Quantcast
Channel: Gambero Rosso
Viewing all 5335 articles
Browse latest View live

Live Wine 2017: oltre 150 cantine attese per il Salone del vino artigianale a Milano

$
0
0

Sono oltre 150 i produttori che parteciperanno a Live Wine, il Salone internazionale del vino artigianale, previsto per il 18 e 19 febbraio a Milano. Due giorni per imparare a conoscere i nuovi prodotti, italiani ed esteri, con degustazioni guidate, incontri e seminari, all’insegna dei metodi di coltivazione della vite “non invasivi”. 

Il Salone internazionale dei vini artigianali

Se chiamarli naturali non è corretto per legge, artigianali potrebbe essere fuorviante: quello che accomuna i vini di Live Wine è la “filosofia non interventista”, cioè la messa al bando di additivi e prodotti chimici nella coltivazione della vite e nella produzione di vino. Saranno oltre 150 i produttori che porteranno etichette artigianali, biologiche e biodinamiche a Palazzo del Ghiaccio di Milano questo week end. Ma il vino non è l’unico protagonista del festival, ormai giunto alla terza edizione: anche birre e liquori saranno rappresentati da molte aziende italiane e straniere, che lavorano all’insegna della tutela del legame fra prodotto e territorio e nel rispetto dell’ambiente.

 

Il programma di Live Wine

Oltre alla possibilità di assaggiare e conoscere le cantine protagoniste di Live Wine, sono diversi gli incontri e le degustazioni in programma per questa terza edizione: non solo prodotti dello Stivale ma anche tante etichette da Francia, Spagna, Slovenia, Austria, Slovacchia, Croazia e Germania. Gli eventi serali si terranno in diversi locali di Milano, fra cui Santeria Social Club, Cascina Cuccagna, La buona bottega, Al cortile, La volpe e il vino, Vinoir, Hic.

Fra gli appuntamenti più interessanti segnaliamo “Alla scoperta del sangiovese da vendemmia selvatica”, “Tra terra e mare”, “Da Marsala a Pantelleria”, “Due champagne e..”, oltre alla presentazione del libro “Vigne, vino, vita: i miei pensieri naturali” di Lorenzo Corino.

In calendario anche cene con i produttori, come quella con Denis Montanar che vedrà ai fornelli lo chef Marco Ambrosino, quella con i titolari di Domaine Geschickt (Alsazia – Francia) e Dva Duby (Moravia del Sud, Repubblica Ceca) e la cena con i bodegueros spagnoli Uva de Vida (Toledo) e Vinos Ambiz (Avila).

Le degustazioni guidate, a cura di Samuel Cogliati, permetteranno ai visitatori di spaziare fra prodotti locali ed etichette internazionali, in modo da avere una panoramica abbastanza esaustiva della produzione di vini artigianali in Europa. Si terranno all’interno della Sala Piranesi del Palazzo del Ghiaccio: alcune sono a entrata libera, altre prevedono un ticket e la prenotazione.

Ospite d’eccezione della kermesse sarà Arte Sella, il museo all’aperto che si trova in Val di Sella in Trentino e che permetterà ai visitatori di ammirare un’opera dedicata alla vite.

 

Live Wine | Milano | Palazzo del Ghiaccio | via G.B. Piranesi, 14 | tel. 02 73981 | 18 e 19 febbraio 2017 | www.livewine.it

 

a cura di Francesca Fiore

 


La Puglia in 8 biscotti tradizionali e la ricetta dei quaresimali della pasticceria Aldemorisco

$
0
0

Biscotto di Ceglie, castagnelle, marzapani: è davvero difficile scegliere uno fra questi deliziosi biscotti pugliesi. Noi ve ne raccontiamo 8 diverse tipologie, da provare a rifare a casa. E in fondo una ricetta, quella dei quaresimali della pasticceria Aldemorisco di Lecce.

Specialità antiche, le cui ricette si perdono nel tempo. Sono i biscotti pugliesi, ricette che si tramandano di generazione in generazione diventate simboli di specifici territori. Per la rubrica sui biscotti regionali italiani vi raccontiamo 8 prodotti pugliesi e la ricetta dei quaresimali della pasticceria Aldemorisco, premiata con Due Torte dall’edizione 2017 della guida Pasticcerie& Pasticceri.

 

Biscotto di Ceglie Messapica

I biscotti che vi raccontiamo erano prodotti a Ceglie Messapica, antica cittadina in provincia di Brindis, dalle famiglie contadine per le feste e per i banchetti nuziali, dove venivano usati come bomboniera: con il passare del tempo, sono diventati veri e propri simboli della cultura locale. Chiamati in dialetto piscquettele, sono dolci dalla forma quasi cubica a base di pasta di mandorle e confettura, aromatizzati agli agrumi e scorza di limone. Ne esiste anche una versione ricoperta dal cileppo, cioè una glassa fatta con zucchero e cacao. Per realizzarli a servono mandorle - solitamente la qualità cegliese - spellate e tritate (e in parte anche tostate), zucchero, miele, uova, rosolio di agrumi, scorza di limone, confettura di uva o ciliegie. Creato l’impasto si formano delle strisce larghe e basse, sul cui bordo si spalma la marmellata, ripiegando poi la pasta su se stessa. I filoncini così modellati si suddividono in tanti quadratini e si cuociono a 160-180 gradi per per 15-20 minuti. Una volta cotti, devono essere completamente immersi in una ciotola colma di glassa, poi tirati fuori e lasciati asciugare finché la copertura non si solidifica.

 

Biscotto di CeglieBiscotto di Ceglie Messapica

 

Castagnelle baresi

Si chiamano castagnelle, ma non hanno nulla a che fare con le castagne e neanche con le castagnole. Legate a Bari, le castagnelle sono invece biscotti a base di mandorle e cacao, la cui ricetta si trova declinata in molte varianti. La preparazione di base prevede mandorle, farina 00, zucchero, uova, cacao amaro, vino bianco secco, lievito per dolci e scorza di limone; in alcuni paesi della provincia barese si usa aggiungere all’impasto anche caffè, cannella o chiodi di garofano, dimezzando la quantità di uova per evitare che risulti troppo liquido. Sono i tipici dolci natalizi da dopo pasto, da accompagnare con il rosolio o un vino dolce locale.

 

Castagnelle baresi

 

Marzapani salentini

La parola marzapani deriverebbe dall'arabo mauthabán, che originariamente era il nome di una moneta, ed indica una preparazione comune a molte regioni: seppur con le dovute differenze, questi biscotti tipici del Salento hanno elementi in comune col marzapane veneziano o quello siciliano (chiamato anche frutta martorana). Si preparano con mandorle, farina, albumi d’uovo, zucchero, lievito in polvere, scorza di arancia e limone, essenza di chiodi di garofano e cannella. A Galatina, in provincia di Lecce, fanno il paio con gli africani, dolcetti simili a piccoli zabaioni rassodati, per cui si sfrutta il tuorlo lasciato da parte dopo la preparazione dei marzapani.

 

Marzapani salentiniMarzapani salentini

 

Mustazzoli o mostaccioli pugliesi

Un dolce le cui origini si perdono nel tempo, diffuso in molte regioni del sud Italia e non solo, che prevede diverse varianti locali. La radice del nome è ambigua: potrebbe derivare sia dalla parola mustum, mosto, che damustace, alloro, le cui foglie servivano ad avvolgere un’antica preparazione importata dai paesi arabi, per proteggerla durante il viaggio. La versione pugliese prevede l’aggiunta di vin cotto all’impasto: un mosto d’uva dal colore scuro e dal sapore dolce, che si può produrre a partire dai fichi secchi. A differenza delle altre preparazioni, la ricetta dei mustazzoli è abbastanza complessa e prevede farina, mandorle tostate, zucchero, strutto, vincotto di fichi, lievito, miele, scorze di agrumi, cannella. Una volta pronti, i biscotti saranno ricoperti da una glassa al cioccolato fondente.

 

Mostaccioli pugliesiMostaccioli pugliesi

 

Occhi di Santa Lucia

Anche la tradizione pugliese, così come quella lucana, prevede una versione dolce dei classici taralli. Gli occhi di Santa Lucia sono una delle molte preparazioni realizzate in occasione del 13 dicembre: in Sicilia si mangia il riso, in Puglia si festeggia con i taralli. Si preparano solo con farina, vino bianco secco, olio extravergine d’oliva, acqua: fondamentale, per la buona riuscita, la qualità di vino e olio. Non contengono zucchero nell’impasto ma solo nella glassa che li ricopre: il sapore piuttosto neutro li rende molto versatili, adatti dalla prima colazione al post pranzo - soprattutto nel periodo natalizio - magari inzuppati nel vino bianco dolce. 

 

Occhi di Santa LuciaOcchi di Santa Lucia

 

Quaresimali

Le specialità dolciarie nascono spesso da esigenze pratiche, legate alla cultura e alle tradizioni del luogo. È il caso dei quaresimali, biscotti diffusi in Salento (ma anche in Sicilia, Toscana e Liguria), preparati appunto durante la Quaresima, periodo in cui era vietato mangiare carne e derivati. Ma, al giorno d’oggi, i quaresimali si trovano in tutte le stagioni dell’anno e sono spesso un gustoso souvenir che i turisti portano nei loro paesi d’origine nei loro pacchettini colorati. Esteticamente sono simili ai cantucci, ma differiscono per ingredienti e preparazione. Si realizzano infatti con farina di mandorle e/o mandorle tritate, farina 00, zucchero, uova, cannella e un pizzico di sale. Ed è proprio questa la ricetta che ci siamo fatti regalare dalla pasticceria Aldemorisco di Lecce.

 

Quaresimali

Pastarelle salentine

Le pastarelle sono dolci dalle grandi dimensioni, che le nonne del Salento preparavano per i più piccoli, cuocendoli nello stesso forno a legna che si usava per il pane. Oggi l’antica tradizione rimane intatta, anche se sono pochi i produttori che usano ancora il forno a legna. Gli ingredienti sono semplici: farina, zucchero, latte, uova, olio extra vergine di oliva, lievito o ammoniaca per dolci. Una volta impastati gli ingredienti si forma una sfoglia di circa mezzo centimetro di altezza, da cui si ricavano dei rettangolini. Si mettono in una teglia imburrata e si spolverano con lo zucchero semolato prima di cuocerli in forno a 175-180 gradi per circa 25 minuti. 

 

Pastarelle salentinePastarelle salentine

 

Torroncini di Natale

Si chiamano torroncini ma sono biscotti a base di mandorle, preparati per Natale da massaie e forni locali. La particolarità è di avere al loro interno delle morbide ciliegie candite, che rinfrescano il dolce donandogli una punta di acidità. Per preparali servono mandorle pelate e tritate grossolanamente, farina, albumi, zucchero a velo e, appunto, ciliegine candite. Si parte mescolando albumi, mandorle e metà zucchero a velo, montandoli leggermente. A parte si montano anche i tuorli con il resto dello zucchero e si incorpora la farina setacciata in maniera graduale, per ultime si aggiungono le ciliegie. Si unisce il composto di chiare d’uovo e mandorle al resto dell’impasto e si stendono delle strisce larghe 3 centimetri circa su una placca da forno precedentemente infarinata. Si inforna a 180 gradi per 10 minuti e si tira fuori la teglia. A questo punto le strisce vanno tagliate in maniera obliqua: i dolcetti così ottenuti saranno rimessi in forno per altri 10 minuti o fino a completa doratura.

