È l'italiano del Sud America che crea scompiglio nella Parigi dei ristoranti. A due mesi dall'apertura del suo locale Mauricio Zillo, ex chef del Rebelot del Pont di Milano, ci presenta il suo A Mere.
È successo di nuovo: via dall'Italia, stavolta dalla Milano dell'Expo, direzione Parigi. E la Ville Lumière accoglie benevola, pronta a premiare i nostri migliori talenti. Poco importa se poi non sono nati nella Penisola. “Tanti qui mi credono italiano” dice Mauricio Zillo, brasiliano “con l'anima napoletana”, famiglia italiana e passaporto pure. Archiviata l'esperienza del Rebelot del Pont sui navigli meneghini, Mauricio è venuto a ingrossare le fila degli italiani di successo nella capitale francese. Perché, a due mesi dall'apertura, il suo A Mere va alla grande: “passato il momento più difficile”, le prime settimane. Anche perché è partito in sordina: niente comunicazione o inaugurazioni, per lavorare con calma e fare rodaggio. “perché i francesi sono disponibili, si fidano molto, al contrario degli italiani che temono sempre una fregatura e li devi conquistare nel tempo, hanno un altro gusto, ma anche tanta voglia di scoprire. Ma poi devono dire la loro, su tutto” quindi meglio partire piano, approfittando del vuoto di luglio e agosto. “Adesso dicono che A mere è il locale più originale di Parigi. Dicono...”
Il locale
Cos'ha di così particolare? L'atmosfera, di sicuro. Anche perché per ora si è investito molto sulla cucina e poco sugli arredi, reinventando con una buona dose di spirito l'ambiente ereditato dalla gestione precedente, un neovietnamita specializzato in bo bun, la ricca insalata tipica. “Una cosa un sacco di moda a Parigi in questo momento” dice “Ma noi non vogliamo essere un locale modaiolo, di quelli che dopo un po' perdono l'anima. Vogliamo lavorare soprattutto con i francesi, con persone che vogliono stare bene a tavola e che poi magari tornano”. Il ristorante funzionava già, quindi è bastato poco per partire. L'insegna che aggiunge un “ceci n’est pas un” alla scritta bo bun, strizzando l'occhio a Magritte, e soprattutto segnalando il cambiamento. Tolte le lampade e un vetro per creare il bancone (con una decina di coperti scarsi), rimane la decorazione rossa sul muro, che tanto è piaciuta ai cugini d'Oltralpe che ne hanno fatto il simbolo di uno stile vivace e insolito. Tutto immediato, o quasi. Burocrazia? “Qui c'è, e anche le tasse ci sono, e pure alte. Ma le cose vanno veloci. Non posso fare il confronto col Rebelot, visto che non ero in società”. Solo questo? “No, siamo in Francia, qui la ristorazione è un mestiere, non ci si improvvisa”. Che significa? “Che è più facile iniziare da zero, usare la propria testa e lavorare. Il mio sogno era di rimanere in Italia, ma dall'Italia tutti i giovani alla fine scappano. Per quello che facciamo Parigi è il posto ideale”.
La cucina
Ma che fate? “Cucina francese alleggerita dal sole del sud Italia” dice Zillo che qualcuno l'ha definita così. “Una cucina semplice in cui il prodotto conta moltissimo” aggiunge. Prodotti francesi, “anche se all'inizio avevo altre idee. Ora uso ingredienti italiani solo se c'è qualcosa di veramente buono, e non capita spesso. Qui non posso andare al mercato come facevo a Milano, lavoro con i fornitori, va bene quando hanno capito quel che vogliamo per la nostra cucina”. Che gioca con i sapori e i contrasti tra gli ingredienti, “una cosa cui apparentemente i francesi non erano abituati” dice, e aggiunge: “nel 2007 non c'erano molti italiani, ora non è più così. E visto che voglio sempre fare qualcosa di nuovo rispetto a quel che vedo intorno, ho deciso per una cucina più francese”. Stesso motivo per cui non ha conservato il concept di tapas del Rebelot: “qui in Francia i piattini vanno molto, ma io mi sono stancato”. Quindi le porzioni sono regolari, anche abbondanti, come “quelle della cucina della mamma” aggiunge.
