Il Natale in Albania era una festa proibita negli anni del regime. Per questo è molto difficile trovare delle ricette delle feste. La cucina era un simbolo borghese, e quella del Natale era da cancellare. Così è stato. Ma qualcosa si è salvato. E ce lo racconta lo chef Fundim Gjepali dell'Antico Arco di Roma.
La storia dell'Albania, anche quella culinaria, è la storia dell'eliminazione di una società e della sua memoria. “50 anni di comunismo hanno annullato un popolo” dice Fundim Gjepali chef dell'Antico Arco di Roma. Albanese di Shiak, vicino Durazzo, approdato adolescente a Roma 21 anni fa, oggi è un riferimento per la cultura del suo paese di origine. Nel paese delle aquile ha anche un ristorante, il Padam, in un elegante edificio degli anni '30 di Tirana.
“Durante il comunismo erano vietate le feste religiose”ricorda Fundim “qualcuno le celebrava di nascosto. Il primo vero Natale, da noi, è stato nei primi anni '90, dopo la caduta del regime: ricordo che sono arrivati anche Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo Secondo”. Ma nel frattempo le radici erano andate completamente perse. Non si ha più memoria di quel che è stato prima. Soffocato e cancellato da mezzo secolo di regime e invaso, poi, dalla cultura introdotta dalla televisione e dagli altri mezzi di comunicazione di massa, che hanno portato nelle case l'immaginario (fortemente edulcorato) dell'occidente e, soprattutto, della vicina Italia, presto diventata un miraggio, “è il paese che ha accolto di più il mio popolo: ci sono 500mila albanesi regolari”. Così è arrivata la cultura nostrana in quella terra affamata di ritrovare una propria identità. Ma non è andata così: la storia politica dell'Albania è la storia di una società di cui si sono perse le tracce e che, in tempi recenti, ha assorbito una cultura straniera.
Dal Natale al Capodanno
Essendo vietate le feste religiose, il Natalecon i suoi riti, anche quelli più domestici come l'albero decorato, era bandito e sostituito in blocco con il Capodanno. “Da noi esisteva l'albero del Nuovo Anno, e il Babbo del Nuovo Anno, tanto che quando sono arrivato in Italia, a 14 anni, avevo un po' di confusione: ogni mio simbolo di Capodanno lo trovavo quasi identico riferito al Natale. Ci è voluto un po' perché capissi cosa era successo davvero”. L'Albania è una nazione dove la religione è molto presente: “un paese a maggioranza musulmana anche se tendenzialmente laica, con cattolici, soprattutto al nord, e molti ortodossi. C'è molto rispetto per le religioni. Ma per 50 anni tutti i culti sono stati vietati”. I credenti praticavano di nascosto, gli altri assistevano inermi all'annullamento delle proprie tradizioni. Il Natale, semplicemente, non esisteva e tutt'ora è una festa poco sentita. “Alcuni vanno nelle chiese antiche fuori dalle città a celebrare il Natale, ma per il resto c'è poco” racconta, e fa l'esempio del suo ristorante di Tirana: “è prenotato già da settimane per il Capodanno, perché è normale per la gente festeggiare, anche al ristorante, pure se ormai i prezzi sono quasi come quelli italiani; per Natale invece si è faticato. Non si usa celebrarlo a tavola”.