 

La ricetta dei quaresimali della Pasticceria Aldemorisco di Lecce

Ingredienti

750 g di  farina

500 g di zucchero

400 g di mandorle tostate

5 uova

1 bustina di lievito per dolci

2 pizzichi di sale

cannella q.b

 

Procedimento

Impastare la farina già setacciata insieme alle uova e lo zucchero. Tritare grossolanamente le mandorle e aggiungerle al composto insieme al lievito e al sale. Continuare a impastare per qualche minuto e completare con la cannella nelle quantità preferite.  Formare dei filoncini larghi 3 centimetri circa, adagiarli su una placca da forno spolverata di farina e infornarli a 170 gradi per 20 minuti circa. 

Una volta trascorso questo tempo, sfornarli e, dopo aver aspettato qualche minuto, tagliare delle strisce da circa 2 cm. Rimettere i dolcetti in forno, fino a completa doratura.

Aldemorisco Arte Dolciaria | Lecce | via 95esimo Reggimento Fanteria, 22 |  348 591 2991 | www.aldemorisco.com

 

a cura di Francesca Fiore

 

Leggi anche La Valle D’Aosta in 5 biscotti tradizionali e la ricetta delle tegole della Pasticceria Morandin

Leggi anche Il Piemonte in 12 biscotti tradizionali e la ricetta dei baci di dama della pasticceria Gallizioli

Leggi anche La Toscana in 10 biscotti tradizionali e la ricetta dei biscotti di Prato della pasticceria Nuovo Mondo

Leggi anche La Liguria in 9 biscotti tradizionali e la ricetta degli anicini della pasticceria Tagliafico

Leggi anche La Campania in 9 biscotti tradizionali

Leggi anche La Basilicata in 9 biscotti e la ricetta dei taralli glassati della pasticceria Tiri 1957

La Città della gastronomia e del vino a Digione. Al via i lavori per la cittadella del cibo della Borgogna

$
0
0

Calata in un progetto di valorizzazione del turismo enogastronomico di più ampio respiro, la realizzazione di un polo dedicato alla cultura del cibo e del vino di Borgogna e di Francia è affidata a Eiffage, e si avvarrà di contributi pubblici e privati per un ammontare di 200 milioni di euro. Nei piani la realizzazione di un eco-quartiere con spazi collettivi e appartamenti, raccolti intorno alla città gastronomica. Le prime inaugurazioni nel 2018. Ecco come sarà. 

Dalla Citè du Vin alla Città della Gastronomia

Quando la primavera scorsa inaugurò la Citè du Vin di Bordeaux, tutto il mondo del vino si ritrovò ad applaudire la riuscita di un progetto che vantava obiettivi ambiziosi, e numeri altrettanto sbalorditivi: 81 milioni di euro di investimenti pubblici e privati, 13mila metri quadri di estensione su dieci piani, per un'altezza sulla Garonne che arriva a toccare i 55 metri, 80 aree vinicole del pianeta rappresentate, un'enoteca con 800 etichette in degustazione, una biblioteca tematica, un wine bar e un ristorante in terrazza, allestimenti museali destinati a insegnare e intrattenere il pubblico internazionale che gravita intorno a una delle più celebri capitali del vino del mondo. Con l'idea di dirottare verso la casa del vino progettata dallo studio Xtu 450mila visitatori ogni anno, generando un giro d'affari stimato a 38 milioni di euro. Numeri da capogiro, anche questi, che solo il tempo potrà confermare (il primo anno di attività cade alla fine di maggio 2017), o smentire, considerando il complessivo calo del turismo straniero di cui ha risentito la Francia presa di mira dal terrorismo. Intanto però si procede a vele spiegate verso il consolidamento di un sistema nazionale che sul turismo enogastronomico ha sempre scommesso molto, e oggi può avvalersi di ingenti capitali privati oltre che di un'oculata politica di finanziamenti pubblici.

 

Digione capitale dell’enogastronomia

E così a Digione, meglio conosciuta per la produzione della senape (oltre che per i grandi cru della Borgogna), si è da poco aperto il cantiere per la costruzione di una mirabolante città della gastronomia nel cuore della città storica, nel grande complesso in disuso che un tempo ospitava l'ospedale medievale. La Citè Internationale de la Gastronomie et du Vin, come si chiamerà, sarà realizzata dal gruppo Eiffage (il terzo operatore immobiliare francese, una public company quotata in Borsa che, indietro nel tempo, può vantare persino la costruzione della Tour Eiffel), estendendosi su un'area di 6 ettari e mezzo in centro città. E le linee guida, come nel caso bordolese, prevedono la progettazione di uno spazio all'avanguardia, articolato in due corpi di fabbrica che guardano all'esterno attraverso ampie superfici vetrate (la conversione dei locali dell'ospedale spetterà allo studio di architettura Anthony Béchu e Perrot&Richard, firma di alcuni grattacieli parigini a La Defense).

 

Il progetto di Eiffage. Riqualificare il territorio

Complessa la pianificazione dell'offerta tematica, che si avvarrà di un centro congressi, un centro di formazione dedicato a cucina, pasticceria ed enologia, due ristoranti, caffetterie, uno spazio commerciale di oltre 4mila metri quadri per la vendita di prodotti alimentari e accessori da cucina, un auditorium e 12 sale cinematografiche annesse al complesso (una proietterà esclusivamente documentari e film a tema). Oltre a un albergo a 5 stelle che si inserisce nella riqualificazione che toccherà l'intera area residenziale (con la consegna di 600 appartamenti, buona parte destinati all'edilizia sociale), collegata al nucleo storico tutelato dall'Unesco attraverso la passeggiata di via Monge, anch'essa sottoposta a restauro. Così anche la Borgogna, che per leggendaria rivalità viene contrapposta alla regione vinicola di Bordeaux, potrà vantare un cittadella enogastronomica a sua immagine e somiglianza, che è destinata a mobilitare investimenti per oltre 200 milioni di euro fino al compimento di un eco-quartiere che sarà ultimato entro il 2019, e nelle intenzioni di Eiffagediventerà un modello per tante città francesi.

 

La scommessa sul turismo enogastronomico

Una grande opera pubblica che già dalla fine del 2014 è sull’agenda dell’amministrazione francese tramite l’impegno del Ministero alle Politiche Agricole, intenzionato a realizzare sul territorio nazionale tutto un sistema di Città della Gastronomia, con lo scopo di promuovere la cultura del cibo e il patrimonio enogastronomico francesi. Tanto che dopo Digione, se sarà confermata la sostenibilità economica del progetto, potrebbe toccare a Lione, Tours e Parigi-Rungis. I primi riscontri saranno sotto gli occhi dei francesi già nel 2018, quando la prima ala della città gastronomica sarà licenziata da Eiffage. Mentre in Italia procede la realizzazione di un’altra città del cibo e dell’agroalimentare, quella che Oscar Farinetti battezzerà il prossimo autunno, alle porte di Bologna: Fico (non senza qualche perplessità di sorta). Due modelli diversi, entrambi mirati a promuovere il turismo enogastronomico, per incentivarne l’indotto. Che sia proprio l’enogastronomia il correttivo di economie nazionali in stato di perenne precarietà?

 

http://citedelagastronomie-dijon.fr/

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Dove mangiare la pizza al padellino a Torino. 6 indirizzi da non perdere

$
0
0

La pizza al padellino è una specialità tutta torinese, con una bella storia da raccontare e un rinnovato successo da registrare. Complici la sua tipicità, la semplicità e il rito che la vuole abbinata a farinata e castagnaccio, un elogio della semplicità.

 

Spessa, soffice dentro e croccante fuori: è la pizza al padellino, una tradizione tutta torinese, difficile da trovare al di fuori della città sabauda. Le origini, incerte, ne attribuiscono la paternità a un pizzaiolo emigrato nella città della Fiat dall’Italia meridionalenel secondo dopoguerra. L’intuizione, fortunosa, fu quella di preparare le pizze e, già condite, metterle in piccole teglie, accorciando sensibilmente i tempi e adeguandosi ai ritmi di una moderna città industriale. L’impasto alto e morbido che la caratterizza deve molto alla seconda lievitazione, fatta quando la pizza è già nel padellino nell’attesa di essere infornata.

Negli anni '60 la pizza a Torino era solo questa, primato che è poi stato conteso dalle pizzerie napoletane nate tra gli anni '80 e '90. Più recentemente questa tipicità è tornata di gran moda, tanto da essere annoverata tra i piatti di tendenza dello street foodlocale. I condimenti non hanno limiti: dalla semplice margherita a gusti più elaborati, come mozzarella di bufala e carciofi freschi o melanzane, cipolle e ricotta salata.

 

 

 

La farinata e la pizza

Inoltre, usanza vuole che la pizza al padellino sia preceduta da una porzione (o mezza, da condividere) di farinata. Anche qui ci sono diverse teorie, ma quella tradizionale ligure deve risultare sottile, croccante e dorata. Mangiata tiepida con una spolverata di pepe nero, questa ricetta ultracentenaria – si dice che le sue origini risalgano addirittura al 1200 – è fatta solo di farina di ceci, acqua, sale e olio, quindi adatta anche a chi soffre di celiachia, essendo del tutto priva di glutine. Antonio Dessì, 73 anni, proprietario dell’omonimo locale dal 1977 e pizzaiolo da cinquant’anni aggiunge un’importante considerazione ‘tecnica’: “i forni in cui si cuociono la farinata e il castagnaccio usano temperature troppo alte per la pizza al mattone, mentre sono ideali per il padellino”. Per Dessì, il segreto della farinata, così come per il padellino, sta quindi nel forno, “servono alte temperature per avere una buona farinata, e il testo in cui la si cucina deve essere di rame stagnato, e ben spesso”. Siamo avvertiti. Un ultimo consiglio della figura storica della pizza al padellino torinese: “La mia preferita è con cipolle e zola, ma quando voglio una buona pizza mi faccio una Napoli o una Margherita. Per finire, il castagnaccio”, anche se negli ultimi anni questo dolce si consuma sempre meno, “a molti”conclude Dessì “può non piacere: è un gusto difficile, è vero, ma bisogna anche educarsi a certi sapori”, che quando si imparano difficilmente si abbandonano.

 

A Torino le pizzerie che propongono la pizza al padellino (anche chiamata ‘al tegamino’) sono parecchie; ve ne suggeriamo una selezione fra quelle che, secondo noi, sono le migliori. L’ordine è alfabetico.

 

Cecchi

Locale recentemente ristrutturato, ma pur sempre un pezzo storico della città, che mantiene la sua atmosfera un po’ vintage. Pizza al padellino fra le più leggere, anche nella variante Valdostana, con fontina o la Salamino Toscano, con salamino e mozzarella. La farinata, di medio spessore, fatta con farina di ceci di Altopascio è un must del locale. Degna di nota, e altamente consigliata, la possibilità di terminare la cena con un buon gelato artigianale.

Cecchi | Torino | via Madama Cristina, 92 | tel. 011 6507030 | http://www.pizzeriacecchi.it/ giorno di chiusura il lunedì.

 

Cit ma on

 

Cit ma bon

Di fronte al Po, un locale piccolo ma accogliente – “piccolo ma buono” recita l'insegna – e di vecchia data (1974), in cui è bene prenotare. Pizza fra le più sottili della categoria, presentata in varie categorie: Classiche,in cui la Margherita la fa da padrona, Bianche (da segnalare la Carbonara) e Speciali, dove non si può non provare la Norma, con melanzane, cipolle, mozzarella e ricotta stagionata di pecora. La farinata è una certezza, nella sua accezione più sottile, da accompagnare con birre artigianali, rigorosamente piemontesi.

