Quarta puntata della nostra rubrica dedicata agli street food meno conosciuti di tutto lo Stivale. È la volta di quelli campani, che scopriamo assieme alla ricetta delle golose graffe.
Ribadirlo può sembrare scontato, ma si tratta di una verità indiscussa: la regina incontrastata della gastronomia campana è la pizza, uno dei prodotti maggiormente conosciuti – e purtroppo “maltrattati” - al di fuori dei confini nazionali, grazie al quale a dicembre 2017 l’arte del pizzaiuolo napoletano è diventata patrimonio immateriale dell’Unesco. Oltre al classico disco servito al piatto, steso a mano, sottile e con il cornicione rigonfio, in tutto il territorio regionale la parola “pizza” individua altri interessanti prodotti, alcuni dei quali rientrano nel variegato universo del cibo da strada. Ci sono, in particolare, la versione chiusa a portafoglio e le opzioni fritte, in primis la tipica napoletana con il ripieno di ricotta, cicoli, salsa di pomodoro, provola e pepe. Per iniziare il nostro viaggio attraverso lo street food meno conosciuto della Campania (dopo Sicilia, Toscana e Trentino Alto Adige), andiamo invece alla scoperta delle altre varianti.
Pizzatulieddi. Foto di Toni Isabella e Anna Ida Guida
La pizza fritta, ma non quella napoletana
Da Calvi Risorta, comune della provincia di Caserta, arriva ad esempio la pizzonta, mentre a contraddistinguere la tradizione di Celle di Bulgheria (nel salernitano) sono i pizzatulieddi. In entrambi i casi – anche se ovviamente la ricetta può subire modifiche di casa in casa – il tratto distintivo delle due pietanze non risiede tanto negli ingredienti che le compongono, ma piuttosto nelle modalità di preparazione e consumo. Si parte infatti da un impasto lievitato cotto in olio bollente, che però (a differenza della più celebre pizza fritta napoletana) di solito non viene farcito prima della frittura, ma impreziosito dopo con sale o zucchero. È così che le casalinghe, creative interpreti dell’arte di non buttar via nulla, trasformavano gli avanzi in gustose merende. I pizzatulieddi, inoltre, sono spesso accompagnati con salumi e formaggi locali oppure vengono conditi con la salsa di pomodoro.
Guanto caleno. Foto Pro Loco Cales Novi
La tradizione, tutta al femminile, del guanto caleno
Restiamo a Calvi Risorta, ma passiamo al dolce, che qui è prima di tutto sinonimo di “guanto”, un prodotto diffuso pure in qualche comune limitrofo e spesso protagonista di sagre, ricorrenze e feste patronali. Si tratta di una ciambella a base di farina, zucchero, latte, olio di oliva, lievito (in origine si usava il bicarbonato), scorza di limone e anisetta. L’impasto viene lasciato riposare per circa mezz’ora, successivamente steso su una tavola di legno e tagliato a strisce con il uantaruolu, il tradizionale strumento caratterizzato da una rotella dentata. La pasta, avvolta a corona, è infine fritta in olio bollente. Il fascino di questa ricetta risiede soprattutto nel fatto che, ancora oggi, sono principalmente le donne del paese a realizzarla: custodi di segreti e tecniche necessari per dar vita al miglior guanto caleno, nelle varie occasioni si riuniscono e mettono in pratica la loro maestria.
Le origini e la variante di Falciano del Massico
Per quanto riguarda l’origine del nome, la leggende vuole che il guanto caleno sia nato perché, nel 1776, il barone Luigi Zona e suo fratello Muzio donarono la cappella patrizia - diventata poi la chiesa di San Nicola - al paese di Zuni (frazione di Calvi Risorta). A quel punto, per festeggiare, una signora intenta a preparare i dolci, dopo aver tagliato l’impasto a strisce e aver avvolto una di queste attorno alla sua mano, esclamò “m’ par’ propriu nu uantu”, ossia “mi sembra proprio un guanto”.
Spostandoci a Falciano del Massico, sempre nel casertano, la situazione non cambia: sono le guantarea impastare con abilità, dare al dolce la sua peculiare forma e friggerlo nei tempi giusti. Rispetto al guanto di Calvi Risorta, quest’ultimo è però più simile alle frappe o chiacchiere (in ogni zona d’Italia si usano appellativi diversi), dotato di una sfoglia fragrante e scioglievole al palato, che viene chiusa a mo’ di rosone.