La cultura dimenticata
Lo sguardo di Fundim coglie facilmente le differenze di due paesi tanto vicini. “In Italia è tutto un raccontare come sono fatti i tortellini o il brodo del 25, o quale è stato il menu della Vigilia. In Albania tutto questo non accade”. Un tempo si mangiavano i cibi più pregiati tenuti da parte per l'occasione, la frutta secca, e altri prodotti custoditi per le feste. Poi più niente. Ma questo non riguarda solo il Natale: la cucina tradizionale albanese è quasi scomparsa, cancellata dal comunismo. Era fortemente influenzata da quella ottomana: in 500 anni di storia albanese, nelle comunità, anche quelle cattoliche, sono entrate suggestioni mediorientali “e non turche, come spesso si dice”. Negli ultimi 20 anni c'è stata l'invasione della tradizione italiana, vuoi per vicinanza geografica, vuoi per vicinanza culturale: ci sono moltissime cose in comune tra i nostri piccoli centri di provincia e l'Albania di un tempo. “Oggi la pasta e altri piatti italiani si trovano ovunque in Albania. Se sono buoni, poi, è un altro discorso. Al Padam, nel menu delle feste, i fuori menu sono quasi tutti italiani, persino lenticchia e cotechino per il veglione. E la gente li conosce e li apprezza. Ma prima non era così”racconta ancora Fundim “vengo da una famiglia importante, di proprietari terrieri, dove un tempo si preparava tutto in casa. Era una cucina di matrice ottomana, che non c'entrava niente con quella di oggi”. Il racconto continua con quel che è accaduto dopo il 1945. “C'è stata una specie di annientamento anche di questo: la cucina era un simbolo borghese, per questo doveva essere cancellata. Con l'introduzione del programma di alimentazione sociale, che veniva insegnato nelle scuole di cucina. Era lo stesso un po' in tutti i paesi ex comunisti. E così è accaduto anche in molti altri ambiti delle arti e della cultura. Con la cucina e il divieto di festeggiare, hanno tolto alle persone anche l'entusiasmo, e cancellato una parte di umanità”.
Il vuoto dura ancora oggi, difficilmente sanabile, perché non esistono testimonianze scritte delle tradizioni di un tempo: “ho parlato con il figlio del re, tornato da poco dopo un lungo esilio, gli ho chiesto le vecchie ricette della sua famiglia: non ha trovato nulla, nulla di scritto”.
Ma nonostante tutto, qualche tradizione, a scavare, c'è, come frittelle, polpette o spiedini (come il shishkebab) legati alla cucina mediorientale. Tra i dolci, immancabile è ilbacklavà e altri con la pasta kataifi, sciroppo di rose, cannella, chiodi di garofano. “C'è un dolce che somiglia moltissimo, nell'impasto ma non nella forma, al babà. E anche questo si bagna con uno sciroppo. Una volta l'ho preparato in Albania con l'impasto del babà, e nessuno si è accorto della differenza”. Ma il piatto delle feste è il tacchino: “preparato in vari modi, per esempio con le erbe aromatiche, oppure farcito con castagne o con mele cotogne. Lo faccio anche io, ma con la conoscenza tecnica di oggi, per esempio nelle cotture”. E questa è la sua ricetta.
Petto d’anatra, mandarino, ginepro e castagne
4 petti d’anatra da circa 200 g. ciascuno
4 mandarini
500 g. di castagne
2 foglie di alloro
1 ramo di rosmarino
4 bacche di ginepro
1 scalogno
1 costa di sedano
1 carota
100 g. di latte
20 ml. di anice liquido
sale
pepe
olio extravergine qb
Cuocere le castagne in forno a 140° per 30 minuti, pelarle e metterle in un pentolino con il latte ed una foglia di alloro. Fare andare a fuoco lento sino a quando le castagne si ridurranno in pezzetti, aggiustando di sale e pepe. Frullare quindi con il mixer sino ad ottenere un composto omogeneo per riempire un sacco a poche tenuto in caldo.
Salare e pepare i petti di anatra per poi farli rosolare in una padella antiaderente ben calda, dalla parte della pelle. Appena ben rosolati, metterli in forno su una teglia per 10 min a 180°.
Togliere intanto dalla padella di cottura dei petti d’anatra il grasso in eccesso, aggiungere lo scalogno, il sedano, la carota, l’alloro, il ginepro e il rosmarino e poi sfumare con il succo del mandarino.
Fare andare sino a ridurre il succo e poi passare al setaccio ottenendo la salsa per condire da tenere in caldo.
Togliere i petti d’anatra dal forno, lasciarli riposare un paio di minuti e poi ridurli in fette.
Mettere da un lato la crema di castagne, quindi il petto d’anatra scaloppato ed infine laccare con la salsa al mandarino.
Un filo di olio extra vergine di oliva per guarnire in finale.
Antico Arco | Roma | piazzale Aurelio, 7 | tel. 06 065815274 | http://www.anticoarco.it/
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