Una tradizione ricca e quanto mai legata al passato: la cucina laziale è di umili origini e trae ispirazione dal mondo contadino. Anche per la pasta, che qui trova tante sfumature e espressioni diverse a seconda della zona.
Un territorio complesso da raccontare, sfaccettato nei paesaggi così come nelle tradizioni. Tuscia, Sabina, Agro Pontino, Ciociaria, Castelli Romani, e poi, naturalmente, Roma, la Città Eterna con il suo carico di storia e leggenda, la sua memoria così antica e incancellabile, che ancora pulsa in ogni pietra, ogni angolo o vicoletto. È impossibile delineare con precisione usanze e costumi del Lazio, tanto quanto è difficile e laborioso tracciare dei confini netti in grado di circoscrivere una cultura gastronomica locale. Anche a tavola, infatti, la tradizione laziale si fa intricata, e deve tener conto di luoghi, borghi, frazioni che, seppur poco distanti fra loro, hanno alle spalle un vissuto completamente diverso. In qualsiasi caso, la cucina qui mantiene ancora intatto il gusto e fascino di un tempo, conservando tracce di genti che nei secoli hanno scritto la storia dei piatti regionali. Ad accomunare le varie zone, il legame con la tradizione contadina, l'utilizzo di ingredienti poveri, e la capacità straordinaria di sfruttare i più umili sottoprodotti vaccini, dalla coratella alla milza, dal cuore alla coda, e renderli appetitosi. Ma soprattutto, il consumo diffuso di pasta, di grano duro o semolino, all'uovo, ripiena, lunga o corta: il lascito degli antichi romani è ancora palpabile in tutte le tavole, nei giorni di festa e non solo. Tanti i formati tipici dei vari borghi; impossibile citarli tutti: qui ne abbiamo radunati “solo” 16, cercando di fornire un esempio per ogni zona, e abbiamo riportato una ricetta semplice e gustosa, perfetta per le giornate più fredde, quella dei quadrucci.
Bucatini
È uno dei formati più rappresentativi della cucina laziale, immediatamente associato al sugo all'amatriciana: il celebre bucatino, spaghetto dal diametro più ampio e forato al centro, è un prodotto antico, in passato ottenuto facendo arrotolare un pezzetto di impasto su un ferretto, un giunco oppure un bastoncino levigato. Ne parla Bartolomeo Sacchi ne “Il Piacere onesto e la buona salute”, e poi ancora Martino da Como nel suo “De arte coquinaria”, dove descrive i maccheroni siciliani, l'equivalente meridionale dei bucatini: “Piglia de la farina bellissima et impastala con bianco dovo...acqua comuna...fa' questa pasta ben dura, da poi fanne pastoncelli longhi un palmo sottili quanto una paglia. Et togli un filo di ferro longo un palmo o più sottile quanto uno spago, ponilo sopra 'ldtto pastoncello e dagli una volta con tutte doi le mani sopra una volta, da poi caccia fora il ferro, ristira il maccherone pertusato in mezo”. Altra versione del Sud Italia di questo formato sono i perciatelli campani, dal verbo francese “percer”, che significa perforare. Proprio per questa sua caratteristica, il bucatino vuole condimenti ricchi, ragù di carne con tanto pomodoro, e una bella grattugiata di pecorino. Alto il rischio macchia sui vestiti, per via degli schizzi di sugo che fuoriescono inevitabilmente dal buco centrale, ma anche questo fa parte della tradizione.
Capelli d'angelo
Chiamati anche capelvenere, maccaruniciociari, gramignao ramiccia, i capelli d'angelo sono fra le paste più utilizzate per minestre e brodi. Dei tagliolini molto fini diffusi un po' ovunque, ma in particolar modo in Liguria e nel Lazio, descritti già nei testi del XVII secolo, e nati all'interno dei monasteri medioevali, dove le monache erano solite prepararli per gli ammalati o le puerpere. Fra le varie testimonianze scritte, quella dello storico Alessandro Moroni, che ne “Il Lazio a tavola, guida gastronomica tra storia e tradizioni” descrive l'usanza di portare la pasta in dono alle neo-mamme: “E subito dopo, portando da numerosi portatori, si vedeva troneggiare il 'padiglione delle puerpere', cioè una grandiosa macchina dai disegni bizzarri, interamente rivestita da lunghe file di tagliolini o di altra pasta all'uovo, il tutto intramezzato da uno sciame di capponi di alline pe ruso dell'illustre puerper”.
