, “che segna la crescita mia e di mio fratello non solo come pizzaioli, ma anche come imprenditori, responsabili in tutto e per tutto della nuova apertura, con la nostra società”, racconta a pochi giorni dalla firma del contratto di locazione Salvatore Salvo. Ora si tratterà di sbrigare le pratiche burocratiche - “ci piace lavorare con trasparenza, e in questo caso ci confrontiamo con un edificio storico e vincolato” - e poi cominceranno i lavori di trasformazione di Palazzo Ischitella, affidati allo studio Falconio. La nuova pizzeria dei Salvo, infatti, affaccerà direttamente sulla Riviera di Chiaia, nella zona cerniera tra il lungomare più celebre del Golfo e le vie dello shopping napoletano. Un grande spazio (pressoché gli stessi coperti di San Giorgio, ma distribuiti in modo più articolato) all'interno dello storico palazzo seicentesco, “che per sfarzo faceva concorrenza al Palazzo Reale, tanto che il re chiese di trasformarlo per non vedere oscurato il prestigio della sua residenza”. Oggi l'area è oggetto di una riqualificazione profonda, e molto appetibile per il pubblico che sarà in grado di attrarre: “Studieremo con l'architetto un layout funzionale a esprimere al meglio quel concetto innovativo di pizza che abbiamo perfezionato a San Giorgio. Due le prerogative: supportare la quantità di lavoro e lasciare invariata la qualità. E ci concentreremo ancora di più sul cliente”. L'intenzione è quella di aprire in tempo per l'estate, ma i lavori potrebbero protrarsi più a lungo. Presto sapremo di più.

 

Social Pizza – Milano – Triennale, viale Alemagna, 6 – 0223058245 - https://triennalesocialpizza.com/

Lievito Pizza & Birra – Roma – via Andrea Doria, 16 – 064423842 - fine febbraio

Seu Pizza Illuminati – Roma – via Bargoni, 10-18 – fine febbraio

La Masardona – Napoli – piazza Vittoria, 4 - da marzo

Isabella De Cham pizza fritta – Napoli – via delle Vergini – fine febbraio

Vincenzo Capuano – Napoli – piazza Vittoria, 8-9 – prossimamente

Fratelli Salvo – Napoli – Palazzo Ischitella, Riviera di Chiaia, 270 – estate 2018 – www.salvopizzaioli.it

 

a cura di Livia Montagnoli

In apertura la pizza dei Fratelli Salvo

Eat Well and Stay Well. Il programma di LSDM 2018 a Paestum, con oltre 50 chef dal mondo

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Parterre delle grandi occasioni per l'undicesima edizione del congresso dedicato alla cucina d'autore ideato da Barbara Guerra e Albert Sapere. Protagonista sul palco la Dieta Mediterranea, con i cuochi chiamati a rappresentare la sensibilità alimentare e ambientale di uno chef moderno. Relatori in arrivo da tutta Italia e dal mondo per la due giorni del Savoy Beach Hotel del 23 e 24 maggio.   

LSDM. Undicesima edizione

Preceduto dal Manifesto del cuoco moderno redatto per attualizzare i dettami della Dieta Mediterranea e metterne in luce valori sempre attuali, anche a distanza di oltre 50 anni dalle teorizzazioni di Ancel Keys, ecco il programma della prossima edizione di LSDM in quel di Paestum, ospiti del Savoy Beach Hotel. Ormai alle spalle la boa del decimo anniversario, la manifestazione nata per valorizzare la cultura gastronomica campana (all’epoca si chiamava Le Strade della Mozzarella) rivendica una maturità che la colloca, senza dubbio, tra gli appuntamenti di approfondimento più interessanti della scena nazionale e internazionale di settore. E il parterre degli ospiti in arrivo da tutto il mondo, sempre più numerosi, non fa che confermare la crescita del congresso ideato da Barbara Guerra Albert Sapere, opportunità di confronto e dialogo tra chef e artigiani chiamati a raccontare il proprio territorio. Eat well and stay well è il tema protagonista dell'undicesima edizione, in programma il 23 e 24 maggio, che vedrà la partecipazione di oltre 50 cuochi in arrivo da Turchia, Russia, Thailandia, Francia, Slovenia, Spagna, Germania, Stati Uniti, Germania, Austria, Svezia, Portogallo. Oltre che dall'Italia, con il contributo di una nutrita compagine in rappresentanza della cucina d'autore nazionale.

