10 piatti mitici di Niko Romito raccontati da Niko Romito. Come e perché sono nati. In che modo si sono evoluti e quale è stato il percorso dalla prima idea alla realizzazione definitiva. Una biografia gastronomica per conoscere lo chef del Reale Casadonna, attraverso le sue parole e i suoi piatti.
Abbiamo chiesto a Niko Romito di presentarsi attraverso i suoi piatti. Gli abbiamo detto di sceglierne 10 e spiegarci quale è stata l'ispirazione iniziale e come, dalla prima idea, è giunto alla realizzazione definitiva, quali sono stati i passaggi necessari per giungere al risultato finale e in che modo si sono evoluti nel tempo. Si scopre una cucina molto elaborata, dall'altissimo coefficiente di complessità necessario per dare vita a piatti dall'apparente semplicità. Quasi austeri, completamente concentrati sulla materia prima e il sapore. Disarmanti per pulizia e rigore. E per quell'esplosione lunghissima di sapore. Gli abbiamo chiesto di raccontarci il percorso che lo porta a questi piatti. Ne è nato un diario per immagini e parole (e ovviamente gusto) dello chef del Reale di Castel d Sangro.
Foto: Brambilla Serrani Photographers
1) Misticanza alcolica e mandorle
Ecco un piatto che rappresenta in tutto Casadonna: le erbe di campo selvatiche sono quelle che nascono e prolificano tutt’intorno, possono nascere qui e solo qui. È una portata vegetale d’apertura, e cambia durante tutto l’anno a seconda delle erbe diverse che crescono e compongono la misticanza: aprile, maggio e giugno sono i mesi di massima espressione della ricetta. Inoltre, questo piatto ha un suo percorso e una logica tutta legata a questo luogo: è realizzato e progettato con la collaborazione di Andrea Pieroni, professore di etno-botanica che insegna ai ragazzi nella nostra scuola di formazione e che porta gli allievi in giro per i boschi e i prati alla scoperta delle erbe spontanee. Lui ci ha fatto conoscere le incredibili varietà di misticanze che esistono e che si possono mangiare. Poi, come con la pancetta anche qui abbiamo usato il gin: il Monkey, molto vegetale, non copre affatto le erbe, ma ne esalta i sapori e i profumi.
Il lavoro sulle mandorle finisce il piatto: le utilizzo secche e vengono poi reidratate per 24 ore in acqua, quindi congelate e frullate al pacojet: ne risulta una pasta di mandorla densa che servo a una temperatura 6° circa. Ne modifico la struttura – che è molto densa – aggiungendo un filo di acqua: sotto la misticanza è perfetta, crea un equilibrio incredibile con i continui rimandi tra vegetale, amaro e dolce. In apertura di menu attiva la salivazione, ma non è una semplice insalata, è un piatto più completo e complesso.
Foto: Brambilla Serrani Photographers
2) Infuso speziato di funghi
Fa parte di un lavoro sui funghi e sulla loro struttura. Di solito, i funghi – in qualsiasi modo siano cucinati – sono sempre abbastanza morbidi a meno che non li si mangi crudi. Così ho puntato a ottenere una consistenza decisa. Ho pensato di cuocere i funghi con molti aromi: timo, dragoncello, maggiorana, aglio, prezzemolo, rosmarino. Sono cotti a 65° sottovuoto per 20 minuti. Una volta cotti riposano per 15 giorni a 4°, sempre sottovuoto. In questo periodo tutti gli aromi vanno ad arricchire i funghi. Questa maturazione rende il fungo profumatissimo, la struttura rimane molto croccante e non si ossida, quindi mantiene il suo colore naturale: quando tagli a metà il cardoncello è bianchissimo, sembra appena colto. Poiché protagonista era il fungo, non volevo usare altre cose che ne distogliessero l’attenzione. Ho pensato così a un brodo, sempre ai cardoncelli: brodo vegetale classico, con i funghi in infusione, e andando molto in riduzione: su 2 litri ottengo 400-500 grammi di liquido finale. Poi lo condisco con gli odori che ho usato per i funghi in cottura, più zenzero, liquirizia e anice stellato: ecco perché risulta speziato e ricco di freschezza, molto italiano, ma anche molto esotico. Il dragoncello è una spezia molto usata nel Sud Italia. Sembra di mangiare una carne. Poi, con un pizzico di amido di riso do al brodo una consistenza leggermente più spessa e semilucida: questo aumenta la persistenza del brodo in bocca e si riduce il contrasto di strutture con il fungo. E senza un grammo di grasso.
