La seconda giornata si concentra sul ruolo della cucina e l'importanza del gioco, sul valore della sala e di quel che si nasconde dietro un ristorante di successo. A indagare il ruolo del Fattore Umano (il filo conduttore di questa edizione di Identità Golose) nel mondo della ristorazione.
Seconda giornata del congresso Identità Golose. Al MiCo di Milano, dopo la giornata di apertura in cui si è parlato di ritorno, rispetto e sostenibilità, con un focus sulla regione Calabira, si parla di empatia, gioco, attenzion al cliente.
Il cliente prima di tutto
Se il tema dell'edizione 2018 di Identità Golose è il Fattore Umano, uno degli argomenti ricorrenti della seconda giornata è l'attenzione al cliente. A celebrare il protagonista ultimo dell'esperienza nel ristorante arriva niente meno che Arrigo Cipriani: classe 1932, leggendario patron dell'altrettanto leggendario Harry' bar (Venezia) aperto dal padre prima della sua nascita - “sono l'unico che ha il nome di un ristorante” scherza. Un gigante del servizio. I suoi locali, più di 25 in tutto il mondo, sono prima di tutto dei posti in cui si sta bene, dove non ci sono sovrastrutture o inutili formalismi – “neanche i calici” tiene a sottolineare - ma una continua, puntuale attenzione agli ospiti con dettagli grandi o piccoli “la forchetta non deve pesare troppo, per essere maneggevole. L'acustica e la luce sono fondamentali, così come l'altezza del tavolo o delle sedie perché ognuno, qualunque sia la sua altezza, stia comodo”, a Venezia il pavimento è riscaldato a 19° e in una città in cui il marmo scende facilmente a 5° la differenza si fa sentire: “il cliente neanche se ne accorge, sa solo che sta bene”. Commenta Raffaele Alajmo (Le Calandre, Rubano – PD) che lo ha accompagnato: “fa l'opposto di quel che facciamo noi nei nostri ristoranti: niente assaggini o grandi spiegazioni, solo una cucina veneziana e italiana, quella che le persone, soprattutto straniere, hanno piacere di mangiare”. E niente obblighi: qualsiasi richiesta del cliente è accolta. “Insomma” conclude “quando vai sei contento”. Non vuole dare imposizioni, Cipriani. “La cosa più importante che abbiamo è la libertà” afferma, e detto da uno che nel '45 ha visto le truppe di liberazione entrare all'Harry's Bar, ha un significato profondo. È un ristorante senza chef, il suo, tutto sala e servizio al cliente “se mancano i clienti i ristoranti sono finiti” sintetizza.
Empatia
L'attenzione nei confronti del cliente passa necessariamente attraverso l'empatia. Lo dicono i più grandi rappresentati dell'hotellerie, che in questi annihanno cominciato ad aprirsi alle città. Lo hanno fatto attraverso l'amo della cucina, come nel caso dell'Hotel Hassler e il ristorante Imàgo di Roma, ma anche attraverso l'intrattenimento. Come racconta Luca Finardi (Mandarin Oriental Milano e Seta, Milano): “Oltre la cucina, noi puntiamo sull'intrattenimento. L'ospite oggi vuole vivere un'esperienza, chi viene al Mandarin per un cocktail vuole vivere il contesto e vuole ascoltare il barman mentre gli racconta la storia del drink che si accinge a bere”.L'empatia implica necessariamente l'attenzione ai dettagli e la sartorialità, Ermanno Zanini (Mytha Hotel Anthology - L’Olivo e Il Riccio del Capri Palace) racconta un aneddoto emblematico:“In un albergo mi hanno fatto trovare un bel cesto di frutta in camera, del quale ho preso solo una mela. Al mio ritorno avevano sostituito il cesto con uno ancora più bello, ma senza mele, che sono il mio frutto preferito. In questo caso la standardizzazione ha fallito”.
