Sull'ultima operazione della Open Arms, la 43esima da quando opera nel Mediterraneo per soccorrere i migranti che salpano dalle coste libiche, si è detto molto: oggi il rimorchiatore della Ong spagnola è sotto sequestro a Pozzallo, in Sicilia. A bordo anche un giovane cuoco italiano, alla prima esperienza. Il suo racconto.
Open Arms. Reato di solidarietà?
Da più di una settimana il rimorchiatore della Open Arms è fermo al porto di Pozzallo, Sicilia. Sotto sequestro per decisione del Gip di Catania, con accuse di associazione a delinquere e immigrazione clandestina, insieme all'equipaggio di navigazione, che da sabato 17 marzo - quando la nave ha finalmente ricevuto l'autorizzazione a entrare in porto, dopo più di un giorno passato in mare con 220 migranti salvati nelle acque del Mediterraneo – non abbandona le postazioni, chiedendo a gran voce che sia fatta giustizia, al grido di Free Open Arms. Sull'ultima operazione della Ong spagnola Open Arms, la 43esima dall'inizio delle attività sulla rotta che divide Libia e Italia, si sono pronunciati in molti, chiedendo chiarezza per una situazione frutto di incomprensioni e difficoltà croniche di gestione di acque congestionate dalle cosiddette carrette del mare, che imporrebbero un coordinamento quanto più efficace possibile tra le forze governative coinvolte, che invece tarda ad arrivare. Dunque qualche giorno fa la Open Arms è regolarmente uscita in missione, nella zona di competenza che divide con altre Ong (ma dopo il sequestro a operare nel Mediterraneo è rimasta solo la Aquarius), pronta a ricevere le chiamate di soccorso in mare in arrivo dalla guardia costiera italiana, con l'unico obiettivo di salvare persone in difficoltà e portarle al sicuro in tempi brevi, nel porto più vicino. Un'operazione di “routine” per l'equipaggio guidato dal capitano Marc Reig Creus, da un anno imbarcato sul rimorchiatore di Proactiva, azienda spagnola specializzata in lifeguard in mare, di proprietà di Oscar Camps, che impiega una parte dei professionisti in organico (e questo, capiremo, è un dettaglio non trascurabile) a sostegno della causa di Open Arms, costola umanitaria del gruppo, finanziata al 90% tramite donazioni private (mentre il restante 10% arriva dalla municipalità di Barcellona).
Cuoco di bordo in missione
Ma la cronaca degli ultimi giorni ci dice che qualcosa, stavolta, non ha funzionato: non per i migranti recuperati in mare – fortunatamente tutti portati sani e salvi a destinazione – ma per la tensione vissuta a bordo quando la guardia costiera libica ha rivendicato la priorità di soccorso degli obiettivi raggiunti dalla Open Arms, intimando con le armi di non immischiarsi. Sappiamo anche che l'equipaggio, in mancanza di direttive ufficiali, ha tenuto il punto, attendendo poi, più a lungo del dovuto, che il governo italiano autorizzasse l'approdo nel porto di Pozzallo. Ora la nave è lì, e nei prossimi giorni il Gip di Catania scioglierà le riserve sui capi di imputazione che hanno scatenato la mobilitazione collettiva a sostegno della Ong. È qui che il nostro racconto abbandona le cronache ufficiali per salire a bordo di Open Arms al seguito dell'unico italiano in organico, Lorenzo Leonetti: il “cocinero”, cuoco di navigazione alla sua prima esperienza. Romano, 34 anni, Lorenzo è da 7 anni alla guida della cucina del Grandma Bistrot, al Quadraro, ma col tempo ha abbracciato diversi progetti sociali che dalla cucina vogliono fare un mezzo di riscatto e integrazione. Per Cies ha assunto l'incarico di responsabile della formazione del progetto Matechef, che un anno fa portava all'apertura del ristorante Altrove, nel quartiere Ostiense. Con la cooperativa Barikamà, invece, gestisce il chiosco del Parco Nemorense, oggi perfettamente avviato dopo innumerevoli vicissitudini; e dall'inizio del 2017 partecipa al progetto Pasto Sospeso ideato da Erri De Luca e Chef Rubio alla Casetta Rossa (Garbatella), mentre più longeva è la collaborazione con i Volontari di Capitano Ultimo, per strutturare il servizio di ristorazione. A bordo di una nave, però, Lorenzo non era mai salito, “non come cuoco, e mai per più di 12 ore filate”. E allora perché? “Ho conosciuto la realtà dei viaggi della speranza a contatto con i ragazzi di Matechef. C'è chi vive il ricordo in modo traumatico, e non dice nulla, ma come formatore sono sempre a contatto con assistenti sociali, psicologi, tutori legali dei ragazzi minorenni, che ti aiutano a capire come approcciarli. E poi c’è anche chi vive in modo molto energico la fine di quel viaggio: specie se sono cittadini del Nordafrica, per loro è un progetto di vita, hanno visto i fratelli più grandi e gli amici imbarcarsi, e seguono l'esempio”. L'Open Arms fa salvataggio per chi si può permettere il tipo di viaggio più pericoloso, “sono persone che non possono accedere al visto, per motivi politici, militari, sociali, come i minori egiziani che dovranno prestare servizio militare: lo stato non può rischiare di perderli”. Nelle ultime settimane Lorenzo ha imparato molto sulla realtà dei migranti e sulle attività delle ong, ma il primo contatto è avvenuto quasi in modo banale: “Tramite amicizie comuni li ho conosciuti, ricercavano cuochi su Facebook e io mi sono proposto. Nell’arco di un mese la cosa era concordata, la missione sarebbe iniziata un paio di settimane dopo”.