Cit ma bon | Torino | corso Casale, 34 | tel. 011 8196845 | https://www.facebook.com/CIT-MA-BON-184246256180/ | giorno di chiusura la domenica.

 

Dessì

Dessì

Quaranta candeline dal quel 1977 che vedono Dessì come un punto di riferimento nella zona di San Salvario (e non solo). Ampi locali di mattoni a vista per qualcosa come 200 posti a sedere dove seguire la vera tradizione torinese, che vuole la farinata prima della pizza al padellino e il castagnaccio in chiusura (ottimo, si trova solo in stagione). Bordi invisibili, a rasentare la perfezione di una pizza spessa, consistente ma sempre morbida. Le origini sarde dei Dessì si rispecchiano in quella che è la variante più apprezzata, con salsiccia sarda, pecorino e mozzarella. Da segnalare anche la Napoli e la Rosmarino.

Dessì | Torino | via Madama Cristina, 63 | tel. 011 6687138 | www.pizzeriadessi.com | giorno di chiusura il martedì.

 

Ideal

Non è ancora maggiorenne questa pizzeria nata nel 2001 a due passi dalla stazione di Porta Susa, ma il pedigree è dei migliori, per successione diretta dall’Alcione, un locale storico che si trovava a Porta Palazzo. Un’unica sala con non più di 50 coperti e una scelta limitata ma di ottima qualità e lievitazione. Ci sentiamo di consigliare la Napoli o quella con salsiccia fresca. La farinata è decisamente fra le migliori che si possono trovare in città, il personale è cordiale e il servizio efficiente.

Ideal | Torino | corso Principe Eugenio, 17 | tel. 011 4310551 | giorno di chiusura il lunedì.

 

Pizzeria da Gino

L’ampia sala che caratterizza questa storico locale torinese sembra essersi fermata agli anni '60, anche se questa istituzione della pizza al padellino risale al 1935. Nel cuore di Borgo San Paolo, da Gino propone una pizza alta, morbida e giustamente croccante. I più fedeli puntano tutto sulla Margherita ma ci sentiamo di consigliare anche la prosciutto, uova e salsiccia. La farinata fa scuola: croccante e non troppo spessa ma cremosa al punto giusto. Spesso c’è da aspettare e il servizio – si viene cortesemente avvisati della cosa – può non essere rapido, ma ne vale sempre la pena. Una vera esperienza di periferia torinese. Due Spicchi nella guida Pizzerie d'Italia 2017 del Gambero Rosso.

Pizzeria da Gino | Torino | via Monginevro, 46 | tel. 011 3854335 | www.ginopizzeria.it | giorno di chiusura il mercoledì.

Padellino
 

Il Padellino

Una pizza alta e soffice sotto i portici di corso Vinzaglio rende il padellino uno dei migliori locali per gustarsi questa specialità torinese. La scelta del menu è davvero ampia, e se a questa si aggiungono le pizze del giorno, decidere quale mangiare si fa arduo: consigliamo quella che porta il nome della casa, con pomodoro, mozzarella, scamorza, salsiccia e melanzane. Metteteci poi un la possibilità di avere diverse stuzzicherie (ottimi i fritti) e un’ampia gamma di dolci della Pasticceria Amici Miei (i due locali sono della stessa proprietà) e il gioco è fatto. Il servizio è rapido e di qualità.

Il Padellino | Torino | corso Vinzaglio, 21 | tel. 011 533730 | http://www.ilpadellinotorino.it/ | giorno di chiusura il sabato a pranzo.

 

a cura di Marco Cambiaghi 

 

 
 

Idroponica. Cos’è e perché rappresenta il futuro delle coltivazioni

$
0
0

Per coltivazione idroponica (dal greco antico hýdor, acqua + pónos, lavoro) si intende una tecnica di coltivazione fuori suolo o senza suolo, dove la terra è sostituita da un substrato inerte, come argilla espansa, fibra di cocco, lana di roccia o zeolite. Ma a chi conviene questo tipo di coltivazione? È utile anche su larga scala? Non essendoci il terreno, le piante da dove prendono i nutrienti e i sali minerali che danno il sapore a foglie e frutti? E i frutti e le verdure, in definitiva, di cosa sanno?

A queste e ad altre domande ci ha risposto Giorgio Prosdocimi Gianquinto, professore di Orticoltura e Direttore del Centro Studi e Ricerche in Agricoltura Urbana e Biodiversità (ResCUE-AB) del Dipartimento di Scienze Agrarie dell’Università di Bologna.

Idroponica. Che cos'è

Le coltivazioni o colture ‘idroponiche’ o ‘senza suolo’ o ‘fuori suolo’ includono tutte quelle tecniche di coltivazione attuate in assenza del comune terreno agrario. Queste coltivazioni comprendono una vasta gamma di sistemi, in cui il rifornimento di acqua ed elementi nutritivi, indispensabili per la crescita e sviluppo delle piante, avviene attraverso la somministrazione di una soluzione nutritiva (acqua + nutrienti disciolti in essa)”. Banalmente, anche una comune pianta in vaso che teniamo sul balcone di casa nostra è una coltura fuori suolo. Bisogna dunque precisare che il termine ‘idroponica’ si usa per indicare le ‘colture senza substrato o su mezzo liquido’: “Le colture ‘fuori suolo’ si possono suddividere in ‘colture su substrato’ e ‘colture senza substrato o su mezzo liquido’. Nelle prime, le radici affondano in un substrato di diverso tipo (organico, inorganico o artificiale) che viene costantemente inumidito con la soluzione nutritiva (es. la pianta in vaso di cui parlavamo sopra), nelle seconde l’apparato radicale è immerso direttamente nella soluzione nutritiva. Le coltivazioni idroponiche rientrano in questa seconda categoria”.

Le coltivazioni fuori suolo su larga scala

Le coltivazioni fuori suolo, in relazione alla tecnologia che utilizzano, si possono suddividere in High Tech, Medium Tech e Low Tech (o semplificate). Le prime vengono attuate in serre di ultima generazione, con sistemi altamente automatizzati ed efficienti per la gestione del clima nelle serre e della soluzione nutritiva, le ultime sono molto semplici, utilizzano spesso materiale di riciclo e di costo molto basso e trovano applicazione in contesti poveri, come le periferie delle città dei paesi in via di sviluppo. Su larga scala hanno senso? “Assolutamente. In Olanda la gran parte della coltivazione in serra è attuata con sistemi fuori suolo. I ben noti pomodori, peperoni e cetrioli olandesi sono coltivati con sistemi fuori suolo High Tech”. Basti pensare alle aziende olandesi Dry Hydroponics, Royal Pride o Rainbow International.

I principali vantaggi

Questo tipo di coltivazione ha preso piede soprattutto lì dove non c'è terreno disponibile: “Con la coltivazione fuori suolo si può coltivare in qualsiasi luogo e condizione, all’aperto o al chiuso, in orizzontale o in verticale – come per esempio Sky Greenssui tetti o nelle cantine, in spazi grandi o molto piccoli. E in molti casi le coltivazioni possono essere molto vicine al luogo di commercializzazione riducendo i costi economici e ambientali dovuti al trasporto”. Molti gli esempi, uno tra tutti la canadese Lufa Farm. Altri vantaggi? “C'è un migliore controllo dell’approvvigionamento idrico e nutrizionale, con riflessi positivi su quantità e qualità delle produzioni. Una riduzione del consumo idrico, soprattutto con i sistemi chiusi - che recuperano la soluzione nutritiva non utilizzata dalle piante e la riciclano – nei quali si può avere un risparmio di acqua fino all’80-90%, rispetto alla coltivazione tradizionale su suolo. C'è un uso efficiente dei concimi e una migliore gestione della nutrizione della pianta, inoltre vi è un maggior controllo delle condizioni fitosanitarie: svincolandosi dal suolo viene ridotta, se non eliminata, l’incidenza di quelle malattie che si diffondono dal suolo e dei parassiti normalmente presenti nel terreno. E viene eliminata del tutto la competizione con le erbe infestanti”. Per cui i sistemi fuori suolo possono essere usati efficientemente in ambienti e climi aridi. E consentono una riduzione degli sprechi e delle perdite di acqua e di nutrienti, il che porta conseguentemente a un minor impatto ambientale. Minor impatto, dato anche da un uso limitato di agrofarmaci e diserbanti. Tra i vantaggi, ovviamente, rientra anche la possibilità di meccanizzazione e automatizzazione della produzione, crescente passando ai sistemi High Tech.

Gli svantaggi

Come tutte le cose, c'è il rovescio della medaglia. “Negli High Tech e, anche se in misura minore, Medium Tech i costi d'impianto sono elevati e necessitano di personale tecnico specializzato, per controllare il corretto funzionamento dei sistemi. Poi bisogna smaltire, da una parte, i substrati utilizzati o esausti - e questo diventa un problema qualora non si utilizzino substrati di origine organica e/o naturale - dall'altra i materiali usati, che con questo tipo di coltivazione sono spesso difficili da riciclare, come la plastica”. Altro punto “critico” è l'esigenza di disporre di acqua di buona qualità (non contaminata e non salina). Ma come la mettiamo con l'assenza di terreno? Ragionando per assurdo: se si ipotizzasse un futuro dove si utilizza solo idroponica, il terreno non si impoverirebbe, con tutte le conseguenze del caso? “Tale scenario non sarebbe affatto apocalittico, anzi, significherebbe sfruttare tutti quei posti che oggi sono dismessi. Penso alla gran parte dei capannoni industriali, che si possono riutilizzare in modo intelligente e utile. In tal caso il terreno agricolo, che non è propriamente fertile, lo si potrebbe riportare alla naturalità attraverso rimboschimenti”.

Perché bisognerebbe puntare sulle coltivazioni fuori suolo?

Tra l'altro con la coltivazione tradizionale, oggi, riusciamo a malapena a sfamare la popolazione mondiale. Al momento attuale ognuno di noi ha a disposizione in media circa 2 mila metri quadri di suolo agricolo (negli anni '90 era più del doppio). Figuriamoci nel 2050, quando la popolazione raggiungerà i 9,7 miliardi”. Senza contare che la disponibilità di terreno agricolo man mano sta diminuendo perché questo viene convertito in suolo edificabile (è la vecchia storia della città che si mangia la campagna). “Nel futuro ci sarà una contrazione di terra disponibile. Bisogna dunque trovare nuovi metodi di coltivazione. I sistemi Low Tech ne sono un esempio: facili da implementare e poco costosi”. Senza guardare al futuro, questi sistemi sono tuttora importanti perché capaci di aumentare la produzione e il consumo di ortaggi freschi nei villaggi e nelle periferie povere delle città del Sud del mondo. Sono quindi fondamentali per la sicurezza alimentare di molte popolazioni povere o svantaggiate.

Con l'idroponica ha ancora senso parlare di “biologico”?

