Classe 1984, Alessandro Mecca è da tre anni lo chef del ristorante della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Spazio 7. Siamo tornati a provare la sua cucina.
Era un caldo luglio del 2015 quando la famiglia Sandretto Re Rebaudengo partì da Torino verso le colline di Villanova d’Asti. Avevano sentito di un giovane chef e volevano conoscerlo per capire se poteva fare al caso loro. Da bravi talent scout e collezionisti d’arte di primissimo piano, i Sandretto Re Rebaudengo dopo la cena capirono di aver trovato quello di cui avevano bisogno e proposero allo chef di trasferirsi nel loro ristorante di Torino. È così che è nata la collaborazione tra il ristorante Spazio 7 e Alessandro Mecca, un incontro che è stato subito felice e che oggi, dopo 3 anni, si rivela più solido che mai.
Emilio Re Rebaudengo
Sarà la giovane età dello staff, da Emilio Re Rebaudengo, figlio di Patrizia Sandretto e manager del ristorante, allo chef Alessandro e la sua brigata, quel che è certo è che le affinità elettive sono il catalizzatore che rendono questa realtà decisamente interessante. Perché il fattore “giovinezza” è il filo conduttore che connette Spazio e le persone: la location, nel quartiere San Paolo di Torino, in un capannone completamente ristrutturato adibito a galleria di arte contemporanea, sede principale della Fondazione Sandretto, che dal 2002 organizza qui esposizioni ed eventi dalla portata mondiale.
Sala espositiva
Gli spazi
Giovinezza che letteralmente rima con consapevolezza, anche nelle scelte di Emilio Re Rebaudengo, che con i suoi 29 anni ha creato una realtà ristorativa dentro la Fondazione, divisa in due aree, la caffetteria al piano terra, per colazioni, light lunch e aperitivi, e Spazio 7, il ristorante al primo piano aperto a cena. Un grande contenitore in cui arte e cibo si incontrano e dialogano in ogni momento e in ogni dettaglio, nei dettagli d’arredo che nei decori e nelle tovagliette all’americana ci ricordano le opere delle sale adiacenti o nelle opere d’arte site specific che abbelliscono gli ambienti del ristorante. Contaminazione, armonia e apertura mentale sono le parole d’ordine che dominano il luogo.
Ma questa contemporaneità in progress, questi spazi che come l’acqua mutano a seconda del contenitore assumendo le forme delle esposizioni che accolgono – a seconda degli artisti che espongono, le sale della Fondazione vengono ampliate o ridotte per meglio adattarsi agli allestimenti – trova il suo contraltare e il suo miglior alleato nella personalità dello chef Alessandro Mecca che ha sostituito Simone Breda.
Carpaccio di vitella
Alessandro Mecca
Classe 1984, è quello che si potrebbe definire un ragazzo d’altri tempi: temperamento timido e riservato, nei suoi modi di antidivo si annida un passato tutto dedito alla cucina. Cresciuto nel ristorante dei genitori, ha vissuto da piccolo la grande epopea di certi ristoranti che correva sul binario parallelo dello sviluppo industriale di Torino, per cui l’immigrazione ha portato con sé un bagaglio culturale e gastronomico.
Ecco che negli anni 60 e 70 a Torino sono fiorite trattorie e osterie i cui nomi ancora oggi echeggiano o continuano a far parlare di sé. Ne sono un esempio Il gatto nero (che ha ottenuto Due Forchette del Gambero Rosso), oppure La Smarrita, ma anche il Crocetta stesso, il ristorante dei genitori originari di Altopascio, nella provincia di Lucca. Alessandro ricorda quando da bambino vedeva arrivare il furgone del macellaio che da Altopascio portava due volte a settimana carne di vacca, salumi e pane sciocco. Cresciuto con il retaggio dell’importanza delle materie prime, lo chef ha sviluppato naturalmente una sensibilità verso il territorio, radicandosi nelle tradizioni piemontesi cui si sente legato in maniera viscerale. Gli anni dell’adolescenza sono stati fondamentali per approfondire la cultura gastronomica piemontese, e per l’opportunità di fare stage in alcuni tra ristoranti storici, come al Sorriso di Soriso, la Ciau del Tornavento di Treiso e la magnifica esperienza con gli Alciati da Guido da Costigliole a Santo Stefano Belbo, di cui ricorda quanto fosse severa la signora Lidia, ma che resta l’insegnamento che ha segnato il passo del suo percorso.
