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Perché tutta Italia vuole produrre bollicine?

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La forte progressione del comparto sparkling sta spingendo molti consorzi a modificare i disciplinari, per incrementare l'uso della tipologia. È giusto intercettare le richieste dei consumatori o c'è il rischio di snaturare l'identità di un territorio?

Che l'export 2016 di vino italiano sia in discreta salute grazie agli spumanti è un fatto assodato. E a livello mondiale, saranno proprio quelli italiani, col Prosecco in prima linea, a dare un contributo importante all'aumento del consumo di alcolici nel periodo 2015-2021. Con un tasso medio del 2,2% annuo, secondo elaborazioni Iwsr (The International Wine and Spirit Research, autorevole fonte di analisi del mercato globale delle bevande alcoliche) nel Forecast 2016-2021, la categoria sparkling si rivelerà una delle più dinamiche del mercato globale delle bevande, che si avvicinerà in cinque anni a quota 229 milioni di casse da 9 litri, pari a circa due miliardi di litri.

 

Voglia di bollicine in tutto lo Stivale

Un trend che si sta via via consolidando e che sta determinando in Italia, in maniera importante, un riorientamento delle produzioni verso questa tipologia. Al punto che, da Nord a Sud, molti consorzi di tutela hanno modificato i rispettivi disciplinari di produzione, o si apprestano a farlo, allargando la gamma delle tipologie per chi già prevede le bollicine e, inoltre, offrendo la possibilità alle cantine di confezionare spumanti anche in quelle zone dove questi non rappresentano di certo una tradizione. Non solo, quindi, Alta Langa, Trentodoc, Oltrepò Pavese, Prosecco Doc e Docg, ma anche Val d'Orcia, Sardegna, Abruzzo. Una "voglia di bollicine", come l'ha definita il presidente di Assoenologi, RiccardoCotarella,che l'Italia vitivinicola vuole intercettare, potendo disporre di una vastissima biodiversità tutta ancora da scoprire.

 

Il progetto sardo

Lo sta facendo in primis la Sardegna, attraverso il progetto cluster Akinas (che in sardo significa "uve"), lanciato tramite Sardegna Ricerche, in collaborazione con l'agenzia regionale Agris. Iniziativa, finanziata con 300 mila euro, che ha già trovato l'adesione di oltre trenta cantine: l'obiettivo è vinificare in chiave spumantistica diversi vitigni autoctoni, dai più noti Nuragus e Vermentino ai semisconosciuti Arvisionadu e Cuccuau, tipico della zona dell'altopiano del Barigadu, nella zona centrale dell'isola. Tre anni per capire, innanzitutto, quali uve e quali areali sono maggiormente vocati di altri per produrre spumanti di qualità.

Il metodo charmat sembrerebbe finora l'orientamento prevalente, in vitigni in alta collina (500-700 metri) soprattutto nel centro-nord Sardegna. Ma sono diverse le cantine del Campidano che lavorano agli charmat. Il Consorzio vini di Cagliari, in particolare, sta studiando una modifica al disciplinare, che prevede la spumantizzazione del Nuragus con metodo classico e charmat, introducendo la categoria del superiore per la versione ferma, con rese più basse. Un deciso cambio di rotta, se si pensa che fino a quarant'anni fa il Nuragus era venduto dalle aziende sarde in Germania proprio come base spumante per i prodotti made in Germany.

 

Abruzzo, bollicine a partire dagli autoctoni

Aria di cambiamento anche nel centro Italia. La Doc Abruzzo dal 2010 prevede la possibilità di spumantizzare, ma le produzioni rivendicate sono esigue, perché l'obbligo di vinificazione in regione ha fatto sì che la gran parte delle cantine abbia preferito elaborare i propri vini altrove, ad esempio in Veneto, e pertanto al di fuori della Doc. “I nostri autoctoni Pecorino, Passerina e Cococciola stanno dimostrando di avere le caratteristiche per produrre delle buone basi spumante”, rimarca il presidente del Consorzio di tutela Vini Abruzzo, Valentino Di Campli, che parla di "disciplinari da rivedere al più presto, per dare una più chiara identità al prodotto abruzzese". Si va verso l'introduzione nella Doc del Trebbiano d'Abruzzo spumante, ora fuori dalle opzioni per i produttori. Da Lanciano a L'Aquila, oggi sono una trentina le aziende che spumantizzano, mentre molti si appoggiano a terzi. "Gran parte della nostra filiera" fa notare Di Campli "si ferma spesso alla vinificazione, perdendo così una parte del valore aggiunto. Occorre allora seguire un percorso di valorizzazione del territorio anche per questo tipo di vini che il mercato ci sta chiedendo".

 

La conversione, dal Salento alla Val d'Orcia

Bollicine sempre più di casa anche nel Salento. Aziende come Leone de Castris o Rosa del Golfo da anni le propongono con uve locali, ma vinificando fuori regione. Ora, la cooperativa Due Palme (mille soci conferitori) ha cambiato strategia, grazie a un investimento di 1,5 milioni di euro, portando per la prima volta la spumantizzazione in loco. Negroamaro, Primitivo, Susumaniello e anche Malvasia nera sono i vitigni che più si prestano allo scopo, secondo il patron Angelo Maci: "Siamo partiti nel 2016 e stiamo viaggiando già a quota 500 mila bottiglie. Ma la strada è lunga. Non è facile, infatti, spiegare ai consumatori che le bollicine salentine non sono il Prosecco. Per questo, stiamo conducendo una campagna di informazione a partire dalla nostra stessa regione. Ci accorgiamo che c'è ancora una certa confusione in materia".