Sembra dunque che il gioco (dell'idroponica) valga la candela, dato che i vantaggi sono evidentemente più convincenti degli svantaggi. Ma non essendoci ancora un regolamento, i dubbi sono molti. Del tipo: chi ci garantisce il fatto che con la coltivazione fuori suolo vengano poi effettivamente usati meno fitofarmaci? Per adesso nessun certificato bio: “Per il Regolamento CE 889/2008 che norma la coltivazione 'biologica' o 'organica' in Europa, non vengono ammesse le coltivazioni fuori suolo, in quanto la produzione biologica vegetale si basa sul principio che le piante debbano essere essenzialmente nutrite attraverso l'ecosistema del suolo. Per questo motivo non deve essere autorizzata la coltura idroponica. Negli USA, sono ancora ammesse ma c’è un forte dibattito in merito. Comunque abbiamo visto precedentemente che, se ben gestite, le produzioni fuori suolo possono essere considerate pesticide-free”.

Cosa dice la legge

Il Regolamento CE 834/2007che detta la cornice giuridica per l'agricoltura biologica, considera il suolo un fattore essenziale: "La produzione biologica vegetale dovrebbe contribuire a mantenere e a potenziare la fertilità del suolo nonché a prevenirne l'erosione. Le piante dovrebbero essere nutrite preferibilmente attraverso l'ecosistema del suolo anziché mediante l'apporto di fertilizzanti solubili". Ancora più esplicito il Regolamento CE 889/2008: "La produzione biologica vegetale si basa sul principio che le piante debbano essere essenzialmente nutrite attraverso l'ecosistema del suolo. Per questo motivo non deve essere autorizzata la coltura idroponica, che consiste nel far crescere i vegetali su un substrato inerte nutrendoli con l'apporto di minerali solubili ed elementi nutritivi".

Inquina di meno rispetto ad una coltivazione tradizionale?

Altro dubbio riguarda le emissioni di CO2 e di gas serra. “Bisogna considerare l’elevato uso di energia per produrre/costruire/gestire le serre - soprattutto le High Tech, considerando i motori, le attrezzature, i materiali metallici per le strutture portanti delle serre, le coperture in plastica rigida o vetro, i sistemi di distribuzione della soluzione nutritiva, la plastica per i contenitori -Se si fa riferimento alla superficie coltivata (come per esempio le emissioni di CO2 per ettaro o per metro quadrato) è chiaro che si ha un maggior rischio ambientale nel caso delle serre idroponiche High Tech. Se si fa riferimento alla produzione ottenuta (come per esempio le emissioni diCO2 per tonnellata o kilogrammo di prodotto), invece, il discorso cambia di molto perché le quantità di prodotto ottenute fuori suolo sono molto, molto maggiori rispetto alle coltivazioni tradizionali e alle biologiche”.

La coltura idroponica condiziona il sapore di frutta e verdura?

Poi c'è il dubbio con la D maiuscola: il sapore delle verdure o dei frutti da cosa deriva, se coltivati fuori dal terreno? Domanda complessa, cerchiamo di sintetizzare: in generale il sapore delle verdure e dei frutti, come quello degli altri alimenti, dipende dal gusto (equilibrio tra dolcezza, asprezza o acidità e dal grado di astringenza) e dall'aroma (composti volatili percepiti con l’olfatto).

I composti volatili responsabili dell’aroma sono generalmente composti a basso peso molecolare (esteri, alcoli, aldeidi, chetoni). Per quanto riguarda il gusto, il discorso si fa più complesso:“La dolcezza, per esempio, è determinata dalle concentrazioni degli zuccheri predominanti (fruttosio, glucosio e saccarosio) e dal loro rapporto. L'asprezza o l'acidità sono determinate dalle concentrazioni degli acidi organici predominanti (citrico, malico e tartarico) e dal loro rapporto; alcuni aminoacidi possono anche contribuire all’acidità. Minerali come calcio, fosforo e potassio si possono combinare con gli acidi organici e influenzare la percezione dell’acidità. Le sostanze fenoliche contribuiscono anch’esse all’acidità, oltre che alla sensazione di astringenza... Ecco il sapore delle verdure o dei frutti deriva da tutti questi composti e dal rapporto che c’è tra di loro”.

E il rapporto tra di loro proviene in sostanza dalla genetica della pianta, dalle condizioni climatiche in cui si trova (temperatura, luce, umidità) e da tutta una serie di altri fattori, come l'irrigazione o la concimazione, che se vengono modulati bene possono dare origine a un prodotto di qualità elevata. “È vero che i pomodori olandesi non sanno di nulla però sono tutti belli e tutti uguali: è quello che richiede il mercato. Ecco perché gli olandesi, che sono molto attenti alla produzione di ortaggi industriale, non si curano troppo del sapore. La loro è principalmente una selezione estetica. Tra l'altro il pomodoro ai nord europei piace acidulo. Non è certo l'idroponica il problema!”. In sostanza si può dire che il risultato, in termini di sapore, non dipende dalla tecnica utilizzata.

L'idroponica in Italia

Non è dunque l'agricoltura idroponica che genera prodotti di bassa qualità o che non sanno di nulla, ma da come si fa questa coltura e dal tipo di prodotto che si vuole ottenere. C'è di più: con questa coltivazione si possono modulare, per esempio, anche gli stress della pianta: “Se aumento la salinità delle sostanze nutritive, faccio andare in stress la pianta e questo fa sì che produca una serie di sostanze, come vitamine o pigmenti, che restituiscono un prodotto di qualità. Pensate ai pomodorini di Pachino, coltivati nella punta più meridionale della Sicilia, una zona assolata e caratterizzata da terreni fortemente salini. Questi pomodori sono il frutto di piante in forte stress salino e luminoso, ecco perché sono così piccoli”. E saporiti. Ne segue che con il gusto di noi italiani, l'idroponica può davvero rappresentare una reale alternativa all'agricoltura tradizionale. Ci sono realtà italiane interessanti? “Ancora deve prendere piede ma si inizia a muovere qualcosa, in provincia di Bologna c'è per esempio Fri-El Greenhouse, un'azienda agricola che ha realizzato una serra idroponica high tech da 1 ettaro e mezzo dove si producono pomodori Cuore di Bue”. E molte sono le start-up che stanno investendo in questo settore, come la toscana Sfera-Waterfood o Phytoponics, che fa parte del progetto di accelerazione di Startupbootcamp FoodTech. Oppure quelle specializzate nella coltivazione idroponica domestica: Robonica, Jellyfish Barge (serra idroponica modulare e galleggiante) o Greendea.

 

a cura di Annalisa Zordan

Il crowdfunding civico di Milano su Eppela. Orti urbani e social eating per l'esperimento sociale che guarda al futuro

$
0
0

16 progetti sociali che il Comune di Milano ha scelto di finanziare con il supporto del crowdfunding: 50 per cento di investimento privato, 50 per cento di fondi pubblici. E così presto la città vedrà nascere nuove realtà economiche. Molte nel settore agroalimentare. 

Il crowdfunding civico di Milano

Progetti a impatto sociale in cerca di successo. Dritto al punto il Comune di Milano utilizza tutti gli strumenti in suo possesso per finanziare una politica sociale aperta all'iniziativa giovanile, alla riqualificazione delle periferie, all'integrazione. E dopo nove mesi di gestazione raccoglie i frutti del primo esperimento di crowdfunding civico, supportato dalla piattaforma Eppela, che sul cosiddetto sistema reward based – la ricompensa corrisposta a chi sceglie di sostenere un progetto – ha costruito una solida base di utenti pronti a entusiasmarsi per le idee di business più disparate. Come quelle selezionate dai mentori di Palazzo Marino, che ora potranno usufruire di un tesoretto di 660mila euro: 330mila sono i fondi raccolti tramite crowdfunding, il raddoppio è merito del contributo attivo dell'Amministrazione milanese, disposta a investire in progetti sociali e nuove start up. Qualche giorno fa, in occasione dell'incontro Nuove economie urbane e impact investing, l'assessore alle Attività Produttive Cristina Tajani ha presenziato davanti alla platea di docenti universitari, creativi, investitori, rappresentanti di Banca Etica riunita a Palazzo Reale. Incoraggianti i dati snocciolati: su 18 progetti proposti agli utenti del web, ben 16 hanno raggiunto la soglia minima di sostenibilità, e questo, per dirla con le parole dell'assessore “dimostra come oggi sia possibile, grazie al crowdfunding, ipotizzare scenari di finanziamento diversi dal contributo pubblico per supportare i progetti sociali e nuove start-up”. Con il Comune nel ruolo di intermediario che favorisce l'interazione, designando il crowdfunding come “amplificatore in chiave ‘social’ di idee, progetti e iniziative pensate da associazioni no profit e soggetti che nei prossimi mesi opereranno concretamente nel sociale per migliorare la vita dei milanesi”.

 

Pubblico e privato insieme. Tramite Eppela

Gli altri numeri dell'iniziativa: 1492 utenti privati hanno contribuito attivamente alla raccolta fondi, 154 sono gli interventi economici attivati da società private, associazioni, cooperative; e ognuno ha partecipato in misura della propria disponibilità economica, con 5 euro per la sottoscrizione più bassa raccolta, e ben 6mila donati da una cooperativa sociale al progetto Il cantiere dell'Ortica. Ma come è stato possibile centrare la maggiore parte degli obiettivi? Ogni progetto ha avuto a disposizione 50 giorni di visibilità su Eppela, sulla pagina valorizzata dal Comune di Milano: le idee imprenditoriali che hanno raccolto un finanziamento almeno pari alla metà dell’importo complessivo previsto per la propria realizzazione avranno diritto al contributo da parte dell’Amministrazione per la restante parte non coperta, fino ad un importo massimo di 50 mila euro per ogni singolo progetto. Un modello inedito e piuttosto singolare di cooperazione tra pubblico e “privato” che a detta dell'ad di Eppela Nicola Lencioni avrà futuro in tante altre comunità italiane. E tra i 16 progetti che hanno raggiunto il traguardo molti investono l'ambito alimentare ed enogastronomico (ma tra i più curiosi segnaliamo anche l'officina di falegnameria comunitaria e il cinema in corsia di Medicinema).

 

Start up e progetti agroalimentari

Come Ecolab, che vuole mettere in rete orti e coltivatori urbani per promuovere un'agricoltura sana e sostenibile. Luogo fisico e virtuale, il sistema si configura come mercato agricolo 2.0: da un lato localizza terreni e prodotti disponibili nell'area metropolitana di Milano, dall'altro aiuta chi lo desidera a creare un gruppo di lavoro, apprendere tecniche di coltura e partecipare a laboratori tematici con il supporto di oltre 300 professionisti provenienti dal settore della green economy. Poi c'è So Lunch, una piattaforma che si ispira alla filosofia del social eating per connettere “chi è a casa all'ora di pranzo, e cucina, con chi lavora nelle vicinanze, e vuole mangiare come a casa propria ovunque si trovi”. Una cucina diffusa che traccia ordini e pagamenti e si ripromette anche di favorire la socializzazione e l'integrazione. Pomodori Urbani, invece, è il progetto che finanzia la manutenzione dell'Orto giardino di Quarto Oggiaro (QuOrto), nello spazio di un vecchio parcheggio abbandonato. Ma è Facciamo la Festa alla Mafia il progetto simbolo di questa prima edizione di crowdfunding civico: 100mila euro raccolti per recuperare Casa Chiaravalle, un immobile confiscato alla criminalità poco fuori città con 6 ettari di superficie agricola e 3 ettari coltivati ad alberi da frutto da rilanciare. Dietro al progetto c'è il Consorzio Sistema Imprese Sociali, che guiderà alla realizzazione di un Giardino Accogliente a disposizione della comunità. L'idea è vincente, chi seguirà l'esempio di Milano?

