Si conclude oggi 4 giugno l’evento organizzato a Roma da Gabriele Bonci nel suo locale in collaborazione con gli chef del Semilla, ristorante newyorkese focalizzato sulla cucina sostenibile e biologica. Pizzarium è una garanzia, ma chi sono questi chef che per due giorni hanno prodotto pizze a quattro mani con Bonci? Ecco la loro storia.
Nuove pizze d’autore firmate Gabriele Bonci, il Michelangelo della pizza a taglio che non smette mai di stupire, in un evento di due giorni dedicato al gusto, naturalmente al Pizzarium, primo punto aperto dal pizzaiolo romano che portato a Roma (e in Italia) un nuovo modo di concepire l’arte bianca. Ma non finisce qui: a impastare e cucinare insieme a Bonci, due chef d’eccezione, Pamela (Pam) Yung e José Ramírez-Ruiz del ristorante Semilla di New York. Una collaborazione nata dalla condivisione degli stessi principi che hanno portato queste tre diverse personalità a raggiungere risultati straordinari. Un’attenzione spasmodica per la qualità e la stagionalità, ricerca continua, cura del terreno e dell’ambiente, tracciabilità: sono questi gli elementi che uniscono Bonci, Pam e José. Tre professionisti che hanno alle spalle percorsi diversi, in testa valori comuni e di fronte a loro lo stesso obiettivo: portare in tavola prodotti eccellenti. Ma se la storia di Bonci è ormai nota a tutti gli appassionati gourmet, meno conosciuta è quella dei due chef del Semilla. Li abbiamo incontrati e ci siamo fatti raccontare la loro visione della cucina.
Pamela Yung
“Se continui a stare in cucina con la stessa dedizione che hai ora, diventerai una delle migliori chef della città”. Queste sono le parole con cui Will Goldfarb, uno dei maggiori pastry chef di Manhattan, ha incoraggiato e ispirato Pam, “una frase che mi è rimasta nel cuore e che non dimenticherò mai. È stato lui a insegnarmi per primo a non arrendermi e non adagiarmi mai, a continuare sempre a studiare”. Era l’inizio della sua carriera, il principio di un percorso formativo che l’ha portata nel 2014 ad aprire, insieme a José Ramìrez-Ruiz, quello che oggi rappresenta uno degli indirizzi più interessanti della ristorazione newyorkese. In cucina ci è arrivata “per caso”, mossa da una passione bruciante per l’enogastronomia. “Mi sono laureata in grafica e ho iniziato a lavorare in uno studio di design. Passavo tutto il mio tempo libero a leggere libri di cucina e, per hobby, ho cominciato a fare il pane e il gelato in casa”. E così “per provare”, ha iniziato a lavorare in un forno due notti a settimana: “Attaccavo al forno alle 2 del mattino e poi la mattina mi recavo a studio. Era un gran fatica, ma anche un piacere immenso”. Si mette alla ricerca di un lavoro nelle cucine e trova un posto in un ristorante di New York: “Allora abitavo nel Michigan, ma non appena ho ricevuto la risposta da parte dello chef ho fatto i bagagli, lasciato il lavoro e sono partita”.
José Ramírez-Ruiz
“Quando avevo 8 anni ho detto a mia madre che volevo fare lo chef. Mi ha sempre affascinato il mondo della cucina e sapevo fin da bambino che avrei voluto lavorare a contatto con il cibo”. Quello di José è un percorso condiviso da tanti cuochi in America: parte come lavapiatti in un piccolo ristorante, un lavoro che non lo soddisfa ma che gli consente di entrare in cucina. “Odiavo quel mestiere, ma mi ha permesso di iniziare a muovere i primi passi ai fornelli. Ho cominciato dal basso, gradualmente, e poi continuato. Sono passato per le cucine di tanti ristoranti prima di arrivare qui e ogni esperienza è stata fondamentale per la mia formazione”.
Semilla
Cominciamo dal principio. Caratteristica primaria della cucina del Semilla è la centralità delle verdure, pur non essendo un ristorante vegetariano. “Il bello delle verdure” spiega José “è che puoi cucinarle in tantissimi modi. Per la carne invece esistono solo due tipi di cotture, quella giusta e quella sbagliata. Con le verdure si può giocare e il menu cambia sempre a seconda della stagionalità, del clima del giorno, della disponibilità. È una sfida continua”. Ma il motivo dietro questa scelta è anche e soprattutto di tipo etico: “In America si consuma una quantità smodata di carne. È un’abitudine dannosa alla salute e all’ambiente” aggiunge Pam. Oltre alle verdure, a ispirare la cucina del locale – e il nome – sono i semi: “l’origine di tutto, la base dell’agricoltura” che i due chef si divertono a utilizzare in piatti originali e creativi, dall’antipasto al dessert, sperimentando con fermentazioni e diversi tipi di cotture.