 

La Dieta Mediterranea. Il territorio e il confronto

Si parlerà, dunque, di sensibilità alimentare e ambientale, requisiti imprescindibili del cuoco moderno che voglia conciliare il gusto, il benessere e la sostenibilità, a tutto vantaggio del commensale, ma pure della comunità che lo circonda e del proprio territorio di riferimento. Prerogative che si traducono in grande padronanza tecnica e apertura mentale, così da valorizzare i piccoli artigiani e le tradizioni gastronomiche locali e proiettarsi al contempo nel mondo della ristorazione contemporanea, senza rifuggire l'innovazione tecnologica né le suggestioni in arrivo da lontano, sempre pronti al confronto con le campane internazionali. Proprio al confronto tra colleghi, nel consueto clima di condivisione e convivialità che caratterizza il congresso, complice la piacevolezza del contesto e la generosità – di prodotti, tradizioni, panorami - del territorio cilentano, saranno votati gli interventi in calendario sui palchi della Sala Rossa e della Sala Blu.

 

Gli chef

I relatori, come dicevamo, sono quelli delle grandi occasioni: Angelo Sabatelli, Heinz Beck, Salvatore Tassa, Francesco Sposito, Agostino Iacobucci, Andrea Aprea, Lorenzo Cogo, Corrado Assenza, Roberto Petza, Rosanna Marziale, Peppe Guida, Alba Esteve Ruiz, Fabiana Scarica. E, dall'estero, Daniel Berlin, Joshua Pinsky, Philip Rachinger, José Avillez, Aylin Yazicioglu, Mauro Colagreco, Sergio Bastard, Fina Puigdevall, Ana Ros, Tim Butler, i moscoviti gemelliBerezutskiy super protagonisti del numero di marzo del Gambero Rosso mensile in edicola,Mateu Casanas, Oriol Castro, Eduard Xatruch. E poi i pizzaioli Franco Pepe, Simone Padoan, Gino Sorbillo, Enzo Coccia, Francesco e Salvatore Salvo, con i colleghi americani Jonathan Goldsmith e Matthew Kenney. Ampliando lo sguardo agli appuntamenti collaterali ospitati dal Taste Club, dove il calendario degli Atelier promuove i prodotti d'eccellenza della Penisola (dalla pasta al pomodoro, alla birra e all'aceto, tutt'intorno alla regina mozzarella di bufala campana Dop), il carnet degli ospiti è altrettanto nutrito e di alto profilo. Tra gli altri, Cristian Torsiello (fresco di trasloco a Paestum, con la sua Osteria Arbustico), Errico Recanati, Domenico Stile, Paolo Gramaglia, Pasquale e Gaetano Torrente, Viviana Varese, Marco Stabile, Alfonso Caputo. Un'occasione in più per celebrare (in grande stile) la dieta mediterranea e quel che ha seminato nel mondo nell'anno nazionale del cibo italiano.

Il programma di LSDM

 

a cura di Livia Montagnoli

foto di Donato Gasparro  (Melanzana arrosto di Angelo Sabatelli)

Ego, eno gastro orbite. A Lecce il primo festival della formazione enogastronomica

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Sempre più alta l'attenzione sul tema della formazione in campo enogastronomico. A tale proposito, a Lecce arriva Ego, prima manifestazione dedicata all'educazione dei futuri esperti del settore.

L'evento

Si chiama Ego, eno gastro orbite, ed è il primo evento dedicato interamente alla formazione enogastronomica, in scena a Lecce il prossimo 20 febbraio all'hotel Leone di Messapia. Un festival nato per sottolineare l'importanza della formazione professionale di figure strategiche per il successo dell'industria della ristorazione, con il contributo di chef d'alta cucina, professionisti di sala, esperti di comunicazione e marketing, giornalisti e degustatori. Un gruppo di operatori del settore uniti per valorizzare l'aspetto educativo del settore a livello nazionale. Fra gli ospiti, Martino Ruggieri, pugliese d'origine ma parigino d'adozione ormai da diversi anni, vincitore dell'edizione italiana del Bocuse d'Or e candidato a rappresentare l'Italia alla finale europea dell'11 e 12 giugno prossimi a Torino. A organizzare la manifestazione, il Programma Sviluppo, ente formativo coordinato da Silvio Busico, che spiega: “Abbiamo chiesto allo chef Ruggieri di tornare nella sua terra per raccontare la sua esperienza, diventando emblema di una generazione che con i sacrifici e la passione ha dimostrato che si possono raggiungere risultati ambiziosi”.Obiettivo dell'evento? Offrire un'opportunità“di crescita, approfondimento e stimolo per i più giovani. Ego concentra in un unico momento formativo quegli elementi che consideriamo indispensabili per il progresso del territorio. E lo fa riportando a casa chi oggi si appresta a rappresentare l’Italia in quelle che sono considerate le olimpiadi della cucina”.

