Scegliere bene non è solo una questione di gusto e sicurezza alimentare a tavola, ma soprattutto una responsabilità etica, di fronte al proliferare del lavoro nero, delle mafie alimentari, dello sfruttamento dei braccianti agricoli. Chi può aiutarci a farlo.
Il (tragico) punto di partenza lo fornisce il rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto: in Italia sono 100mila i braccianti agricoli che vivono in condizioni disumane, lavorano fino a 12 ore al giorno, sotto al sole, per una paga media di 3 euro all’ora. Non certo una novità per chi monitora una piaga fondata sul ricatto lavorativo che nel 2016 il Governo Renzi cercava di arginare con una legge evidentemente non sufficiente – almeno non in mancanza di controlli adeguati – a stroncare il fenomeno. E allora ogni estate il dibattito si infiamma, mentre la storia dello sfruttamento dei bracciati agricoli, immigrati e non solo, si ripete con quelle stesse dinamiche che fanno gridare allo scandalo, ma solo per pochi giorni, settimane, prima che la coscienza collettiva torni stancamente a chiudere un occhio (pure due) sulla realtà dei fatti. Il caso di Lesina (provincia di Foggia), che qualche giorno fa ha portato 12 braccianti a morire di ritorno dalla raccolta di pomodori a Rignano Garganico tra le fiamme del furgoncino che regolarmente li caricava ogni mattina – dietro compenso - per portarli nei campi, ha riacceso l’indignazione, costringendo tutti a prestare attenzione (altre 4 persone erano morte, in modo analogo, solo un paio di giorni prima).
Gli ostacoli per la filiera. Le pratiche sleali, il lavoro nero
Così hanno parlato gli esponenti di Governo, con il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte deciso a prendere provvedimenti per ripristinare la dignità umana dimenticata in molte campagne d’Italia. E pure le aziende direttamente coinvolte, chiamate a negare la complicità con un sistema che favorisce il caporalato come strada più semplice per abbassare i prezzi, e restare competitivi su un mercato agguerrito e feroce come quello del pomodoro, che le aste al doppio ribasso della Gdo influenzano in modo lampante (al vaglio in Parlamento Europeo la possibilità di includerle tra le pratiche sleali nella filiera alimentare). È solo di qualche settimana fa il caso Eurospin denunciato dal reportage dell’Internazionale, che trascrive i dati nero su bianco: per 20 milioni di bottiglie di passata di pomodoro da 700 grammi ciascuna, la catena di discount riesce a spuntare il prezzo – indegno - di 31,5 centesimi al pezzo. Ne risente l’intera filiera, costretta ad abbassare il costo del lavoro, ricorrendo spesso a escamotage illeciti, come lo sfruttamento dei braccianti; ne beneficiano i consumatori - dirà qualcuno - che sugli scaffali del supermercato spuntano l’offerta più conveniente, poco consapevoli (o indifferenti?) di quanto quella scelta pesi in termini di sicurezza alimentare e doveri morali. Ma allora la colpa è tutta del consumatore? Ricordando che non cadere nel tranello dei prezzi al ribasso è la prima regola per schivare il cibo scadente (ed è pure un atto di responsabilità necessario se non vogliamo solo far finta di indignarci per placare il senso di colpa), sembra assolutamente necessario che gli attori che operano sul mercato e le leggi delle Stato agiscano per semplificare la comunicazione da un lato e intensificare i controlli dall’altro.
L’etichetta trasparente. Qual è il prezzo di origine?
Del resto la pratica del caporalato si nutre del proliferare del lavoro nero e l’incremento delle visite d’ispezione alle aziende agricole è il primo passo per fiaccare il fronte dell’illecito: i numeri del fenomeno, che coinvolge la filiera a Sud come nel Nord Italia, pur con dinamiche diverse, li declina nel dettaglio una recente analisi del Sole 24 Ore. Ma c’è bisogno anche di strumenti che aiutino il consumatore a scegliere con consapevolezza, fermo restando il primo campanello d’allarme legato al sottocosto. Il pomodoro in vendita sugli scaffali deve essere completamente tracciabile, sostiene Slow Food, proponendo l’obbligatorietà del prezzo di origine - cioè quanto il prodotto è stato pagato al contadino prima di intraprendere il suo percorso di trasformazione, imballaggio, distribuzione – in etichetta. L’obiettivo? Favorire chi lavora in modo etico, nel rispetto dei diritti dell’uomo e del lavoratore (ricordando che il costo del pomodoro è quello che meno incide sulla formulazione del prezzo finale: paghiamo più per il vetro, che per il prodotto). Perché le realtà virtuose, fortunatamente, esistono, ed è importante dargli voce.
Chi lavora bene in Italia
Proprio nell’area del Capitanato di Foggia, la onlus Terra! ha promosso all’inizio di luglio il progetto In campo! Senza caporale, un’iniziativa formativa di ampio respiro per sostenere la filiera trasparente (non solo pomodori), con il supporto di una rete di aziende agricole locali disposte a fare la differenza, trasformando il lavoro dei migranti in una risorsa. Più longeva è l’attività di Funky Tomato (tra Basilicata e Campania), che i braccianti in arrivo da Paesi africani li assume direttamente con contratto regolare, li forma e li mette in contatto con realtà agricole disposte a sottoscrivere un disciplinare etico. Con La Fiammante – storica azienda campana specializzata nella trasformazione del pomodoro, impegnata a sostegno della filiera etica – a giugno scorso Funky Tomato promuoveva la nascita dell’Osservatorio del Pomodoro, chiamando a raccolta tutti gli operatori del comparto per risanare dinamiche produttive e culturali del pomodoro. Ma non è solo la filiera dell’oro rosso italiano ad avere bisogno di ossigeno. E infatti le iniziative anticaporalato si fanno strada anche su altri terreni. Lo sanno bene a Rosarno, in Calabria, dove l’associazione Sos Rosarno opera da molti anni per valorizzare il prodotto principe del territorio, le arance, col il contributo di piccoli produttori locali tagliati fuori dal mercato, ex braccianti sfruttati e gruppi d’acquisto. Più di recente, nel Lazio, il consorzio cooperativo dell’Alto Viterbese si è reso protagonista di una bella iniziativa, spinto dalla necessità di trovare manodopera stagionale per la raccolta delle patate, fiore all’occhiello del comparto agroalimentare locale. In mancanza di italiani disponibili, la cooperativa si è rivolta al centro d’accoglienza Ospita, che nell’area della Tuscia segue 260 richiedenti asilo. Il risultato? Contratto di assunzione regolare per un mese di impiego per 36 di loro, compensati con 64,2 euro al giorno come prevede l’integrativo provinciale degli operai agricoli. Con la possibilità che pure per la semina della prossima stagione molti di loro possano essere confermati. Una storia che chiude il cerchio, nel segno dell’integrazione, della valorizzazione dell’economia locale e della promozione della filiera pulita. Un traguardo decisamente possibile.
a cura di Livia Montagnoli