Terza e ultima giornata di Identità Golose. La cucina del Perù è il focus centrale, ma poi arrivano dolci, pasta e pesce a chiudere il congresso.
Non solo ceviche. Gli ecosistemi del Perù
Sembrano passate ben più di 48 ore da quando, nel corso della prima mattinata di Identità Golose, Enrico Crippa invitava la platea a godere di una cucina fatta di colori e possibilità infinite. D’altronde si sa, dall’appuntamento con il congresso gastronomico più importante in Italia si torna a casa sempre carichi di suggestioni, e un po’ frastornati dagli stimoli messi in campo da chef, pasticceri, pizzaioli. Ma capita pure di ritrovare gli spunti accennati da uno, nei valori che regolano la cultura gastronomica di altri, come un cerchio che si chiude prima dell’uscita di scena della dodicesima edizione, nell’ultima giornata di lavori articolata in più focus tematici e dedicata alla nazione ospite di quest’anno, il Perù.
Colori e possibilità infinite, dicevamo, come quelle messe nel piatto da questo angolo di Sudamerica ad alto tasso di microclimi, ecosistemi, tradizioni popolari e influenze culturali, dove la parola d’ordine, nelle cucine più rinomate (e non solo), è biodiversità. È un ambasciatore atipico il primo a farsi portavoce di questo messaggio sul palco milanese: lui si chiama Mitsuharu Tsumura, ed è uno degli chef più apprezzati nel mondo, rappresentante di quella tradizione nella tradizione che è la cucina Nikkei, e dello scambio prolifico che regola i rapporti tra cultura giapponese e andina, in ricordo dei tempi in cui sulle coste peruviane sbarcarono molti giapponesi in arrivo dall’altra parte dell’oceano. Una piccola colonia che ha dato vita all’incontro tra ingredienti e tecniche di cucina che sanno accordarsi tra loro grazie all’intervento ispirato di Mitsuharu, peruviano a tutti gli effetti, che non dimentica l’estetica e la cultura nipponica, che entrano nel piatto seguendo un fil rouge suggerito dal mare.
Il ceviche come il sushi, eppure diverso dal sushi. In entrambe i casi il protagonista è il pesce crudo, che in Perù è trattato con una marinatura veloce (oggi, perché “le nostre mamme lo lasciavano marinare dalla mattina alla sera, praticamente arrivava in tavola cotto”, confessa Ernesto Espinosa di Pacifico, tornando con la memoria alla cucina casalinga) a base di leche de tigre, quel condimento essenziale che mischia succo di lime, aglio, coriandolo e brodo di pesce a cui Virgilio Martinez ha recentemente dedicato un intero capitolo del suo libro. Una dimostrazione efficace di quanto questa preparazione abbia un ruolo centrale nella condivisione a tavola nelle case peruviane arriva sul palco proprio con il format Pacifico, il locale milanese creato da tre giovani soci che hanno scelto di scommettere sulla cucina peruviana di qualità, ma solo su quella ispirata dal mare. Mentre ribadisce quanto sia sorprendente la varietà di ingredienti offerti dal suo Paese (è “sorpresa” il termine ricorrente di un discorso che invita a godere delle emozioni suscitate dal cibo), Ernesto si sofferma su alcuni dei più curiosi, sconosciuti ai più, e tira in ballo quel rispetto che abbiamo sentito chiamare in causa più volte, secondo un’idea di cucina per cui “più semplice è più buono”.
Lo segue in ordine temporale e concettuale Sanjay Dwivedi, che dalla sua ha una storia piuttosto singolare: indiano di Londra che oggi si ritrova a capo di tre ristoranti peruviani ideati dal conterraneo Arjun Waney (lo stesso di Zuma), nella capitale inglese, a Miami e Dubai. Da Coya si assaggia l’interpretazione di uno chef fuori dagli schemi che qualche anno fa si è innamorato del Perù e oggi fa proprie più influenze gastronomiche per raccontare al mondo la sua passione, in nome di materie prime sempre freschissime e sfidando le barriere culturali: “Ho voluto creare qualcosa che nessun altro avesse fatto prima, elaborando un progetto che esprime la mia identità non solo in cucina”, ricreando un ambiente dove è bello trascorrere il proprio tempo tra musica, un buon drink o un ceviche sempre diverso.
