Sul mercato proliferano i prodotti a base di proteine vegetali destinati ai consumatori vegani. Ma la Francia non ci sta, e impone di trovare nomi alternativi per i surrogati ispirati ad analoghe specialità animali. Bistecche, salsicce, yogurt, formaggi non possono essere vegani. Pena 300mila euro di multa.
La legge francese
All’inizio dell’anno era stata l’indagine della rivista 60 Millions de Consommateurs a sferrare un duro colpo alla causa vegana, o meglio alla cattiva comunicazione che spesso incentiva ragionamenti stereotipati sull’argomento. Analizzando le etichette dei prodotti vegani disponibili nei supermercati d’oltralpe, la rivista giungeva alla conclusione che proprio la necessità di garantire un’alternativa gustosa ai prodotti animali presentando sul mercato surrogati a base vegetale determinasse il largo ricorso ad additivi e aromi niente affatto salutari. Al posto del formaggio, per esempio, non è raro trovare in etichetta un mix di amidi e oli vegetali. E per lo stesso motivo è alta la percentuale di zuccheri che sbilancia il profilo nutrizionale dei prodotti ideati dall’industria alimentare per sostituire la carne. Ora invece, sempre in Francia, gli stessi prodotti tornano sotto i riflettori a seguito dell’emendamento proposto dal partito di Macron e approvato dall’Assemblea nazionale, che impone, per i sostituti vegetali di carne e formaggio, nomi che li identifichino come tali, senza prendere in prestito termini di pertinenza dell’universo animale. Quindi bando a bistecche di soia, salsicce e formaggi vegani, che d’ora in avanti i produttori saranno obbligati a chiamare con nomi alternativi, evidenziandone la natura vegetale, pena sanzioni fino a 300mila euro. L’accusa? Confondere i consumatori, orientandone l’acquisto in modo fraudolento. L’approvazione del provvedimento segue una recente sentenza della Corte Costituzionale europea, che nel 2017 aveva imposto di differenziare latte di soia e formaggio di tofu dai rispettivi prodotti emulati, vietando l’utilizzo di termini quale latte, yogurt o burro per i cibi vegetali venduti sugli scaffali dei supermercati.
I precedenti. Il caso della Germania
E certo la necessità - prioritaria secondo il deputato Jean Baptiste Moreau, depositario dell’emendamento e allevatore nella vita di tutti i giorni – è tanto più impellente davanti al proliferare di prodotti industriali che strizzano l’occhio alla moda cruelty free, che anche in Germania, un anno fa, aveva indotto il ministro alle politiche agricole Christian Schmidt a scagliarsi contro i surrogati alimentari travestiti da prodotti animali, chiedendo a gran voce una legge che vietasse alle aziende produttrici di alimenti vegani la possibilità di utilizzare parole come carne, wurstel, salame, bistecca, hamburger (ma l’elenco sarebbe ancora lungo, considerando quante possibilità offra oggi il paniere alimentare vegano). Se da un lato è assodato che vegano non sia necessariamente sano, dall’altro si moltiplicano, specie oltreoceano, le aziende che producono alimenti a base vegetale e integratori per chi non mangia carne e prodotti animali. Evidentemente il mercato li richiede.
La crescita del mercato
Non a caso, solo qualche giorno fa, la catena di fast food americana White Castle ha cominciato a commercializzare l’Impossible burger prodotto da Impossible foods, che l’hanno scorso fece molto parlare di sé: un hamburger vegano (ma ora in Francia sarebbe vietato chiamarlo così) che ingannerebbe anche il più incallito frequentatore di fast food, per profumo, colore, consistenza, perfino per succulenza, grazie al burro di cocco che simula il grasso bovino e alla presenza di heme, contenuta nell’emoglobina del sangue animale, ma pure nella legemoglobina, una proteina prodotta dalle leguminose. Per l’Impossible burger, l’heme viene prodotta in laboratorio, garantendo l’inganno visivo (ma sarà così anche al gusto?). E la produzione è in aumento costante, mentre molte sono le aziende concorrenti impegnate a sviluppare prodotti analoghi. Dunque le alternative vegetali alla carne proliferano, incentivando la nascita di macellerie vegane e vegetariane in tutto il mondo: la prima, a detta dei suoi fondatori, ha esordito in Olanda già nel 2010, per avvicinare alla cultura vegetariana una clientela onnivora; oggi il Vegetarian Butcher rifornisce con i suoi prodotti a base di soia biologica, piselli, legumi, oltre 3mila negozi in 16 Paesi (ma non parliamo di prodotti vegani, visto l’aggiunta di piccole quantità di siero di latte e uova). E ha fatto scuola: c’è la “carne finta” della macelleria The Herbivorous Butcher di Minneapolis, tra tacchino vegetale e muscolo di grano, la Vegi-Metzg di Zurigo che propone tofu, seitan e tempeh; e poi l’Italia, con la macelleria vegetariana di Gennaro Gagliano al Vomero, e Mimì, storica macelleria (tradizionale) di Bari, che un paio di anni fa ha scelto di dedicare un’ampia sezione del banco alla vendita di surrogati vegetali. La questione resta sempre la stessa: posto che ognuno ha diritto ad alimentarsi come meglio crede, è davvero necessario che i prodotti a base di proteine vegetali simulino forma, odore, consistenza e nome degli equivalenti di origine animale?
a cura di Livia Montagnoli