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1968-1977: i 10 anni in cui è nata la cucina italiana moderna

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Prendi un periodo storico peculiare, tra le contestazioni del 1968 e quel 1977 che vide Gualtiero Marchesi aprire il suo ristorante a Milano. Analizza questo decennio, parla con i protagonisti di allora, senti i giovani chef di oggi ... E scopri che proprio in quegli anni si è formata la vera identità (oggi più solida che mai) della cucina italiana contemporanea

1968-1977: il decennio che ha creato la ristorazione italiana

Il superamento (senza sciocche rottamazioni anzi gradualmente e con infinito rispetto) di una certa cucina aristocratica e di corte, la nascita del concetto stesso di brigata, l’attenzione e la ricerca delle materie prime, l’invenzione di una cucina da ristoranteche non fosse solamente una cucina da casa rielaborata verso il lusso, l’idea della pasticceria e dello chef pasticcere, un rapporto di attenzione ma non di sudditanza con la Francia, l’esigenza a un certo punto di fare i piatti al momento e non di riscaldarli dopo l’ordine del cliente. Tanti dettagli e tanti passaggi che oggi ci appaiono assolutamente scontati, impostazioni che ci sembrano così da sempre. Non è così. Molti di questi modelli sono nati nel decennio che intercorre tra il 1968 e il 1977.

Abbiamo scelto questo intervallo di tempo (tra la contestazione del Sessantotto da un lato e l’apertura a Milano del ristorante di Gualtiero Marchesi dall’altro) con l’obiettivo di analizzarlo, di approfondirlo, di chiedere ai protagonisti che guardano con fascino, studio e attenzione a un momento storico peculiare. Un momento storico in cui nasceva la grande cucina internazionale francese contemporanea, così deflagrante da oscurare qualsiasi altra cosa. Ma un momento storico durante il quale probabilmente si andava definendo l’identità della cucina italiana attuale. 

Il San Domenico di Imola

La storia sarà lunga e piena di protagonisti, ma non può che iniziare con lui: chef Valentino Marcattilii. Il ‘68? Per me erano le bastonate che prendevo dai più grandi davanti ai cancelli di scuola! Certo, erano anni di grande movimento, di passione...”. Marcattilii, classe 1954, era un ragazzo quando agli inizi degli anni ’70 viene chiamato al ristorante San Domenico di Imola: lui lavorava dietro al bancone del bar a poca distanza, mentre suo fratello Natale era già in sala nel nuovo progetto di Gianluigi Morini, aperto nel 1970. Bastò poco più di un anno perché quel progetto cominciasse a cambiare le carte in tavola nel modo di fare ristorazione in Italia. “Morini aveva un progetto, lui sì che era contaminato dalle idee di svecchiamento che si respiravano in quegli anni. Non gliene fregava nulla di portare a tavola tagliatelle burro e salvia, ravioli e castrato, che erano i piatti bandiera dell’Emilia Romagna”racconta Valentino “Il cuoco che avevano, però, non capiva, forse non aveva la voglia né la testa per pensare di fare altro. Io ero proprio alle primissime armi in cucina, stretto tra le idee di Morini e le padelle che volavano (e ho appreso subito che volavano basse!) tra il cuoco e la sua morosa ai fornelli con lui” .

Era il 1973: Gianluigi Morini voleva fare un ristorante nuovo, diverso da quello di Peppino e Mirella Cantarelli che avevano sì grandissimi Champagne, Bordeaux e la più grande carta dei Borgogna, ma erano in campagna e proponevano selezioni speciali di Parmigiano e di culatello. “Allora il culatello, il Reggiano e l’aceto balsamico non è che girassero molto neppure da noi. Ma Cantarelli stava in campagna, Morini aveva altre idee”ricorda Valentino “Gianluigi era amico di Veronelli e gli chiedeva spesso se aveva idea di come trovare un cuoco che potesse essere adatto al suo progetto. Fu così che ebbe inizio la sfida: portare la cucina alta, quella delle grandi case aristocratiche, quella che in pochissimi potevano mangiare, nelle cucine di un ristorante borghese, per tutti”.

L'incontro con Nino Bergese

Il racconto dell’aggancio e della conquista di Nino Bergese alla causa è divertente e sintomatico sia dei tempi che del carattere di quella grassa Emilia che fa da ponte verso la sanguigna Romagna, la regione che allora era il simbolo gastronomico del paese.