Il menu
Una carta mignon: tre scelte di ogni portata che variano spesso, “in due mesi abbiamo fatto 63 piatti” dice “ma solo 9 per volta, dedicandovi la massima attenzione. Anche perché in cucina siamo solo due”, lui e Francesco Ruggiero, il suo secondo a Milano e presto tra i soci. Nel tempo si aggiungerà un lavapiatti e una seconda persona in sala, che affianca Mikaël Grou, già secondo sommelier del George V e socio insieme a Mauricio e Juan Arbelaez “un fratello, ci conosciamo dalla scuola”. Tre soci, presto quattro. Tre persone tra sala e cucina, presto cinque. “Siamo un gruppo della madonna” dice. Tutto sembrerebbe parlare di bistronomia, o quasi. Niente menu unico? “No, non funziona più secondo me: è ora di di dare la parola al cliente. Lui sceglie un ristorante, sceglie noi, e noi ascoltiamo cosa gli piace” e aggiunge “è bello che ci siano locali col menu fisso, ma se uno ha voglia di mangiare solo un piatto deve poterlo fare”. Torna il cliente al centro anche nei prossimi obiettivi: cambiare gli sgabelli e, magari, anche i tavoli comuni, che ora possono ospitare 27 persone. “Dobbiamo investire nel comfort dei nostri ospiti”. Perché se è vero che l'impronta è quella di un bistrot per tutto quello che non è cibo e vino - “lì deve essere come in uno stellato” dice - con le posate nei barattoli al centro del tavolo e il servizio superinformale, il prezzo accessibile (circa 35 euro per tre piatti, 50 per il degustazione), è anche vero che le persone devono stare bene, che significa anche comode.
I piatti
Torniamo in cucina. Parigi è impazzita per gli ingredienti segreti, come sono stati chiamati alcuni prodotti inaspettati, come l'anguilla affumicata nel dessert al cioccolato, o l'ostrica o il fondo di carne, sempre nei dessert. “Non è una questione di quali ingredienti metto nei piatti, ma di quali sapori hanno. Quindi nell'anguilla cercavo l'affumicato, nell'ostrica lo iodato. Sfumature che mi interessava ottenere”. Detto così sembra quasi ovvio, ma non lo è. “Nei tre mesi di vacanza ho avuto il tempo di elaborare quello che stavo già facendo senza capirne bene i motivi o i meccanismi. Il riposo è fondamentale per le persone. E non è un caso che qui siamo chiusi sabato e domenica. In Italia è impensabile. Ma serve per ragionare con calma e con la propria testa”. Lo stesso motivo per cui le esperienze fatte hanno lasciato traccia ma non indicato un percorso già predisposto. O per cui quei dessert che hanno suscitato tanto clamore non sono sempre in carta: “In questo momento non c'è carne né pesce nei dolci, al massimo la salicornia. Quando le persone dicono che un piatto non lo posso levare dal menu, è proprio il momento che lo tolgo”. Nessuna imposizione, nessun obbligo, moda o paranoia. Per esempio per i vini, una cinquantina di referenze, in via di ampliamento. “Abbiamo dei vini naturali, ma che siano bio e senza glutine, neanche lo scriviamo. Sono vini buoni, che ci piacciono e basta” e aggiunge“a furia di seguire tendenze si sta smettendo di ragionare. Non si decide più con la propria testa”.
Il nome
A proposito: ma perché A Mere? “A, è l'articolo come si dice spesso nel sud Italia, in dialetto. Richiama la mia anima napoletana e quella di Francesco, che è pugliese. E anche Mikaël sta imparando l'italiano. Poi ci sono il richiamo alla madre, alla cucina della mamma, al mare che è molto presente, magari solo per dare complessità ai piatti, e all'amaro, che è un gusto una volta inaccettabile nella cucina francese”. Tre ristoranti da consigliare? “Quelli di Giovanni Passerini e Simone Tondo, appena riapriranno, e poi Plantxaa Boulogne”.
A Mere | Francia | Parigi | 49 rue de l'échiquier| tel. +33.1.73202452 | http://www.amere.fr/
a cura di Antonella De Santis