Quando il sentore pungente del lime inebria le prime file, alla fine della mattinata, tutto è pronto per l’arrivo sul palco di Virgilio Martinez. E lo chef di Central si presenta con un video che esplora le molteplici altitudini della sua terra - si passa da -25 a 4200 metri sul livello del mare - enfatizzando quel “movimento verticale che è alla base della vita e del lavoro in Perù”, e necessariamente coinvolge anche il cuoco che vuole riscoprire il contatto con la natura e portarla nel piatto. Parla di ecosistemi e l’impatto visivo delle sue creazioni non lascia dubbi: sono i paesaggi del Perù quelli che arrivano in tavola dopo una ricerca incessante di ingredienti e tecniche che possano valorizzare le materie prime più inconsuete. Accantonato il ceviche, sul palco salgono radici, foglie di cactus, batteri dell’acqua piovana e persino argilla commestibile, recuperata sul territorio andino per realizzare un forno “primitivo” che accolga benevolmente le radici. Una dimostrazione potente che “la cucina si fa sul territorio”, nel paesaggio e con il paesaggio: con questo scopo è nata la fondazione Mater, che vuole riscoprire il potenziale di tutti i prodotti del Perù. In questo caso la parola d’ordine è coerenza, e Martinez le rende giustizia.
Il sapore della duna
“Bisogna avere un approccio etico!” Eccolo lì, il nuovo mantra della cucina d'autore. Dove? Quando? E in che modo? Ognuno trovi una sua risposta, purché risposta ci sia. E se anche viene da chiedersi se una certa sensibilità verso l'ambiente e le persone sia realmente sentita o solo una moda passeggera, poco importa. L'importante è imboccare, ognuno, la propria via di Damasco della sostenibilità. Che nel caso della cucina di mare, uno dei nuovi focus di Identità Golose 2016, è fatta soprattutto di pesca etica, rispetto del mare e delle coste, recupero di prodotti meno nobili e tradizioni povere, talmente povere da sublimare, a volte, l'assenza di un prodotto attraverso la sua creazione immaginifica. Come avveniva un tempo nelle cucine più povere, dove di pesce “fujuto” si trovano diverse testimonianze. Ed è la mano felice di Pino Cuttaia a riportarla sul palco con la zuppa alla marinara, prima, e il cous cous alla trapanese, poi. In cui il gioco della memoria riempie i vuoti sviluppando un paesaggio gustativo attorno all'aglio, snodo focale del sapore del mare, insieme alle mandorle. A ricostruire una cucina poetica, fatta di ingredienti (pochi) e amore (tanto).
Ci vuole fantasia e immaginazione anche per guardare al mare in modo diverso. A partire dalla costa. Che, nel caso di Gianfranco Pascucci, è quella non proprio amena di Fiumicino. Ma è un territorio che riserva delle sorprese spesso sconosciute anche a chi ci abita. Come le oasi del Wwf di Focene e Macchiagrande, che a un passo da Roma conservano un patrimonio di biodiversità incredibile. Piante, arbusti, rovi ed erbe aromatiche che caratterizzano questa lingua di territorio quasi immersa nel mare. E Pascucci porta avanti, insieme al Wwf, un lavoro che va oltre la tutela, per diventare valorizzazione. Perché proteggere un prodotto è forse solo il primo passo. Serve poi vivificarlo e reinserirlo in un circuito vitale e virtuoso. Così se da Focene arrivano le erbe (per esempio la Cakile Maritima usata nei ravioli umami), dall'Oasi di Burano arrivano i muggini, pesci umili lavorati a scarto zero (“non ci possiamo più permettere filetti di pesce”, ammonisce) meravigliosi protagonisti di una sorta di ri-creazione mentale del bbq in accompagno a una sorta di shabu shabu. E se le suggestioni più attuali ci sono tutte (le fermentazioni, le radici, la bottarga di ricci, e il fegato di rana pescatrice, prodotto di scarto facilmente deperibile, protagonista nel secondo piatto presentato, il raviolo umami) c'è soprattutto un percorso personale che porta a far rivivere, nel piatto, un angolo di territorio complesso e viscerale: “èla mia duna”. E nel chiamare tutti a una maggiore responsabilità, declina il tema del congresso e cita Giorgio Gaber: “libertà è partecipazione”.