Il programma

Un programma articolato e fitto di appuntamenti, fra laboratori, dibattiti e seminari, ma anche cookingshow organizzati in partnership con Chic, Charming Italian Chef, che prevedono la partecipazione di chef del calibro di Paolo Barrale (Marennà), Cristian Torsiello (Osteria Arbustico), Salvatore Tassa (Le Colline Ciociare). Pronti a salire sul palco di Ego per parlare di prodotti tipici, territori, biodiversità, e il recupero dei sapori di una volta, toccando temi caldi come la stagionalità e la sostenibilità. E poi l'incontro con Ruggieri, presentato da Antonio Scuteri, responsabile di Repubblica Sapori, durante il quale lo chef ricostruirà il suo percorso da studente dell'istituto alberghiero a grande professionista della cucina. Ma il successo di un ristorante di livello - si sa - è determinato anche dal servizio di sala, tassello imprescindibile per la riuscita di un'esperienza gastronomica di qualità. Saranno Giovanni Sinesi, sommelier del ristorante Reale, Ramona Raganini di Andreina a Loreto, e Antonello Magistà del Pashà di Conversano (con l’impronta segnata da Noi di Sala), a raccontare la loro esperienza decennale ai visitatori.

Non può mancare, poi, un focus sul vino: Fabio Giavedoni,responsabile nazionale di Slow Wine, spiegherà al pubblico come costruire una buona carta dei vini ampia e completa, mentre sul fronte dell'arte bianca, a soli due mesi dal riconoscimento dell'arte del pizzaiuolo napoletano come patrimonio immateriale dell'Unesco, sarà il giornalista Luciano Pignataro a condurre il dibattito sul ruolo della pizza, ripercorrendone origini e evoluzioni. Spazio, infine, al mondo della comunicazione, con la sessione dedicata all'informazione ai tempi dei social network, un seminario tenuto da Alberto Bloise di Cultivar Agency e il giornalista gastronomico Guido Barendson, che racconteranno il loro punto di vista sulla buona comunicazione di un'attività ristorativa.

La Puglia a Ego

Il festival salentino, poi, non può esimersi da un focus speciale sulla Puglia da bere e da mangiare. deGustoSalento, associazione di promozione del Negroamaro, allestirà per l'occasione una tavola rotonda per discutere e confrontarsi sul futuro di questo vitigno, con una degustazione alla cieca di 30 etichette. Via libera anche a tutte le specialità gastronomiche del territorio, con i bachi d'assaggio di prodotti tipici di aziende selezionate, dai formaggi ai salumi, dal pane alla pasta.

Ego, eno gastro orbite – Lecce – Hotel Leone di Messapia – 20 febbraio 2018 - www.facebook.com/events/142109403130421

a cura di Michela Becchi

foto di copertina di Lido Vannucchi

Carnevale in Piemonte. Le tradizioni di Ivrea, Chivasso e Santhìa

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La battaglia delle arance di Ivrea è ormai famosa in tutto il mondo, ma in Piemonte sono diverse le tradizioni folcloriste che animano le cittadine in occasione del Carnevale, dal primo all'ultimo giorno, ecco feste e prodotti tipici regionali.

