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I formaggi? In vendita come i frigo: per classi di merito

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Potremo comprare formaggi classificati non solo per genere ma anche per qualità del prodotto? È la proposta di Roberto Rubino, il guru del latte crudo. Che lancia la sua proposta per combattere la crisi del settore.

I formaggi? Come frigoriferi e lavatrici: venduti a prezzi variabili in base alle classi di merito, A+, A++, A++”.Sembra una battuta, ma è la proposta provocatoria e rivoluzionaria al tempo stesso, di uno dei guru dei formaggi di qualità (ovviamente a latte crudo): Roberto Rubino, presidente di Anfosc (Associazione formaggi sotto il cielo). Le considerazioni di Rubino, ricercatore da poco in pensione del CRA (l’ente pubblico di ricerca e analisi in agricoltura ed economia agraria) e pasdaran del latte crudo nonché ideatore del progetto Latte Nobile, partono dall’analisi della crisi che sta uccidendo gli allevatori e sta stritolando il prezzo del latte e propone strade simili a quelle percorse dal vino da 30 anni: prezzi variabili in base alla qualità. “La crisi dell’allevamento della vacca (e della bufala) da latte si va facendo sempre più drammatica” spiega“i magazzini di stagionatura dei formaggi sono strapieni, i prezzi sono in continua discesa ma, soprattutto, all’orizzonte non s’intravvede alcuna proposta concreta che possa portare il settore lontano dalle ipotesi di chiusure delle aziende”.


E chi ne ha colpa?
La colpa viene sempre attribuita ai politici, le richieste riguardano solo finanziamenti a sostegno, nessuno che incominci dal proprio orticello a cambiare metodo e modello.

 

Allora, partiamo dalle cause…

Le attività chiudono, ma non a causa – come spesso si dice – dei costi di produzione, strutturalmente più alti in Italia, altrimenti non si spiega perché chiudono anche in Francia, Olanda e Germania, ma anche quelle dell’Est, in cui il prezzo di produzione del latte è la metà del nostro.

 

E quindi? Perché la crisi?
La produzione di latte, nonostante le quote presenti in molti paesi, aumenta ogni anno più dell’aumento dei consumi. E poiché sappiamo che la domanda di cibo è anelastica, sia rispetto al prezzo che al reddito, il suo consumo è strettamente legato alle esigenze nutritive quotidiane, allora questo eccesso di produzione provoca naturalmente delle oscillazioni di prezzo, soprattutto nei periodi favorevoli alla produzione. Solo quando ci sono fenomeni naturali sfavorevoli come siccità o alluvioni nei paesi a forte produzione lattiera i prezzi salgono.

 

Insomma, dobbiamo sperare nei disastri climatici?
Gli effetti delle condizioni climatiche vengono esaltati dal fatto che il latte è considerato una commodity: c’è il prezzo mondiale, poi quello europeo, poi quello nazionale e, infine, quello regionale. È un po’ quello che succede nel mondo della cerealicoltura e del petrolio. Quando la produzione aumenta, il prezzo diminuisce. Allora o abbassiamo le produzioni, come spesso fa l’OPEC, oppure usciamo dalla logica della commodity, abbandoniamo quella che sembra un’ancora di salvezza ma che invece è la causa della nostra morte: il prezzo unico. Per andare verso una differenziazione dei prezzi, e chiaramente della qualità: che è ciò che avviene nel mondo del vino.

 

Tutti parlano di qualità, ma cos’è la qualità nel regno dei formaggi e del latte?
Partiamo da un esempio: la ricotta. Oggi la gran parte delle aziende aggiunge panna perché altrimenti questo formaggio sarebbe immangiabile. La qualità è scesa talmente di livello che un formaggio delicato e spettacolare come la ricotta o si fa con un buon latte oppure bisogna ricorre alle alchimie. Lo stesso dicasi per il burro. Certo, si potrebbe dire che negli ultimi due decenni si è parlato molto di qualità, che c’è persino una legge ad hoc (la 169/89), che c’è un premio in relazione al grasso, alle proteine, alla carica batterica e alle cellule somatiche. Ma grasso e proteine sono parametri quantitativi, servono a produrre più formaggio non un formaggio migliore. I vari tipi di burro sono diversi, e molto, nonostante che la percentuale di grasso sia sempre la stessa; la struttura dei formaggi può avere un’influenza sulla qualità solo quando provoca un palese difetto. La qualità è profumi, aromi, sapori e valori nutrizionali che niente hanno a che fare con grasso e proteine. O la relazione è talmente modesta che si può trascurare.