Spazio 7
Dagli stage a Spazio 7
Da sempre appassionato di grande cucina, da piccolo imparava la geografia associando a ogni luogo il ristorante più importante, e si faceva raccontare le esperienze dai clienti dei genitori. Invece di collezionare figurine di calciatori come la maggior parte dei bambini della sua età, Alessandro collezionava guide, testi, ricette e riviste di cucina, con i suoi idoli, Giaccone, Vissani, Pierangelini, Scabin, Chapel. “Ammiro certi chef, in particolare quelli che hanno ottenuto le Due stelle Michelin, è a loro che guardo. Le Tre Stelle sono troppo perfette, mentre le Due sono quelle che preferisco perché racchiudono in sé quell’imperfezione che è elemento tipico dell’essere umano” spiega lo chef “sono le Stelle che definisco imperfette, quelle che hanno quel difetto che le rende umani e quindi geniali, perché l’imperfezione apre una breccia da cui può entrare la luce”.
E dopo sei mesi al D.O.M. di Alex Atala, a San Paolo del Brasile, Alessandro torna nella sua terra e con grande motivazione apre il proprio ristorante a Villanova d’Asti, l’Estate di Sa Martino, lontano dal trambusto cittadino. Sono anni in cui le lezioni dei maestri – e quella del padre in primis, sull’ossessione per la materia prima – si rivelano decisive per forgiare il suo personale pensiero sulla cucina, che è lo stesso che oggi troviamo a Spazio 7, con l’aggiunta dell’ingrediente artistico, un elemento che stimola continuamente lo chef: “Mi piace girare per i corridoi della Fondazione, osservare le opere e scoprirne i dettagli, poi torno in cucina. Non è mio intento riprodurre un piatto a partire da quanto ho visto, mi interessa piuttosto indagare il pensiero di un’artista da cui scaturisce l’opera, perché è la chiave che mi permette di dare continuità tra le sale del museo e il ristorante”.
Capretto al forno
Il menu
La struttura del menu si spoglia dei criteri classici, a partire dal supporto: non più un fascicolo da sfogliare, ma una tavoletta in forex, proprio come le didascalie accanto alle opere della Fondazione. E decade anche la scansione antipasti-primi-secondi, in nome di una suddivisione che gioca sulle sensazioni, proprio come quando si percorrono le sale del museo, che non contengono solo un’opera di un artista, ma parte del suo excursus creativo. In menu tre raggruppamenti emozionali e temporali: Contrasto-Percezione contemporanea, Equilibrio-Creatività controllata, Classici- Comfort Food, oltre ai due menu degustazione a mano libera (da 5 portate a 60 euro, e da 8 a 70 euro). “Prima immagino un piatto e poi lo posiziono in una delle caselle del menu” racconta Alessandro, che da 3 anni guida con disinvoltura il ristorante, e si occupa anche della linea della caffetteria e degli eventi della Fondazione Sandretto. “Ogni 3-4 mesi cambiano le mostre, esattamente come il mio menu. Qui è tutto in continuità, non c’è cesura di pensiero tra ciò che accade nel museo e l’andamento del ristorante”. E anche dal punto di vista architettonico il fil rouge è evidente: la sala del ristorante è il prolungamento in verticale della Fondazione, con opere d’arte alle pareti – notevole l’opera site specific di Amedeo Martegani, che raffigura lapislazzuli di luce che filtra da una siepe vista di notte – e le originali creazioni in silicone dell’artista biellese Alessandro Ciffo, sui tavoli.
Dentice all’acqua pazza
I piatti
Se si parla di arte, il primo grande maestro che ha dato dignità artistica al cibo è stato indiscutibilmente Gualtiero Marchesi, omaggiato più volte da chef Mecca, come nel Dentice all’acqua pazza, la cui estetica ricorda in tutto e per tutto il Dripping. Su una base di dentice marinato in ceviche, viene adagiato un concentrato di passata di pomodoro, basilico e aglio, tutti in estrazione, per un piatto molto fresco, estivo, che dal trampolino della tradizione nostrana spicca il volo verso il Sud America, passando per la Spagna nel ricordo del gazpacho.
E sempre dalla dimensione casalinga prende le mosse il Carpaccio di vitella, con crema di corallo di capasanta e tartufo, su fondo di cottura emulsionato con burro, caviale di salmerino e pesce volante. Un carpaccio di carne all'albese che in bocca si scioglie rilasciando il sapore di una scaloppina al burro in perfetto stile anni '80, in un pensiero che corre parallelo alla cotoletta baronettiana del menu Nel Tempo.
Asparagi e bottarga
Ottima mano anche sui vegetali che si fanno protagonisti nel primaverile Asparagi e bottarga, con l’asparago cotto a vapore e avvolto in una panure di bottarga (usata come condimento per dare sapidità all’ingrediente protagonista, come nel precedente carpaccio), pane e aromi e servito su una crema di asparagi bruciati che aggiungono il giusto gradiente di aromaticità e freschezza.
Ma lo chef è un piemontese che sa ben interpretare un piatto tipicamente romano, gli Spaghetti alla Puttanesca, con gli spaghetti di Emidio Pepe saltati con acqua di polpo, acciughe, olive e capperi, per un piatto dai sapori pieni e rispettosi, decisamente goloso.