Bollicine che saranno ufficialmente di casa molto presto in Val d'Orcia. Sorprende un po' che questa piccola denominazione toscana, dirimpettaia del Brunello di Montalcino, rispetto alla tradizione rossista che l'ha sempre caratterizzata possa pensare alla spumantistica. Sta di fatto che il Consorzio di tutela della Doc Orcia ha avviato le procedure per la richiesta di modifica del disciplinare: "La base ampelografica sarà proprio il vitigno Sangiovese, con metodo classico e charmat", sottolinea la presidente Donatella Cinelli Colombini, che parla di "fase esplorativa", utile alle cantine per capire come muoversi e quale tipologia valorizzare al meglio. Il potenziale produttivo è calcolato su 400 ettari, dal momento che si può rivendicare vino Orcia Doc anche dai vigneti iscritti alla denominazione Chianti. Oggi sono quattro le cantine associate che spumantizzano. La speranza è che il via libera del Mipaaf alla modifica alla Doc arrivi "in tempo per la vendemmia 2017".

 

Il parere degli esperti

I dossier arriveranno, gradualmente, dai vari territori sul tavolo del Comitato nazionale vini di via XX Settembre di Roma, che nella prima decade di marzo dovrà affrontare il delicato nodo delle richieste avanzate dal Consorzio dell'Asti Docg, che punta a introdurre una versione secca, e dal Consorzio del Brachetto d'Acqui, che ha scelto di immettere sul mercato una versione "non dolce". Per le due importanti denominazioni piemontesi è una sfida su due binari paralleli, per tentare di risollevare le sorti dei rispettivi mercati. Strizzando l'occhio al fenomeno Prosecco, indubbiamente artefice indiretto di questa tendenza italiana.

Del resto, se il mercato chiede spumante, bisogna accontentare il mercato. Una semplice legge dell'economia che ogni produttore tiene bene a mente. "Indubbiamente il Prosecco ha fatto e sta facendo da locomotiva a una fascia di spumanti italiani" ci dice il presidente del Comitato nazionale vini, Giuseppe Martelli "del resto, l'operazione varata nel 2009, dopo qualche anno di assestamento, ha iniziato a mietere consensi fino ad arrivare, tra Doc e Docg, a oltre mezzo miliardo di bottiglie vendute nel 2016. Un successo che molti vorrebbero cavalcare. E, in effetti, è da diverso tempo che alcune denominazioni stanno valutando di inserire nei propri disciplinari la tipologia spumante, anche se finora al Comitato vini non sono pervenute richieste in tal senso".

Più laico, e pratico, l'atteggiamento dell'Assoenologi, che con Riccardo Cotarella evidenzia come l'Italia abbia a disposizione un patrimonio di biodiversità nato anche grazie al contributo della ricerca scientifica applicata alla vitivinicoltura: "Visto che abbiamo in mano questa grande varietà dobbiamo valorizzarla e farne tesoro. Se il mercato chiede le bollicine non capisco perché non si debba andare in questa direzione. Ma attenzione" avverte Cotarella "dobbiamo farlo a una condizione: rispettando le regole della viticoltura. E gli enologi hanno le competenze giuste. Ci sono tante aree italiane e tanti vitigni adatti alla spumantizzazione: penso al Negroamaro in Puglia, al Gaglioppo in Calabria, al Nerello Mascalese in Sicilia". Pertanto è un dovere professionale, secondo il presidente degli enologi italiani, dare al produttore "tutte le opportunità che scienza e territorio mettono loro a disposizione. Non fare questo sarebbe un errore, in un momento in cui il mercato, anche grazie al Prosecco, attraversa un momento positivo. Se stiamo fermi, il vero rischio è lasciare campo libero ai competitor, come Francia, Germania, Spagna, Cile e Argentina, che andrebbero a coprire questa richiesta del mercato".

 

Cosa ne pensano i produttori storici di bollicine

E se, tuttavia, questo desiderio di assecondare i comportamenti di consumo rischiasse di snaturare l'identità di una Dop e di un intero territorio? Innocente Nardi, numero uno del Consorzio del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg, non teme l'eventuale concorrenza di altre bollicine italiane, ma sottolinea che quel rischio è dietro l'angolo: "La storia della nostra Dop, che risale ufficialmente al 1969, ma occorre considerare anche i pionieri della spumantistica di fine Ottocento, dice che le bollicine sono connaturate al nostro territorio. Tutta la denominazione è ancorata a questa tipologia; il Consorzio è nato per preservarne specificità e qualità. Una Dop deve caratterizzarsi per territorialità, vocazionalità e saper fare: ciò che i francesi chiamano 'terroir'. Se avessimo un Sangiovese, saremmo bravi a interpretarlo con la nostra cultura spumantistica, ma non saremmo capaci di fare un vino rosso. In questo senso dico che il vino è cultura, è saper fare. E ritengo ci debba essere più coerenza da parte di tutti". Sulla stessa linea anche uno dei marchi pionieri delle bollicine italiane come la Carpenè Malvolti, unica cantina italiana in mano alla stessa famiglia da quasi 150 anni: "Il forte interesse all'ampliamento delle aree vitivinicole destinate alla produzione di spumanti a denominazione d'origine, intervenendo in modo speculativo sui disciplinari, non è positivo", riferisce la casa spumantistica, dal momento che "potrebbe contribuire a creare ulteriore confusione nel settore piuttosto che, ancora di più, nello stesso consumatore". Ecco perché la filiera, ad avviso dell'azienda guidata da Etile jr Carpenè, dovrà insistere ancora di più per "esaltare le peculiarità del Prosecco Docg", valorizzando il territorio collinare (candidato Unesco) e rispettando le norme a tutela di questo vino.

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 2 marzo

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