 

www.eppela.com/it/mentors/comunemilano

 

a cura di Livia Montagnoli

 

La scuola della pizza di Kestè a New York. L'ultimo progetto di Roberto Caporuscio, aspettando il Trapizzino

$
0
0

Manca solo qualche ora all'esordio del Trapizzino di Stefano Callegari a New York, intanto però la bandiera della pizza tricolore in città la sventola alta Roberto Caporuscio. Una nuova pizzeria per Kestè nel cuore del distretto finanziario. Con scuola di formazione. 

L'impero Kestè a New York

Roberto Caporuscio è il presidente dell'Associazione Pizzaiuoli Napoletani in America. Ed è pure uno dei principali ambasciatori del made in Italy e della pizza di qualità a New York, dove insieme al socio Antonio Starita gestisce due insegne che sono sinonimo di cucina tricolore nella Grande Mela: Kestè e Don Antonio. Originario di Pontinia, in provincia di Latina, è arrivato in America oltre 15 anni fa, e nella ristorazione newyorkese si muove da 8 anni, con l'idea di promuovere la pizza napoletana lontano dagli stereotipi che l'hanno resa celebre – ma fin troppo bistrattata – negli States e nel mondo. “New York è una città che non perdona” raccontava qualche tempo fa al Fatto quotidiano, ma sa essere anche molto generosa “quando hai l'idea giusta”. Allora sì che con buona capacità imprenditoriale si riesce a conquistare il mercato. Presto detto, la storia di Roberto e sua figlia Giorgia nella metropoli americana racconta di un'ambizione in crescita. Nel 2009 inaugura Kestè Pizza e Vino, al 271 di Bleecker Street nel Village, nel 2012 è arrivata l'idea di Don Antonio da Starita, a New York prima - in Midtown - ad Atlanta per bissare il successo. A seguire Kestè Brooklyn, a Williamsburg, e solo negli ultimi giorni un nuovo tassello che consolida quest'impero della pizza napoletana in trasferta (senza mai scendere a compromessi su ingredienti e tecniche di lavorazione): la pizzeria con scuola di formazione di Wall Street, a Fulton street, nel cuore del distretto finanziario di New York.

 

La pizzeria con scuola di formazione

Il progetto era già stato reso noto qualche mese fa, e prende il posto del gastropub Lot 77, completamente trasformato per accogliere la nuova pizzeria del gruppo, che sarà affidata alla supervisione di Giorgia Caporuscio. Lo spazio, ispirato alle antiche pizzerie napoletane, “coinvolgerà” i clienti nella preparazione della pizza grazie al supporto di schermi per il live streaming di quanto succede davanti al forno. E se nulla cambia in menu – con una nutrita selezione di pizze tonde tradizionali, speciali, senza glutine, e gli antipasti della tradizione campana, dalle montanarine alle frittatine di pasta, agli angioletti fritti – la novità sta nella scuola della pizza aperta anche al pubblico amatoriale, con corsi dedicati ai ragazzi, degustazioni e dimostrazioni per valorizzare un'arte che Caporuscio si impegna da anni a divulgare in giro per gli Stati Uniti (spesso promotore di lezioni e approfondimenti in materia, anche a uso di chi lavora in cucina).

 

Poche ore al Trapizzino Usa

Intanto New York si prepara ad accogliere il Trapizzino di Stefano Callegari: il countdown in Orchard street (Lower East Side) è già cominciato, e negli ultimi giorni il pizzaiolo romano si aggira per le strade della città ingolosendo i newyorkesi in attesa di assaggiare le sue tasche di pizza bianca “filled with time-honored recipes of the cucina romana”, come recita il sito di Trapizzino Usa. Lo slogan che battezza l'avventura oltreoceano di Callegari è altrettanto azzeccato: Old World. New Shape. E intanto il maestro si diverte a intrattenere il pubblico americano online, con Paul Pansera nelle cucine di Food & Wine per svelare la ricetta del suo mitico pollo alla cacciatora. Ancora qualche ora di attesa a New York (e presto vi documenteremo l'apertura di Orchard street), poi l'attenzione si sposterà a Chicago, dove la città è pronta per la pizza di Gabriele Bonci. Da giugno 2017.

 

Kestè Wall Street | FiDi | Fulton street, 77 | www.kestepizzeria.com

Trapizzino New York | Lower East Side | Orchard street, 144 |www.trapizzinousa.com/

 

a cura di Livia Montagnoli

Assaggi. La cucina Essenziale di Simone Cipriani a Firenze

$
0
0
Torna Simone Cipriani con il suo Essenziale a Firenze. Il suo nuovo menu è un inno alla semplicità, a partire dal nome. Lo abbiamo provato per voi.

Essenziale riapre a Firenze dopo una pausa di riposo, dopo un inizio scoppiettante che ha messo subito alla prova un team nuovo e motivato, così questo periodo diventa la prova del nove per Simone Cipriani, lo chef e anima del locale: appena aperto il ristorante, c’è stata la corsa a provarlo da parte dei buongustai, fiorentini e non, per capire cosa avrebbe fatto nella sua nuova creatura ed ora è giunto il momento della conferma. Ve ne avevamo parlato una decina di giorni dopo l'apertura, lo scorso autunno. Del resto lui era uno di quei giovani chef da seguire con attenzione, a partire dall'esperienza del Santo Graal, andando indietro fino al St. Regis di Roma e Arnolfo in Colle Val d'Elsa. E l'aspettativa è stata ben soddisfatta. Complici l'obiettivo dichiarato di alleggerire senza cancellare la storia e le tradizioni, e quella semplicità che, sin dal nome, punta tutto sulle cose importanti: la cucina prima di tutto, e con essa la materia prima, scelta con cura ed elaborata con competenza. E via gli orpelli e il rituale da grande ristorante, dal personale di sala al cerimoniale con tutti le sue regole. Piace lo stile casual del servizio, con i cuochi che entrano in sala a portare i piatti e l’apparecchiatura è un “fai da te” che permette di mangiare rilassati. Piatti dunque, molto concreti e sinceri. Con, in più, un gusto del gioco che mette in circolo sostanza, tradizione e tanto divertimento.

La brigata di Essenziale

La nuova stagione

Quali sono state le novità inserite nella nuova lista delle portate? "Abbiamo lavorato sul nuovo menù consapevoli di essere a cavallo fra due stagioni, quindi giocando con gli ingredienti invernali, che si protrarranno ancora per un po' e le primizie primaverili” dice Simone. “La filosofia del menu è sempre la semplicità con spunti divertenti. Non a caso il menu 5 portate si chiama Sic et Simpliciter (così e semplicemente)". C’è anche un menu degustazione di 3 portate a 35 euro, mentre Sic et Simpliciter costa 55 euro, con l’aggiunta di una portata si va a 65. Alla carta si sceglie tra un numero ristretto di piatti: 13 in tutto compresi i dolci.

Ma quale è l'ispirazione? “Credo che dopo le ventate spagnole, recentemente intrecciate a quelle nordiche, la necessità ora sia quella di usare ciò che abbiamo imparato dai grandi ristoranti al fine di esaltare la nostra storia, quella italiana”dice Simone. “L'obbiettivo è quello di fare una cucina tradizionale e gustosa che parli italiano e che sia riconcettualizzata e rimodernata, nel mio caso alla Firenze di oggi”. Una Firenze che subisce molte influenze da parte di tutto il mondo essendo una città così turistica, ma che allo stesso tempo è molto tradizionale. “Vorrei riuscire a far coincidere le due cose anche in cucina. Gli impiattamenti sono solo al fine del gusto, l'estetica fine a se stessa non ha più senso e credo sempre di più che questa sia la direzione che prenderemo”.

La carta dei vini non è immensa ma ragionata; si potrebbe osare, con questa cucina, a proporre anche altre bevande.

 

La degustazione

Il benvenuto è affidato a una base di carabaccia frullata con sopra una finta terra fatta di topinambour e funghi secchi e poi cavolo nero, ingredienti dal sapore intenso e consistenza avvolgente.

 

Battura Simone Cipriani

Arriva poi la Battuta che comprende il manzo, accompagnato da lampone, porro, cavolo cappuccio: un insieme inconsueto e sorprendente al palato, che si ritrova fresco e pronto a continuare la cena.

 

Pappioca Simone Cipriani

La Pappioca è la rivisitazione della pappa al pomodoro, che si ritrova, qui, in compagnia di wasabi, tapioca, senape, olio extravergine di oliva e parmigiano, con il piccante e il balsamico a contrastarsi in maniera egregia.

 

Ribollita a gnudo

Ancora un omaggio a Firenze nella Ribollita a gnudo, dove gli gnocchi di pane mescolati con farina e cavolo nero si fanno insaporire dalla minestra di fagioli cipolle, carote e sedano.

 

spaghetti prosciutto e pomodoro simone cipriani

Divertimento assicurato tra i primi con gli Spaghetti prosciutto e pomodoro; dove la pasta è cotta nel brodo di jamon iberico, rinfrescata dal pomodoro, insaporita dalla colatura di alici, profumata dall’aneto; e trova, come accompagnamento, i cetriolini sott’aceto: una provocazione ben riuscita.

 

Nero

Il Nero è una versione originale del classico risotto al nero di seppia, dai sapori marini, minerali, senza dolcezza eccessiva, stemperata dal cedro e dal peperoncino, con il tocco di prezzemolo a dare un taglio appetitoso.

 

Piccione alla brace

Tra le carni puntiamo al Piccione alla brace, dove la brace è finta e la si ritrova nei profumi, e il connubio con caffè, nocciole e cipolla fornisce un risultato di eccellenza.

 

Il topinambour tiramisù è l’ultima tappa di un menu che rivela la voglia di stupire di Cipriani, proposto in maniera intrigante.

 

Essenziale | Firenze | piazza di Cestello, 3R | tel. 055.2476956 | http://essenziale.me/

 

a cura di Leonardo Romanelli

foto: Giovanni Rasoti

 


Anteprima Fiere Vino Gambero Rosso. Dal 1 al 16 marzo nelle enoteche d'Italia con le migliori cantine della Penisola

$
0
0

 L'iniziativa itinerante del Gambero Rosso torna per la quarta edizione dedicata agli appassionati del bere di qualità, con un'anticipazione sulle tendenze in scena alle prossime fiere internazionali. Il calendario degli appuntamenti in enoteca e presso le Città del gusto dal 1 al 16 marzo. 

 Anche quest'anno torna, come di consueto, l'iniziativa promossa dal Gambero Rosso per valorizzare il prezioso patrimonio enologico italiano e avvicinare il grande pubblico al bere di qualità. Così la quarta edizione di Anteprima Fiere Vino inizia il suo tour di degustazioni in giro per la Penisola, presentando le migliori cantine selezionate dalla guida Vini d'Italia 2017, da scoprire presso le enoteche italiane che partecipano all'iniziativa.

La manifestazione itinerante offrirà anche l'occasione per avvicinarsi in anteprima alle tendenze vinicole protagoniste delle prossime grandi fiere internazionali, ProWein a Dusseldorf e Vinitaly a Verona. Nel 2017 il tour prenderà il via il primo giorno di marzo e si protrarrà fino al 16 del mese, articolandosi nelle principali città della Penisola e presso le Città del gusto di Torino, Romagna, Roma, Napoli, Lecce e Palermo, coinvolgendo le migliori cantine e alcune tra le più rinomate enoteche d'Italia. Ad accompagnare amatori, curiosi ed appassionati, come sempre, gli esperti della redazione vino, che guideranno le degustazioni delle etichette più promettenti delle nuove annate.

