Partendo dal progetto Contadini Resistenti Palestinesi, volto a introdurre nelle terre della Cisgiordania un nuovo metodo di coltivazione, siamo arrivati a interrogarci su grani antichi, grani autoctoni, glutine, genetica. Ecco cosa ne è emerso.
Contadini Resistenti Palestinesi
Il progetto nasce da un viaggio dell'associazione veronese Aveprobi(Associazione Veneta dei Produttori Biologici e Biodinamici) nelle terre della Cisgiordania occupata tra le colline a sud di Hebron. Qui, da oltre quindici anni, dodici villaggi hanno scelto una forma di resistenza non violenta al tentativo di evacuazione operato dalle forze di occupazione israeliane, ricostruendo lì dove viene distrutto e riseminando lì dove le colture vengono danneggiate. “Questo tipo di resistenza”, spiega Tiziano Quaini, portavoce di Aveprobi, “ha sortito addirittura dei riconoscimenti (di facciata) da parte della corte suprema israeliana che ha previsto una scorta militare israeliana per quei bambini palestinesi che durante il tragitto casa-scuola vengono quotidianamente vessati dai coloni israeliani”. Sono terre, quelle della Cisgiordania,tormentate non solo dall’occupazione militare, ma anche dalle difficili condizioni climatiche che rendono l’attività agricola assolutamente precaria, e – sembrerebbe, come spiegato più avanti - dal tentativo più “subdolo” di indebolire gli agricoltori palestinesi attraverso l'introduzione e la spinta all'uso di sementi poco adatte, diminuendo di conseguenza il loro potere e la loro indipendenza. Nei fatti, il controllo sui terreni è in mano ai militari israeliani, che possono deciderne il destino e indirizzare, così, l'impiego di determinate sementi. “Il progetto Contadini Resistenti Palestinesi si propone di far fronte a questa situazione, introducendo un nuovo metodo di coltivazione che consiste nel seminare popolazioni evolutive, e non singole varietà”.In che senso? Ce lo siamo fatti spiegare dal genetista agrario di fama internazionale Salvatore Ceccarelli.
Mescolate contadini, mescolate
“Una popolazione evolutiva non è altro che una mescolanza di tantissime varietà diverse della stessa specie”. L'idea di seminare più varietà (e i vantaggi che ne conseguono) non è nuova per la scienza. “C'è, per esempio, un lavoro scientifico pubblicato nel 1938 dall'Università della California. La spiegazione? È abbastanza ovvia e si lega alla teoria dell'evoluzione, secondo cui coltivando una popolazione evolutiva, ci si mette al riparo da malattie nuove, erbe infestante nuove o cambiamenti climatici, perché su un'intera popolazione ci sarà sempre una parte di individui che riuscirà a cavarsela”. Per dirla in termini economici, così facendo si ha un portafoglio finanziario a massima diversificazione del rischio, dove il rischio maggiore è il cambiamento climatico. “Siamo in presenza del grande ignoto, dato che nessuno oggi è in grado di dire quale sarà la temperatura tra vent'anni. Sappiamo solo che c'è un'enorme variabilità, da un anno all'altro, per quel che riguarda la piovosità. E questo rappresenta un danno enorme per l'intera agricoltura”.
Ma torniamo un attimo a parlare delle “popolazioni evolutive”, che significa esattamente evolutive? “La possibilità che hanno i miscugli di far fronte al cambiamento climatico o alle erbe infestanti è legata alla loro capacità di evolversi nel tempo. Quindi, proprio per questa loro capacità io preferisco chiamarle popolazioni evolutive,e non miscugli come si fa spesso. Vi faccio un esempio concreto, nel 1987 ho mescolato un migliaio di tipi di semi di orzo e li ho portati ad alcuni agricoltori in cinque paesi diversi: Algeria, Eritrea, Siria, Giordania e Iran. Il risultato è stato subito un raccolto abbondante, che poi è stato distribuito ad altri agricoltori, e le sementi così selezionate sono state diffuse. Con gli anni le popolazioni si sono moltiplicate e hanno viaggiato per tutto il Medio Oriente”. È il miglioramento genetico partecipativo-evolutivo, che può salvare anche le terre (e l'indipendenza) dei contadini palestinesi.
