In una posizione defilata della zona della movida capitolina, da sei anni Waraku tiene fede alla sua missione: valorizzare l’autentica cultura giapponese, anche – e soprattutto – in cucina. È Maurizio Di Stefano a raccontarci la sua storia e la sua passione per i ramen-ya.
Le premesse. Il ramen nel destino di Maurizio
Superato il groviglio di sopraelevate della tangenziale, direzione Grande Raccordo Anulare, la Prenestina corre via veloce, alla prima periferia di Roma. È qui, in un'anonima traversa del Pigneto meno battuto dalla movida, che sei anni fa prende forma il progetto di Maurizio Di Stefano e sua moglie, una ragazza giapponese dai modi garbati originaria della prefettura di Chiba, alle porte di Tokyo. L'idea di aprire un'associazione culturale arriva quasi per caso, dopo l'insistenza di numerosi amici e conoscenti che intravedono nella cucina casalinga di Maurizio qualità introvabili nel panorama gastronomico etnico capitolino (ancora oggi piuttosto indietro rispetto a città come Milano o Firenze). All'epoca il ragazzo romano con la passione per l'Oriente fa l'interprete e traduttore ed esprime il suo interesse per la cultura giapponese attraverso le arti marziali e l'insegnamento del karate, tuttora centrale tra le attività del dojo (quella che noi definiremmo una comune palestra, ma c'è di più) di via Albimonte. E proprio il suo continuo andirivieni con il Paese del Sol Levante gli fornisce a ogni viaggio un nuovo motivo per tornare, là dove ha trovato l'amore e una famiglia allargata.
Il ramen-ya di Chiba
È in occasione di un'estate trascorsa con i parenti di sua moglie, a Chiba, che Maurizio approfondisce più da vicino la conoscenza della tradizione gastronomica locale. In questa grande città fuori dalle comuni rotte turistiche, lo zio della moglie gestisce un ramen-ya, che Maurizio con una colorata espressione – e lo sguardo disincantato di chi il Giappone lo ama e conosce per davvero, e non dalle pagine di un anime - ribattezza “un'autentica ‘trattoriaccia’ di paese, con un lungo bancone e qualche sgabello, dove gli avventori passano veloci, giusto il tempo per un piatto volante, prima di tornare a casa”. Un ramen-ya è specializzato nella preparazione dei piatti della tradizione popolare, che “oltre al ramen comprendono i gyoza e un piattino di riso saltato d'accompagnamento detto chahan”. Consuetudini che Maurizio fa sue durante quello che potremmo definire un periodo di apprendistato in famiglia, per il semplice desiderio di imparare a replicare in casa il ramen tradizionale, una volta tornato in Italia. E così nel ramen-ya di Chiba impara i segreti della zuppa perfetta: come unire gli ingredienti tra loro, come dare sapidità al brodo, come realizzare dei perfetti men, quegli spaghetti cinesi artigianali che, a distanza di anni, faranno la fortuna di Waraku.
Verso Waraku. Karate e cucina nella palestra al Pigneto
Al rientro a Roma Maurizio padroneggia tutte le tecniche e invita spesso gli amici a casa per condividere con loro una cultura gastronomica sconosciuta ai più, specie in una città che continua a confondere la cucina giapponese con degli ibridi nippo-cinesi all you can eat, dove “il ramen è quello istantaneo, una vera porcheria chimica”. Come spesso accade quando c’è qualcosa che vale la pena condividere, la fama dei noodle di Maurizio si fa strada tramite passaparola, la voce arriva a un conoscente che lavora all’ambasciata giapponese di Roma, che ritrova in quel ramen l’essenza della sua terra: “Le richieste aumentavano; molti mi dicevano ‘fate uno spaghetto talmente autentico che dovreste aprire un locale vostro in città’. E allora ci siamo convinti, con l’idea di coniugare più attività a sfondo culturale, per insegnare il karate tradizionale, così come si pratica in Giappone, e proporre le pietanze della cultura nipponica”. Una doppia missione che Waraku non ha mai tradito, fedele alla doppia natura di palestra e circolo culturale – qui si praticano yoga e arti marziali, si possono seguire corsi di lingua giapponese, seminari e lezioni amatoriali di cucina – e bistrot giapponese. Ma non chiamatelo ramen bar, “una definizione occidentale che fa tendenza e allontana dalla comprensione della natura più autentica di quel ramen-ya che abbiamo cercato di ricreare a Roma”.
Fare cultura attraverso il cibo. Difficoltà comprese
Senza scendere a compromessi, se non nell'offrire al cliente italiano una varietà di piatti maggiore rispetto alle scarne abitudini giapponesi, tanto che nella storia di Waraku non sono state rare le incomprensioni e i moti di disappunto dei commensali meno disposti a imparare (e ascoltare): “Ci capita spesso che le persone, entrando da Waraku o partecipando ai nostri eventi, ci rinfaccino di avergli rovinato un sogno. È quell’idea di “California asiatica” che fa del Giappone un mondo a fumetti tutto sushi e manga, molto diverso dalla realtà. A noi invece piace insegnare qualcosa attraverso la nostra cucina”.