Nel calendario di degustazioni, consultabile nella sezione dedicata del sito del Gambero Rosso, troveranno spazio anche i seminari presso le Città del gusto, su prenotazione. Si comincia il 3 marzo alla Città del gusto di Torino (dalle 19), poi Napoli, Lecce e Palermo, prima della chiusura in contemporanea a Roma e alla Fiera di Cesena (per la prima degustazione della nuova Città del Gusto Romagna) il 16 marzo. La partecipazione alle degustazioni in enoteca è gratuita, mentre per iscriversi ai seminari è necessario acquistare un biglietto per il singolo evento sullo store online del Gambero Rosso.

 

Per consultare il calendario completo degli appuntamenti www.gamberorosso.it/it/anteprimafierevino

La nuova San Pellegrino Factory in Val Brembana. 90 milioni di euro e l'archistar per valorizzare l'acqua italiana

$
0
0

La ristrutturazione dello stabilimento storico terminerà nel 2019 rivoluzionando il sito produttivo secondo il principio di valorizzazione del territorio e della storia della più celebre acqua minerale italiana. Il progetto all'architetto danese Biarke Ingels, per un investimento di 90 milioni di euro. 

La nuova casa di San Pellegrino

San Pellegrino è un brand globale (controllato dalla multinazionale Nestlè) da fantastilioni di fatturato ogni anno. E molti ignorano dove tutto ha avuto inizio, a San Pellegrino Terme, tra le montagne bergamasche della val Brembana. Ora il nuovo progetto edilizio presentato alla Fondazione Feltrinelli di Milano qualche giorno fa ha intenzione di rilanciare il ruolo del territorio d'appartenenza dell'acqua minerale conosciuta sulle tavole di tutto il pianeta, con un investimento da 90 milioni di euro che in quattro anni porterà alla realizzazione di una factory San Pellegrino moderna, accattivante, d'autore. La firma prescelta – previo contest internazionale che ha mobilitato grandi nomi dell'architettura mondiale – è quella dell'archistar danese Biarke Ingels, dello studio internazionale Big (alla prova con la Serpentine Gallery di Londra e il Two World Trade Center, per citarne alcuni). A lui il compito di disegnare una nuova casa per l'acqua simbolo del made in Italy (e dell'alta ristorazione), che prenderà forma a partire dal 2018 sul luogo del vecchio stabilimento.

 

Il progetto di Big

E quando l'opera sarà completata, San Pellegrino aprirà le porte al pubblico con un Experience Lab dedicato alla storia dell'acqua, per scoprire il viaggio trentennale che la conduce fino alla fonte prima che possa essere imbottigliata. Tre i valori privilegiati nella scelta del progetto vincitore, purezza, trasparenza e naturalità, che l'architettura giocata sul leit motiv dell'arco dovrà concretizzare in uno spazio emblematico del gusto per il bello made in Italy. Quello che l'architetto danese, già ben calato nella parte, ha identificato come “italian way of life”, e che cercherà di utilizzare come chiave per decifrare il paesaggio e valorizzarlo in funzione delle esigenze produttive , commerciali e turistiche dello stabilimento. Ci sarò spazio per uffici moderni e confortevoli, dunque, e per gli impianti produttivi – per trasmettere tanto una rinnovata visione artistica, quanto nuovi standard in termini di efficienza e sostenibilità, fornendo un ambiente di lavoro ideale - ma anche per l'installazione che al centro del campus racconterà la storia di San Pellegrino e il suo legame con la terra, proprio dove dal 1899 si imbottiglia acqua minerale.

 

Valorizzare il territorio. E il made in Italy

O per dirla con le parole dell'architetto – che ha avuto la meglio su tre “sfidanti” di tutto riguardo, tra cui il gruppo del mercato di Rotterdam MVRDV, lo studio Snohetta, l'italiano Michele De Lucchi, firma del padiglione Zero di Expo 2015 -, “eredita la sua struttura dal paesaggio della Val Brembana. Come in una cantina dei vini, in questo caso dedicata all’acqua, le arcate ripetute si espandono e si contraggono, creando la struttura perfetta per accogliere la purezza e la limpidezza dell’acqua minerale, in un ambiente caratterizzato da leggerezza, apertura e trasparenza”. Gli spazi interni, come anticipano i rendering, saranno modulati da arcate e volte che creano una serie infinita di ambienti, tra vetrate e pergolati verdi che incorniciano le montagne circostanti. Perché l'acqua, ha ribadito l'ad del gruppo Stefano Agostini, è un bene non delocalizzabile. E merita di essere tutelata là dove nasce. E di nuovo si torna a parlare di economia del territorio e turismo esperienziale.

 

a cura di Livia Montagnoli

Un Mediterraneo da scoprire a Londra. La tappa inglese di LSDM, ospite Da Michele

$
0
0

I festeggiamenti per il decennale del congresso gastronomico dedicato all'eccellenza della Campania nato a Paestum proseguono a Londra, con due appuntamenti che vedranno protagonisti pizzaioli e chef di casa nostra. Da Roberto Petza ai fratelli Salvo, a Gaetano e Pasquale Torrente. 

LSDM Londra. All'Antica Pizzeria da Michele

Che quest'anno il calendario sarebbe stato ricco di contenuti si intuiva dalle premesse: uno spiegamento di forze e idee su più continenti per celebrare come merita il decennale di LSDM, al secolo Le Strade della Mozzarella partite da Paestum per accendere i riflettori sul circuito gastronomico di una terra ad alto tasso di biodiversità alimentare e finite molto lontano, fin oltreoceano, in qualità di ambasciatrici del made in Italy e dell'eccellenza agroalimentare campana. Dopo l'apertura milanese, il 2017 di LSDM prosegue a Londra, il 27 e 28 febbraio, e battezza un esordio recente che porta la firma di Napoli nella capitale inglese: sarà l'Antica Pizzeria da Michele approdata in città nelle ultime settimane a ospitare la One night in London dedicata alla pizza napoletana, il 27, in compagnia di Marco Condurro, Francesco e Salvatore Salvo e Giuseppe Pignalosa. Una degustazione che è anche approfondimento per raccontare un'arte sempre più apprezzata oltre Manica, dove solo qualche giorno fa ha ufficialmente inaugurato anche Radio Alice, con la pizza dei fratelli Aloe e di Berberè.

 

La cucina d'autore del Sud

A Londra, però, arriveranno anche gli altri prodotti del “pacchetto” LSDM: mozzarella di bufala campana Dop, pomodori, pasta e olio extravergine d'oliva. E martedì 28 febbraio saranno i rappresentanti della grande cucina italiana a raccontarli sul palco allestito al Baglioni Hotel London. Il focus, neanche a dirlo, è centrato sui sapori del Sud, con il contributo di Roberto Petza dalla Sardegna, Accursio Craparo dalla Sicilia, Angelo Sabatelli dalla Puglia, Salvatore La Ragione in rappresentanza della Campania. Con loro anche Danilo Cortellini dell'Ambasciata Italiana a Londra e Gaetano e Pasquale Corrente, che anche sul suolo inglese si presenteranno armati di olio per friggere a ramine, divertendosi a reinterpretare una delle specialità street food più amate di Londra: il fish and chips. In versione italian style. L'evento, come di consueto, è gratuito ma riservato agli addetti ai lavori, e precede l'appuntamento di Paestum, in programma per il 19 e 20 aprile, quando il congresso internazionale entrerà nel vivo, coinvolgendo un nutrito parterre di chef in arrivo dall'Italia e dal mondo.

 

Bocconi d'autore. La cena con Michele Deleo

E in parallelo prosegue anche il programma delle cene Bocconi d'autore, queste sì aperte al pubblico (su prenotazione), ideate proprio per festeggiare il decimo compleanno in grande stile. Dopo il primo appuntamento di gennaio, il 22 febbraio sarà la volta di Michele Deleo, executive chef di Palazzo Avino (Ravello) ospite nelle cucine del Savoy Beach Hotel di Paestum e del resident chef Matteo Sangiovanni. E il menu sarà un omaggio d'autore alla mozzarella di bufala, dal Gambero, pomodoro e mozzarella all'Idea di scarpariello, alla Sfera di mozzarella, in versione dessert. Il costo della cena è di 70 euro a persona. Poi toccherà a Paolo Barrale, Ernesto Iaccarino e Vito Mollica.

 

LSDM Londra | il 27 e 28 febbraio 2017 | www.lsdm.it

Bocconi d'autore | Paestum (SA) | Savoy Beach Hotel, ristorante Tre Olivi | il 22 febbraio | 70 euro | tel. 0828 720023 | info@hotelsavoybeach.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Ultimi giorni di Noma. Come li stanno vivendo i quattro italiani presenti

$
0
0

Il Noma chiude ufficialmente il 24 febbraio. A far parte di questo incredibile progetto gastronomico quattro italiani che, nonostante il lavoro estenuante, sembrano intenzionati ad accompagnare René Redzepi anche nel nuovo Noma. Nessuno, però, esclude un percorso da attore protagonista. Anzi, due di loro quest'estate apriranno un ristorante pop-up. Ecco cos'altro ci hanno raccontato.   

L'ultimo servizio si terrà il 24 febbraio, dopodiché una grande festa e la chiusura di un ciclo chiamato Noma, il ristorante di René Redzepi che ha portato Copenaghen nelle prime pagine dei magazine di tutto il mondo, creando in un certo senso dal nulla la tradizione gastronomica danese e contribuendo all’evoluzione di quella scandinava. Un ciclo, dicevamo, che getta le basi per un progetto altrettanto importante in una grande proprietà acquistata dallo chef alle porte di Christiania. Sarà il nuovo Noma, pronto a trasformarsi in fattoria urbana autosufficiente. A far parte di questa impresa, passata e futura, quattro italiani (oltre ai molti stagisti) che nonostante la fatica, la pressione e le 85 ore settimanali di lavoro, sembrano intenzionati a resistere alla new wave of Noma. Loro sono Riccardo Canella, Stefano Ferraro, Edoardo Fiaschi e Jessica Natali. A loro abbiamo chiesto come si vive in questi giorni nelle cucine del Noma.

Riccardo Canella

Mestrino, 1985. Sous chef della cucina di servizio - lavora al Noma da settembre 2014

In queste ultime settimane al Noma stanno arrivando molti amici e chef. René è gasato, sembra un bambino! Tre settimane fa è venuto Ferran Adrià, erano sette anni che mancava dal ristorante. Vi lascio immaginare l'emozione di René e la tensione che si respirava. Queste ultime settimane sono più intense, è come se avessimo aperto un pop-up, siamo tutti (di nuovo) fuori dalla confort zone. È incentivante. In cucina c'è molta energia e - ma questo è un mio pensiero - c'è il menu migliore di sempre, più focalizzato sul gusto, appagante, dove ogni portata è “forte”. Dal canto mio sono orgoglioso e onorato di far parte della chiusura di questo progetto. Il 24 sarà il nostro ultimo servizio e il 25 febbraio ci sarà una grande festa, dove non cucineremo ma ospiteremo gli ex allievi del Noma, quelli che stanno vicino a Copenaghen. Ancora non me ne rendo conto, se ci penso scatta subito la nostalgia. E il ricordo necessariamente torna alla prima volta che ho messo piede nelle cucine del Noma: era il settembre del 2014, ero uno stagista con alle spalle una formazione classica. Non capivo il senso di tutte quelle fermentazioni o della cottura messa in secondo piano. Oggi mi è tutto più chiaro, e condivido in pieno la scelta di non inserire nel nuovo locale le piastre a induzione: ci saranno solo 20 metri di barbecue, che reputo il futuro della cucina, e una stufa.

