Un tempo i metodi di viticoltura erano tanti: non c'erano solo le spalliere o gli alberelli, ma tanti altri modelli ormai difficili da incontrare. Questo è la bellussera del Piave.
Quando parliamo di coltivazione della vite, siamo abituati a pensare ai moderni vigneti a spalliera, con impianti a guyot o a cordone speronato. Tuttavia, nel nostro paese, sopravvivono anche sistemi d’allevamento della vite che abbiamo ereditato da un lontano passato. Basti pensare all’alberello pantesco, lascito della cultura greca e oggi riconosciuto dall’Unesco come Patrimonio dell'Umanità, alle viti maritate con alberi secondo l’antico uso etrusco, ancora utilizzate ad Aversa per coltivare l’asprinio, agli impianti a maggiorina dei vecchi vigneti di Boca o alle vere e proprie architetture delle pergole di Carema.
La bellussera
Uno di questi antichi modelli di viticoltura, particolarmente scenografico e molto interessante da un punto di vista storico e sociale è la bellussera. Un sistema ideato dai fratelli Bellussi alla fine dell’800 nel comune di Tezze di Piave, in provincia di Treviso. La bellussera prevede un sesto d’impianto molto ampio, con file di pali in legno alti circa 3 o 4 metri, che creano un interfilare largo 6, 9 o 12 metri. Le sommità dei pali sono unite con fili di ferro, che si incrociano formando una raggiera. Ogni palo sostiene quattro viti, che si arrampicano a quasi 3 metri da terra. La vite forma dei cordoni permanenti, che vengono fatti sviluppare seguendo i fili di ferro della struttura. A volte, le viti potevano anche essere maritate ai gelsi, senza l’utilizzo di pali artificiali, secondo una tradizione consolidata nelle campagne venete, anche prima dell’introduzione della bellussera.
Da una veduta aerea, un vigneto a bellussera appare come un gigantesco alveare, un ricamo geometrico della natura, che disegna il territorio in modo quasi astratto. Se scendiamo a terra e camminiamo tra i filari, rimaniamo colpiti dalla monumentale maestosità delle viti, che sono veri e propri alberi, con tronchi di grosse dimensioni, sovrastate da un tetto verde di cordoni e tralci, che s’incrociano a raggiera sopra la nostra testa.
Le ragioni del modello di viticoltura
La bellussera è nata e si e sviluppata per andare incontro a diverse esigenze. Da una parte per combattere la peronospora e dall’altra per cercare di sfruttare al massimo le risorse della terra. Nell’Ottocento, le campagne del Piave erano coltivate in regime di mezzadria e ai contadini restava solo 1/3 del raccolto. I vigneti a bellusera, tenendo i tralci vitati a oltre due metri d’altezza, evitavano che l’umidità delle terre del Piave, ricche di risorgive, potesse creare le condizioni per lo sviluppo della peronospora e fornivano grandi quantità d’uva per ettaro. Inoltre, nei larghi corridoi dell’interfilare, potevano essere coltivati ortaggi e se le viti venivano maritate ai gelsi, si potevano utilizzare le foglie delle piante per allevare bachi da seta. Il vigneto si trasformava così in un piccolo eco-sistema di coltivazioni agricole integrate, che doveva garantire la sussistenza di famiglie molto numerose. L’abbandono della mezzadria, i nuovi metodi per combattere la peronospora e la concezione moderna della viticoltura di qualità, indirizzata verso le basse rese, hanno di fatto decretato la fine delle vigne a bellussera. Oggi ne rimangono pochissimi esempi, uno dei vigneti più estesi, ben tenuti e ancora in produzione è quello della cantina Ca’ di Rajo a San Polo del Piave, ma altre aziende che hanno ancora qualche impianto a bellussera sono tutte in provincia di Treviso: la Cantina Leo Nardin a Ormelle, La Cantina Sociale di Tezze, Giorgio Cecchetto a Tezze di Piave che conserva solo pochi filari.
L'azienda
Passeggiamo tra le viti monumentali, che hanno oltre 60 anni d’età, con Simone Cecchetto, che conduce l’Azienda con i fratelli Fabio e Alessio e ci racconta della scelta di non estirpare le vecchie vigne: “Quando abbiamo rinnovato tutti gli impianti, abbiamo voluto conservare questi antichi vigneti a bellussera e anzi, proprio da questo nucleo storico, che rappresenta le nostre radici familiari, siamo partiti per costruire la nuova tenuta”. Simone sottolinea che è stato un gesto d’affetto nei confronti della famiglia, che coltiva la vite a San Polo del Piave da diverse generazioni e anche un omaggio alla memoria agricola del territorio: “Abbiamo deciso di continuare a tener viva la tradizione del sistema a bellussera, per conservare una testimonianza storica del passato e preservare qualcosa di unico e irripetibile. Per noi rappresenta un vero patrimonio, su cui si fonda la memoria della nostra famiglia, l’identità della nostra Azienda e la tipicità della nostra terra”.
Tuttavia il vigneto a bellussera di Ca’ di Rajo, non conserva solo traccia di un antico sistema dall’allevamento della vite, è anche una fedele fotografia dei vitigni autoctoni storicamente presenti sul territorio, prima che il successo commerciale del prosecco, portasse alla “glerizzazione” totale, con l’espianto delle vecchie varietà. Tra le antiche viti della bellussera troviamo piante di raboso del Piave, marzemina bianca o sciampagna di Treviso, incrocio manzoni bianco, verduzzo, pinot bianco, pinot grigio, sauvignon blanc e il raro incrocio manzoni rosa. Un patrimonio di antiche varietà e vecchi cloni, ancor oggi coltivati a bellussera, seppur con rese più contenute. Il vigneto non è così solo un museo a cielo aperto o un ricordo nostalgico, ma rappresenta una realtà viva e produttiva. Un vero ponte temporale, che collega passato e presente, nel segno della tradizione.
a cura di Alessio Turazza