Cappelletti
Presenti a Roma fin dagli inizi del Novecento, quando donne e bambini si riunivano insieme il giorno della Vigilia di Natale per preparare il pranzo del 25 dicembre, i cappelletti sono da sempre simbolo di festa. Parenti stretti dei tortellini emiliani, quelli romani si differenziano per misura (più grande) e per il ripieno, a base di carne cruda. Il nome deriva dalla forma del tipico cappello medioevale: è infatti proprio in questo periodo che cominciano a diffondersi le paste ripiene, specialmente in Romagna (con la variante locale leggermente diversa), prima dell'inizio del digiuno quaresimale. Fra le tradizioni popolari legate a questo prodotto, quella del caplitaz, un cappelletto più grande farcito con solo pepe, preparato in tempo di Carnevale come burla per il più goloso della tavola.
Cappellacci dei briganti
Come spesso accade nelle cucine del Centro Italia, alcune ricette sono condivise da più regioni. Quella dei cappellacci dei briganti, per esempio, appartiene tanto al comune di Formello, in provincia di Roma, quanto al basso Molise. Ancora una volta, il nome trae ispirazione dai cappelli, in questo caso quelli a forma di cono con falda rivoltata verso l'alto tipici della divisa dei briganti che per molti secoli, fino alla seconda metà dell'Ottocento, hanno percorso il territorio molisano e laziale. Le origini di questa ricetta sono sconosciute, quello che è certo, però, è che la variante di Formello è molto diversa da quella degli altri comuni: si tratta, infatti, di una sorta di crespella a base di farina di grano duro, uova, acqua e sale, ripiena di ragù, solitamente di agnello.
Cazzaregli
Nel comune di Anticoli Corrado sono i cazzaregli a fare la parte del leone, interpretazione locale dei più noti strozzapreti, antica pasta corta caratteristica dell'Italia Centrale citata più volte nella letteratura romanesca, in particolar modo nei Sonetti di Gioachino Belli. Il nome strozzapreti allude alla proverbiale golosità dei preti, ma a consumare questa specialità erano tutte le famiglie di contadini più umili. Si tratta, infatti, di un cibo “povero”, in genere abbinato a un sugo di fagioli, da sempre considerati “la carne dei poveri”.
La Scampaggnata, Giuseppe Gioacchino Belli
Nun pòi crede che ppranzo che ccià ffatto
quel’accidente de Padron Cammillo.
Un pranzo, ch’è impossibbile de díllo:
ma un pranzo, un pranzo da restacce matto.
Quello perantro c’ha mmesso er ziggillo
a ttutto er rimanente de lo ssciatto,
è stato, guarda a mmé, ttanto de piatto
de strozzapreti cotti cor zughillo.
Ma a pproposito cqui de strozzapreti:
io nun pozzo capí ppe cche rraggione
s’abbi da dí cche strozzino li preti:
quanno oggni prete è un sscioto de cristiano
da iggnottisse magara in un boccone
er zor Pavolo Bbionni sano sano.
Cordelle sabine
Ci sono alcuni sughi semplici che racchiudono i sapori della tradizione contadina, uno di quelli più in voga, ancora oggi, in tutto il territorio è a base di pomodoro e pecorino, due ingredienti simbolo della tavola laziale, presenti in tantissime ricette regionali. Fra le varie paste condite con questa salsa saporita, una delle più antiche e particolari sono le cordelle sabine, preparate con la pasta lievitata che avanzava dopo aver fatto il pane. La leggenda narra che con i fondi raschiati via dalla madia, le donne realizzavano delle striscioline di pasta così gustose da accecare gli uomini: da questo racconto, il nome popolare molto diffuso di “cecamariti”. Come variante per il condimento, nel comune di Orvinio, in provincia di Rieti, si prepara una sorta di pesto a base di aglio, sale grosso e peperoncino tritati nel mortaio e ammorbiditi con un po' di olio extravergine d'oliva della Sabina.
Fieno di Canepina
Una pasta talmente fina da sciogliersi in bocca, il fieno di Canepina, dei tagliolini sottilissimi tipicamente conditi con rigaglie di pollo o sughi di carne. Questa pasta tipica di Canepina, antico comune della Tuscia in provincia di Viterbo, si distingue dagli altri formati per la procedura di cottura che prevede una doppia scolatura: realizzata con farina e uova, la pasta viene cotta e scolata quando è ancora molto al dente, per essere poi immersa in acqua fredda e sale, e scolata di nuovo. Infine, viene asciugata con un canovaccio e tagliata con un coltello a lama molto alta. Seppur di origini remote, prima testimonianza scritta di questo prodotto risale solamente all'87, con la pubblicazione del libro “Tuscia a tavola” di Italo Arieti, uno dei volumi che meglio racconta la tradizione gastronomica della zona.
