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È morto Beppe “Citrico” Rinaldi, filosofo del Barolo

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Il ricordo di chi Beppe Rinaldi, grande personaggio del vino italiano scomparso qualche ora fa dopo una malattia feroce, lo conosceva bene. L'omaggio a Citrico nelle parole di Vittorio Manganelli. 

 

La sua vera passione era parlare con la gente. Non come ripetitivo passatempo ma per cogliere, da ogni discorso, qualche aspetto che lo aiutasse a capire abitudini, mentalità, speranze e frustrazioni dell’umanità che incrociava, per cercare di arricchire la propria visione del mondo e per trovare nuove riflessioni da distribuire ai sempre più numerosi visitatori della sua bella casa di Barolo, studenti o giornalisti che fossero.

Amava definirsi anarchico, ma in realtà non lo era affatto, sempre impegnato com’era nel cercare di capire i problemi della sua comunità, intesa come somma di persone che nelle Langhe vivono e operano producendo vino oppure pane. E sempre impegnato nel proporre soluzioni, che riguardassero l’amministrazione comunale o l’aumento della produzione di Barolo.

Le immagini più belle che abbiamo di lui sono quelle in cui, attorniato da libri e ritagli di giornali, preparava i suoi interventi per le riunioni del Consorzio del Barolo, con pagine e pagine scritte rigorosamente a mano per contestare qualche scelta scellerata ma anche, sempre, per proporre una sua personale visione del problema.

Si era trovato, suo malgrado, a essere uno dei più ricercati intellettuali di Langa, lui che aborriva questo termine e che preferiva gli esempi concreti e i progetti alle vane elucubrazioni. Era di certo un grande e poliedrico lettore, che intercalava la consultazione delle delibere del consiglio comunale con divertiti commenti sulle Bucoliche di Virgilio, alla ricerca sempre di una classicità che si potesse tradurre in un modo di vivere in piena sintonia con la natura.

In questo senso rifiutava telefonini e computer, come pure le barrique, visti come strumenti colpevoli di portare a un’inutile velocizzazione di quelli che sono i ritmi naturali delle persone, e dei vini. E niente grandi ristoranti, molto meglio due pomodori del proprio orto oppure l’ultima semplice trattoria sopravvissuta al dilagante e snaturante turismo enologico. E niente ricerca di maggiori ricchezze, sapendo che dai suoi pochi ettari si potevano ricavare i mezzi per una vita più che dignitosa e che quindi non era il caso di aumentare i vigneti o il prezzo delle bottiglie.

In tavola, con un piatto di pasta e qualche verdura, metteva i suoi vini più semplici, convinto com’era che una Freisa o un Dolcetto fossero ideali compagni di vivande e che la continua ricerca di nuove etichette e di nuovi assaggi fosse adatta agli enomaniaci, non a chi vede il vino come sereno e naturale completamento della tavola.

Non era un enologo in senso stretto, anche se era un buon esperto di vinificazione, sicuro com’era che “tanto il Barolo la malolattica prima o poi la fa” e che non servivano astruserie in cantina, dove i legni grandi e il trascorrere del tempo dovevano restare gli elementi determinanti. I suoi vini nascevano da quest’impostazione, spesso buonissimi e a volte problematici o scontrosi, forti di un’aura di naturalità e di purezza che ha conquistato schiere di ammiratori in ogni dove.

Tra tutte le immagini di Citrico che vedremo in questi giorni tristi, non dimentichiamo di cogliere il suo sguardo acuto, a volte canzonatorio e a volte preoccupato, sempre alla ricerca di qualche elemento che potesse far vivere con felicità e armonia gli abitanti, vecchi e nuovi, delle sue amatissime Langhe.

 

a cura di Vittorio Manganelli


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