Ivrea: la battaglia delle arance

Una delle celebrazioni più caratteristiche di tutta Italia, che da anni richiama visitatori e turisti da ogni luogo, è il Carnevale di Ivrea, antica cittadina fondata attorno al V secolo a.C. dai salassi e che ancora oggi mantiene inalterato il suo spirito originario, fra tradizioni popolari e usanze del passato. Un luogo che vanta una delle feste più curiose della Penisola: la famosa battaglia delle arance, un appuntamento che va avanti dal Duecento. All'origine di questa insolita tradizione, il gesto di ribellione da parte di un mugnaio. La leggenda narra, infatti, che l'uomo innescò una rivolta popolare contro un signore tirannico della zona che voleva passare una notte con la figlia già promessa in sposa. L'episodio, però, fu solo un pretesto per scatenare quel moto di ribellione che era già da tempo in fermento fra gli animi della comunità. La battaglia delle arance rappresenta, dunque, la lotta al potere, alla tirannia feudale, simboleggiata dai tiratori di cartapesta sui carri. In principio, in realtà, venivano usate le mele, scelte per rappresentare la testa caduta del barone, ma furono presto sostituite con gli agrumi per motivi ancora oggi sconosciuti. Per l'occasione ogni anno vengono importate circa 600 tonnellate di arance dalla Calabria.

 

battaglia arance

Gli appuntamenti e le regole

Si comincia il sabato di Carnevale, con le Feste degli Aranceri nelle piazze cittadine e la Marcia del Corteo Storico, la fiaccolata delle squadre di aranceri a piedi in Lungo Dora. Ma è la domenica la giornata di inizio ufficiale della battaglia, una lotta fra 9 nove squadre che continua fino al giorno successivo, concludendosi la sera con la premiazione dei gareggianti e dei carri migliori. Una sfida molto sentita, vissuta con lo spirito e il coinvolgimento di un tempo, e che per questo richiede la massima cautela da parte dei visitatori: obbligatorio, infatti, l'uso del berretto frigio, elemento tradizionale pensato per riparare la testa da eventuali colpi. Ma le regole non finiscono qui: vietato, ovviamente, tirare le arance ai cavalli, così come ai tiratori senza maschera, e negato l'accesso ai passeggini. Lotte a parte, non mancano, poi, maschere, parete e carri allegorici: figure protagoniste qui sono la Mugnaia e il Generale, ma anche Podestà, Sostituto Gran Cancelliere, Pifferi e Tamburi.

 

Pifferi

Le specialità di Ivrea

Le arance vengono dalla Calabria, le specialità da acquistare agli stand sparsi in giro per la cittadina sono quelle tipiche del territorio. Frittelle, chiacchiere, castagnole, ma anche biscotti tradizionali del Canavese e della Val di Susa, come i canestrelli, antica preparazione medioevale, un tempo riservata alle occasioni speciali. Presenti, inoltre, anche i friciò, tipici dolcetti di Carnevale diffusi in tutto il Piemonte, simili alle castagnole ma ripieni di uvetta.

 

Canestrelli

Chivasso: l'Abba' e la Società degli Stolti

Comincia attorno alla metà del XV secolo la tradizione del Carnevale di Chivasso, una festa che negli anni ha subìto diverse trasformazioni, evolvendosi e cambiando pelle più volte. Figura centrale è la Bela Tolera, regina simbolo della realtà economica e sociale della città, una maschera nata nel 1905 e da allora protagonista assoluta del Carnevale. Da quel momento, la manifestazione si è sviluppata in maniera sempre più articolata anno dopo anno, fino a giungere all'organizzazione impeccabile di oggi. A coordinare le celebrazioni in passato era la Confraternita o Società degli Stolti, presieduta da un mecenate di nome Abbà, figura leggendaria che, stando ai racconti popolari, imponeva ai cittadini le tasse più curiose per coprire le spese per i divertimenti. Nel 1434, dopo svariati tentativi da parte del popolo di far sciogliere la società, i membri iniziarono a cambiare abitudini, e la festa assunse un carattere più sobrio. L'Abbà divenne patrocinatore del Carnevale. Oggi è il Re della festa, e viene portato in processione la domenica che precede il Martedì grasso insieme alla Bela Tolera. Detto anche il “Carnevalone”, il festival di Chivasso comincia il giorno dell'Epifania, e prevede una serie di appuntamenti divertenti, fra balli, danze, sfilate, spettacoli, concerti, gare, trofei e mostre. Dall'incoronazione della Bella Tolera al rogo finale dell'Abba', seguito dalle parate di carri allegorici con maschere in cartapesta, il programma si fa ogni anno più intenso e prevede, naturalmente, anche una schiera assortita di banchi di gastronomia.

Le specialità di Chivasso

Formaggi, in particolare tomini a latte vaccino o caprino freschi o stagionati, salame di patate, lardo rustico, mocetta, cioccolata e poi tutto il comparto di pasticceria secca: la tavola di questa zona è ricca di profumi e sapori diversi, frutto delle tradizioni d'alpeggio di alta montagna.