Non c'è umanità senza professionalità
Nessun segno particolare richiesto? “Tu ti proponi come cuoco di bordo, come professionista qualificato nella tua mansione, non hai bisogno di formazione in navigazione o soccorso, le tue competenze finiscono alla coperta della nave, poi a bordo provvedono loro a formarti. Ricercano professionisti di ogni settore: piloti di lancia, medici... Anche i volontari semplici sono esperti di navigazione, per essere davvero utili alla causa”. Chiaro che conta molto la predispozione alla causa: “Sono diverse le call conference con gli psicologi dell’associazione che devono confermare l'idoneità, prima e dopo la missione. Ora sto rispettando un ciclo di incontri, il primo dopo 3 giorni dal rientro, poi a una settimana e a un mese di distanza: così capiscono se tenerti in considerazione per le prossime operazioni”. Ogni missione dura un massimo di 15 giorni, ognuno firma un contratto di volontariato che assicura piena disponibilità per il periodo: “Per un equipaggio di 19 persone il cuoco di bordo è uno, il resto dello staff fa turni di guardia, pulizia e cucina, cioè tiene sistemata la stiva e rispetta gli ordini del cocinero”. Alla prima esperienza l'impatto è forte: “Ero certo di saper gestire la cucina, anche se per la prima volta su una barca. Ho avuto la conferma quando ho visto lo spazio: 4 fuochi, un forno, il minipimer, tutti gli attrezzi, la stiva super fornita. Ma a spaventarmi era il mare, mi mancavano le nozioni di base. In navigazione tutti parlano del mal di mare, tutti chiedono “tenes mareo?” in continuazione. Per le prime 4 ore dall'uscita in mare ho provato la sensazione di non farcela, non mi capitava da molto tempo”.
Pronti per l'imbarco
Allo straniamento contribuisce anche l'arrivo rocambolesco a Malta, dove il rimorchiatore è attraccato in attesa della partenza: “Arrivi con bagaglio mano, sei solo. Mi hanno accolto la notte prima in una casa alla periferia de La Valletta, un materassino a terra per dormire con gli altri. Poi la mattina dopo arrivi sulla nave, e tutto comincia a girare come un ingranaggio perfetto. Tu sai che sei lì per fare il tuo mestiere, abbandoni subito quell'idea romanzata del volontariato prestato per carità cristiana. Tutti devono contribuire al benessere degli altri, lavorando al proprio meglio, dai macchinisti ai marinai, al cuoco”. Ma allora cosa significa fare il cuoco di bordo sulla Open Arms? “Loro ti forniscono tutto, volevo portare i miei coltelli, me l'hanno impedito: temevo di trovare solo spelucchini, e invece lo spazio è perfettamente attrezzato, anche se piccolo. I primi pasti li ho cucinati in porto, tutti hanno apprezzato, 'speriamo tu riesca a farlo anche in navigazione' dicevano. Io li ho rassicurati: 'Non so nulla di navigazione, ma faccio il cuoco, in serenità vi dico che vi farò mangiare'”.