E sempre il cliente è il protagonista dell'esperienza al Contraste (Milano). Lui decide cosa vuole mangiare, la cucina lo segue. “quando abbiamo cominciato a pensare al menu” racconta Matias Perdomo “ci siamo resi conto che il degustazione tradizionale non ci rappresentava, troppo impositivo”. Una dittatura del gusto che lo chef uruguayano ha aggirato spostando l'attenzione tutta sulle persone. È il Fattore Umano. “Oggi è sempre più difficile conoscersi e riconoscersi”. Da lì nasce il menu Specchio, plasmato sulle esigenze del cliente, il sottotesto è chiaro: guarda chi sei e capisci cosa vuoi. Una ricerca che Perdomo fa sua anche come cuoco: “oggi la cucina va verso il vegetale, ma io sono uno molto proteico. L'ho capito, e ho capito che devo accettarlo”. Insomma: “conosci te stesso”. Il cibo diventa lo strumento per guardarsi dentro anche per Massimiliano Alajmo che invita a riflettere sulle proprie sensazioni, approfondirle per conoscere non solo la materia che le genera - “che”dice “ha già tutto, il cuoco può solo farla respirare e vivere” - ma anche noi stessi. Lo fa con il Gioco del cioccolato, dessert esperienziale che conduce in un viaggio interiore. Quest'anno amplifica i rumori che emette il dolce, il cliente si concentra sul suono delle cose, ne percepisce l'essenza meno evidente, e con essa arriva all'ascolto di se stesso e delle proprie reazioni. Uno sguardo interiore, lo chiama.
Il piatto da solo non basta
“Bisogna liberarsi dall'idea che il piatto in sé sia tutto” fa Massimiliano Alajmo.E spiega di una seconda – vera - nascita del piatto fuori dalla cucina, quando arriva nella sala piena di colori, rumori, persone e oggetti, con cui si deve relazionare. Perdomo dice: “Anche se noi lavoriamo al 100% non possiamo fare più del 50% della cena, il restodeve metterlo chi mangia”. Ci sono mille dettagli da seguire: “in ognuno c'è un elemento di libertà. È il lusso, quel lusso che è dato dall'uomo, è lui che gli dà l'anima, non Dio” conclude Arrigo Cipriani. Come un'equazione esponenziale che Luca Govoni, compagno sul palco di Paolo Lopriore (Il Portico, Appiano Gentile – CO), spiega così: “C'è il triangolo ristorativo primario: cuoco cameriere e ospite, e senza quest'ultimo nulla avrebbe senso. Questo triangolo si muove tra cucina, sala e tavola. Ma tutto dipende dalle scelte che i tre attori fanno prima durante e dopo la cena”. Dalla materia prima che il cuoco sceglie, elabora e cucina al momento in cui rielabora e perfeziona il piatto, dopo il confronto con il cliente “grazie all'intermediazione del cameriere, che cerca, studia, coinvolge e media quel piatto e lo porta al tavolo”. Senza contare un altro Fattore Umano: quello rappresentato dai produttori “chi per tutto il giorno opera per noi chef”. Parola di Lopriore e Ana Roš (Hiša Franko, Caporetto, Slovenia) che dal suo osservatorio immerso nel verde conosce valore della materia e il ruolo fondamentale dei produttori, le loro storie, gli slanci, le difficoltà.
Tecnica, sapore, rito e voglia di giocare
C'è voglia di leggerezza e la tecnica ne è alleata fenomenale, l'abbiamo visto ai tempi dell'ebbrezza del molecolare, e ancora non è finito: la tecnica è il mantra di Mateu Casañas, Eduard Xatruch e Oriol Castro (Disfrutar, Barcellona, Spagna) che continuano a baloccarsi con le possibilità nate dalle sferificazioni e presentano un macchinario coreano dalle molte prestazioni: cuoce, fermenta, stagiona, e trasforma i prodotti aprendo imprevedibili sfumature di sapore, colore e consistenze, regala note balsamiche, fruttate, scurisce e ammorbidisce in modo simile all'aglio nero, regala succhi ed estratti di intensità variabile.“Lo abbiamo da 3 anni” spiegano “ma ancora non ne conosciamo tutte le possibilità”. È tecnologia, certo, ma è soprattutto “una riflessione sulla concentrazione del gusto”; così come pure lo è per Gaggan Anand (Gaggan, Bangkok, Thailandia) che racconta che non è la tecnica che vuol mostrare, quella che ha conosciuto (tra l'altro) alla corte di sua maestà Adrià dove ha scoperto come giocare con temperature e consistenze. Gaggan mescola nella sua cucina ricordi, memorie, nostalgie. E intanto pensa alla sua prossima folle avventura attesa per il 2021 a Fukuoka: un luogo aperto a mesi alterni dove musica, performance, teatro e grande cucina si incontrano. È anche questo un gioco.