Foto: Brambilla Serrani Photographers
3) Tortelli con pollo
È un risultato del lavoro sulla pasta ripiena. Ed è un piatto che non ha salse: presentandosi in modoquasi straniante. I protagonisti, qui, sono due e devono avere la stessa dignità: la pasta e il ripieno. Premessa: io amo il pollo. E anche qui ho cominciato a lavorare su tanti fronti. È stato il pollo alla cacciatora che mi ha ispirato: con i capperi, le alici, l’aceto, il rosmarino... Una volta cotto, mi sono reso conto che avevo davanti due cose entrambe pazzesche: l’intingolo e la carne. Con la carne ho pensato di realizzare il ripieno. L’intingolo – filtrato e completamente pulito e sgrassato – poteva essere un elemento per rinforzare il gusto del ripieno. Io amo molto anche il sedano, che ritengo viaggi molto bene con il pollo: ho liofilizzato le coste e le ho ridotte in polvere, quasi uno zucchero a velo di sedano. Così mi sono concentrato sulla pasta: deve essere molto porosa e tenace e allo stesso tempo sottile, deve essere tesa in bocca, deve farsi sentire e non sciogliersi, deve avere una sua consistenza. Per portare i tortellini alla loro forma perfetta, li lasciati ad asciugare per almeno un’ora sotto le ventole. E sono pronti per la cottura, che non dura più di 30 secondi. Quindi, sono ripassati in padella con l’intingolo del pollo che viene assorbito completamente dalla pasta rinforzandone il sapore. Mi mancava un elemento fresco, di eleganza, ed ecco il sedano: spolverizzato sulla pasta appena ripassata, si scioglie e va a laccarne la superficie senza che risulti visibile. È un piatto molto forte, deciso, dove si uniscono dolcezza ed eleganza e dove sono i contrasti a comporre una armonia per palati addestrati: questo è un piatto duro, nonostante le apparenze. Ed è una portata senza quasi nessun grasso aggiunto: e non per motivi salutistici, ma perché il gusto si concentra e si fa più netto. Il che mi ha portato di conseguenza ad avere anche un piatto molto “semplice” e salutare.
Foto: Brambilla Serrani Photographers
4) Tortelli di mandorla in brodo di bosco
È un lavoro che nasce dagli esperimenti sulla mandorla e sulla frutta secca, a cavallo tra cucina e pasticceria. Qui parto dalla base mandorla che utilizzo anche per altre preparazioni come abbiamo visto per la misticanza. La base è una cosa tipica nella mia cucina: una preparazione in cui modifico la struttura dell’ingrediente senza però modificarne il gusto. Poiché la pasta di mandorle mi entusiasmava, volevo provare a inserirla in una pasta ripiena per darle un ruolo da protagonista: è molto grassa (ma si tratta di un grasso salutare e naturale), molto pastosa e leggermente dolce – ma con refrain amaricanti – e avvolgente. Insomma, è un prodotto di base molto complesso e di spessore.
La passione per i brodi ce l’ho da tanto, così ho cominciato a lavorare su un brodo che rispondesse e giocasse con le caratteristiche della base mandorla: dolcezza, riflessi amari, pienezza, terrosità (del resto la frutta secca è ottima con i funghi)… Nel brodo ho messo timo, maggiorana e cipolle, ma volevo renderlo ancora più complesso e così l’ho passato nel tè nero affumicato: un passaggio veloce, appena per far prendere al liquido il sapore dell’affumicato e basta, poi lo passo all’etamine. Il brodo cambia del tutto colore e acquista grande complessità con la nota fumée. Quindi, aggiungo in infusione i porcini secchi che aumentano il gusto del bosco, è perfetto con le mandorle: è piatto senza un grammo di grasso, ma ricchissimo, complesso e potente. Un piatto che può essere invernale, primaverile o autunnale.