Il menu
La stiva, la cella frigorifera e la cella freezer sono attrezzate per sfamare l'equipaggio per 15 giorni: “Il cuoco segue un menu bilanciato ideato da un nutrizionista, che serve anche per facilitare gli acquisti iniziali, perché non sempre le operazioni possono contare su un cuoco professionista a bordo, e disporre di linee guida codificate è fondamentale. Prima dell'imbarco ho ricevuto una tabella con i pasti da seguire giorno per giorno. La procedura con i migranti, invece, è diversa: l’obiettivo è portarli a destinazione il prima possibile, solo in emergenza cucinerai per loro, facendo molta attenzione, perché non sai in che condizioni è lo stomaco delle persone salvate. Quindi si procede prima con il kit di accoglienza: acqua, barrette energetiche e barrette dolci. Poi seguono liofilizzato di riso, riso e liofilizzato di patate, ma solo se il tempo in mare si protrae. Io ho dovuto farlo, a bordo ci sono due cuociriso grandi e pentole per l'emergenza”. Poi, ognuno interpreta la missione a modo suo: “Ho usato la mia esperienza interpetando quella di bordo come fosse la mia cucina. In porto dopo l'arrivo dei fornitori devi sistemare le provviste: ho smontato e rimontato tutte le dispense, rimediato alle ingenuità, come i coltelli confusi in mezzo agli altri strumenti. È naturale, ci metti il massimo della tua professionalità perché intorno c’è gente che lavora senza tregua. E anche la filosofia della ong è da lodare: il mare ti porta a limitare lo spreco, seguire la differenziata e recuperare ogni spazio indispensabile. Di un prodotto usi tutto, ed è facile per un cuoco come me, perché sono abituato, e loro preferiscono fornirti il prodotto da lavorare, non cotolette già pronte, piuttosto carne macinata”.
Il cibo è benessere e dignità
Questo perché, ci spiega Lorenzo, la ong decide di trasmettere determinati valori anche tramite gli acquisti, ritenendo prioritario il benessere dell’equipaggio: “Il cuoco allieta un momento di stacco per chi in nave lavora sempre, i turni di sonno sono di 5 ore, le altre ore di riposo sono quelle passate nel comedor, in refettorio. E tu devi dare un momento di qualità, la più alta dignità possibile a ogni pasto”. Sarà per questo che a bordo ha preparato il pane, servito una lasagna con besciamella e ragù fatto cuocere per 6 ore, lavorato sulle cotture ideali di ogni prodotto, per rendere più sana e gustosa anche una semplice zuppa di porri e patate. “Mi sono fermato solo sulla pasta, non c'era spazio per stendere la sfoglia”. L'entusiasmo di chi, inesperto, pensa di poter disporre su energie infinite: “Invece dopo 2-3 giorni ti rendi conto che in mare sei sempre in tensione, e devi limitare gli sforzi, come suggerito all'inizio dal capitano. Io pretendevo di pulire la cucina con i ragazzi, preparare la linea per il giorno dopo, e intanto far trovare sempre i panini pronti per i macchinisti”.
Le difficoltà. E come superarle
E le principali difficoltà? “Sei in mare, tutto si muove”. Quindi ogni volta che il mare si alza devi essere pronto a coprire le superfici in acciaio con stuole di gomma, “io ho cominciato a tagliuzzarle secondo esigenza, per non coprire tutte le superfici a disposizione”, manie di perfezionismo, direbbe qualcuno. Più semplicemente desiderio di impegnarsi al massimo. Poi ci sono le cotture da gestire: “I fuochi più all'avanguardia sono basculanti, ma la Open Arms ha una cucina vecchia, ancorata a terra. Quindi c'è una guida d’acciaio, che devi imparare a gestire per bloccare le pentole. E anche in stiva devi bloccare tutto con fibbie. Mentre nella cella frigo è tutto dentro scatole, devi sapere dove sono le cose. Senza un'organizzazione ferrea impazzisci”. Dunque questo è il lavoro del cuoco di bordo, che però è pure parte di un equipaggio in missione: i tre giorni che precedono il soccorso sono scanditi dalle riunioni di formazione, “poi un giorno, alle 5.30 del mattino, ti svegli con la nave in subbuglio, 'tenemos un target' ripetono tutti. E capisci: ti ritrovi coinvolto nelle operazioni in prima persona, ma nel frattempo ti hanno portato alla consapevolezza di doverlo e saperlo fare”.
L'organizzazione è fondamentale: “Hai a che fare con imbarcazioni precarie create per non resistere in mare aperto, con 150 persone a bordo. I primi salvati avevano l’acqua fino alla pancia, in altri casi ci possono essere cadaveri sul fondo. Tutti devono sapere cosa sta per accadere: ognuno ha un compito, tutti fanno accoglienza, c'è lo screening medico, chi controlla che non abbiano i vestiti sporchi di cherosene. Io distribuivo il kit di acqua e barrette, preparavo i panini per le lance di recupero.” Il resto lo fa l'umanità: “Non servono scafandri, sono molto più efficaci uno sguardo e una stretta di mano. Devi portare tutti a collaborare con te, trasmettendogli una situazione di sicurezza”. Speriamo che Open Arms possa riprendere presto a farlo, Lorenzo è pronto a imbarcarsi di nuovo. Free Open Arms.
a cura di Livia Montagnoli
Foto di Xavier Bertral per Ara.cat