Un libro racconta le vicende immaginarie delle “assaggiatrici” di Hitler, le donne che dovevano provare il cibo del Führer per verificare che non fosse avvelenato.
“Mia madre diceva che quando si mangia si combatte con la morte” dice Rosa Sauer, protagonista de Le Assaggiatrici, di Rosella Postorino. E non solo nel senso che il cibo è necessario per vivere, ma anche in quello opposto, che può essere fatale (come può esserlo il vivere stesso): c'è un corollario di allergie, soffocamenti, patologie legate all'alimentazione sempre in agguato – certo - ma il rischio di morire a causa del cibo assume contorni più definiti per Rosa, di professione assaggiatrice. A lei, con altre nove compagne, il compito di verificare che il cibo destinato al Führer non fosse avvelenato, assaggiando - giorno dopo giorno, pietanza dopo pietanza - i suoi pasti. Tre volte al dì, pagata generosamente. Pagata per mangiare il cibo di Hitler (e morire avvelenata al posto suo).
La storia
Durante la Seconda Guerra Mondiale alcune donne furono assoldate per assaggiare il cibo destinato ad Adolf Hitler con l'obiettivo scongiurare possibili avvelenamenti. Lo raccontò, nel 2014, Margot Wolk, all'epoca ultranovantenne, ultima “assaggiatrice” ancora in vita: aveva tenuto il segreto fino ad allora. Era troppo scabroso, in un certo momento forse persino pericoloso, rivelare di aver lavorato per Hitler. Si può dire che non era una colpa, quel lavoro, e che in quei tempi, in Germania, non ci fosse altra scelta se non obbedire, ma era pur sempre un argomento spinoso “sembravamo tutti consenzienti, in Germania” scrive la Postorino.
Il libro
Rosella Postorino, letta la notizia delle assaggiatrici, pur non riuscendo a parlare con Margot Wolk, la elabora in un romanzo, in cui immagina la vita, le storie, le emozioni di queste donne. Il paradosso di trovarsi, improvvisamente, satolle e ben nutrite in anni in cui la fame uccideva quasi quanto le bombe, e di rischiare costantemente di morire proprio a causa del cibo: “quando si mangia si combatte con la morte” dicevamo all'inizio, e questo pensiero percorre sotterraneo tutto il libro. “Hitler mi nutriva, e quel nutrimento poteva uccidermi”. Così abbondante e ricco (soprattutto all'inizio, quando la parabola del Führer non era ancora nella sua fase discendente) da sentirsi male: “avevano saziato la fame, e non c'erano abituate”. Ma dopo un po' l'organismo comincia a lavorare regolarmente, come si fosse ripreso dallo stupore per quell'opulenza: “il mio stomaco non ribolliva più: si era lasciato occupare” si legge,“il mio corpo aveva assorbito il cibo del Führer”; di più: “il cibo del Führer mi circolava nel sangue”. Condannata a essere, in un certo senso, della stessa sostanza di Hitler.
Così di pasto in pasto, le assaggiatrici affrontano quello strano lavoro, un impiego rischioso e forse immorale: “fino a dove è lecito spingersi per sopravvivere?” Si può accettare di essere sacrificati nello stesso tempo in cui si viene salvati? Si può accettare di eseguire, da soli, la propria condanna a morte? E di farlo per proteggere l'autore della più feroce dittatura di tutti i tempi? “Lavorare per Hitler, sacrificare la vita per lui” dice la Postorino“era quello che facevano tutti i tedeschi”. Ma quella che rischiavano le assaggiatrici era una morte da topi, non da eroi: “le donne non muoiono da eroi”.
Mangiare come atto di vita, di ribellione, di rassegnazione, di seduzione
Se nei primi giorni i pasti sono un momento di tensione insopportabile, durante i quali la paura della morte si accompagna alla reazione del corpo che a tutto quel cibo non è abituato, in seguito le cose si regolarizzano: ci si abitua a tutto, nella vita. A quel ben di Dio come alla paura, compagna fedele di ogni boccone, cui non si fa quasi più caso. Rimane un terrore sottocutaneo che trova talvolta spiragli per tornare a galla, talaltra delle vie di fuga per nascondersi ed essere ignorato, allo stesso modo in cui non si fa più caso alla minaccia continua dei giorni di guerra, quando ognuno cerca delle tregue immaginarie pur di costruirsi una qualche normalità. È necessario, sì, per vivere. Vivere - in fondo – potrebbe ridursi a questo: mangiare e digerire. Andare avanti, nonostante tutto, fino a che qualcosa rompe la routine e rivela la vertigine. Per via di un miele avariato, si dice, che intossica le donne: solo un giorno che interrompe la sequenza di cibo-digestione cibo-digestione. E quel sapore degli asparagi, un po' amaro: “ma il veleno non è amaro?”. E giù a bere per cercare di diluire il più possibile il pericolo. Ma sono solo asparagi, con le loro caratteristiche. “Quella sera, l'urina di Hitler puzzava come la mia”. La fisiologia, prima di tutto, come quandole ssaggiatrici devono studiare dei testi sull'alimentazione. Perché quella loro professione doveva essere svolta con perizia (dovremmo ricordarcene sempre noi, che di cibo scriviamo), e a Rosa “sembra di spiare tra le budella di Hitler”. Un'abitudine che le rimane anche “dopo”, quando tutto è finito. Si guarda intorno a una mensa, fino a individuare qualcuno che mangi le stesse sue cose, tracciando, finalmente senza angoscia, un'ideale connessione con qualcuno attraverso un cibo condiviso.
Le storie di ognuna nella storia di tutti
Sullo sfondo la guerra con le sue tragedie, in primo piano la vita di ognuna delle assaggiatrici: gli amori (del resto, ogni storia è una storia d'amore, si suol dire), i dolori, i mariti dispersi in guerra, i genitori scomparsi o ancora presenti, i divi del cinema, le relazioni tra di loro, i segreti - tanti segreti - i sogni infranti quelli ancora in vita. Perché, come sempre, nella grande storia ci sono mille piccole storie, ognuna minima ma enorme per chi la vive e per chi la vuole ascoltare. C'è, costante, il riferimento al cibo, e ancora di più all'atto del mangiare e alla bocca come via d'accesso per una conoscenza profonda delle cose e del mondo. Come quando Rosa racconta quel primo appuntamento, dove tutta la seduzione si dipana nel poco spazio di una fetta di torta “quando l'avevo visto ingurgitare il primo boccone, masticando in fretta, una foga abitudinaria, ne avevo avuto voglia anch'io” e mangiando insieme si annullano le distanze: “aveva involontariamente bloccato la mia forchetta con la sua, ed era stato come se mi toccasse”. E poi via via, con l'avanzare del sentimento: “questo era l'amore: una bocca che non morde. O la possibilità di azzannare a tradimento”. C'è quel ricondurre tutto alla bocca, per saggiare sapore e consistenza delle cose, per scoprirle più dall'interno e immaginarsi soffocare: il filo da sarta, la moneta da un Pfenning, persino la mano del fratellino poi stretta in un morso rabbioso. C'è il viaggio in treno, drammatico ma non tragico, in cui si condivide il cibo con altri disgraziati “come fosse sempre possibile allestire una mensa, tra esseri umani”. C'è una fame d'aria che diventa insopportabile e una costante, profonda, risonanza di quel che il cibo rappresenta.
Le Assaggiatrici – Rosella Postorino – Feltrinelli – 288 pp – 17 €
a cura di Antonella De Santis