Fregnacce
Nel dialetto laziale, la “fregnaccia” indica una sciocchezza, una frottola, un elemento di poco conto fatto in maniera approssimativa. Dette anche frescacce, paciocche o pantacce, le fregnacce vengono chiamate così proprio per la facilità di preparazione. Si tratta di una versione regionale dei più conosciuti maltagliati abruzzesi, nata a Poggio Moiano, in provincia di Rieti, e divenuta fin da subito una delle paste più preparate a livello casalingo. Si tratta di piccole strisce romboidali, un tempo a base di farina di grano duro e acqua, oggi realizzate quasi sempre con l'aggiunta di uova: la tradizione vuole che vengano consumate a inizio primavera con gli asparagi selvatici, e in inverno con sugo di castrato, ma è possibile ormai trovarle tutto l'anno condite nei modi più disparati. Fra i più noti nel Reatino, il sugo di pomodoro con racaji de pullu, ovvero le regaglie di pollo tagliate a pezzettini, soffritte e insaporite con un cucchiaino di conserva di pomodoro.
Gnocchi alla romana
“Giovedì gnocchi, venerdì oppure ceci e baccalà, sabato trippa”. Così recita uno dei più antichi detti popolari romani. Ancora oggi, infatti, in molte osterie tradizionali è facile trovare gli gnocchi in menu proprio il giovedì. Nella versione classica oppure nella variante regionale “alla romana”, ovvero a base di semolino, latte e sale. Per prepararli, si versa il semolino a pioggia nel latte caldo e lo si lascia cuocere facendo attenzione a non formare grumi. Una volta pronto, si stende l'impasto con uno spessore di circa un centimetro su una teglia, e lo si lascia rapprendere per un'oretta. Dopo che la base si è solidificata, la si taglia a rondelle, che vengono poi cotte in forno, condite con burro e formaggio. Il risultato è una sorta di timballo grigliato, da gustare caldo con una generosa spolverata di pecorino. Non è raro trovarli anche nella versione rossa, con sugo di pomodoro.
Maccheroni a fezze
Uno dei piatti simbolo della Sabina per eccellenza sono i maccheroni a fezze, ovvero degli spaghettoni a base di acqua, uova e farina, dal diametro più ampio e la forma irregolare, impastati e tagliati a mano, e insaporiti con il pesto alla Sabinese, un mix di olio extravergine di oliva, aglio, peperoncino e maggiorana, oppure con sugo di castrato o carni miste. Il giorno migliore per assaggiarli è il terzo sabato di luglio, quando Montenero Sabino si anima per la sagra dedicata a questa ricetta, fra musica, balli e prodotti tipici. Come si intuisce dal nome, si tratta di una variazione locale dei più conosciuti maccheroni, termine con il quale, oggi, si indica tutta la pasta secca di vari formati, quella - per intenderci - a base di semola di grano duro e acqua. Tante le ipotesi all'origine della parola, dalla più popolare (e meno probabile) che racconta di un sovrano che, mangiando la pasta, esclamò “Molto buoni ma... caroni”, a quella più accredita che vede una connessione con il termine macàrios, in lingua omerica “beato”. Da qui deriverebbe anche la macaria, una minestra brodosa nata nel Cinquecento come pasto da servire durante i funerali. I maccheroni hanno poi fatto il giro del mondo, evolvendosi e cambiando forma più volte: secondo i testi medioevali, infatti, in principio erano una pasta più simile agli gnocchi che a quella di grano duro.
Pencarelli
Fino al 1927 parte dell'Abruzzo, più precisamente della provincia dell'Aquila, il comune di Leonessa vanta una cucina frutto di due tradizioni gastronomiche ricche e succulente. Qui, nei monasteri medioevali, in particolare quello delle clarisse di San Giovanni Evangelista, nascono i pencarelli, una pasta all'uovo simile agli spaghetti, ma più erta e più corta, pensata come dono natalizio, e ancora oggi uno dei prodotti più diffusi fra i cesti regalo. Solitamente vengono preparati con un condimento simile alla carbonara, sopratutto nel periodo pre-quaresimale, ma si trovano spesso anche abbinati a sughi di carne.
Pizzarelle
Prima erano solo di farina di grano e mais mescolate con l'acqua, oggi invece sono preparate quasi sempre con l'aggiunta di uova: le pizzarelle sono uno dei formati tipici della zona di Subiaco, una pasta a stringhette sottili molto diffusa nel comune romano di Cerreto Laziale. Un tempo riservata ai giorni di festa, la pasta veniva perlopiù arricchita con baccalà, ma quando non c'erano soldi o merce di scambio per comprare il pesce, erano le lumache le protagoniste del condimento. Indicatori della miseria sconfinata del passato, le lumache erano fra i prodotti poveri più utilizzati nelle campagne romane, naturalmente dopo i giorni di pioggia, base per sughi ricchi dal gusto unico, tradizionalmente aromatizzato con un po' di menta fresca.
