L’ultima giornata di Gourmet Food Festival, al Lingotto di Torino, porta sul palco altri volti noti dell’enogastronomia italiana, ben felici di confrontarsi con una manifestazione pop. Con Christian Milone si scopre come scegliere la carne, Iginio Massari racconta come realizzare il dolce perfetto. E Simone Padoan svela i suoi segreti per la pizza. A casa propria. Intanto i maestri della pizza si raccontano.
Il bollito piemontese
È domenica mattina, e Torino si sveglia baciata da un bel sole autunnale. Al Lingotto Fiere, dalle prime ore del mattino si riparte per l’ultima giornata di Gourmet Food Festival. E l’Agorà si scalda col racconto di tradizioni molto familiari per i torinesi, che dell’infanzia ricordano il profumo di bollito della domenica mattina, in tavola per il pranzo del giorno di festa. È il ricordo più caro a Christian Milone, che tra i profumi della cucina è cresciuto sopra al ristorante di famiglia, a Pinerolo, dove oggi dirige la Trattoria Zappatori, con una personalità che gli ha permesso di conquistare l’attenzione della critica e la fiducia di un pubblico in cerca di una nuova rappresentazione della cucina di territorio. In Piemonte il bollito è un’arte, si prepara con 7 tagli diversi, accompagnato dai bagnetti. Per Christian, spesso frastornato dagli odori invadenti della cucina del piano di sotto, “il profumo del bollito, così delicato e morbido, è il momento più felice di quando ero bambino. Ho ricominciato a cucinarlo al ristorante solo per tornare a sentirne l’odore”. Sul palco di Gourmet arriva accompagnato dalla mostarda Fredo, con la carne di fassone della macelleria Mastro Taricco di Robilante. Il taglio scelto – la vena – privilegia una percentuale di grasso e collagene importante, nonostante “la carne di fassone di collagene e grasso ne presenti percentuali piuttosto basse”.
La carne. Come sceglierla
A parlare sul palco, protagonista insieme a Christian Milone della lezione sulla carne – come sceglierla, riconoscerla, utilizzarla in cucina – è Fabrizio Lombardi, il volto di una delle più celebri macellerie del territorio, recentemente sbarcata anche a Torino, dopo 35 anni di attività a Robilante, dove si macellano le carni dell’allevamento di proprietà, 100 capi di fassone piemontese da filiera corta. Un tripudio di piemontesità, per un incontro che parte dalle basi – quanti sanno che il fassone è una recente “modificazione genetica ipertrofica naturale della razza piemontese, allevata solo dal 1870”? – e arriva in tavola, con la consueta, generosa, dose di consigli pratici che portano lo chef a dialogare in modo semplice e diretto con una platea di amatori e appassionati. “La prima domanda da fare al macellaio?” provoca Taricco “Chiedergli se la carne che vende è fresca: se la risposta è sì, allora uscite subito!”. Sulla carne, la sua percezione visiva, il suo utilizzo in cucina, moltissimi sono i luoghi comuni da sfatare: “La carne non va consumata fresca, richiede una frollatura di almeno tre settimane, perché la fibra si rilassi. La pratica però ha finito col perdersi perché è antieconomica: la carne frollata perde il 20-25% di peso”. Il consiglio più utile, al contrario, è quello di diffidare dai banchi ricolmi di carne rossa in modo innaturale – “rossa inviperita” l’aveva definita sabato sullo stesso palco Cristiano Tomei dell’Imbuto di Lucca, diffidando il pubblico in sala dall’acquistare i soliti tagli, per privilegiare invece parti meno utilizzate, come la pancia del manzo, e razze autoctone del territorio, la garfagnina nel suo caso – senza timore di acquistare una carne più scura, “con il grasso giallo come quello che potreste trovare nelle macellerie dei Paesi Baschi”, gli fa eco Milone.
Il vitello tonnato
A Gourmet, lo chef di Pinerolo interpreta a modo suo un altro grande classico della cucina piemontese (“che non rinuncia mai alla carne”): il vitello tonnato, con un girello di fassone di Mastro Taricco, frollato per tre settimane. La sua è una gestione attenta del prodotto, rispettosa delle caratteristiche nutrizionali della carne: “Abbiamo smesso di cuocere la carne alla ‘spera in Dio’, come diceva mio padre”. Ma pure il ricorso obbligato alla tecnologia è bandito, soprattutto quando diventa superfluo, o peggio ancora deleterio. Prima di essere affettato il suo girello viene cotto a 82° C, fino al raggiungimento di 54° C al cuore. Tutto si completa con una salsa tonnata che alla ricetta classica – uova, tonno e capperi sotto sale – unisce aceto e caramello al peperoncino. Completa una foglia di insalata riccia, per l’equilibrio amaro. Con un ultimo appello all’orgoglio piemontese, che rintraccia le origini della carne cruda nella tradizione del territorio, prima che Cipriani, a Venezia, avesse l’intuizione di “inventare” il carpaccio (all’albese), all’inizio degli anni Cinquanta.
Pasticceria casalinga con Iginio Massari
Ma nell’ultima giornata di Gourmet c’è spazio anche per il maestro della pasticceria italiana, Iginio Massari, che intorno al palco richiama il pubblico delle grandi occasioni. Chi meglio del grande pasticcere bresciano, del resto, può raccontare i dolci “dei sentimenti”? Di competenza tecnica, e conoscenza dei processi di trasformazione e reazione della materia, Massari ne ha da vendere. Ma la sua lezione è un invito a cimentarsi con i dolci fatti in casa, senza paura di incappare negli errori più comuni (almeno non dopo aver appuntato i consigli del maestro): dosi e pesi approssimativi, eccessiva manipolazione delle masse montate a base di grassi, cotture scorrette per temperatura e gestione del vapore. “Per fare il cibo bisogna avere conoscenza di cosa e come si utilizza”. Più semplice di così. E invece no, persino nei laboratori di pasticceria: “Negli ultimi 20 anni la professione è andata sfumando, invece le regole bisogna rispettarle”. Persino lui, un mostro sacro del mestiere, quando si confronta con i lieviti – specie il panettone, “il dolce più difficile di tutti” – ha il dubbio di sbagliare: “Dominare la natura della fermentazione è un percorso molto complesso”.