Tema che torna con Enrico Bartolini che al Mudec (Milano) serve un pre-dessert in forma di due dadi da gioco, atto finale del piccolo menu presentato a ritmi serratissimi sul palco del MiCo, con la squadra dichef dei suoi ristoranti (5 in Italia, altri a Abu Dhabi, Shanghai e Hong Kong, la consulenza a PandenusdiBrera e la prossima apertura della Locanda del Sant’Uffizioil 24 marzo ad Asti). Mentre Matias Perdomo con Mano de Diosmette in campo (in senso letterale) il famoso gol di mano di Maradona nella storica partita Inghilterra Argentina del 1986, e non manca di gingillarsi tra forma e funzione con il pesce in crosta di sale. In realtà una cottura su piastra di sale con un guscio di glucosio colorato che crea un effetto forno in cottura e un effetto rame alla vista, a ricordare gli stampi di un tempo. Il gioco delle forme passa attraverso tecniche e materiali diversi come cera e silicone odontoiatrici. Dall'altro lato della tecnica si spinge Ana Ros che dichiara: “credo nelle cotture tradizionali” e pare farle eco Lopriore: “la cosa bella è anche il gesto rituale. Ma servono le parole per raccontare quel profumo e quel gesto che appagano chi cucina”. Oggi incontra il piacere genuino della tavola e la semplicità contadina: pane e companatico, un'unione da celebrare con un gioco di incastri tra elementi che consente 103 combinazioni diverse. “Parlare di cucina creativa a partire dal una gallina bollita sembra quasi impossibile”. Invece è così, e reinveste l'eredità tutta spigoli e vertigini della Certosa di Maggiano per stupire con una convivialità gentile, rassicurante, ma non statica. Capace di incuriosire, soddisfare, emozionare. Una cucina che strappa un sorriso e vuole essere goduta a piene mani, con pane e intingoli da gustare. E una cultura che deve passare dal piatto all'uomo e viceversa.
Ha il sapore del gioco a incastri anche la scelta di Alajmo di presentare 10 declinazioni del concetto di zafferano e liquirizia. Luminoso e oscuro, punta estrema e parte sotterranea, pistilli e radici: contrasti che Alajmo elabora in un virtuosistico caleidoscopio a partire da quel primo abbinamento. “lavoriamo sulla rilettura” spiega lo chef che, non punta alla progettualità, ma – nuovamente – a farsi spalla della materia.
Il Fattore Umano
Il lato nascosto della cucina e del successo, quello di cui nessuno o quasi parla, è il tema dell'intervento di Antonia Klugmann (L'Argine a Vencò, Friuli). Fatica – tanta – e tanta difficoltà nel tenere tutto in equilibrio. Bisogna parlare e raccontarsi, bisogna lasciarsi guardare dai clienti perché possano capire il lavoro che c'è dietro ogni piatto, lo sforzo costante e la cura estrema del dettaglio. L'essenziale è invisibile agli occhi. Pochi chilometri la separano da Hisa Franko, si cambia nazione, ma i temi sono simili: il pericolo del successo, versione Ana Roš. Dopo Netflix e il premio come miglior chef donna per la 50 Best, tutto è cambiato.
Si è riversato sul ristorante familiare gestito con il marito, un'attenzione che ne ha stravolto la vita e il quieto andamento. Liste d'attesa, telefonate continue, interviste a non finire. “A un certo punto non ho retto” dice Ana “sono crollata. Dovevo fermarmi ma non riuscivo ad avere mai tempo. Dovevo ritrovare un equilibrio”. Ha dovuto cercare nuove risorse e l'ha trovate nel rigore che l'aveva accompagnata nella sua carriera sportiva. Ora corre un'ora al giorno e fa yoga, cerca di vedere le amiche, di godere di una vita fuori dal ristorante. E invita i suoi collaboratori a fare lo stesso, avendo creato una nuova organizzazione con un team mattutino solo per le preparazioni, così da ritardare l'ingresso degli altri cuochi. “Non saremo mai ricchi così, ma saremo felici”. Perché quel successo aveva sommerso la gioia della cucina.
Identità Golose 2018. La prima giornata
a cura di Antonella De Santis