Ma il Semilla propone anche carne e pesce: “utilizzati esclusivamente per aggiungere sapore. Spesso li inseriamo nei piatti e i nostri clienti non se ne accorgono nemmeno. Servono a impreziosire e completare una ricetta; utilizziamo la carne nello stesso modo in cui usiamo le spezie, per dare quel tocco in più di sapore”. In definitiva, dunque, il Semilla è un ristorante che “che punta quasi tutto sulle verdure, senza mai dimenticare gli altri alimenti”. Il team si compone di 9 persone in tutto, inclusi gli chef, che si sono conosciuti anni fa per caso in un altro ristorante dove lui stava in cucina e lei in sala. Oggi, Pam e José lavorano fianco a fianco, aiutandosi a vicenda in tutte le preparazioni, ma “più genericamente possiamo dire che io mi occupo del salato e Pam dei dolci”.
La ricerca delle materie prime: i Farmer's Market
Le verdure provengono tutte da piccoli produttori locali, “che rappresentano la forza motore dell’agroalimentare, quella che noi ci proponiamo di alimentare”. Tanti ingredienti li acquistano all’Union Square Farmer's Market di Manhattan, “il più grande e rifornito della città, ma non è l’unico. Ci sono tanti Farmer's Market a New York, una formula che qui in Italia manca. Non si tratta di semplici mercati, ma di spazi pensati appositamente per accorciare la filiera e consentire un confronto diretto con i contadini”. L’attenzione che gli chef rivolgono agli agricoltori è palpabile in ogni momento del loro lavoro. “Stabiliamo una sorta di relazione simbiotica con i contadini” spiega José “dal momento dell’acquisto fino alla realizzazione della ricetta. È difficile capire chi stabilisca il nostro menu. Ogni piatto è il frutto di un rapporto lavorativo e umano fra noi e chi coltiva”. Un confronto continuo, diretto e aperto, fra chi fa e chi trasforma, per arrivare poi al risultato finale – la ricetta – che rappresenta la chiusura di un cerchio, il punto di arrivo di una sinergia fra due voci e due mondi.
Per tutti gli altri prodotti, vige la stessa regola: “devono essere ingredienti biologici o biodinamici, proveniente da piccole realtà più vicine possibile e che rispettino il terreno. Ricerchiamo l’artigianalità, la qualità, ma soprattutto la tracciabilità”.
La lotta allo spreco
“L’unico svantaggio delle verdure sono le bucce, che quasi mai possono essere utilizzati nei piatti e che rappresentano un notevole spreco alimentare”. Ma gli chef del Semilla hanno trovato un sistema per riciclarle, realizzando un prodotto di alta qualità: “con le bucce dei pomodori, delle albicocche e delle pesche creiamo un nostro aceto fatto in casa. In questo modo non abbiamo solo riutilizzato un qualcosa che altrimenti sarebbe finito nella spazzatura, ma abbiamo anche ottenuto un prodotto unico e originale”. Le bucce e i diversi scarti delle verdure derivati dai tagli più fini e piccoli, come quello alla julienne, vengono frullati e filtrati, per essere poi usati come base per aceto, salse e conserve.
Le bevande: vini naturali, caffè filtro e bevande analcoliche fatte in casa
Ad accompagnare i piatti, vini naturali e birre artigianali: “Per le bevande adottiamo la stessa filosofia che è alla base del cibo. I vini devono essere naturali per mantenere quel rispetto dell’ambiente che è la nostra linea guida. Deve esserci una continuità all’interno di un locale. Qualunque siano i principi e i valori, l’importante è mantenerli con costanza su tutto il fronte, dall’arredamento alla selezione delle materie prime”. E così anche le bevande analcoliche sono tutte realizzate dal team del ristorante con frutta biologica e le birre acquistate dai produttori della zona. Attenzione alta anche per il caffè a fine pasto. Quello selezionato è della torrefazione Parlor Coffee, “un monorigine che cambia ogni mese a seconda della disponibilità”. Niente macchina espresso, ma solo caffè filtro, estratto con metodo v60. “Ci piacciono le singole origini perché consentono di percepire meglio sapori e profumi del territorio, sono caffè che raccontano una storia. E soprattutto ci piacciono caffè tostati chiari, più adatti al metodo filtro, che mantengono elevato e ampio il profilo aromatico della bevanda. Stiamo molto attenti alla selezione del caffè perché rappresenta l’ultimo ricordo di un pasto”. Attualmente, un lavoro simile sul tè non è ancora stato fatto, “ma ci arriveremo”.
Il design
E così anche il design è stato pensato con lo stesso approccio della cucina. “Abbiamo cercato designer e arredatori locali, escludendo qualsiasi grande studio famoso. Il layout alla base del locale è quello della familiarità e dell’informalità. Vogliamo che i nostri clienti si sentano sempre a loro agio, proprio come a casa”. Il ristorante è di soli 46 metri quadri, cucina, laboratorio e bagno compresi, e conta appena 18 coperti. “Èuno spazio intimo e accogliente, in cui cerchiamo sempre di stabilire una connessione fra noi e il consumatore”.
