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I big del vino italiano scommettono sul biologico

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Biodistretti, finanziamenti, marchio bio Italia: ecco cosa dice la nuova legge in discussione al Senato e come cambia l'approccio all'agricoltura green. Per il presidente Aiab “è il vino il settore più virtuoso”.

Partito dal basso, come prerogativa dei piccoli produttori e con un mercato di nicchia spinto soprattutto dai consumatori del Nord Europa, oggi il biologico sembra aver conquistato anche i big del vino italiano, che in pochi mesi hanno notevolmente allungato e arricchito la lista dei “convertiti”. All'inizio dell'anno ha annunciato la nuova rotta il brand Berlucchi, in un territorio – la Franciacorta – già avvezza alla sostenibilità. La risposta dell'altro metodo classico italiano non si è fatta attendere, con la conversione del colosso Ferrari (conversione che riguarda tutte le tenute del gruppo Lunelli). Ed è di poco più di un mese la notizia del primo vino bio delle Cantine Lungarotti nella Tenuta di Montefalco, mentre anche Sella&Mosca, dopo il passaggio di proprietà (da Campari a Terra Moretti), ha deciso di avviare il nuovo corso su tutti i 541 ettari della tenuta. E la lista potrebbe continuare.

Il tutto, mentre è stata approvato alla Camera la legge italiana sul bio - Disposizioni per lo sviluppo e la competitività della produzione agricola e agroalimentare con metodo biologico - che dovrebbe regolamentare il settore anche a livello nazionale.

Ma c'è un fil rouge che lega tutto questo fermento sostenibile e che continua a fare adepti?

 

Se la domanda nazionale supera la produzione

Prova a dare una risposta il presidente di Aiab (Associazione Italiana per l'Agricoltura Biologica) Vincenzo Vizioli: “Se parliamo di agricoltura biologica in generale, una cosa è evidente: nell'ultimo biennio, per la prima volta, è cresciuta la domanda interna. In passato il biologico era relegato o alla filiera corta o alle esportazioni. Oggi siamo in una situazione in cui la domanda italiana supera addirittura la produzione, visto che i piani di sviluppo rurale non hanno fatto niente per incoraggiare questo tipo di agricoltura” spiega ancora e conclude: “Rispondere alla crescita dei consumi con l'importazione di prodotti bio non è la strada giusta, bisogna intervenire con la Pac e i Psr, altrimenti non si fa investimento sul futuro e si rischia di trasformare un'occasione importante in un'occasione persa”.

In questo contesto, il mondo vitivinicolo si trova, però, già ad un altro step, come sottolinea anche Vizioli: “Il vino è stato sempre la metafora dei salti di qualità dell'agricoltura italiana. Dopo lo scandalo del metanolo si è riqualificato in ogni modo possibile. Oggi è difficile che un vino non abbia più di una certificazione, e quella bio è molto frequente: credo che a breve diventerà il primo prodotto di tutto il settore biologico” e aggiunge “La vera novità - che riguarda le cantine, ma non solo – è che i grandi produttori non vogliono assolutamente perdere questo treno. Al di là delle agevolazioni fiscali – il vino ha i premi più alti sulla conversione ad ettaro - per le cantine è sicuramente un modo per rispondere al mercato e reggere alla concorrenza, che ormai è altissima. Estendendo il discorso e parlando di grandi marchi in genere, c'è da dire che ormai, il boom di domanda è arrivato a certi livelli che è stato perfino sdoganato il vecchio dilemma per cui fare un prodotto bio, significava rimettere in discussione tutto il lavoro passato. Basti guardare a nomi come Coop, Mulino Bianco, Barilla, che affiancano, senza remore, la linea classica a quella verde”. Insomma, messo da parte l'antagonismo tra prodotti tradizionale e prodotti bio, l'urgenza oggi è esserci. In tutti i modi. Ad un discorso prettamente di mercato, si aggiunge, poi, la non meno importante, questione etico-ambientale. La spinta che non può mancare per trasformare l'idea del biologico in realtà.

 

L'importanza dei biodistretti. L'esempio Ferrari

Credo che in futuro fare vino bio non sarà un requisito per vendere di più, ma per rimanere sul mercato”, ci dice Marcello Lunelli, vicepresidente di Cantine Ferrari, che quest'anno hanno ottenuto la certificazione biologica. Si tratta solo dell'ultimo tassello green per il gruppo Lunelli: “Abbiamo iniziato la conversione dalla Toscana (Tenuta Podernovo) nel 2009, ritenendo che il clima fosse quello più adatto per iniziare questa esperienza. È stata una sorta di scuola guida, che ci ha portato a estendere la conversione anche all'Umbria (Tenuta Castelbuono), proprio nel momento in cui è stato possibile finalmente utilizzare la dicitura vino biologico e non vino da uve biologiche (come era fino al 2012, prima dell'entrata in vigore del regolamento Ue n. 203/2012; ndr). Parallelamente abbiamo iniziato anche a Trento, un lavoro su 100 ettari di vigneto, da 9 diversi masi. Qui abbiamo subito capito che ce l'avremmo fatta, ma con tempi più lunghi”. La certificazione, infatti, è appena arrivata, ma per la prima bottiglia Ferrari bio si dovrà ancora attendere.