Il miglioramento genetico partecipativo-evolutivo
“Vedendo alcuni video dei terreni in Cisgiordania, quello che mi ha colpito di quei campi è l'enorme riduzione dell'altezza delle piante, tipico effetto della siccità. Ma anche il fatto che queste siano molto distanziate tra loro, il che mi ha fatto sorgere il dubbio che siamo di fronte a semi trattati in modo da diminuire la germinabilità e/o a semi di varietà adatte a zone irrigue”. In entrambi i casi, è un danno enorme per i contadini palestinesi. “Le mie sono solo congetture, sia chiaro, ma sembra che in quella zona la strategia dei militari israeliani sia quella di scoraggiare gli agricoltori a stare lì. Non è difficile capire che il metodo migliore per farlo è di provocare raccolti scarsi, sia per quanto riguarda il frumento destinato all'alimentazione umana che per quel che riguarda l'orzo per alimentare le pecore, il cui latte, tra l'altro, è una delle poche fonti di vitamine per i bambini. E quale deterrente peggiore di far ammalare i figli?”. Ecco perché una soluzione pronta all'uso, per far fronte all'impoverimento dei raccolti, è proprio la coltivazione di intere popolazioni, ovvero mescolando differenti tipi di varietà con caratteristiche genetiche diverse che poi si adattano un po' alla volta al territorio, nonostante le condizioni estreme della Cisgiordania. “Mescolate contadini, mescolate”. Questo il diktat di Ceccarelli, che è anche il titolo del suo libro edito da Pentagora.
Salvatore Ceccarelli
Ha senso parlare di grani autoctoni?
Con lui decidiamo di affrontare anche l'annosa tematica dei grani autoctoni e antichi.“I grani autoctoni sono quello che a noi è arrivato dal lavoro dei primi agricoltori, quando - novemila anni fa - prima della raccolta, si andava nel campo e si sceglievano le piante più belle. Quelle erano le votate per la semina dell'anno successivo. Ovviamente - e qui risbuca fuori il tema del mescolare - i semi erano di piante diverse, che si mescolavano tra loro. Un grano autoctono è il discendente di questo lavoro di migliaia di anni. Non è uniforme, però ha una sua precisa connotazione legata a un determinato ambiente e a un determinato modo di fare agricoltura. Più che di grano autoctono, parlerei di grano locale”.
È dello stesso parere anche Claudio Pozzi, della Rete Semi Rurali, una realtà che sostiene e promuove i valori della biodiversità e dell'agricoltura contadina, opponendosi a un'agricoltura mineraria basata sulla monocoltura intensiva o sulle colture geneticamente modificate. “Innanzi tutto la domanda da porsi è: quando una varietà diventa autoctona? Già perché lo diventa, non lo è di nascita. Guardando il nostro orticello, il Mediterraneo, questo è un'ottima area di diversificazione ma quasi mai è area di origine di quel che mangiamo, soprattutto dopo la scoperta dell'America. Penso ai pomodori o ai legumi. Andando nello specifico, il luogo di origine del frumento è la Mesopotamia, è da lì che arriva buona parte delle specie vegetali commestibili conosciute”. Quindi cos'è l'autoctonia? “Sempre che abbia senso parlare di autoctonia, è il riconoscimento del fatto che un seme si è adattato a un luogo. Mettiamola sul narrativo: un tempo quando la figlia di una famiglia contadina andava in sposa, la sua dote era un fagotto di semi”. Questi si spostavano di due o tre vallate cambiando contesto, e nel giro di un paio di generazioni subivano delle trasformazioni, o di carattere ambientale o per via degli incroci; diventando qualcosa di diverso dai semi iniziali e il più delle volte acquisendo nomi altrettanto differenti.“Possiamo dire che una volta che questi semi acquisiscono caratteristiche legate alla località, diventano autoctoni, o meglio locali”.
Ha senso parlare di grani antichi?
Spostandoci dal piano geografico a quello temporale, affrontiamo con Salvatore Ceccarelli anche la tematica dei grani antichi. “Tenendo conto che sono nato nel 1941, dovrei essere considerato quasi antico! Già perché oggi chiamiamo “antichi” anche quei grani frutto del miglioramento genetico avvenuto nella prima metà del '900. Come per esempio il Senatore Cappelli, ottenuto dal genetista agrario Nazareno Strampelli, attraverso una serie di incroci successivi di semi diversi che avevano come obiettivo il miglioramento della varietà Rieti, che a quel tempo era la più diffusa”. Ovvio che all'interno della categoria “antico” ci sono anche quei grani che effettivamente sono coltivati da secoli, come per esempio il Gentil Rosso. Anche per questo, Ceccarelli preferisce parlare di grano tradizionale, le cui caratteristiche genetiche sono forgiate dall’ambiente e dal clima in cui vengono coltivati. Ecco dunque il discrimen tra grano antico e grano moderno, mentre il primo si adatta ai luoghi, il secondo “dal punto di vista evolutivo è una mummia: o attecchisce oppure no, non c'è evoluzione”.
