Nuovo progetto per l’ideatore della mitica ravioleria di Paolo Sarpi, che ora apre in zona Loreto una trattoria cinese che ricorda la cucina di casa del Sichuan. E in cantina cura personalmente le sue verdure fermentate. Mentre già guarda al prossimo obiettivo.
Il valore del nove
Vado a mangiare nove, in Cina significa che ci si prepara a un gran banchetto, quello delle cerimonie importanti. Il nove era il numero fortunato dell’imperatore, simbolo del potere proibito al popolo, eccezion fatta per le nove scodelle cerimoniali: “Non potevi avere nemmeno una camicia con nove bottoni”, ci racconta Agie (il genio) della Ravioleria Sarpi, pronto a superare se stesso con una nuova sfida gastronomica, fedele alle sue passioni per la ricerca alle origini del cibo e fedele al suo stile artigianale ma visionario, nel realizzare progetti culturali ‘commestibili’. L’idea per Le nove scodelle nasce lo scorso novembre, collocazione insolita in zona Loreto: “Abbiamo rilevato il ristorante di mia cugina. Facevo sempre tappa qui per un saluto al rientro da lavoro, viale Monza mi è di strada per tornare a casa, quando una sera abbiamo saputo che stava per chiudere, ero con Wei, il mio amico e socio chef. Dopo tre giorni è partito il progetto. Loreto è una zona in cui la cucina cinese è molto diffusa, abbiamo fatto una breve indagine su come si mangia in giro, abbiamo assaggiato, curiosato e infine deciso che volevamo provarci noi, portare a Milano la vera cucina dell’entroterra cinese, non quella ‘da ristorante’, ma la cucina di casa, quella che si mangia in famiglia”.
Dalla Cina a Milano
Il mese di dicembre è stato dedicato all’esplorazione sul campo, Wei è rimasto un mese in più a studiare le tecniche di preparazione: “Sono partito per il Sichuan, tra villaggi e montagne a sperimentare di persona ogni ricetta, ogni piatto, sulla base dei miei contatti, del passaparola, a casa di parenti e amici di amici, chiedevo le ricette delle mamme e delle nonne. Ormai da circa vent’anni, anche in Cina non è facile ritrovare ingredienti puri e metodi non industrializzati nella preparazione del cibo. Le tradizioni gastronomiche cinesi richiedono tempi lunghi, anche giorni per la preparazione di un piatto, e nessun ristorante è più interessato a sostenere i processi elaborati delle lunghe fermentazioni in cucina”. Le nove scodelle, invece, dimostra come sia possibile riprodurre il valore (e il sapore) della lentezza e della pazienza che ci vuole a costruire il piatto giusto. “Al rientro dal viaggio insieme a Wei abbiamo cominciato a provare una per una le ricette. Siamo arrivati a ripetere un piatto anche 30 volte, per assicurarci che garantisse lo stesso equilibrio ogni volta. In origine c’erano 14 piatti a rotazione in menu, poi abbiamo limato ancora per portarli a nove. Mentre noi sperimentavamo in cucina, fuori si lavorava per allestire il locale. Tutto è fatto con poco, come una vera trattoria cinese. Niente fronzoli né colori. I piatti della cucina del Sichuan sono coloratissimi, volevamo che spiccasse il colore del cibo. Tavoli e sgabelli in legno massiccio sono tutti fatti a mano. Il tema delle lampade è il tipico cappello cinese con inciso il logo dei nove punti per nove scodelle”.
Le nove scodelle. Cosa si mangia
La cucina è quella tipica del Sichuan caratterizzata dal piccante specifico del pepe, quello che lascia in bocca un leggero e formicolante intorpidimento, poi spezie, zenzero, erba cipollina, anice stellato, erbe aromatiche, peperoncino e sapori aciduli da fermentazione in salamoia e soia fatta in casa. Nulla a che vedere con pepe nero o peperoncino, pizzica tanto e non si piange. “Il piccante è l’elemento caratterizzante della cucina nelle quattro valli formate dai due fiumi in Sichuan. È una regione ad altissima umidità, si suda tanto anche a tavola con una cucina così piccante, ma la cucina fermentata fa tanto bene, non per niente le ragazze di Sichuan sono ritenute le più belle di tutta la Cina proprio per la bellezza della pelle”.