Paddoccole. Foto di Toni Isabella e Anna Ida Guida
Street food dal Cilento
Torniamo a Celle di Bulgheria, perché tra gli street food da scoprire in questo angolo di Cilento non ci sono solo i pizzatulieddi, ma anche paddoccole e ruspitieddi. Le prime sono delle polpette (di solito dalla forma più allungata) di patate lesse, uova e formaggio di capra, impanate e fritte; le seconde, invece, sono delle frittelle di pasta lievitata: l’impasto a base di farina e lievito deve risultare morbido, va versato a cucchiaiate nell’olio bollente e tendenzialmente è arricchito dalla presenza di fiori di zucca o alici. “I ruspitieddi sono in realtà diffusi in tutto il territorio cilentano, dove le alici sono altresì protagoniste del classico cuoppo(il cono di carta oleata che accoglie i fritti, ndr)”, sottolinea Toni Isabella, collaboratore dell’ultima edizione di ‘A Cillisi, la tre giorni organizzata a Celle di Bulgheria ad agosto e dedicata proprio al recupero dei sapori della cucina cellese, “un tempo ci si riforniva dai pescatori e, date le limitate possibilità economiche, il cuoppo era riempito principalmente con le alici; oggi è sempre più comune trovarci la frittura mista, ad esempio con gamberi e calamari”.
Che ci metto nel cuoppo?
Nel capoluogo regionale lo scenario era molto simile, come testimonia la descrizione fatta dalla scrittrice e giornalista Matilde Serao nella sua opera “Il ventre di Napoli”: “con un soldo, la scelta è abbastanza varia, pel pranzo del popolo napoletano. Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini che si chiamano fragagliae che sono il fondo del paniere dei pescivendoli”. Ebasta fare una passeggiata tra le strade di Napoli per rendersi conto di quanto il cuoppo sia rimasto protagonista del cibo da strada partenopeo, riempito e ideato ad hoc a seconda delle richieste del cliente. Ci sono però dei pezzi canonici, che sul bancone delle friggitorie non possono mancare, come ci hanno raccontato dalla friggitoria Vomero, locale segnalato nella guida Street Food 2017 del Gambero Rosso: “la nostra offerta comprende, ad esempio, le zeppole, caratterizzate da un impasto a base di acqua, farina, lievito e sale, che viene lasciato lievitare e infine fritto, oltre ad arancini di riso, verdure pastellate che variano secondo stagione come melanzane e fiori di zucca (in dialetto sciurilli, ndr), scagliozzi, ossia triangoli di polenta; e poi frittatine di maccheroni e crocchè:queste ultime sono crocchette fritte di patate dette pure panzarotti, disponibili in due formati (quelle più grandi custodiscono un cuore di formaggio)”.
Graffe. Foto: pasticceria Capriccio
Il dolce nato dopo l’arrivo degli Asburgo: storia e leggenda delle graffe
In quanto contenitore perfetto del ricco ventaglio di prelibatezze da passeggio, il cuoppo non poteva che essere declinato anche in versione dolce: in questo caso, accoglie di frequente le graffette, formato mignon di un altro grande classico dello street food napoletano. Stiamo appunto parlando della graffa, una sorta di ciambella fritta che la tradizione vuole chiusa a forma di nodo e caratterizzata dalla presenza di patate nell’impasto (oggi, però, c’è pure chi non le utilizza); sotto trovate la ricetta fornitaci dalla pasticceria Capriccio, indirizzo recensito dalla nostra guida Pasticceri&Pasticcerie 2018, aperto nel 1917 e dove, con la stessa pasta delle graffe, si preparano pure golosi cannoli farciti con la crema pasticcera.
Sulle origini di questa preparazione non ci sono informazioni certe, ma tendenzialmente si fanno risalire al XVIII secolo, quando - a seguito della firma del trattato di Utrecht nel 1713 - il Regno di Napoli finì sotto il dominio di Carlo d’Asburgo. Le graffe sarebbero dunque il frutto di una reinterpretazione del krapfen(la parola stessa va a supporto di questa tesi). A livello etimologico, infatti, c’è chi afferma che i due termini derivino dal longobardo krapfo, ossia uncino, altrimenti una seconda ipotesi li collega al cognome della pasticcera che, nel 1683 a Vienna, pare abbia realizzato per la prima volta i krapfen, Cäcilie - secondo altre fonti, Veronica – Krapf.
Frattaglie “da passeggio”, ‘o pere e ‘o musso
Torniamo al salato, ma sempre in formato cuoppo: la tradizione vuole che, proprio al suo interno, venga servito ‘o pere e ‘o musso(letteralmente, il piede e il muso), una pietanza a base di frattaglie che a Napoli - ma non solo - sono stati i carnacuttari a diffondere, ossia i venditori di trippa e carni cotte. “Originariamente si utilizzavano piede e musetto del vitello, ma poi il primo è stato sempre più frequentemente sostituito con quello del maiale”, precisa Francesco Leone del locale ‘O Muss Francesco a San Valentino Torio (in provincia di Salerno), segnalato dalla guida Street Food 2017, “oltre a queste due parti, si impiegano tanti altri scarti di macellazione, come lingua, centopelle, intestino: il tutto, dopo esser stato accuratamente pulito, viene bollito, tagliato a pezzetti e condito con sale e limone, oppure si aggiungono olive, lupini, finocchi, sottaceti e peperoncino per la versione a insalata”.