Partiamo da Imola con una Cadillac, tanto per non smentirci da bravi sbrasoni romagnoli. Lui era già in pensione, aveva da poco chiuso a Genova il suo ristorante Dalla Santa a vicolo Indoratori: dalla terrazza di casa sua ci faceva vedere lo spettacolo del mare di Pieve Ligure e ci indicava le ville degli Agnelli, dei Marzotto e dei Borromeo… Lui ci aveva lavorato in quelle case, dopo la caduta dei Savoia di cui fu l’ultimo cuoco. Ci guardò negli occhi e sorrise: 'E voi vorreste portarmi in una terra di nuvole a lavorare in mezzo alla nebbia?' Tornammo a Imola con la coda tra le gambe. Poi un amico di Morini ci spiegò che avevamo fatto i soliti romagnoli sbruffoni e ci consigliò di scrivergli una lettera strappalacrime che finiva così: 'non è possibile che il suo sapere finisca con la sua morte…'. Dopo due settimane ci telefonò avvertendoci che sarebbe venuto una domenica a pranzo per vedere la zona. Figurarsi come eravamo sulle spine qui”.

Il pranzo al San Domenico

Ricorda ancora emozionato Marcattilii “Decidemmo di preparargli i tortellini in brodo di cappone poi e i tortelli di erbe e ricotta di pecora al burro e salvia. Il sugo di arrosto che usava la Mirella Cantarelli a Samboseto io non sapevo neppure cosa fosse… Per secondo feci una fesa di vitello glassata con crema di limone e dei medaglioni di cipolla fritti: avevo visto qualcosa del genere sempre da Cantarelli. Per dolce facemmo ananas alla Hilton: non so se fosse un nome inventato da noi o se esisteva davvero. Era il frutto tagliato a metà e svuotato, riempito di gelato con nocciole e torrone e sopra la polpa a cubetti ricoperta di panna montata e colatura di amarena con un pizzico di Vov, che allora andava per la maggiore. Sul ciuffetto, una zolletta di zucchero imbevuta di alcol e flambé. L’era un dulsaz! Un dolciaccio, ma se lo finirono tutto”.

La seconda vita del cuoco dei re e re dei cuochi

Insomma, inizia così il rapporto tra San Domenico e il “cuoco dei re e re dei cuochi” come lo definiva Veronelli. Il primo accordo era: 10 ricette a 100mila lire ciascuna, oltre al pagamento dell’albergo Campana sulla piazza Matteotti. “Ma in realtà”ricorda Valentino “finì che lui restò con noi. Appena Veronelli seppe la cosa, la scrisse sui giornali e quella consulenza assunse un rilievo ben più ampio: Bergese amava stare qui, spesso venivano a mangiare i suoi clienti di Genova e lui ritrovò una seconda vita. Andavamo spesso in giro a provare altre cucine: lui amava sempre mangiare ravioli di formaggio e castrato”.

La cucina dell'epoca

Erano anni di passaggio, quelli. Nei ristoranti dei grandi alberghi si faceva la cucina internazionale (quella di origine franco-russa, dell’aristocrazia del secolo precedente): andava il filetto alla Voronoff, il filetto alla Wellington, i grandi tagli di carne in crosta. C’erano una decina di grandi posti: il Charleston a Palermo, la Sacrestia a Napoli (avevano un babà gigante spettacolare), Sabatini a Firenze e Savini a Milano dove si faceva una cucina regionale di lusso, magari potevi trovare la salsiccia deglassata al Madera... Poi, i ristoranti del Baglioni a Venezia, del Grand Hotel di Milano, quello del Principe di Piemonte a Torino dove si mangiavano dei fantastici tajarin al tartufo bianco. Sempre in quegli anni alla Cesarina di Bologna nascono i tortellini alla panna, piatto cult che sarà da allora sempre un mito per tutti, in particolare per i bambini che ne vanno sempre matti. E all’Harry’s Bar di Cipriani prendono vita i Tagliolini ripassati in forno con la besciamella che poi verranno riproposti da Alfredo a New York: un piatto che farà furore negli Usa dove ancora è sinonimo di cucina italiana!

Le trattorie, in realtà, stavano diventando border-line: si cominciava a scimmiottare una cucina simil moderna, a imitare senza averne la tecnica e la tradizione i piatti di Paul Bocuse o dei Troisgros visti su giornali e riviste, nascevano le terrine tricolori, gli aspic, i pasticci di fegato e cose simili, mai visti in Italia. C’era l’eco di quella che si cominciava a conoscere come Nouvelle Cousine, ma se ne viveva solo l’ombra riflessa. Anche perché, nonostante la Nouvelle Cuisine, Bocuse continuava a fare il suo pollo in vescica, la costata di bue o la zuppa alla Valery Giscard d’Estaing. In Francia, la cultura e la disponibilità delle materie prime c’era davvero, sapevano lavorare e valorizzare le materie che entravano in cucina, non le sciocchezze che vedevo nei giornali italiani… Da noi, poi, non c’era neppure il mercato. Io ho fatto il mio primo stage dai Troisgros, a Rennes; quando son tornato mi chiedevo: e ora che faccio? Lì avevano il petto d’anatra, qui dovevo comprare l’anatra intera. Se avessi dovuto preparare 10 carrè d’agnello, avrei dovuto acquistare 10 agnelli! Tanto che nel 1976 partivamo con Annie Feolde ogni giovedì e ci facevamo i mercati di Nizza e di Valbonne, quelli dove i Tre Stelle francesi andavano a fare spesa”.