Foto: Brambilla Serrani Photographers
5) Spigola, capperi, prezzemolo
Piatto italianissimo e decisamente mediterraneo. Io non ho mai usato, se non in pochissimi casi, il prezzemolo nella mia cucina. Mi sono chiesto il perché. E alla fine ho decisodi lavorare sulla foglia del prezzemolo fino ad arrivare a una salsa potentissima fatta semplicemente con prezzemolo, acqua, aglio e colatura di alici. Mi piaceva davvero molto, ma dove e come usarla? Così l’ho archiviata, in attesa di avere l’occasione giusta per tirarla fuori.
Da un annetto ho inserito più pesce in carta. E ovviamente volevo confrontarmi anche con la spigola. L’inverno scorso l’avevo già provata col tartufo bianco, ma volevo puntare a un piatto di cui la spigola fosse la protagonista assoluta. E come sempre inizio a lavorare su cotture e consistenze. Sono arrivato a cuocerla in due modi dopo averla condita con finocchietto selvatico e aglio: la prima cottura è di 3 minuti, il filetto intero va in forno a temperatura molto alta (220°) e subisce uno shock termico che la tosta all’esterno e ne fa comprimere le fibre portandola a sollevarsi, a gonfiarsi verso l’alto. La fibra del pesce si indurisce, anche se non si asciuga: si comprime e la consistenza della carne si fa più compatta. Ma non posso andare oltre i 3 minuti, altrimenti si asciugherebbe troppo. Così la tolgo dal forno, abbasso la temperatura a 55° (sempre in modalità statica) e reinserisco la spigola per altri 20 minuti: il pesce termina di cuocersi e rimane umido il giusto. Il pesce era buonissimo già assaggiato appena cotto. Ma volevo un piatto più complesso. Allora mi è tornata in mente la salsa al prezzemolo: la vedevo perfetta per la spigola. E ancora mi mancava una sapidità, che fosse originale e non solo sale. Ho pensato subito ai capperi: li ho disidratati e polverizzati e spolverizzati sulla spigola.
Foto: Brambilla Serrani Photographers
6) Pancetta e sedano rapa
Tutto qui gira intorno alla pancetta. E anche dalla foto si capisce che è una carne che non ha tostatura, al contrario di come siamo abituati a vederla di solito: qui viene cotta in forno vapore a pressione. Innanzitutto, parto da una carne eccezionale: trattandola senza reazioni di Maillard e senza forzature, o la materia è perfetta e grande o è meglio rinunciare. Come per il “fondente di piccione”, non volevo crosticine, né tostature esterne. La grande fatica, anche mentale, è stata affrontare il grasso: la cottura a pressione controllata si è rivelata perfetta, il grasso (pulitissimo) mantiene una consistenza importante e non sporca il palato. La pancetta, prima di essere servita, passa poi attraverso un intingolo di gin, miele e limone: in bocca non si sente, ma serve a spostare in alto il sapore della carne. Sono gli ingredienti invisibili: non si sentono, non si vedono, ma trasportano al massimo il gusto. A me piaceva molto quel piatto, ma dovevo finirlo con un elemento altro. E volevo lavorare su un’altra forma a cubo.
Stavo già lavorando anche sul prezzemolo e sui vegetali, così il pensiero è andato subito al sedano rapa: ha quasi la stessa consistenza della pancetta e la forma nel piatto è simile, ma non si uniscono, marciano insieme ed esprimono bene – armonicamente – le loro differenze e particolarità. La rapa è cotta in pentola a pressione con vino, aceto bianco e acqua, riposa due-tre giorni e poi viene sezionata. Per quanto riguarda forma e consistenza, è un altro approdo del mio lavoro precedente sulla melanzana e sulla lingua.