L’incontro con Bonci
Non è un caso, quindi, che i due giovani chef newyorkesi abbiano, fin dal primo incontro, stabilito un rapporto dapprima professionale, successivamente di amicizia, con Gabriele Bonci. “Ho conosciuto Gabriele 2 anni fa in occasione dell’evento Culinaria. Semilla era in costruzione e io ero venuta a stare 2 settimane in Italia per piacere, e per cercare anche un’esperienza lavorativa che mi permettesse di ampliare le mie conoscenze. Sono andata da Pizzarium, dopo averne sentito tanto parlare, e con Gabriele c’è stato subito un feeling immediato”, racconta Pam. Stessi principi, stessi obiettivi, stessa ricerca estenuante per la perfezione. “Sapevo che la sua pizza era la migliore, ma non immaginavo nulla di simile. Ricordo perfettamente la prima volta che ne ho addentato un pezzo: è stata una sensazione indescrivibile, un mix perfettamente bilanciato di sapori e consistenze. Le materie prime che Bonci utilizza, il suo impasto dall’alveolatura perfetta… Semplicemente unico”. Ma ancor più che il sapore autentico dei suoi prodotti, a colpire la chef è l’approccio del pizzaiolo al lavoro: “Bonci ancora oggi si mette in gioco, prova, sperimenta. Non smette mai di imparare; la sua curiosità è stimolante e ammirevole”. Da sempre affascinata dal mondo della panificazione, Pam racconta che Bonci ha avuto un ruolo fondamentale nel suo percorso: “Ho sempre amato fare il pane, ma sicuramente l’incontro con Gabriele mi ha spinto a lavorare molto di più su questo prodotto”.
Il progetto con Pizzarium
E così arriviamo a oggi, alla collaborazione fra i due chef e il pizzaiolo. “Quando un professionista del calibro di Gabriele Bonci ti chiede di realizzare un progetto insieme, non puoi permetterti di rifiutare. Tutto quello che devi fare è chiudere il ristorante e salire sul primo aereo per Roma”, commenta José. E così hanno fatto lui e Pam, che in questi due giorni hanno deliziato il palato di romani e turisti con delle pizze speciali, realizzate insieme a Bonci e studiate da loro. “Uno degli aspetti più belli di questo progetto è la libertà che Gabriele ci ha lasciato. Gli abbiamo proposto diversi abbinamenti per le pizze e lui ci ha dato carta bianca. È una responsabilità enorme, che ci ha fatto sentire sotto pressione e al contempo ci ha riempiti di orgoglio”. Tre diversi tipi di impasto, preparati a sei mani: “Lui stesso si è messo alla prova con impasti nuovi, provando insieme a noi, in uno scambio continuo. Sicuramente proporremo un progetto simile di nuovo con lui anche da noi al Semilla”.
I locali preferiti a Roma
Pizzarium e Panificio Bonci a parte, sono diversi i locali che i 2 chef hanno avuto modo di provare nel loro soggiorno a Roma. “Ci ha colpito molto Tordomatto e anche Cesare al Casaletto, una trattoria tradizionale ma che propone una cucina deliziosa”. E poi Litro, Mazzo e Otaleg per il gelato: “Io vado matta per il gelato”, racconta Pam, “e quello di Otaleg mi ha sbalordita. Il gelatiere compie lo stesso lavoro che facciamo noi per la cucina. Le materie prime sono eccellenti e la scelta è così ampia e ricercata… Davvero impressionante”. Fra le prossime visite – sempre in compagnia di Gabriele - Pepe in Grani “pizzeria dalla quale ci aspettiamo molto. Sicuramente non rimarremo delusi”.
Mangiare fuori: aspettative e pretese
I due giovani chef non viaggiano molto per mancanza di tempo, ma ogni vacanza è studiata apposta per provare ristoranti interessanti. “Mi piace la cucina siciliana, la trovo così intrigante, intrisa di influssi di diverse culture e così profondamente ancorata alle sue radici. In generale tutta la cucina italiana è molto legata alle tradizioni e alla sua cultura gastronomica così antica” racconta Pam. Una caratteristica che potrebbe risultare limitante alle volte, ma non per Pam e José: “Io personalmente non cerco il nuovo, il diverso. Per essere interessante, una cucina non deve necessariamente stupirmi con effetti speciali” spiega José. E aggiunge: “Tutti gli chef partono dalle origini per poi creare. Non si va da nessuna parte se non si conosce la propria storia”. E quello che lo chef cerca in un ristorante è l’autenticità dei sapori, la qualità delle materie prime, l’eccellenza nei piatti più semplici. Pam invece pretende “l’equilibrio perfetto fra i diversi ingredienti. Non importa se una ricetta sia la più originale o tradizionale, quello che conta è che ogni elemento del piatto sia in armonia con gli altri pur mantenendo il suo sapore unico”.
a cura di Michela Becchi
foto: Arianna Giuntini