La rivoluzione San Domenico e il dopo Bergese

È così che il San Domenico dà il via a un’operazione fondamentale per la ristorazione italiana: declinare nella cucina agile di un ristorante per tutti i piatti della nobiltà e dell’alta borghesia italiana, osservando la Francia dove stava avvenendo una cosa simile e puntando su due elementi fondamentali: mercato e tecnica. “Alla morte di Nino Bergese, nel ’77, ero probabilmente io, suo allievo prediletto (gli stavo sempre appiccicato, non mi perdevo una parola ed è a lui che devo tutto ciò che ho appreso) quello che in cucina aveva più visione, da poter portare avanti l’obiettivo del San Domenico.”

La Francia era l’unico luogo cui guardare, così la cucina si è anche un po’ mescolata con quella francese. Io qui non trovavo ingredienti: a partire dalle erbette aromatiche fresche come la verbena o la santoreggia, il dragoncello o la melissa. Con la Annie andavamo a comprarle vicino a Nizza, poi al mercato compravamo le carni e il foie gras freschi, poi tenevamo tutto nei frigo a 1-2 gradi, per farcele durare. Facevo anche continui stage in Francia: alla Pyramide, da madame Point, il tempio della nuova cucina francese. Le vedova del grande Fernand (morto vent’anni prima) mi regalò il mio primo robocop, un robot da cucina, e con lei acquistai le prime splendide pentole di rame che ancora usiamo in cucina ogni giorno e che ogni tanto portiamo a ristagnare. Andavo da Vergé...”il racconto di Valentino scava nei ricordi, procede a flash...

Il passaggio verso la modernità: dalla Francia all'Italia. La nascita dei ristoranti

E continua a tracciare il passaggio alla modernità della cucina italiana. “Tornando dalla Francia, cominciavo anche a cambiare i piatti di Bergese: i suoi erano cotti in precedenza, rispetto al servizio, e venivano poi riscaldati: erano piatti di casa, per quanto altolocata. Io cominciai a farli al momento, con le salse lavorate a parte. In realtà, non mi interessava rifare in Italia i piatti che vedevo in Francia: il mio obiettivo era apprendere bene la tecnica per poter fare bene i nostri piatti espressi. Marchesi aprirà il suo locale in Bonvesin de la Riva 12 anni dopo di noi. Abbiamo cominciato al San Domenico a fare una cucina familiare di alto livello in un ristorante e ad avere una brigata di cucina. Allora mica c’erano le brigate. Il primo pasticcere di ristorante che faceva dolci al piatto credo di averlo portato io in Italia: Pascal Piermattei, che lavorava nella brigata di Roger Vergé, venne da noi e poi andò a lavorare da Perbellini. Dalla fine degli anni ’70 io, mio fratello Natale e Gianluigi Morini facevamo periodicamente settimane di full immersion in Francia: andavamo a visitare due Tre Stelle al giorno, metodicamente, per capire come funzionavano sia la sala che la cucina. Ma non per carpire le ricette dei piatti, bensì per capire l’approccio, la filosofia”. Era la fine degli anni '70: dopo, è arrivata la cucina italiana moderna.

 

a cura di Stefano Polacchi

foto per concessione di TOILETPAPER magazine: Maurizio Cattelan and Pierpaolo Ferrari

 

QUESTO È NULLA...

Abbiamo raccontato l'epopea di quegli anni pioneristici nel numero di gennaio del Gambero Rosso, in questi giorni ancora in edicola. Nel servizio, 14 pagine tra testi, grafici e affascinanti illustrazioni, abbiamo vistocome sono cambiati i piatti del San Domenico nell'epoca del dopo-Bergese, dal risotto all'Ammiraglia al famoso uovo in raviolo, all'anatra al torchio. Non solo: abbiamo raccolto la testimonianza di Gualtiero Marchesi - che ci ha raccontato i suoi anni '70 nel suo ultimo articolo prima della sua scomparsa - e la riflessione del suo allievo Riccardo Camanini, chef e studioso della storia della gastronomia. Nel servizio anche il ragionamento sulle differenze tra Italia e Francia nella lettura di Matteo Lorenzini, il ritratto di un posto mitico come l'Harry's Bar fatto da Flavio Birri, poi ancora Fulvietto Pierangelini, Alessandra Meldolesi, Vanessa Roghi, Laura Mantovano. A completare il tutto, le immagini d Toiletpaper (alcune le vedete anche qui) magazine targato Maurizio Cattelan e Pier Paolo Ferrari. A dir poco un articolo da collezionare.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App StorePlay Store. Abbonamento qui.


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