Foto: Brambilla Serrani Photographers
7) Verza e patate
È l’ultimo nato nel reparto dei vegetali, è uno degli approdi del lavoro fatto sugli altri piatti storici, dal carciofo alla melanzana. Mi piace trattare ingredienti comuni e riconoscibili: patata e verza sono materie identitarie, molto territoriali e molto abruzzesi. Ho voluto pensare alla verza come a una protagonista, con una forma e una dignità del tutto diverse da come siamo abituati a conoscerla. Lavorando su questa brassicacea – scomponendola, cuocendola e ri-cuocendola – sono arrivato a dei risultati: passandola al vapore iniziavo ad avere una struttura e un morso croccante che però non era crudo. L’idea era di non sfogliarla, ma tagliarla a fette come fosse una torta. In quel periodo ero a Seoul e lì il kimchi è una sorta di piatto nazionale, è un cavolo fermentato che mi ha incuriosito molto per il suo gusto, più complesso e profondo di quanto siamo abituati noi rispetto al cavolo: così do inizio a una serie di prove di fermentazione. Mi sono accorto che più maturava la verza e più acquistava in complessità: acidità, dolcezza e freschezza… più avanzava la fermentazione e più diventava interessante. Poi, con le parti esterne della pianta ho fatto una crema: crema di verza su verza al vapore, sempre per stratificazioni. Mi serviva eleganza: ho provato con varie spezie, ma mi sono fermato sull’anice che giocava molto bene con l’ortaggio. Quindi ho realizzato un distillato di anice stellato in alcool e l’ho usato per fare un’emulsione di verza. Ancora, cercavo cremosità, così ho fatto una salsa con un leggerissimo purè di patate, acqua e olio.
Quando porto questo piatto in tavola, sembra quasi un arrosto di vitello. È una forma nuova per un vegetale che è sempre stato cucinato troppo e affogato in minestre stracotte. Del resto, è un piatto fortemente di territorio e si lega coerentemente al mio lavoro, e per di più esce fuori dai canoni del già visto su questo ingrediente. Oggi, la maturazione della verza cotta a vapore va avanti per oltre 40 giorni di fermentazione. E sempre più spesso la propongo come secondo piatto.
8) Lenticchie, nocciole, aglio e tartufo bianco
Volevo fare un piatto con le lenticchie, legume classico e sempre meno utilizzato che io adoro e che rappresentano le basi della nostra produzione territoriale. Qui ce ne sono oggi di poca rilevanza quantitativa, ma di grandissima qualità, come quelle di Santo Stefano di Sessanio. Le lenticchie vengono cotte a vapore per 40 minuti a 95°: la struttura esterna rimane inalterata, ma all’interno la polpa si fa cremosa, i semi rimangono integri e tutti uguali. Ma come potevo utilizzarle?
Ho iniziato le prove con le cose più strane. In quei giorni stavamo studiando le nocciole in pasticceria e le ho volute provare con le lenticchie: giocavano benissimo insieme. Così ho cominciato a lavorare sulle strutture: prima con una mousse di nocciole alla base e sopra lenticchie, però mancava umidità. Così ho pensato a una gelatina fatta con l’acqua recuperata dalla cottura a vapore del lenticchie, ma era troppo scarica. Ci ho aggiunto polvere di funghi di bosco – che con le nocciole stanno benissimo – e timo, rosmarino, aglio, maggiorana e peperoncino: e la gelatina era molto forte. Come montare il piatto? Ho deciso di preparare tutto direttamente nella fondina: prima la gelatina, poi ci monto la mousse di nocciole e quindi le lenticchie (asciutte) bagnate nell’acqua di cottura delle lenticchie stesse che ridà umidità. Il risultato è straniante. Gelatina sotto, sopra mousse di nocciole e acqua, sopra lenticchie e sopra non poteva mancare il tartufo. La finitura è con olio all’aglio rosso di Sulmona, che dà una verve di carattere al tutto.
Foto Roberto Sammartini per Grandecucina
9) Liquirizia aceto e cioccolato bianco
È un dolce che, dopo Essenza del 2009, prosegue nell’approfondimento della mia idea di dessert da ristorante. Come punto di partenza, non volevo creare una frattura netta tra salato e dolce, tra il pranzo (il menu degustazione o la serie di portate salate) e il dessert. L’uso dell’aceto bianco, molto aggressivo e in qualche modo anestetizzante per il palato, fa in modo che poi tutti gli altri assaggi si rivelinno in modo graduale, poco a poco; l’unico dolce che c’è nel piatto – il cioccolato bianco – dà a quel punto una sensazione dolce esasperata: sembra di mangiare un vero dessert di pasticceria, mentre c’è pochissimo zucchero. Dopo un menu degustazione importante e complesso, un dolce così stimola la mente, fa sorridere e sorprende nella sua progressione, diverte, ma continua allo stesso tempo il percorso del salato e va verso il dolce senza appesantire ulteriormente.