I dolci dei sentimenti
In parallelo corre la preparazione storica e la curiosità verso la tradizione: “Non c’è innovazione senza conoscenza del passato. L’evoluzione avviene per necessità, o attraverso leggi definite”. In questo senso la sua “è una pasticceria trasgressiva: non c’è progresso senza trasgressione”. E l’obiettivo di un bravo professionista dev’essere uno: fare qualità. Senza troppi giri di parole. La dimostrazione pratica è la crostata con confettura d’albicocche che Iginio porta sul palco. Ogni passaggio ha il suo significato: “La confettura non deve mai superare di oltre il 25% la percentuale del peso della frolla. E la griglia non è un vezzo, è necessaria perché produce vapore in cottura, garantendo alla confettura di restare entro i 96° C e non stracuocersi”. La crostata, insieme al plum cake, secondo il maestro sono dolci che in casa non dovrebbero mai mancare. Il suo dolce dei sentimenti, invece, “è la millefoglie di mia mamma: non sono ancora mai riuscito a replicare la sua crema”. Applausi a scena aperta e assaggi che conquistano tutti, mentre Iginio si congeda ricordando quando da bambino cadde in una vasca di crema alla vaniglia, “proprio come Achille immerso per ottenere l’invulnerabilità”. Il dono “magico” ricevuto in sorte dal maestro, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Per la gioia di chiunque ami la pasticceria.
La pizza. Una questione di scelte ben precise
Arriva da quel tempio del lievitato – pizza, pane, dolci - che è I Tigli di San Bonifacio, Simone Padoan,che in una lezione densa di nozioni preziose mette giù, uno dopo l'altro, consigli e idee per la pizza fatta in casa. Non senza di aver avere ricordato, prima, il ruolo di divulgatore e di anello di congiunzione tra artigiano e consumatore di chi prepara e somministra il cibo, sia esso cuoco o pizzaiolo. La sua pizza, ricordiamolo, è di quelle cosiddette “a degustazione”, grandissima base elaborata secondo un'idea di pizza del tutto personale, frutto di scelte precise dalle farine alla lavorazione, e grandissimi condimenti quasi sempre cucinati e non solo assemblati. In un contesto in cui ospitalità, carta dei vini, materie prime, procedure e attenzioni sono da grande ristorante, con tanto di cucina a vista. Pur senza mai mancare di mettere al centro di tutto la pizza. “Anche in questo prodotto si deve trovare il proprio percorso e lavorare per esprimersi attraverso quello” suggerisce Padoan. Partire dal risultato che si vuole ottenere e andare a ritroso, individuando ingredienti, lavorazioni e cotture a partire da quello. Perché ci sono tante arti dietro una pizza: quella dell'impastare, quella del lievitare, quella di stare al forno. Ai Tigli ci sono 7 tipi di impasti: 2 per cotture espresse (con idratazione più bassa, cuoce 4 minuti in forno a legna), 2 leggermente più acidi, con pasta di recupero, gli altri per doppia cottura (10 minuti a 260° e 3 a 280-290°) ad alta idratazione, anche oltre l'80%; per inserire più acqua nell'impasto aggiunge una parte di farina integrale gelificata, che ha la caratteristica di trattiene umidità, la stessa caratteristica del lievito madre e della fibra delle farine integrali. La doppia cottura permette di avere una parte croccante esterna e una morbida dentro, ma solo eliminando l'acqua in eccesso, che fuoriesce come vapore dall'alveolo non schiacciato ma tagliato di netto, per questo seziona il prodotto con il coltello.
La pizza in casa
Croccante e friabile, così vuole le sue pizze Padoan. Questo risultato si ottiene con farine con alto valore proteico e un impasto (ad alta idratazione e molto lavorabile) arricchito da un grasso. In alternativa, invece, Padoan usa farine dal basso valore proteico (sempre integrali o semintegrali che hanno un valore nutrizionale più alto e con un rilascio più lento, scongiurando il rischio di picco glicemico) adatte a lavorazioni più brevi: i suoi sono impasti fragili che richiedono una grossa manualità.
Il tutto, però, senza demonizzare tecniche più casalinghe: “va bene anche il lievito di birra in piccole quantità per preparare una biga, più grezza, o un preimpasto più lavorato con aggiunta di olio e sale” dice e poi dà la sua ricetta: “due grammi di lievito di birra per un chilo di farina e 450 grammi di acqua da impastare e far maturare per 16-18 ore a circa 17-18 gradi prima di fare un secondo impasto, con altri 100 grammi di farina dolce”. Un grammo o poco più di sale aiuta a la maglia glutinica e il controllo della fermentazione. L'impasto riposa, poi suddiviso in palline, lievita per circa 3 ore e mezzo fino a triplicare di volume. Per la cottura, una pietra in refrattario per le stufe in maiolica è il segreto per avere temperature altrimenti difficili da raggiungere in casa. Si acquista nei negozi di edilizia ed è un volano di temperatura, immagazzina calore e permette di cuocere la pizza – in teglia o direttamente sulla piastra – a temperature più alte.
a cura di Livia Montagnoli e Antonella De Santis