Chi si accomoda da Waraku può scoprire la storia dei piatti che sta mangiando, imparare a tavola abitudini alimentari diverse, che a volte è difficile assimilare. Un esempio? “Nei ramen-ya non si serve vino. A chi me ne chiede una bottiglia, io rispondo con una semplice provocazione: cosa pensi del turista americano che sorseggia un cappuccino mentre mangia una pizza? Ecco, anche ramen e vino non possono andare d’accordo, ma potete optare per una birra giapponese”.
Dalla cucina. Tradizione e varianti personali
Ma cosa si mangia nel piccolo locale sul retro (luci basse, qualche tavolo, un piccolo bancone e quattro sgabelli vista cucina) di Waraku? La cucina è il regno di Maurizio, sua moglie lo affianca e serve ai tavoli con una discrezione tutta orientale. La carta, in origine più contenuta, si è aperta col tempo a nuove proposte, “perché il cliente italiano è un po’ viziato, ama indugiare al tavolo e avere ampia possibilità di scelta”.
Si può cominciare con diversi tipi di gyoza, i ravioli alla piastra, ma la carta vincente di Waraku è il ramen, realizzato secondo tradizione, ma con un’interpretazione personale che non può prescindere dagli ingredienti disponibili e dal gusto di chi lo assembla: “D’altronde anche in Giappone ogni regione serve la sua variante, e di nuovo il parallelo con la pizza è molto calzante: la miscela di farine per l’impasto, le tecniche di lavorazione, la creatività del pizzaiolo determinano il risultato finale, diverso da un artigiano all’altro. Anche in Giappone c’è uno standard, che è quello dei preparati industriali utilizzati in molte catene di fast food; però ci sono le mille sfumature regionali che determinano la circolazione di ricette antiche comuni, attualizzate in tante varianti. Per esempio, la celebre Okinawa Soba dell’arcipelago di Okinawa la ritroviamo anche nella prefettura del Kanto in chiave molto diversa”.
Da Waraku si lavora con ingredienti freschi, carne e verdure sono acquistate da fornitori romani, e qui interviene un altro “problema”: “Il risultato non sarà mai uguale all’originale giapponese, perché i nostri ortaggi sono più sapidi rispetto a quelli nipponici; lo stesso si può dire per la carne di maiale (lì viene pompata ed è molto più scarica di sapore) e soprattutto per l’acqua, che in Giappone è priva di calcare, a Roma invece vi lascio immaginare”. Cosa significa? Che il ramen risulterà più pesante.
Gyoza, tantanmen, takoyaki
Si lavora sempre per piccole quantità, la produzione è limitata (e trovare posto da Waraku è difficilissimo!), ma le varianti in carta sono davvero molte. Quali preferiscono i clienti affezionati? “Sicuramente quelli a base di miso, e poi una versione piccante di cui vado molto fiero, il Tantanmen, originario della regione cinese del Sichuan (dove si chiamano Dandan noodles, ndr), che interpreto a modo mio”. Ma la scelta si estende al riso al curry (introdotto in Giappone dagli inglesi all’inizio del '900, oggi molto diffuso specie nei ristoranti di Osaka), agli udon e all’okonomiyaki, oltre che alle golosissime frittelle di pastella con polpo, takoyaki, ricetta tradizionale disponibile solo a pranzo. Tutti i prodotti giapponesi – come il katsuobushi – arrivano dal fornitore che rifornisce i più famosi ristoranti nipponici di Roma, lo stesso vale per le ciotole che personalizzano la mise en place di Waraku, perché l’esperienza sia il più possibile fedele all’originale.
A ruota libera. I consigli di Maurizio
Ma perché Maurizio ha scelto proprio il Pigneto? “Nel periodo in cui abbiamo aperto, era il 2010, si parlava di fare di questa zona del quartiere una sorta di polo gastronomico asiatico, con tante insegne di qualità. Il progetto non si è concretizzato, ma noi abbiamo deciso di continuare qui, pur defilati e con pochi posti a disposizione. Spesso sono costretto a rifiutare le persone, ma questo mi garantisce di preservare l’atmosfera”. Intanto in cucina si lavora costantemente per migliorare la qualità.
E Maurizio dove bussa se vuole trovare una cura altrettanto genuina per la cucina giapponese? “A Roma non saprei dire, non provo mai altri giapponesi. A Milano invece il panorama è interessante, la cultura del ramen molto più diffusa e consapevole, come per esempio in Belgio, a Bruxelles. Tra i locali che mi hanno convinto di più ci sono Osaka (a pranzo a prezzi molto convenienti), Zaza Ramen e Casa Ramen, dove ho trovato una zuppa davvero ben fatta, e anche lo stile del locale mi piace molto.” Un auspicio per il futuro? “Che un giorno la cultura del ramen prenda piede anche a Roma: se un ramen viene servito nel giro di 30-40 secondi da quando butto la pasta, ci sarà un motivo! Va consumato appena servito e velocemente, perché i noodle non si ammorbidiscano”.
Waraku | Roma | via Guglielmo Albimonte, 12 | tel. 329 7248911 | http://warakuroma.webs.com/
a cura di Livia Montagnoli