Ma libertà è anche quella data dalla conoscenza. È quella che permette, a Nazario Biscotti di Antiche Sere, di lavorare le anguille del Lago di Lesina valorizzandone al massimo le carni (cotte al cartoccio a 160°). “Ricordo una pesca diversa ed etica” dice, mentre denuncia lo sfruttamento indiscriminato del lago, la pesca selvaggia che ignora le regole del ripopolamento. Prepara il suo piatto in una sessione a due che descrive un ideale viaggio dalla Puglia al Giappone. Insieme a lui Nobuya Niimori che mostra la cottura dell'anguilla laccata giapponese, con riso e dashi.
Torna l'idea del mare visto dalla spiaggia con Mauro Uliassi che trascina tutti con sé, dentro e fuori il mare di Senigallia. Un mare che è, prima di tutto, profumo e mobilità; variazioni continue al passare delle ore e delle stagioni. A tratti intenso, grave, profondissimo, a tratti lieve e fresco. È un mare visto con i sensi tutti e raccontato in modo obliquo. Con l'empatia istintiva che tutto unisce che è forse il tratto più caratterizzante dell'Uliassi uomo e chef. Si parte con Benvenuti al Mare, l'ultima tappa di un racconto multiforme e complesso che da La Prima Secca è arrivato, attraverso il Bagnasciuga, fino a oggi per raccontare le mattine di inizio estate. Acqua di vongole, anemoni di mare, ricci, alghe, ostrica, e plancton (prodotto ancora inusuale in Italia che, siamo certi, avrà grande attenzione). Immersi in un panorama olfattivo penetrante e misterioso, il mare nel piatto appare inedito. Da lì in poi è tutta un'immersione nel dentro-fuori dall'acqua: l'omaggio a Giacomelli, il bollito con molluschi, sconcigli e orecchie di maiale (a ricordare che i pescatori, una volta tornati a casa, vivevano anche di terra e di animali da cortile) e la carbonara di mare. Una corsa a capofitto in un approccio mai banale al mare e ai suoi frutti. Ma anche alla cucina in generale, con quella capacità di intuire le potenzialità di approcci anche irriverenti ma sempre solidissimi. Guardare al pescato e al mare in modo diverso è il primo modo per scoprire nuovi approcci più etici.
La pasta come non l'avete mai vista (e mangiata)
Stracotture della pasta che toccano la soglia dei 60 minuti per scoprire un prodotto completamente diverso, in cui emerge il sapore dolce del grano che si presta ad accompagnare carni esattamente come fosse un purè. Così Alessandro Negrini, per una volta senza Fabio Pisani (con cui presidia la cucina del Luogo di Aimo e Nadia a Milano),propone uno stracotto di carne e di pasta che lascia stracuocere (e non, semplicemente, scuocere). Dopo un'ora i paccheri un volta freddati e aperti, diventano una specie di raviolo aperto ripieno di coda di bue grasso di Carrù. Fondamentale la qualità della pasta per portare alle massime conseguenze l'intuizione nata da un errore. È un modo nuovo per interpretare il prodotto simbolo dell'Italia. “Se in un degustazione ti portano 18 piatti senza che ti arrivi mai la pasta, ti hanno servito 18 antipasti” è la sintesi con cui Negrini definisce l'attitudine tutta italiana verso la pastasciutta.
Che succede se, al contrario, la pasta viene messa in infusione a freddo? Che gli amidi si reidratano e l'indice glicemico si abbassa. Al netto di spiegazioni tecniche, la prova sul campo è quella di Cristina Bowerman (chef di Glass Hostaria e Romeo, bravissima anche a presentare Matthew Kenney) che dopo 48 ore di “ammollo” in bisque, salta la pasta per pochi minuti in padella, per vedere l'effetto che fa. E l'effetto è l'avvio di una nuova prospettiva per il piatto simbolo dell'Italia a tavola.