Quindi, esiste una differenza nella qualità: non corrisponde a prezzi diversi?
No. la materia prima ha sempre lo stesso costo. A Tolmezzo ho trovato uno strepitoso Montasio di alpeggio in vendita a 14 euro il chilo: più o meno come un formaggio da latte di stalla qualunque! È questo che non è possibile! Perché non esistono formaggi prestigiosi a prezzi alti? È possibile che chi compra una bottiglia di Champagne, spendendo cifre alte, non possa avere il piacere di pagare e di gustare un formaggio di pari livello?


Ma come stabilire il giusto prezzo? Chi deve farlo?

L’ideale sarebbe emulare quello che fanno i produttori di vino: ogni bottiglia ha il suo prezzo, ogni azienda non produce un solo tipo di vino. E il prezzo non è legato alla tipologia, al marchio comunitario. Si può comprare una bottiglia di Barolo con 10 euro ma anche con 200. Invece nel settore caseario le DOP sono diventate il problema: tutti i formaggi sono uguali e quindi i prezzi devono essere simili, al massimo diversi per stagionatura. Altro non c’è.

 

E quindi? Come fissare un prezzo?

Possiamo incominciare a differenziare i prezzi in base alla qualità del latte che esiste e che, ormai, sappiamo misurare. Ecco la mia proposta della Classi di qualità. Perché la qualità del formaggio dipende, soprattutto, dall’alimentazione dell’animale; poi, ma molto meno, dalla tecnica di produzione e infine dalla stagionatura.


Allora, andiamo a vedere come fissare queste classi, in base a cosa…
Oggi sappiamo che le molecole aromatiche e quelle che hanno valore nutrizionale, che ritroviamo o possiamo ritrovare nel latte, dipendono quasi esclusivamente dalle erbe che gli animali mangiano. Ogni erba apporta un contributo diverso di terpeni, polifenoli, flavonoidi, alcoli, chetoni, omega3, omega 6, vitamine antiossidanti. Quindi più erba mangia l’animale e, soprattutto, più erbe sono contenute nella razione, e più il latte presenta una complessità aromatica e nutrizionale importante. Nel mondo, due sono i sistemi di alimentazione che pesano e determinano la qualità: quello stallino e quello al pascolo. Lo stesso animale produce un latte molto diverso a seconda se va in alpeggio, o sui pascoli aziendali, o se è alla stalla e si nutre piuttosto che con l’erba fresca, con la stessa erba ma affienata: il taglio, il sole, il vento accelerano infatti la volatilità di molte molecole aromatiche e di quelle termosensibili. Per cui: più l’alimentazione è a base di pascoli ricchi di diverse essenze o di fieno derivato dal taglio di quei ricchi pascoli (il latte nobile prevede come standard almeno il 70% di fieno con oltre 6 diverse essenze) e più alta sarà la qualità del latte. Più ci si allontana da questo standard, più bassa sarà la qualità del latte e dei formaggi che ne derivano.

 

E la tecnica?

Poi, chiaramente, sul fronte della tecnica, la pastorizzazione e la termizzazione uccidono la diversità e le sostanze nutrienti termolabili: quindi latte crudo uguale più qualità. E sempre la qualità scende di moltissimo quando si usano per caseificare i fermenti lattici e l’acido citrico: i primi (ridotti quasi a un solo tipo) uccidono la biodiversità a scapito delle difese immunitarie umane; il secondo permette di filare la pasta (ad esempio nella mozzarella) anche in assenza di flora lattica (e da qui il caso delle mozzarelle blu, da pseudomonas).

 

E la stagionatura? Perché non significa qualità?

In realtà lo è, o lo sarebbe. Nei vini la regola condivisa è che s’invecchiano solo vini prodotti da uve di grande livello: quelli che possono migliorare e non peggiorare! Nel mondo del latte invece la stagionatura prescinde dalla qualità del latte: si invecchiano persino formaggi prodotti con il latte di Alta Qualità (per intenderci, quello dei sistemi intensivi, ovvero con pochissimi o zero nutrienti oltre a grassi e proteine).