 

Tempi e burocrazia

È giusto seguire i tempi della natura” continua Lunelli “tenendo ben presente che non sono quelli del marketing o dell'industria”. Ovviamente, poi, per una realtà come quella Ferrari c'è anche un altro problema da affrontare: estendere la conversione anche a tutti i conferenti, oltre 500 famiglie del territorio e fare in modo che tutti ottengano la certificazione. “Abbiamo sempre adottato la filosofia 'prima dai il buon esempio e poi diffondi le buone pratiche'. Per questo già da anni abbiamo diffuso tra i nostri conferenti un protocollo interno, fondato su un'agricoltura salubre e di montagna”. Quali sono le difficoltà? “Chiaramente – e qui veniamo ad una criticità del sistema – la burocrazia finisce per diventare un ostacolo per realtà frammentate come quella trentina, dove l'azienda media non arriva a un ettaro di vigneto. Così, in questo momento, c'è chi ha già la certificazione, chi sta per ottenerla, chi ha iniziato il percorso. Noi supportiamo i viticoltori in questo cammino, ma sarebbe molto più semplice avere la possibilità di fare da vero e proprio capofila, da regista di questo virtuoso cambiamento. Come? In questo momento la legislazione non aiuta le aggregazioni: ogni singolo contadino deve fare le pratiche per la propria certificazione. Per il futuro auspichiamo che cantine come la nostra - o ad esempio le cantine sociali - possano fare da referenti per gli altri, sgravando, così, il contadino da enormi adempimenti burocratici e fiscali. Un po' sull'esempio della certificazione del sistema di qualità di produzione integrata”.

Lunelli interviene, poi, sui biodistretti (previsti anche dal decreto legge attualmente in discussione): “Nel nostro territorio esiste già il biodistretto della Valle dei Laghi e sta per nascerne un altro, quello di Trento. Due bellissime iniziative di cui siamo stati promotori e sostenitori: probabilmente è questo il futuro. Ad oggi stiamo arrivando al 10% della superficie del territorio certificata o in conversione. Piccoli passi per grandi rivoluzioni”.

 

Come rendere più appealing la conversione. La proposta di Berlucchi

Se il Trentodoc può contare sulla conversione del suo brand principale, non sono da meno le altre bollicine metodo classico italiane. In Franciacorta l'attenzione all'ambiente è sempre stata molto alta, tanto che oggi sono 965 gli ettari vitati bio e 898 quelli in conversione. Tra questi c'è anche Berlucchi, che ha ottenuto la certificazione a partire dalla vendemmia 2016, mentre è in corso la conversione dei conferitori. “In realtà, il passaggio all’agricoltura biologica” dice l'ad Arturo Ziliani “è il risultato di un percorso iniziato quasi 20 anni fa, anni in cui gradualmente abbiamo eliminato alcuni prodotti, ora considerati nocivi, e altri invece di sintesi. Abbiamo scelto di salvaguardare sia il territorio che le persone che nel territorio operano, una decisione legata all’etica e al senso di responsabilità sociale”. Ziliani, che è anche l'enologo della tenuta, ci spiega quali sono le maggiori difficoltà legate alla conversione: “Prima di tutto l’imprevedibilità del meteo in vigneto, e quindi la riorganizzazione dei mezzi e delle persone coinvolte, che devono necessariamente essere tempestive negli interventi. Inoltre, la conversione, processo triennale ‘adattativo’ del vigneto alle nuove condizioni di gestione biologica, prevede inizialmente l’eliminazione di tutti i prodotti non ammessi nei protocolli bio, con una ricaduta importante sui costi produttivi, rappresentati dal maggior rischio legato”. Forte della sua esperienza il produttore fa poi una proposta, che potrebbe in un certo senso incrementare il numero di cantine virtuose: “Perché non introdurre una sorta di certificazione intermedia, che vieti, per esempio, l’uso di diserbanti chimici o di altri fitosanitari impattanti? Sarebbe un modo per rendere il bio più 'appealing' agli occhi dei produttori più scettici”.