La storia del cibo da strada napoletano, tra brodo di polpo e taralli
I carnacuttari sono solo una delle tante figure che animavano il variopinto universo dello street food partenopeo, che fa della Campania una di quelle regioni in cui l’abitudine di acquistare e consumare in strada vere e proprie pietanze è da sempre radicata nella tradizione popolare (reggono bene il confronto i mercati siciliani). Negli anni, complici il cambiamento delle abitudini collettive e –ancor di più - l’introduzione di nuove norme, alcune categorie di venditori ambulanti sono quasi o del tutto scomparse.
Un tempo, a riscaldare gli inverni napoletani c’erano pure i pentoloni fumanti di brodo di polpo (in dialetto ‘o bror ‘e purp) che profumavano i vicoli della città, anche questi descritti nell’opera “Il ventre di Napoli” di Matilde Serao: “con due soldi si compera un pezzo di polipo bollito nell’acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta”. Oggi, specialmente in qualche trattoria, è ancora possibile trovare la classica tazza riempita di brodo caldo e ranfetella, ossia il tentacolo.
E poi c’erano i tarallari, perché – a dispetto dell’opinione comune – i taralli non sono solo un prodotto pugliese, dato che la gastronomia campana ne annovera vari tipi, le cui caratteristiche cambiano da zona a zona: a Napoli, in particolare, sono caratterizzati dall’accoppiata nzogna(sugna) e pepe e dalla presenza delle mandorle. Se prima erano numerosi i carretti da cui poterli acquistare, oggi ci si reca invece in chioschi o panetterie.
Freselle. Foto Antica Freselleria
E ancora, freselle e maruzze
Da non dimenticare, nemmeno, i fresellari e i maruzzari (rispettivamente venditori di freselle, una sorta di pane biscottato che può avere la forma di una ciambella o di un crostino, e di maruzze, vale a dire le lumache di terra, ma in realtà anche di quelle di mare e altri molluschi), due figure apparentemente lontane che invece la tradizione ha unito. “Come esercenti ambulanti in strada sono scomparsi”, ricorda Antonio Di Paolo dell’Antica Freselleria di Napoli, un’attività familiare che si dedica a produzione e vendita di freselle da sette generazioni, “ma prima andavano a braccetto perché la tipica zuppa di maruzze si mangiava – e nei ristoranti si mangia tutt’oggi - accompagnata proprio dalle freselle”. L’origine di questo piatto caldo si fa risalire alla passione di Ferdinando I di Borbone per le cozze: un frate domenicano gli suggerì di non assecondare i suoi peccati di gola in occasione della settimana santa ed egli decise di seguire il consiglio. Non riuscendo però a rinunciare ai molluschi, Ferdinando chiese al cuoco di corte di renderli protagonisti di una ricetta più grama e nacque così la zuppa di cozze. Essendo queste ultime molto costose, il popolo fece propria la ricetta ma dovette sostituire l’ingrediente principe con le lumache di terra.
Il panino di Napoli: il pagnottiello
Concludiamo questo viaggio restando nel capoluogo regionale, che può vantare un suo rustico caratteristico: il pagnottiello. Lo si prepara con un impasto simile a quello del casatiello, che viene farcito con salumi, formaggi e uovo sodo (ma è facile trovarne anche altre varianti), arrotolato su se stesso e tagliato a rondelle dalla forma più o meno allungata, che infine vengono cotte al forno. Un prodotto nato dalla fantasia delle massaie e dalla necessità di riciclare gli avanzi, diventato poi un appetitoso spezza-fame da gustare tutto l’anno e a qualsiasi ora del giorno.
La ricetta delle graffe della pasticceria Capriccio
Ingredienti per l’impasto
250 g di farina 0
250 g di farina 00
10 g di sale
10 g di zucchero
50 g di burro
1 uovo
100-200 g di acqua a temperatura ambiente
10 g di lievito di birra
Succo di limone q.b.
Aroma di vaniglia q.b.
Per friggere
Olio di semi q.b.
Unire le farine, sale, zucchero, lievito e burro; aggiungere gli altri ingredienti (l’acqua gradualmente), impastare fino a ottenere un composto omogeneo ed elastico. Lasciar riposare per circa 10 minuti, stendere l’impasto e ottenere con uno stampo delle ciambelle, che devono poi lievitare per altri 10 minuti.
Friggere in olio bollente fino a quando le graffe non risultano dorate e rigonfie. Dopo aver lasciato scolare l’olio in eccesso, immergere subito le graffe nello zucchero semolato.
Friggitoria Vomero – Napoli – via D. Cimarosa, 44 – 0815783130 www.facebook.com/friggitoria.vomero/
Capriccio Pasticceria – Napoli – via Carbonara, 39 – 081440579 - www.facebook.com/capriccio1917/
‘O Muss Francesco – San Valentino Torio – via Zeccagnuolo, 3 – 3382580501
Antica Freselleria – Napoli – via Sant’Antonio Abate, 116 – 081200176 - www.facebook.com/antica-freselleria-298706920170106/