Il pepe è l’unico ingrediente che arriva dalla Cina, in bacche verdi e profumatissime. Le verdure freschissime sono di provenienza locale a coltivazione bio dell’Agricola Bargero di Como. Pollo di San Bartolomeo e selezione carni dal tempio Walter Sirtori, partner, mentore ed esperto macellaio milanese con cui la storia gastronomica di Agie ha avuto inizio in via Paolo Sarpi. Farine delle Cascine Orsine per le paste e da bere birre artigianali di produzione locale insieme a tre (soltanto tre!) vini di qualità. “In cucina abbiamo stoccaggio minimo, gli ingredienti sono freschissimi, dalle verdure di stagione alle carni, al pesce. Ogni mese ci sono piatti nuovi. Prepariamo tutto per la consumazione giornaliera calcolata sui 42 posti in sala. In cucina oltre lo chef ci sono tre persone, presto avremo due signore, una ai wok e una alla pasta. Ci tengo molto che non siano chef, questa non è cucina gourmet da gestire con le gerarchie di grado, non richiede tecniche sofisticate, ma gesti di memoria domestica. Idem per il target di posizionamento: una cena completa costa massimo 20 euro e il locale è frequentato da una ben folta comunità di cinesi, millennials che scoprono per la prima volta cosa mangiavano i loro nonni in Cina, e meno giovani che riconoscono i sapori dell’infanzia di cui non avevano più memoria”.
Le scodelle arrivano tutte insieme a tavola perché costituiscono insieme un percorso culinario: al centro c’è la ciotola grande, generalmente il piatto forte a base di carne (manzo) o pesce (la carpa è tipica), e intorno le altre scodelle. Per il menu completo occorre essere almeno in 4 o 5 persone. Per due persone è disponibile il menu a tre ciotole o in multiplo di tre. Per ogni 3 c’è un piatto vegano, uno freddo e uno piccante.
La cucina fermentata
Ma il vero segreto de Le nove scodelle è giù in cantina, una sorta di cripta laboratorio in cui Agie custodisce la fermentazione delle verdure in salamoia. Due le salette frigorifero: una dedicata a ospitare le otri in terracotta in cui vengono immerse le verdure, l’altra dedicata al preventivo processo di essiccazione delle verdure stesse (cavolo cappuccio e affini). Agie ci mostra il processo di fermentazione in atto: i fermenti vivi sono arrivati direttamente dalla Cina, dalla cucina della nonna di una studentessa cinese residente a Milano, più o meno con la stessa religiosa dedizione con cui siamo soliti prenderci cura del lievito madre. La riproduzione della salamoia servirà a moltiplicare le otri in cui immergere le verdure, in modo da averne maggiore disponibilità in tempi più brevi. Un ciclo di fermentazione dura tre settimane, fra qualche mese le otri disponibili diventeranno almeno sei. “In Cina ogni famiglia ha il suo otre in dote e usa sempre quello, la terracotta assorbe i bacilli e crea l’ambiente adatto alla fermentazione”.
Verso il prossimo progetto
Agie non è un ristoratore, è un esploratore delle origini del cibo, portatore sano di imprenditorialità e innovazione. La ricerca deve appassionare prima lui, il ristorante è l’approdo finale di una visione, in cui tutto converge per realizzare un’esperienza vera, che comunica cultura. L’abbiamo imparato dai ravioli prima, dai mo e dai baozi dopo: tutto è fatto di pochi elementi, di cose autentiche che rimangono indelebili al cuore, oltre che al palato. Imperdibili il filetto di carpa in brodo aromatizzato al coriandolo, sesamo ed erba cipollina, le puntine di maiale infarinate con trito di riso tostato ed erbe, e gli spaghettoni fatti a mano, saltati con mandorle e sesamo. Agie è già pronto a realizzare il suo prossimo progetto.
Le nove scodelle – Milano – viale Monza, 4 – 331 8001116
a cura di Emilia Antonia De Vivo