Servono più chef italiani e meno multinazionali del cibo che usano il nome dell'Italia. Con questo monito facciamo il punto della cucina nostrana negli Stati Uniti, tra italian sounding ed evoluzione dei consumi e del gusto, con due chef italiani residenti in California.
“Più chef italiani e meno multinazionali in nome dell’Italia”. Ecco di che cosa ha bisogno la cucina italiana all’estero per mantenere il proprio podio nel panorama della cucina internazionale. Parola di Alberico Nunziata, che da concorrente di Master Chef Italia prima edizione è, da febbraio 2016, Executive Chef del Beverly Hilton, l’iconica struttura di Beverly Hills che ospita sin dalla prima edizione la cena di gala e gli eventi collaterali dei Golden Globe Awards.
Il pretesto per una chiacchierata sull’evoluzione della cucina italiana all’estero e sull’Italian sounding è stata appunto la maratona culinaria da oltre 10 mila coperti, sotto gli occhi di tutta Hollywood, dei media e del jet set americano. Una sfida non da poco, portata avanti con successo insieme a un altro italiano, GianbattistaVinzoni, oggi Chef de Cuisine del Beverly Hilton, e a Los Angeles da 20 anni, testimone dei cambiamenti della cucina italiana in California nel tempo dato che ha lavorato nelle cucine dei più rinomati ristoranti della città: è stato per 6 anni Head Chef a Soho House, l’esclusivo e lussuoso club londinese con sedi in tutto il mondo.
Iniziamo dalla cena dei Golden Globe Awards. Dalle cucine del Beverly Hilton quella sera, l’8 gennaio scorso, sono stati serviti oltre 10 mila coperti con ritmi da cardiopalma. Come era il clima in cucina?
Gianbattista: Come puoi immaginare, la tensione era alle stelle. Anche perché oltre al grande numero di coperti c’era il fattore tempo: a scaglioni, divisi in party da 1500 persone circa, dovevano cenare tutti in 30 minuti per assistere alle proiezioni o registrare interviste. Tutto doveva essere perfetto e rapido. Ricordo che il mio pensiero fisso era quello di far bastare le provviste e di aver fatto bene i calcoli.
Qual èstato l’aspetto più difficile da gestire?
Alberico: Senza dubbio l’aspetto organizzativo è stata la grande sfida. È stato un lungo lavoro cominciato a settembre con una prima fase, i tasting per la scelta del menu, quando i diversi gruppi coinvolti (in simultanea si tenevano diversi party e la cena di gala, ndr) hanno scelto le portate tra quelle proposte. Poi ho assegnato ogni evento agli chef del mio dipartimento e abbiamo iniziato a coordinare: ordini, personale e PR.
Quando si cucina in queste occasioni che cosa permette di mantenere uno standard qualitativo?
È stata un’esperienza unica nel suo genere, ci ha dato la possibilità di rafforzare la consapevolezza che una cucina organizzata e guidata in maniera professionale può arrivare a fare di tutto. Anche 10 mila coperti in 2 ore. Sono fortunato ad avere un team giovane ed eccellente.
Tra le enormi quantità di prodotti impiegati oltre 362 kg di spigola, 1815 kg di verdure, 272 kg di filetto. Sono stati utilizzati anche prodotti italiani? Quali?
Alberico: Questa parte è stata davvero complicata, sembra che le aziende italiane non fossero interessate a essere coinvolte in questo evento. Ne ho contattate diverse, ma nessuna risposta ad eccezione di un paio: Parmigiano Reggiano, di cui ne abbiamo acquistato 300kg, quello invecchiato 24mesi; e, da Sorrento, la Ditta Gargiulo ci ha inviato oltre 30 galloni di Olio Extra Vergine di Oliva e il loro famoso olio ai limoni di Sorrento che abbiamo usato per la spigola cilena servita alla cena di Gala.
A proposito di aziende italiane e prodotti all’estero: in una recente intervista Gualtiero Marchesi ha lanciato un appello alle aziende italiane per fare sistema e “riappropriarsi dell’Italian sounding”. Alla luce anche di quanto appena raccontato, condividi questo appello?
Alberico: Una presenza maggiore delle aziende italiane in tal senso faciliterebbe molto il nostro lavoro di ambasciatori della cucina italiana. Senza dubbio manca una conoscenza delle materie da parte degli americani, per esempio da poco hanno imparato cosa è e quale è il sapore della burrata, che fino a pochi anni fa non si vedeva nei menu dei ristoranti. Col tempo e con meno opportunisti nell’ambito ristorativo italiano, si avrà la possibilità di far conoscere qualche nuovo sapore ai loro palati. Ma si deve lavorare perché siano sapori autentici. Occasioni come la cena dei Golden Globe possono essere una vetrina importante che le nostre aziende potrebbero sfruttare.
In che modo il concetto di cucina italiana può passare dall’immaginario della tovaglia e mantenere un posto nella haute cuisine a livello internazionale?
Alberico: Senza dubbio gli Stati Uniti stanno evolvendo e anche la West Coast è coinvolta in questo processo evolutivo; la strada è ancora lunga e, come accennavo poco fa, una maggiore collaborazione e supporto da parte delle aziende produttrici italiane sarebbe certamente di grande aiuto. La cucina italiana a mio parere è già leader mondiale, qui a Los Angeles ha bisogno di più chef italiani e di meno multinazionali in nome dell’Italia.
Come è cambiata negli anni la cucina italiana negli Stati Uniti?
Gianbattista: La cucina, quando sono arrivato io in Usa vent’anni fa, era molto semplice: una cucina poco ricercata, da trattoria; iniziavano all’epoca ad aprire i primi ristoranti eleganti in California (Valentino a Santa Monica per esempio), con un impiattamento un po’ più curato, e una proposta più raffinata. Da lì è iniziato a cambiare anche il palato degli americani, vc'è stata una evoluzione del gusto. È stato un percorso lungo, basti pensare che solo fino a qualche anno fa erano ancora in molti a chiedere il parmigiano sugli spaghetti alla bottarga, adesso, fortunatamente, non capita quasi più. La gente viaggia, impara e cambia.
Su cosa deve puntare la cucina italiana all'estero?
Deve puntare sulla regionalità. Io credo che tra qualche anno ci sarà una sola cucina internazionale standardizzata che avrà inglobato i piatti italiani classici che ormai si cucinano in tutto il mondo. Per non finire quindi appiattita sulla haute cuisine globale, la cucina italiana deve puntare a esportare la cucina regionale. Se non si torna alla regionalità, la cucina italiana sparisce. D’altra parte la grande varietà e la grande diversità sono le nostre ricchezze: dobbiamo difenderle, esportarle ed elevarle. I nostri giovani chef devono partire da lì, a: portare il mondo nella cucina regionale e la cucina regionale nel mondo.
a cura di Laura Donadoni