 

salame patate

A fare la parte del leone sul fronte dolce, i nocciolini di Chivasso (nome originale noisette, nocciole in francese, oppure noasèt, in piemontese), biscotti nati dalla fantasia del pasticcere Giovanni Podio, ma che devono la loro fortuna al lavoro del genero Ernesto Nazzaro, che nel 1900 li portò all’Esposizione Universale di Parigi, facendoli conoscere anche oltre confine nazionale. I dolcetti a base di nocciole, albumi e zucchero ebbero un tale successo che nel 1904 Nazzaro ottenne il brevetto col marchio di fabbrica dal Ministero del Commercio del Regno d'Italia. La fama si diffuse in maniera ancora più capillare in seguito, quando Vittorio Emanuele III di Savoia fece di Nazzaro il fornitore della Real Casa. Molto popolari, poi, anche le paste di Meliga (paste ‘d meliain piemontese), nate – secondo la leggenda – in seguito a un cattivo raccolto che avrebbe fatto salire alle stelle il prezzo del frumento e costretto così i fornai a mescolare la farina 00 con il frumento di mais.

 

paste di meliga

Santhìa: Stevulin 'dla Plisera e Majutin dal Pampardù

Da qualunque zona lo si intraprenda, il percorso fino a Santhìa, piccolo borgo attraversato dall'antica Viae Longae romana, è tutto punteggiato di vigneti. Una serie di stradine di campagna immerse nel verde che preannunciano l'atmosfera rilassata e genuina che si respira in città. Qui, le origini della festa si perdono nella notte dei tempi, anche se il primo documento scritto risale al 1318: a recuperarlo, lo storico santhiatese Aguzzi, che nei suoi libri riporta gli stralci di un testo in cui veniva citata l'”Abbadia”, una sorta di associazione giovanile laica che si occupava di organizzare balli e spettacoli in occasione del Carnevale. Quella di Santhìa, infatti, non è solo la più antica tradizione del Piemonte, ma una delle prime mai celebrate in Italia. Padroni della città dei giorni di festa sono Stevulin 'dla Plisera e Majutin dal Pampardù, due figure che rappresentano dei contadini che, giunti nel comune per la luna di miele secoli fa, ricevettero come dono di nozze le chiavi della città per ben tre giorni, proprio nel periodo pre-quaresimale. Ogni anno, i due novelli sposi vengono impersonati da una coppia diversa, che il martedì precedente al Martedì grasso viene presentata ufficialmente si prepara a indossare cappello (caplin), grembiule (scusal), scialle (mantlin-a), spillone per capelli (spunciun), passeggiando per la città con una cesta di vimini (cavagna) e un ombrello (umbrela). La festa è ricca di appuntamenti, tra cui la sfilata dei maiali, nata per simboleggiare la preparazione dei salumi per la tradizionale fagiolata del Lunedì grasso, giornata che si apre con la Sveglia, una ballata intonata dalla maschera Tamburi di buon mattino, e il rogo finale del pupazzo di cartapesta Babaciu, simbolo del divertimento sfrenato e della sregolatezza.

Le specialità di Santhìa

Da qualche anno a questa parte, poi, si è iniziato a festeggiare anche il Giobia Grass, il Giovedì grasso, con banchi d'assaggio, apette e stand gastronomici allestiti lungo la via principale del borgo. Via libera, dunque, a vin brulé, panissa (risotto con fagioli, vino rosso, cipolla, lardo e salame della duia, insaccato tipico di Novara), la classica mula santhiatese, salume consumato cotto, prodotto con una miscela di carni di maiale, dal lardo alla lingua, carpe in carpione e il tradizionale antipasto piemontese. Fra i dolci, sono molto popolari i bicciolani di Vercelli, biscotti ispirati a una celebre maschera del Carnevale di Vercelli, così gustosi da essere proclamati da Casa Savoia nel 1903 “patrimonio unico e irrinunciabile della tradizione cultural-gastronomica piemontese”.

 

bicciolani vercelli

Alla base di questa specialità, farina bianca, burro, zucchero, uova e una miscela di spezie: chiodi di garofano, cannella, cardamomo, coriandolo, pepe bianco e pepe nero.

a cura di Michela Becchi

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