L’omaggio a Marchesi si fa dichiarato e riguardoso nel Riso giallo e Ossobuco, con burro acido, parmigiano e una cottura in acqua leggermente più al dente del classico milanese, che fa risaltare la gremolata dell’ossobuco.
Anguilla in carpione
Tra i secondi bandite le basse temperature in favore della fiamma alta, come nell’Anguilla in carpione, pompelmo e giardiniera, e nel Capretto al forno, caglio affumicato e insalate amare, nel ricordo dello spiedo di Cesare Giaccone – immortale il suo capretto cotto nel caminetto – e il B.B. Bue con lattuga disidratata (foto in copertina), per cui usa un taglio solitamente usato per i bolliti, marinato in mammella sciolta per renderlo più morbido – alla maniera sudamericana appresa da Atala – cotto sulla griglia e condito quindi con salsa bbq agrodolce disidratata e amalgamata con jus di vitello. Una menzione merita la Faraona alla Marengo, piatto tipicamente piemontese le cui origini risalgono alla vittoria di Napoleone contro gli Austriaci nella battaglia di Marengo nel 1800. Il napoleonico pollo condito con funghi, gamberi di fiume e vino Madera portato dall'esercito francese, è qui omaggiato con uovo, fondo di gamberi, asparagi e taccole.
Golosi anche i dessert, con un Tiramisù in forma di éclair con la pasta choux a fare le veci dei savoiardi, la Panna cotta al latte di capra e cioccolato bianco a ricordare un dulce de leche, e Pere e cioccolato a base di biscotto al cioccolato cotto al vapore, corallo di pera e brodo di fava tonka. Grande attenzione a dolci e lievitati, prerogativa piemontese e passione per lo chef che ci si dedica anche al di fuori del lavoro: la domenica mattina, prima del servizio, ognuno dei ragazzi della brigata a turno porta un vassoio di paste delle migliori pasticcerie torinesi, una sorta di terzo tempo che è piacere e conoscenza insieme, anche in considerazione del fatto che Alessandro ha costruito un team di ragazzi affiatati come una famiglia, che lavorano insieme da anni e in cui tutti si alternano nelle varie partite.
Oltre
Cocktail e vino
Lo spazio della caffetteria, al piano terra, progettata dall’artista italiano Rudolf Stingel, aggiunge un tocco creativo a un momento di pausa con tavoli e sedie argentate e le pareti decorate con motivi modulari retroilluminati. È il luogo ideale per caffè (selezione Illy), anche se nessuno specialty e nessuna estrazione alternativa all'espresso, per ora, ma confidiamo in un cambio di passo nel comparto caffetteria per allinearsi al livello del ristorante. L'offerta include anche tè e infusi in foglia bio della sala da tè torinese Camellia, il tempo del tèe della Harney & Sons, magari in abbinamento a pasticcini, croissant, muffin disponibili anche in versione vegan e per celiaci. Nessuno specialty e nessuna estrazione alternativa all'espresso, per ora, ma confidiamo in un cambio di passo nel comparto caffetteria per allinearsi al livello del ristorante. Ma è anche lo spazio ideale per un pranzo veloce, con una formula ristorativa che propone piatti semplici ma mai banali, e trova infine un ottimo punto fermo nel momento dell’aperitivo e del dopo cena, grazie a una drink list molto originale. Tra gli altri Una notte a Torino, a base di distillato di Zoppi, liquore al lampone di Quaglia, sciroppo di rosa homemade e frutti di bosco; il DolceStilnovo,a base whisky torbato e bitter e servito in un gioco divertente con zucchero filato e caramello bruciato; il Bubusan,a base di sake Katori 90, whisky, chicco di pepe sancho, e Oltre,a base di gin, Campari, bitter al cardamomo e scorza d’arancia: tutti cocktail pensati in abbinamento ai dessert, ma anche degni sostituti. La sala è il territorio del maître Gianluca Calandra, con cui Alessandro ha lavorato da Atala, uomo di sala di grande esperienza, e del sommelier Marco Masera che ha approntato una carta dei vini che racconta in maniera profonda del Piemonte e della vicina Francia, con una particolare attenzione per piccoli produttori e incursioni preziose tra vini orange e macerati e la nouvelle vague dei vini naturali.
Siamo andati per testare i piatti, abbiamo trovato un luogo in cui arte, cucina e fattore umano trovano il miglior punto d’incontro, una realtà da tenere d’occhio per la crescita costante di uno chef con una mano matura e un pensiero profondo.
Spazio7 - Torino .- Via Modane 20 - ingresso anche da Via Millio 15/B - 011. 3787626 338. 8166510 - http://www.ristorantespazio7.it/
a cura di Sara Favilla
fotografie di Lido Vannucchi