Grani antichi vs grani moderni. L'aspetto nutrizionale
L'ultimo nodo da sciogliere, nel marasma delle leggende metropolitane, è il fatto che i grani antichi siano migliori da un punto di vista nutrizionale. Ne abbiamo parlato con Giovanni Dinelli, professore del Dipartimento di Scienze Agrarie all'Università di Bologna. “La superiorità nutrizionale dei grani cosiddetti antichi è legata alla loro inferiorità nella performance produttiva”. Sono tre le macro differenze tra grani antichi e grani moderni: “La granella delle piante dei grani antichi ha un contenuto di minerali maggiore, per il semplice fatto che la taglia delle piante è grande (arrivano anche a 1,20 metri di altezza) e l'apparato radicale, in proporzione, perlustra più terreno e assorbe più minerali.Ovviamente non parliamo di una differenza abissale: quelli antichi hanno un 5-10% in più di sostanze minerali. Stesso discorso vale per la quantità di antiossidanti, “nella cariosside dei grani antichi c'è una quantità maggiore di polifenoli e flavonoidi”. Altra grossa differenza risiede nel glutine, non per quel che riguarda la quantità,“non è assolutamente vero che quelli antichi ne hanno meno”, ma per la qualità. “Le varietà moderne sono state selezionate per essere a taglia piccola, e quindi molto più produttive, e per il tipo di glutine, che deve rispondere a esigenze industriali. Mi spiego: oggi l'industria della panificazione richiede un valore W (che indica la forza del glutine) maggiore di 250, mentre le vecchie varietà hanno una forza glutinica che non raggiunge neanche i 60/70 W”. Quindi con gli anni, e con la rivoluzione industriale, sono state privilegiate le prime, anche perché più adatte a una panificazione con lievito di birra:“La panificazione con pasta madre non richiede tutta questa forza nel glutine perché insieme ai lieviti, i coprotagonisti sono i lattobacilli, che a differenza dei primi producono meno gas e non necessitano di una maglia glutinica forte”.
Il demone del glutine
A questo punto c'è un'altra domanda che emerge: ma il glutine fa male? “Anche se ancora non abbiamo la certezza scientifica, riteniamo che tutta questa forza introdotta nel glutine abbia una correlazione con i fenomeni di intolleranza al frumento. Non parlo solo di celiachia, che è scatenata dall'esposizione al glutine da parte di soggetti con predisposizione genetica, ma anche di intolleranze che non sono a base autoimmune. Sembra infatti che un glutine forte scateni una maggiore reazione da parte del nostro sistema immunitario intestinale”. È altrettanto innegabile che a fronte di una diminuzione nel consumo di pane - “considerando ovviamente che il pane fatto con pasta madre pesa di più, nel 1930 si consumava mezzo kg di pane al giorno, mentre oggi se ne mangia meno di 80 g” - sono aumentati i problemi gastrointestinali legati al suo consumo. E non è solo questione di un maggior numero di diagnosi: “In un ospedale americano è stato analizzato con gli attuali metodi diagnostici il sangue, congelato, risalente a pazienti vissuti negli anni 50. Su oltre 9000 campioni è stato visto che l'incidenza della celiachia (0.2%) era molto più bassa, da 4 a 5 volte in meno rispetto a oggi. Non è un caso, a mio avviso, che i tre prodotti più modificati nel corso della storia, ovvero latte (le vacche di oggi producono tantissimo latte ma con una caseina meno digeribile), pane, pasta, siano quelli che creano i maggiori problemi di inotolleranza nella nostra dieta”.
Attenzione però: non siamo di fronte a un complotto. “Sia chiaro, nessuno l'ha fatto apposta! Si è solo seguito un paradigma industriale, che tende a privilegiare la quantità e i parametri tecnologici”. E dunque la soluzione qual è?“ Bisognerebbe cambiare paradigma, tenendo conto che quello che coltiviamo, lo dobbiamo mangiare”. Semplice.
Aveprobi organizza delle cene per raccogliere fondi per il progetto Contadini Resistenti Palestinesi. La prima tappa è all'Agriturismo Papaveri e Papere | Caltana (VE) | via caltana,1/b | tel. 041 5732462 | www.facebook.com/AGRITURISMO.PapaveriPapere
a cura di Annalisa Zordan