Quadrucci
Un formato che molti legano all'infanzia, ma anche una pasta che sa di inverno, di giorni di pioggia, di quelle giornate rigide in cui, per scaldarsi, si ricorre ai piatti più confortevoli e accoglienti della tradizione. I quadrucci in brodo, per esempio, piccoli quadratini di pasta all'uovo perfetti per minestre e zuppe, molto apprezzati soprattutto dai più piccoli. Alla base dell'impasto, farina, uova, e alle volte anche un pizzico di noce moscata, anche se ormai ne esistono molte varianti, da quella integrale a quella con farina di farro, realizzata soprattutto nella Tuscia. Un formato entrato ormai a far parte della tradizione italiana, uno di quei prodotti in grado di mettere tutti d'accordo, da Nord a Sud della Penisola, ma particolarmente apprezzato nell'Italia Centrale. Questa piccola specialità nasce in realtà come pasta di recupero, ricavata dalla sfoglia avanzata dopo la preparazione delle fettuccine nei giorni di festa. Nel Lazio è conosciuta anche come cicerchiola per via delle dimensioni del quadratino che, secondo la tradizione, deve essere grande come una cicerchia.
Ramiccia
Prodotta soprattutto durante il periodo carnevalesco, la ramiccia è una tipologia di pasta tipica di Norma, originariamente pensata per consumare le ultime salsicce rimaste prima del sacrificio del nuovo animale, e destinata ai giorni di festa, in particolare al Giovedì e Martedì Grasso. Simile a una tagliatella, ma molto più stretta, viene preparata con acqua, farina, uova e un filo di olio extravergine di oliva, e cotta in una pentola di rame appesa al camino. La pasta viene tuffata in acqua per pochi secondi prima che “revé subbitu ammonte”, ovvero torni a galla, per essere poi scolata e aggiunta alla salsa, tradizionalmente a base di salsicce di fegato e spuntature di maiale.
Sagne 'mpezze
La storia delle sagne 'mpezze risale alla notte nei tempi, ed è legata a doppio filo con la tradizione delle sagne abruzzesi, solitamente impiegate nella preparazione di minestre di legumi. A scrivere per primo di questa pasta è, infatti, Antonio de Magistris da Introdaqua, nella “Biografia del Beato Bernardino da Fontavignone” del 1794, in cui racconta che un tempo venivano utilizzate come medicamento: “Mangiando le sagne fatte da sua moglie subitò cominciò a migliorare e in pochi giorni restò perfettamente libero e sano che tutti ne restarono meravigliati e ne resero grazie a Dio e al suo servo Fra Bernardino”. Nel Lazio, soprattutto nella zona di Subiaco, vengono servite come una sorta di maltagliato a forma di rombo, a base di uova e farina di grano duro, ma è possibile trovarle anche nella variante con farina di farro. La popolarità di questo formato nasce da una necessità: in tempi antichi, il sale non poteva essere concesso a credito nei negozi di alimentari, e così questa specialità di umili origini e a basso costo veniva utilizzata per il baratto.
Stracci di Antrodoco
Una pasta golosa, dalla farcia succulenta e il gusto pieno: gli stracci di Antrodoco, comune in provincia di Rieti, sono delle crespelle a base di farina, uova e acqua (talvolta sostituita o accompagnata dal latte) farcite con carne e scamorza, cotte in forno e ricoperte con ragù di carne. La tradizione contadina impone che per l'impasto vengano utilizzati un uovo, un guscio d'acqua e uno di farina, ma, come nelle migliori ricette popolari, dosi, ingredienti e procedimento variano di famiglia in famiglia. Ne esiste anche una versione fritta, ancora più goduriosa, da gustare in purezza oppure immersa nel sugo e passata in forno.
La ricetta: Quadrucci
A fornire la ricetta dei quadrucci è Angela Fiorini, proprietaria del laboratorio di pasta fresca Meraviglie in Pasta di Zagarolo,nella campagna romana. Una realtà artigianale mandata avanti con passione insieme alle due figlie Valentina e Eleonora Euganei, e da tempo specializzata anche nella valorizzazione dei prodotti del territorio laziale.
Ingredienti
320 g. di farina di grano duro
4 uova
Formare una fontanella con la farina, fare un buco al centro e aggiungere le uova. Iniziare a sbattere con una frusta, incorporando, poca alla volta, la farina. Quando gli ingredienti saranno ben amalgamati, impastare a mano per qualche minuto fino a ottenere un composto liscio e compatto. Stendere la foglia con il mattarello, scegliendo lo spessore che si preferisce. Arrotolare la pasta e tagliare con il coltello a quadretti.
a cura di Michela Becchi
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