Progetti futuri? Voglio far parte dell'apertura del nuovo locale e lavorarci per almeno uno o due anni. Parliamo di un edificio enorme, in cui ci saranno gli spazi adeguati, che ormai al Noma mancano, dove René penso voglia fare una sorta di scuola o fondazione. Lui ha la capacità di trovare i talenti e mettere le persone al posto giusto. Poi non escludo di aprire qualcosa di mio. In questi giorni, però, è difficile trovare il tempo per pensare.

Stefano Ferraro

Torino, 1986. Sous chef della pasticceria - lavora al Noma da aprile 2016

Se penso a quello che il Noma ha rappresentato negli ultimi anni, è decisamente emozionante. Solitamente non ci si ferma mai a riflettere, perché si è concentrati sulla routine, ma nelle ultime settimane il quotidiano countdown di René ce lo ricorda eccome che cosa sta succedendo! Ti rendi conto che stai facendo la storia della gastronomia mondiale, e che si parlerà del Noma anche tra dieci anni (un po' come è successo per il Bulli). È appagante. Così come lo è avere la consapevolezza di lavorare in un luogo dove si fa costantemente ricerca. Qui si studiano le tecniche adatte per creare le ricette dei diversi piatti. Il mio compito, per esempio, è quello di concretizzare le ricette ideate nella Test Kitchen dal pastry chef Malcolm Livingston II. E per farlo ho l'aiuto di sette persone. Ecco, un altro aspetto positivo del Noma è che può contare sul lavoro di una cinquantina di persone in cucina, con un rapporto cuochi/clienti di quasi 1:1.

Progetti futuri? Stare con la famiglia Noma per almeno altri due anni. Prima partirò per il Messico (ndr. da aprile a maggio René porterà il Noma a Tulum), poi un mese di vacanza e verso luglio tornerò a Copenaghen, per il nuovo capitolo della “storia del Noma”. Non escludo, ovviamente, l'idea di aprire un locale tutto mio di fascia medio-alta. Essendo di Torino mi piacerebbe tornare - il format tra l'altro funzionerebbe nella città sabauda - ma se penso alla burocrazia, al costo del lavoro e alle tasse italiane… mi passa la voglia. Molto meglio rimanere (e investire) a Copenaghen.

Edoardo Fiaschi

Firenze, 1990. Capo partita degli snack, lavora al Noma da maggio 2015

René nell'ultimo mese ha un atteggiamento quasi nostalgico e il clima che si respira è bello, anche a livello di team. Ci si aiuta molto di più e i momenti di tensione sono meno frequenti, sarà il fatto che lasceremo questo posto e che si sta chiudendo un bel capitolo. Ho avuto la netta sensazione di questa atmosfera surreale solo sabato, quando mi sono fermato per un attimo a riflettere. È stato anche l'attimo in cui ho tirato le somme: nei due anni di Noma non ho imparato a cucinare (qui ci entri solo se hai le basi) ma ho appreso tecniche nuove, a cominciare dal foraging e dalle fermentazioni, e ho imparato ad approcciarmi agli ingredienti con grande sensibilità, nonostante la tensione che si respira costantemente. Al Noma non ci si sente mai comodi.

Progetti futuri? Farò parte del team del nuovo Noma. Prima però, dal 15 luglio al 15 agosto, aprirò con Riccardo (Canella) e il sommelier Luca Pronzat' un pop-up all'interno di un bel locale a Biarritz: Carøe. Ci saranno una ventina di coperti e un menu di 5 o 6 portate a 50/60 euro, che cambierà praticamente ogni giorno in base al mercato del pesce. Un menu principalmente di mare che non esclude gli altri incredibili prodotti del sud della Francia, come gli insaccati o i latticini baschi.

Jessica Natali

Civitanova Marche, 1993. Chef di partita ai piatti caldi, lavora al Noma dal 2014

Al Noma abbiamo sempre vissuto gli “ultimi servizi”, penso a prima di aprire per il Giappone (pop-up di Tokyo) o per l'Australia (pop-up di Sydney), quindi questi giorni li sto vivendo in maniera abbastanza tranquilla. So che ci trasferiremo in Messico e che dopo questa esperienza inizierà un nuovo capitolo, quindi la chiusura del Noma non rappresenta affatto una delusione. Anzi, sono molto entusiasta e non vedo l'ora di iniziare la nuova avventura. Bando dunque alla nostalgia, con la consapevolezza che questi tre anni passati a Copenaghen mi hanno fatto crescere. Ora ho più fiducia in me stessa, so come tenere duro e quali sono le soluzioni migliori, da prendere velocemente, quando mi trovo di fronte a una difficoltà. Ho anche imparato a riconoscere e soprattutto a correggere i miei errori. Il Noma è una scuola, anche di vita.

Progetti futuri? Rimanere al fianco di René, anche perché ora non sento l'esigenza di cambiare. D'altra parte al Noma non ci si annoia mai.

 

a cura di Annalisa Zordan

Il vino, di generazione in generazione. L'Orvieto

$
0
0

Nelle grandi famiglie del vino il cambio generazionale è un momento decisivo, con le giovani leve che danno nuova linfa alle attività di famiglia, cercano nuovi percorsi per raccontare il territorio, abbracciano modalità produttive rigorose ma aperte al rinnovamento, senza però tradire lo stile familiare.

Continuiamo a seguire l'evoluzione di alcune grandi famiglie del vino che, generazione dopo generazione, stanno ridefinendo i contorni di alcune grandi aree vitivinicole. Oggi siamo in Umbria, più precisamente a Orvieto, anche detta la rupe.Una città dalla straordinaria carica culturale: passeggiando per le sue strade o visitando lo splendido Duomo ci si sente spinti a farsi domande che mettono in moto la mente, perché l'atmosfera che si vive in questa cittadina alimenta l'attitudine alla riflessione. La voglia di affrontare questioni complesse assume colori vivaci e cangianti, e proprio quando i ragionamenti rischiano di assumere un sapore più amaro la città corre in soccorso offrendo molte occasioni di piacere, mostrando la serietà con la quale le gestisce. In questo senso Orvieto è quasi uno stato mentale.

 

Il distretto vitivinicolo orvietano, tra i più antichi del mondo, è stato attraversato da una globalizzazione che sembra aver banalizzato un territorio eccezionale. Nell’immaginario collettivo, e troppo spesso nella realtà dei fatti, il vino orvietano sembra essere un vino assente a se stesso, vicino alle dissolvenze globali e distante dalla sua geografia. Zygmunt Bauman, nel libro Dentro la globalizzazione,sosteneva che la distanza è un prodotto della società globale assieme all’assenza. Il divario tra i grandissimi vini già espressi dal territorio e l’anonimato di altri sembra proprio essere lo spazio in cui agisce l’assenza di cui parla il grande intellettuale recentemente scomparso.

 

La breaking news è che proprio dall’aspetto umano delle cose e dalla consapevolezza di questa assenza sembra voler ripartire una giovanissima generazione di viticoltori del territorio.

Un’impresa ardua vista l’estensione della Doc e la complessità del disciplinare, tuttavia avvincente proprio per questo. Si racconta che la psicanalisi sia nata dopo che Freud ha visitato gli affreschi di Luca Signorelli nella Cappella di San Brizio, all’interno del Duomo: un episodio incoraggiante che si può intendere come un precedente, che rende l’idea di come Orvieto sia legata ad un certa straordinarietà.

 

Barberani

Lungo la strada tra Orvieto e Todi in località Cerretto, nei pressi del Lago di Corbara, un bacino artificiale dal fascino singolare realizzato lungo il corso del fiume Tevere negli anni ‘60. È qui che sorge l’azienda agricola Barberani. Bernardo e Niccolò, terza generazione di viticoltori oggi al timone aziendale, sentono e vivono sulla loro pelle il prestigio che, prima il nonno e poi i loro genitori, hanno impresso alla storia di famiglia. Realizzare vini emblematici è stata la tensione che ha spinto Luigi e Giovanna a credere nel loro territorio. Bernardo e Niccolò, ora, continuano a farlo realizzando una viticoltura di precisione. La cura maniacale dei dettagli accomuna e contraddistingue al tempo stesso le due generazioni. I due vini simbolo dell’azienda: il Calcaia, nato nell’1986 e il Luigi e Giovanna nato nel 2011, concretizzano tutto questo nel bicchiere. Da notare che il vicino di casa dei Barberani è un uomo che tra tecnica e materie prime ha calibrato la sua estetica culinaria. Un salto dallo chef Vissani, nella vicinissima Baschi, è un’esperienza da provare più che da raccontare, magari gustando vini a km. 0, proprio quelli di casa Barberani.

 

Lo stile di famiglia

Per i fratelli Barberani la perfezione stilistica riguarda in prima battuta il loro agire come viticoltori, consapevoli quindi che la natura non può essere standardizza al servizio una concezione industriale del risultato. Saper assecondare per creare pregio è il loro obiettivo. A Cerretto Qui l’effetto mitigatore del bacino lacustre, la bio-diversità e l’alternanza tra agglomerati calcarei ed argillosi di origine marina dei suoli, offre delle condizioni uniche per la viticoltura. Il grechetto è la bisbetica domata del vigneto, un’uva difficile da lavorare ma capace di grandi sorprese se trattata nel giusto modo.

 

I vini

Il Calcaia è un vino dolce realizzato con uve attaccate dalla Botrytis Cinerea, la muffa nobile che, per la sua capacità di disidratare l’acino concentrandone zuccheri e acidità, dona una particolare complessità organolettica. Chiunque ami il buon bere conosce questa tipologia di vini, frutto di un grande lavoro di programmazione e strategia della vendemmia, necessari per muoversi tra i delicati equilibri che ne portano alla nascita. Le zone nel mondo in cui si verifica questo fenomeno sono rare. La famiglia Barberani restituisce nella complessità olfattiva di questo vino un’interpretazione puntuale del caso. L’annata 2014 rapisce nell’immediato, lasciando un sorso teso e vellutato tutto bevibilità e corrispondenza. La versione 2005 è un racconto potente e appassionato di un azzardo vitivinicolo, uno sguardo energico e attraente nella magia di questo territorio.

Luigi e Giovannaè un Orvieto Doc Classico Superiore secco, ottenuto da uve grechetto e trebbiano procanico. Un omaggio che i fratelli Barberani hanno fatto ai loro genitori. Nel recitato di questo vino appare evidente la seduzione che i vini bianchi d’oltralpe esercitano sui due fratelli. Dalla prima annata 2011 alla recente 2013 è il tempo che, con il suo agire, dona a questi vini raffinatezza e maturità.

 

Palazzone

Uno sperone vulcanico posto alla sommità del nucleo collinare di Rocca Ripesena segna il transito dal settore sud a quello nord del versante occidentale della Doc. Qui è netto il passaggio da suoli di matrice vulcanica a quelli di origine sedimentaria e, come succede in rari casi, la brusca discontinuità geologica del sottosuolo si manifesta con la stessa tensione e risolutezza nella storia e nei vini dell’azienda Palazzone, che sorge in questa località. Intuizione, talento e tecnica sono rispettivamente la sintesi di Angelo, Giovanni e Pietro Dubini: nonno, padre e figlio che da quarant’anni lavorano su questo territorio. La terra accomuna le tre generazioni che con una diversa sensibilità antropologica hanno capito quanto il vino sia legato alle mani dell’uomo.

