Nel nostro vagare tra secoli e poesie alla ricerca delle migliori liriche sul vino, arriviamo a Giovanni Pascoli e alla sua poetica del fanciullino, ai suoi versi dedicati alla vita campestre.
Allievo di Carducci all’Università di Bologna e poi rettore nello stesso ateneo, Giovanni Pascoli (1855 – 1912) è uno dei grandi nomi della poesia italiana. La poetica del fanciullino, a un passo dall'inizio del '900, è quella di una dimensione intima, quotidiana, quasi infantile della scrittura in versi. Quella che solo la poesia e il poeta sanno esprimere. Così il poeta vate tiene saldo il suo ruolo e quello delle liriche, che mantengono il valore morale e civile inattaccabile.
La prima raccolta poetica, Myricae,canta la natura, la sofferenza e il sogno. Protagonisti sono quadri di vita campestre, in cui dettagli minimi, luci e suoni diventano protagonisti, con loro l'avvicendarsi delle stagioni, il lavoro nei campi e nelle vigne, la vita contadina con i suoi momenti conviviali. Come in queste liriche che cantano, con accenti malinconici, di feste e di vino.
Convivio
O convitato della vita, è l’ora.
Brillino rossi i calici di vino,
tu ne’ bramoso più, né sazio ancora,
lascia il festino.
Splendano d’aurea luce i lampadari,
fragrante la rosa e il timo.
Sorrida in cerchio tuttavia di cari
capi il banchetto:
tu sorgi e… Triste, su la mensa ingombra
delle morenti lampade lo svolo
lugubre, lungo. Triste errar nell’ombra,
ultimo e solo.
I tre grappoli
Ha tre, Giacinto, grappoli la vite.
Bevi del primo il limpido piacere;
bevi dell’altro l’oblio breve e mite;
e…più non bere:
ché sonno è il terzo e con lo sguardo acuto
nel nero sonno vigila, da un canto,
sappi il dolore; e alto grida un muto
pianto già pianto.
Dalla raccolta poetica Odi e inni, il libro che rappresenta maggiormente la poesia storica e civile di Giovanni Pascoli, una lirica molto studiata nelle scuole.
A ciapin
Quella vendemmia ch’hai deposta senza
libarne, pura, nel cellier di sotto,
tre anni fa, per l’ora che in licenza
venga Pinotto;
quella vendemmia che sgorgò dal cerro
dal masso, credo; ch’odiò la fonte;
ch’altra non ebbe tanto del tuo ferro,
ferreo Piemonte;
quella vendemmia che ribollì scossa
tutta da un cupo palpito alla prima
luna di marzo come l’onda rossa
d’Abba Garima;
e ch’ora tiene nel suo forte vetro,
come in un muto e forte cuor, costretta
l’ira d’allora e il lungo pensier tetro
della vendetta:
Ciapin fedele, frema negli oscuri
Vetri segnati dalla cauta cera,
quella vendemmia! Resti ancor, maturi
quella barbera!
Non beva il vino dell’eroe chi chiede
al vin l’oblio del cuore e delle gambe
tremule! Ei vive: là vagar si vede,
solo, tra l’ambe.
Serbalo il vino dell’eroe che tace
ma vive. Ignote costellazioni
lui fissano e, con occhi tra le acace
tondi, i leoni.
Serbalo il vino dell’eroe che vuole
quello che vuole e là resta al comando
suo, donde, certo e allegro come il sole,
tornerà quando…
Serba per quando, ciò che ha fermo in cuore,
coi nostri pezzi che al ghebì selvaggio
son come cani e con il nostro onore
ch’è come paggio…
Serba la tua purpurea barbera
per quando, un giorno che non è lontano
tutto ravvolto nella sua bandiera
torni Galliano.
a cura di Giuseppe Brandone
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