Poi, certo, c’è chi, partendo da formaggi ben selezionati, si dedica con particolare cura all’affinamento esaltando le potenzialità di quel formaggio o arrivando addirittura a stravolgerne le caratteristiche fisico-chimiche pervenendo a un formaggio diverso nell’aspetto e nel sapore… Al momento quindi in Italia la stagionatura è un valore non generalizzabile ma che va tenuto in considerazione di volta in volta, in relazione alla personalità dell’affinatore

 

Dunque: stabiliamo e fissiamo le Classi di qualità dei formaggi!

Allora, Classe A per gli animali al pascolo; classe A1 per gli animali al pascolo senza integrazione alimentare, A2 quando l’integrazione di concentrati è al massimo il 30% della razione; A3 per gli animali su pascoli monofiti e con integrazione di concentrati oltre il 30%. Poi ci sono le classi B per gli animali allevati in stalla e con sistemi intensivi: la B1 con alimentazione senza insilati, con fieno di prati polifiti e rapporto foraggi/concentrati 70/30; la B2 con alimentazione senza insilati, con fieno polifita e rapporto foraggi /concentrati intorno al 50/50; la B3 – la peggiore – con alimentazione da silo-mais e concentrati a volontà.

 

Solo questo?

No, alla Classe del latte si possono aggiungere dei + in relazione alla tecnica di produzione. Se il formaggio è a latte crudo, per esempio di classe A1, si indicherebbe A1+, se il latte è pastorizzato si aggiunge zero; se fosse con fermenti avrebbe 0 e se senza fermenti +. Quindi un formaggio prodotto con animali che hanno mangiato solo erba del pascolo, a latte crudo e senza fermenti avrebbe la classe A1++. Un formaggio di questo tipo avrebbe il massimo del riconoscimento e può sperare in un prezzo pari al suo valore, perché il consumatore sa che si trova di fronte il testimonial di un modello e di pratiche che meritano rispetto e valore.

 

Ma chi ha deciso – e come – queste classi di merito?

Beh, la spiegazione sarebbe davvero molto lunga: si tratta comunque del risultato di decine e decine di studi effettuati sia sugli animali che sulle tecniche di produzione e ovviamente sugli umani. Ma su queste caratteristiche c’è accordo in sede scientifica e universitaria.

 

E chi dovrebbe applicare queste classi qualitative e conseguentemente prezzi diversi?

Chi può far scattare immediatamente il meccanismo sono i negozi: le gastronomie e alcuni distributori, soprattutto quelli plurimarche, con un ventaglio importante di varietà casearie. Per esempio, un grande selezionatore e distributore come Guffanti è particolarmente interessato e intenzionato a far partire questo tipo di modello. Tutti o semplicemente alcuni possono autonomamente o insieme decidere di inserire ciascun formaggio all’interno di una classe di qualità: i parametri da utilizzare sono semplici da acquisire e da raccontare ai consumatori. Ormai c’è una vasta bibliografia sul ruolo delle erbe nella formazione degli aromi e del valore nutrizionale. In sostanza, non ci sarà più il gruppo dei caciocavalli o delle mozzarelle o dei blu: ci sarà il gruppo delle classi A1++, delle classi B1, di quelle B3. Perché in queste classi è il vero valore del formaggio, non nelle tipologie. Almeno finora.

 

Non ci sarà confusione per i consumatori?

Oggi il consumatore vuole disporre di quelle parole chiavi che gli possono permettere di cogliere la qualità e il suo livello, perché vuole essere libero di scegliere. Le classi di qualità non solo forniscono queste chiavi, perché sono state formulate in base a risultati scientifici seri, ma danno il modo anche di percepire la distanza fra le classi.

 

E chi controlla il tutto?
La legge italiana e comunitaria sul commercio dice che sull’etichetta non si deve dichiarare il falso. Ed è ammessa l’autocertificazione. È interesse allora del negoziante, anche a prescindere dalla legge, di acquisire le informazioni giuste per poter classificare il formaggio ma anche per avere contezza della qualità e del prezzo che deve pagare. Almeno nella fase di avvio, dovrebbe essere lo stesso negoziante o rivenditore a garantire la corrispondenza fra la classe dichiarata e la tecnica di produzione. E poi ci sono sempre i Nas: se è facile per i commercianti controllare, lo sarà altrettanto per i carabinieri o per i servizi di controllo pubblici!

 

a cura di Stefano Polacchi

 

 


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