Questo è un dolce espresso, costruito direttamente al momento sul piatto. La granita di aceto e liquirizia – che è più cremosa rispetto a una granita classica – viene lavorata con amido di riso che permette una maggiore cremosità e una maggiore persistenza in bocca rispetto alla preparazione classica solo a base di acqua. Il congelato viene poi grattato a mo’ di grattachecca, ma mantiene una struttura più persistente. È un piatto millimetrico, giocato sull’equilibrio dei sapori, delle acidità e delle strutture affinché tutti gli aromi e le texturegiochino bene. Temperature e dosaggi sono studiati ad hoc per dare quelle sensazioni.
Foto: Brambilla Serrani Photographers
10) Piccola pasticceria
Infuso di limone, pesca, cialda integrale di frolla con nocciole, cialda di caffè e cioccolato bianco, pane e fichi
Prosegue la linea di approfondimento del dolce secondo me: una chiusura fresca e divertente del pranzo, ma anche molto leggera. Quello sul limone è stato un bel lavoro: l’infuso è ottenuto lavorando tutto a freddo. Utilizziamo limoni interi che buchiamo e mettiamo sottovuoto in acqua fredda (1 kg di limoni e 1 litro e ½ di acqua). Facciamo contaminare l’acqua dal limone: teniamo il tutto sottovuoto per 30 giorni a 4°. L’acqua acquista tutti gli elementi aromatici del limone. Si potrebbe pensare a un succo acido, mentre è un infuso molto molto complesso. Si percepisce sì l’acidità, ma soprattutto l’amaro della buccia e l’amaro del bianco del limone, tono su tono… Anche qui una sorta di stratificazione. Avevo provato a lavorare a caldo il limone, ma i risultati del freddo ci hanno stupito. Credo che sia una nuova frontiera: lo stesso lavoro si può fare su altri ingredienti, per esempio le cime di rapa. Non si ossida nulla, non si perdono sostanze nutritive, non si modificano i nutrienti. E così il limone, a fine pasto, così, può davvero svolgere tutte le sue funzioni positive: contrasta l’acidità e agevola la digestione.
La pesca: frutta in chiusura. Viene messa intera e sbucciata per 24 ore in acqua e sale (1 litro acqua e 50 g di sale). Poi viene tagliata a fette e prima di essere servita la singola porzione viene “schiacciata” sottovuoto. Lavorando con la bassa pressione, la struttura diventa molto vitrea, croccante e traslucida. E il gusto di dolcezza e freschezza si unisce allo spunto sapido del sale che rende la portata divertente, interessante e del tutto sana e naturale.
Cialda integrale di frolla con pasta di nocciola: si parte dalla base nocciola (la stessa usata per le lenticchie) con una consistenza cremosa che si modula aggiungendo o togliendo acqua. Anche qui non c’è nessun grasso aggiunto, se non un filo di olio extravergine per la frolla.
Cialde di caffè con cioccolato bianco tostato: il cioccolato viene passato in forno a 180° per 30 minuti, a pezzi, ed esce tostato con delle belle note di caramello. Si frulla con acqua e gelatina naturale fino ad avere una consistenza un po’ più densa della crema pasticcera. E con questa si farcisce un piccolo millefoglie di cialda di caffè: il tutto si condisce con pochissimo pepe di Sarawak al mulinello, molto aromatico e balsamico: dà belle sensazioni in bocca, è un bottone di meno di un centimetro di diametro che ti riempie la bocca con un’esplosione di sapori.
Pane e fichi: una preparazione semplicissima. Si sgretolano i fichi freschi con le mani e si uniscono a un po’ di Sambuca, quindi si lasciano maturare per un giorno. Si servono su un crostino di pan brioche e si condisce con polvere di cannella e anice stellato.
Sono tutti elementi che si usano normalmente alla fine del pasto. Anche il galateo prevede che la frutta segua il dolce, per la sua funzione di chiudere e rinfrescare senza appesantire e aiutare nella digestione.
Reale | loc. Casadonna | piana Santa Liberata snc | Castel di Sangro (AQ) | tel. 0864 69382 | www.ristorantereale.it
a cura di Stefano Polacchi
foto di copertina: Alberto Zanetti
Articolo uscito sul mensile di Marzo 2017 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui