È stato un anno difficile, animato da false speranze e colpi di scena. Ora la crisi di una delle più longeve e celebri aziende dolciarie made in Italy arriva al capolinea: il Tribunale di Verona sancisce il fallimento, con debiti che ammontano a 50 milioni di euro. Quale speranza per i lavoratori?
L'inizio della crisi
Non sempre le belle storie si concludono con il lieto fine. Non quando di mezzo c'è la difficoltà di fare i conti con il mercato del lavoro e il mondo dell'impresa, neppure se ti chiami Melegatti e la tua storia affonda le radici ben oltre un secolo fa (e proprio ieri, per altri versi, ragionavamo sulle difficoltàdi un altro storico marchio dolciario, Peyrano). Dal 1894 - quando Domenico Melegatti brevettò forma e ricetta del Pandoro Originale- a oggi, evidentemente, lo scenario è molto cambiato. E ora una delle più importanti e longeve industrie dolciarie made in Italy arriva impotente al capolinea di una crisi che si è aggravata nell'ultimo anno. A nulla sono valsi i tentativi di salvarla: difficile ricucire la frattura tra le parti societarie – più simile a una faida familiare – impossibile sanare il debito cumulato, per esempio, a causa di investimenti considerati da molti, alla luce dei fatti, poco oculati. L'escalation l'abbiamo seguita passo passo, a partire dall'autunno scorso, quando i timori per le sorti dei lavoratori e l'annunciato stop della produzione paventavano il rischio di un Natale senza pandoro Melegatti. All'inizio del 2017 c'era stata l'inaugurazione di un nuovo stabilimento, a San Martino Buon Albergo, deputato alla produzione di croissant (per un investimento di 10 milioni di euro, a fronte di 70 milioni di fatturato annuo): scelta non ripagata dal bilancio, che all'inizio dell'autunno faceva registrare arretrati non pagati, bollette inevase, stop forzato della produzione, lavoratori stagionali (quasi trecento) lasciati a casa.
Dal miracolo di Natale all'illusione di riscatto
Poi gli hashtag e le campagne solidali, l'intervento della politica e il miracoli di Natale: 5mila pandori sfornati per le feste, il ritiro della cassa integrazione, il supporto di un fondo maltese. Ma i debiti, ingenti (10 milioni di euro di esposizione con le banche, e 12 milioni di debiti verso i fornitori ) hanno continuato a pesare sulla ripresa regolare della produzione, che di fatto, dall'inizio del 2018, si è fermata definitivamente, nonostante l'ultimo appiglio offerto da Hausbrandt Trieste 1892, che a febbraio ufficializzava la sua discesa in campoper salvare Melegatti. Un accordo da un milione di euro per finanziare la produzione di Pasqua, firmato in tribunale, in nome di un'alleanza veneta volta a preparare l'eventuale acquisizione dell'azienda da parte del gruppo del caffè di Nervesa della Battaglia. Sembrava quasi fatta, allora, in attesa che le parti ratificassero l'accordo e il giudice concedesse l'autorizzazione a procedere con la ristrutturazione del debito.
Il fallimento di Melegatti
Qualche ora fa, invece, la doccia fredda: il collegio del Tribunale di Verona ha dichiarato il fallimento della società e della controllata Nuova Marelli di San Martino Buon Albergo. L'accordo non si è mai concretizzato, il tribunale ha rifiutato di concedere una proroga, il debito si è ulteriormente aggravato, toccando quota 50 milioni di euro. E ora che succede? La priorità è salvaguardare gli interessi dei lavoratori, 350 famiglie che proprio un paio di giorni fa avevano lanciato un appello sul quotidiano veronese L'Arena. Anche Luca Zaia, presidente del Veneto, è intervenuto pronunciandosi sull'urgenza di riavviare la produzione salvando i lavoratori e il prestigio di un marchio storico. Dichiarazioni che al momento restano slogan, in attesa di un confronto più costruttivo con il commissario deputato a gestire il fallimento. Una parola sussurrata per mesi, e ora drammaticamente reale, che pesa come un macigno sul futuro dell'azienda veronese. La via d'uscita, l'extrema ratio, potrebbe arrivare da oltreoceano: è noto l'interessamento del fondo americano D.E. Shaw & C., che già qualche mese fa si diceva disposto a investire 20 milioni di euro per avviare un piano di risanamento. L'ennesima illusione?
a cura di Livia Montagnoli