 

Lungarotti: bio e sostenbile. Le due facce della stessa medaglia

Di solito la scelta biologica è solo il coronamento di un percorso sostenibile, già costellato da altri protocolli o certificazioni. Com'è il caso di Cantine Lungarotti, che proprio da qualche mese hanno lanciato sul mercato il primo vino bio - ILBIO, Umbria Rosso Igt 2015 (10 mila bottiglie) - dalla tenuta di Turrita di Montefalco (20 ettari già convertiti e certificati). Un cammino iniziato negli anni '90: prima con l'installazione di capannine meteo che hanno ridotto l'uso di fitofarmaci del 30%; poi con l’immissione a diverse profondità di sonde antispreco nel terreno, in grado di razionalizzare il bisogno idrico delle vigne. Infine, l'adesione al progetto Energia dalla vite, di cui la Tenuta di Montefalco era stata cantina pilota italiana, raggiungendo l'autonomia termoenergetica del 70%. “La conversione bio vera e propria” spiega Chiara Lungarotti “è avvenuta a partire dal 2010, con la certificazione arrivata nel 2014. Abbiamo iniziato da Montefalco, perché è più facile la gestione territoriale. Più complicata sarebbe la conversione a Torgiano, dove gli ettari sono molti di più e dove la tenuta è composta da tante piccole realtà frammentate. In ogni caso, anche qui, l'attenzione per l'ambiente ci ha portato quest'anno ad aderire al progetto Viva (Valutazione dell’Impatto della Vitivinicoltura sull’Ambiente, attraverso i quattro indicatori: aria, acqua territorio, vigneto; ndr) del Ministero dell'Ambiente”. La scelta della certificazione bio, invece, è anche una forma di trasparenza nei confronti del consumatore, come spiega la produttrice umbra: “È un'informazione in più che gli si dà, uno strumento per scegliere, in un periodo storico in cui c'è una maggiore consapevolezza e sensibilità verso i temi ecologici. È chiaro che, in questo modo, sono aumentati burocrazia e controlli, ma anche questo fa parte del gioco”. Un gioco molto serio che si chiama attenzione all'ambiente.

Ddl sulla produzione biologica italiana. Il commento del presidente Aiab

E intano, è in corso l'iter per l’approvazione del ddl Disposizioni per lo sviluppo e la competitività della produzione agricola e agroalimentare con metodo biologico, dopo l'approvazione dello scorso mese alla Camera. Si tratta di una legge quadro, rispetto a un settore regolamentato a livello europeo, che dovrebbe definire alcuni punti, quali il ruolo delle regioni e degli enti di controllo o gli incentivi e i sostegni al settore. Purtroppo” commenta Vincenzo Vizioli (presidente Aiab) “il testo è stato depotenziato dalla scelta del Mipaaf di non intervenire su vigilanza e controlli che invece, avrebbe necessitato di un intervento coordinato e più puntuale, con maggiori sanzioni per chi sbaglia”. Altro punto critico, secondo Vizioli è “il reperimento dei fondi per il settore: da anni dalla cosiddetta tassa sui pesticidi, introdotta da Pecoraro Scanio, si recuperano 10 milioni di euro, ma al bio ne vanno solo 2 milioni”. Dubbioso il presidente Aiab anche sull'introduzione del logo “Bio italiano”: “Le etichette” dice “iniziano ad essere un po' troppo piene, tra indicazione degli organismi di controllo, componente nutrizionale, logo europeo, sigle varie. Diventa difficile e inutile introdurre il logo italiano, sopratutto se non preceduto da una campagna di comunicazione enorme che lo renda riconoscibile, così come hanno fatto in Francia.

Tra i punti di forza, il paragrafo sulle sementi e il diritto degli agricoltori a scambiarseli o a venderli. “I brevetti devono essere di chi li coltiva” spiega il Vizioli “è una forma di sovranità alimentare in cui crediamo molto”.

 

I numeri del bio

Il biologico rappresenta oggi un settore in controtendenza. Se i consumi generali sono in diminuzione, quelli bio sono in crescita in tutti i comparti: le vendite nella grande distribuzione sono passate dagli 873 milioni di euro del 2015 a oltre un miliardo di euro nel 2016 (dati AssoBio). La Gdo è, quindi, diventata il canale di vendita più importante, superando persino i negozi specializzati (circa un migliaio). Aggiungendo vendite dirette degli agricoltori, gruppi di acquisto, vendite online e altri canali quali mense scolastiche e ristorazione commerciale si toccano i 2,7 miliardi di euro. Cresce anche l'export che, nel 2015, ha fatto arrivare il fatturato complessivo a 4,3 miliardi di euro, accrescendo anche la propria incidenza sul totale alimentare, passata dal 2,5% nel 2015 al 3% nel 2016 (nel 2010 era solo all’1,5% secondo Assobio).

 

a cura di Loredana Sottile

 


 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 1 giugno

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