Lavorano invece sui metodi di cottura, anziché sui tempi, Nicola Fossaceca che cuoce gli spaghetti in acqua di mare, sauté di vongole con salsa all’aglio rosso di Sulmona, alga verde e gambero. Mentre è di derivazione francese la tecnica di Riccardo Camanini che usa la vescica del maiale come contenitore per una sorta di bagnomaria. E insieme alla pasta mette anche pecorino e pepe, il risultato è cremosissimo e tosto, con richiami animali quasi di pajata. Lavora su consistenze e propone visioni diverse Matias Perdomo. Negli anni lo abbiamo visto scomporre, reimpastare, grattugiare la pasta, fino a oggi, quando la propone liofilizzata. Davide Scabin, stavolta, raddoppia in una pasta condita con crema di pasta: pasta al quadrato per amplificare il sapore di grano. A suggellare il ruolo centrale di questo prodotto nella nostra cucina. Cui si sono dedicati anche Peppe Guida, uno dei grandi chef dei primi piatti (magnifici i suoi spaghettini con il provolone del monaco) e Ciccio Sultano che richiama alla salvaguardia della propria identità. Identità di pasta. Per l'appunto.
Corrado Assenza e la cucina di pasticceria
Il maestro siciliano sale sul palco da dodici edizioni, unico ad aver sempre presenziato a Identità. E (più di) un motivo c’è, bastano pochi minuti per capire quanto sappia “scendere in profondità con grande semplicità”, come chioserà al termine del suo intervento Gabriele Zanatta. Corrado Assenza apre il pomeriggio di Dossier Dossert, ma il pubblico numeroso che è arrivato per ascoltarlo sa che le sue ricerche sugli zuccheri naturali – con l’idea di sgretolare ulteriormente la barriera tra dolce e salato – sono solo un pretesto per imparare tanto altro. Come quando racconta del processo di “contaminazione di cultura materiale siciliana”, che gli permette di lavorare “sul chilometro buono” anziché incaponirsi sul chilometro zero; perché “è più facile spostare pensieri che materie”, e allora anche gli ingredienti in arrivo dal Nord diventano protagonisti di una ricerca incentrata sulla concentrazione di freschezza, che nel caso di Una capra mai vista sfrutta le potenzialità della canditura. Il primo piatto che presenta è dedicato ai formaggi e accosta a una crema di robiola di Roccaverano rapa e finocchi canditi (che insospettabilmente tirano fuori una nota animale, di pelle di ovino bagnato). Al contempo la sua è una ricerca che attualizza la cultura mediterranea e le regala una contemporaneità che è quella delle genti che lo popolano, sottolineando l’influenza concreta del Medio Oriente. Poi passa al piatto di frutta, per esplorare un altro aspetto di una pasticceria non “laccata”, che vuole portare nel piatto la natura, e non la sua emulazione. Perché il maestro del Caffè Sicilia – lo dimostra da anni – non si accontenta di sparare un colpo solo, ma restituisce alla pasticceria la sua dignità di rappresentazione. L’ennesima conferma che “la qualità arriva al prodotto dalle persone”.
Lo seguiranno nell’ordine due giovani rappresentanti della pasticceria italiana all’estero – Francesco Acquaviva è a Dubai per conto di Heinz Beck, Michele Abbatemarco a Tokyo, dove lavora per Troisgros – e poi Gianluca Fusto e Vito Mollica con Domenico Di Clemente, che insieme ribadiscono la pari dignità dei ruoli tra chef e pasticcere. E, di nuovo, chiudono il cerchio.
Identità Golose 2016 | Milano | Mi.Co. | via Gattamelata | www.identitagolose.it/
a cura di Antonella De Santis e Livia Montagnoli
foto di Alberto Blasetti, www.albertoblasetti.com
Identità Golose 2016 report. Seconda giornata: Bottura, Cracco, Romito, Lopriore e gli altri
Identità Golose 2016 report. Prima giornata: Scabin, Crippa, Alija, Klugmann e gli altri
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