 

Lo stile di famiglia

Fare un buon prodotto, con l’onestà intellettuale di chi sa che è il suolo a creare l’Orvieto come tipologia di vino, assieme alla diversità dei micro-climi nei vigneti che ne disegnano la fisionomia: è questa la cifra stilistica che contraddistingue il carattere dei vini della famiglia Dubini.

L’uva attraverso la mediazione dell’uomo può raggiungere bellezza, evoluzione e invecchiamento nel vino, che sono la parte più artistica del mestiere di vignaiolo. L’artigianalità necessaria per raggiungere questo scopo è la stessa che lega Pietro al nonno materno Livio Orazio Valentini, pittore orvietano. Pietro, attualmente iscritto all’ultimo anno di enologia ad Alba, dopo varie vendemmie in Friuli, Piemonte e sull’Etna, è persuaso che il concetto di cru non sia applicabile al caso orvietano bensì, come ha dimostrato la mappatura del territorio realizzata recentemente dal consorzio di tutela, un discorso di zonazione. Una via di fuga che potrebbe offrire, a tutto il territorio, la possibilità di muoversi insieme e uscire dalla supremazia del marchio che classifica l’areale.

 

I vini

Il Campo del Guardianoè il vino più noto che l’azienda realizza, l’annata 2007 è un omaggio ancestrale all’arte del blend che individua il territorio: un vino rigoroso dall’anima gipsy, tipico, strutturato e articolato; da provare insieme a un uovo alla carbonara cotto a bassa temperatura con crema al grana e guanciale stufato. Il Muffa Nobile 2005 ti porta lontano, verso Oriente, su una complessità olfattiva sussurrata e variegata, e una persistenza lunghissima che caratterizza il finale. Da sorseggiare ascoltando tutto di un fiato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

 

Decugnano dei Barbi

Esistono luoghi dove è possibile realizzare i propri desideri, basta uscire dalle sicurezze e lasciarsi guidare dall’entusiasmo per trovarli. Nel 1973 Claudio Barbi li trova in un vecchio podere abbandonato chiamato Decugnano, vedendo affiorare dal terreno delle piccole conchiglie bianche. La storia lo ha consacrato come uno dei più audaci visionari del territorio e la sperimentazione che ha portato avanti in questi anni, ha dato vita nel 1981 alla Pourriture Noble: il primo vino realizzato in Italia tramite la muffa nobile. Niente male per un Bresciano giramondo innamorato dello Chablis, e fermamente convinto dell’unicità del territorio Orvietano. Proprio la sperimentazione è il tratto che unisce il figlio Enzo al padre, mentre l’abilità manageriale di quest’ultimo ne segna la discontinuità.

 

Lo stile di famiglia

A cavallo tra gli anni '70-'80 quando le parole packaging e marketing non comprendevano la ricerca dei dettagli, la famiglia Barbi era già capace di mettere sulla piazza vini in bottiglie curatissime.

La ricerca sui vitigni autoctoni del territorio e la sperimentazione sulla costanza qualitativa di determinate varietà internazionali, in primis lo chardonnay (che qui ha dimostrato una capacità di interazione con il territorio che lo porta ben al di là della sua specificità varietale), hanno reso Fossatello di Corbara un atelier a cielo aperto. Le svariate micro-vinificazioni in cantina hanno tagliato e cucito un abito a ognuna delle 13 varietà dislocate nei 32 ettari vitati aziendali. Per realizzare tutto questo si è resa necessaria una pianificazione scientifica e al tempo stesso divertente del lavoro. Un’operazione che ha già dato molti frutti e che il prossimo anno porterà buone novità in campo.

Enzo e Claudio sono convinti che una classificazione del territorio e una rivoluzione del disciplinare, capace di includere anche le necessità delle cantine sociali, possa portare a una definizione più precisa dell’Orvieto. Le opportunità di investimento non mancano in questa zona, quello che preoccupa di più i Barbi è che la tradizione delle professioni e dei mestieri del territorio sta pian piano scomparendo. Un rischio che nell’epoca della post-verità non vale la pena correre.

 

I vini

Il Bianco è l’Orvieto classico superiore messo a punto dalla famiglia Barbi, un vino capace di acquistare nel tempo un grandissima eleganza d’insieme. Una piccola verticale dall’annata 2015 alla 2010 ne è stata la prova. Degna di nota la versione 2011 per via della straordinaria terziarizzazione olfattiva e il carattere deciso e generoso dell’assaggio, ottimo. La Pourriture Noble 2015 è suadente, equilibrata e dinamica e ricorda nel suo ritmo il brano degli Air Playgroundlovecontenuto nella colonna sonora del film Il Giardino delle vergini suicidemagistralmente diretto da Sofia Coppola.

 

Barberani | Baschi (TR) | Localita O Cerreto M 350 | tel. 0763 341820 | http://barberani.com/it/

Palazzone | Orvieto (TR) | loc. Rocca Ripesena, 68 | tel. 0763 344921 | http://www.palazzone.com/

Decugnano dei Barbi | Orvieto (TR) | loc. Fossatello, 50 | tel. 0763 308255| http://www.decugnanodeibarbi.com/

 

a cura di Emanuele Schipilliti

foto di copertina: Palazzone

 

Per leggere Il vino, di generazione in generazione. Il Montepulciano d'Abruzzo Colline Teramane clicca qui

Per leggere Il vino, di generazione in generazione. Il Vino Nobile di Montepulciano clicca qui

Per leggere Il vino, di generazione in generazione. Le Rive e le famiglie del Prosecco clicca qui

 

 

Asia's 50 Best Restaurants 2017. Gaggan ancora in testa, Umberto Bombana quarto

$
0
0

Dal W Hotel di Bangkok va in scena una nuova edizione della classifica che premia i 50 migliori ristoranti del continente asiatico. Poche sorprese, tante soddisfazioni per il nostro Umberto Bombana e il predominio delle insegne che propongono cucina francese. Alla regina dei bao May Chow il premio come Best Female Chef. 

Gaggan Anand ancora in testa

Va ancora una volta in scena dall'esclusivo W Hotel di Bangkok la cerimonia di premiazione della migliore ristorazione asiatica secondo il pool di esperti chiamato al voto da San Pellegrino per stilare la classifica dell'Asia's 50 Best Restaurants. Cinquanta indirizzi da non perdere nel continente asiatico, così vario e diversificato per stili gastronomici, tradizioni culinarie, disponibilità delle materie prime. A cominciare dalla ricchezza della gastronomia thailandese, per il secondo anno consecutivo sotto i riflettori internazionali e ancora una volta alla guida della classifica con il suo talento più celebre Gaggan Anand, natali indiani e consacrazione arrivata proprio a Bangkok, dove molti viaggiatori arrivano per sperimentare la cucina d'avanguardia del Gaggan. Il suo ristorante è per il terzo anno in vetta, l'entusiasmo del ragazzone indiano (protagonista pure di un bel episodio di Chef's Table, seconda stagione) invariato: “Questo premio è per l'Asia” dice al microfono “Per l'India, che è il mio Paese, e per la Thailandia, che è il mio futuro. Ringrazio tutta la mia brigata, 67 ragazzi di cui non potrei fare a meno”. Con lui sul podio salgono Andrè Chiang e la sua cucina francese contemporanea sotto il cielo di Singapore (da terzo a secondo) e il duo Richard Ekkebus/Maxime Gilbert per Amber, ancora cucina francese contemporanea, declinata però per la clientela internazionale del Landmark Mandarin Oriental di Hong Kong.

 

Umberto Bombana è quarto

Dalla metropoli cinese arriva pure Umberto Bombana, che oltre al premio alla carriera già annunciato nei giorni scorsi porta a casa anche un ottimo piazzamento per il suo ristorante più ambizioso: 8 ½ è quarto in classifica, in salita evidente dall'ottavo piazzamento del 2016. Per il resto la lista dei favolosi 50 spazia da Seoul a Taiwan, da Tokyo a Bangkok (rappresentata da una nutrita compagine e diverse new entry), da Hong Kong a Macao senza troppi colpi di scena.

 

La cucina francese in Asia

Si segnala uno smaccato apprezzamento per la cucina francese, rappresentata da maestri come Joel Robuchon (in classifica gli Atelier di Hong Kong e Bangkok) e Paul Pairet – il suo Ultraviolet di Shangai quest'anno si ferma all'ottavo posto – ma anche da tanti adepti asiatici di formazione classica, che innestano tecniche e ricette occidentali sulle diverse culture gastronomiche locali. Buona rappresentanza anche per le chef al femminile; l'Asia's Female Best Chef è May Chow, la regina dei bao, che arriva da Hong Kong e coinvolge la platea del W Hotel con il suo entusiasmo. Mentre all'australiano Dave Pynt, alla guida del Burnt Ends di Singapore (decimo) va il premio dei colleghi. Da Singapore arriva anche la novità più alta in classifica: Odette. E intanto scalano la classifica a grandi falcate anche i ragazzi di Locavore, da Bali. Curiosità tra le new entry di Bangkok: al tredicesimo posto si sistema Sühring, con le sue schnitzel, in rappresentanza della cucina tedesca contemporanea.

 

Qui la lista completa www.theworlds50best.com/asia/en/

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Il Festival del Giornalismo alimentare a Torino. La seconda edizione tra deontologia, ricerca e sicurezza a tavola

$
0
0

Tre giorni di incontri, dibattiti, approfondimenti sul territorio per la comunità di giornalisti e blogger che comunicano di cibo in Italia. E due giornate di lavori alla Biblioteca Nazionale di Torino per parlare di economia, industria alimentare, innovazione tecnologica, ricerca, sicurezza e consapevolezza a tavola dal punto di vista di chi informa la collettività. 

 

Comunicare di cibo

Tre giorni alla Biblioteca Nazionale di Torino per discutere di informazione e comunicazione sul cibo, di come le vecchie frontiere della professione incontrino le nuove. Di quali e quanti siano gli obiettivi da perseguire per comunicare un mondo dinamico che si apre agli stimoli di discipline diverse, con focus sulla sicurezza alimentare e sull'innovazione tecnologica. Per capire che il giornalismo alimentare tocca temi importanti per la collettività. E come si possa migliorare la qualità dell'informazione. Per questo il Festival del Giornalismo alimentare in programma a Torino dal 23 al 25 febbraio offrirà a giornalisti e blogger accrediti la possibilità di incontrare le eccellenze della ricerca e dell'industria alimentare, le realtà dell'enogastronomia made in Italy e gli esperti di sicurezza alimentare. E il calendario degli appuntamenti, ricco di seminari, tavole rotonde, dibattiti, sarà occasione per riunire sul palco e in platea le voci più autorevoli del settore, con la benedizione del sindaco Chiara Appendino, che giovedì 23 aprirà le danze con il benvenuto ai giornalisti riuniti all'auditorium Vivaldi.

 

Sostenibilità, allarmismi e frodi alimentari

Poi il dibattito entrerà subito nel vivo, con un confronto sulla sostenibilità e sugli sprechi nella filiera agroalimentare: quanto una comunicazione efficace può sensibilizzare chi legge/ascolta sul tema? Coinvolto anche il vice ministro alle politiche agricole, forestali e alimentari Andrea Olivero. Ma nella prima giornata di lavori si parlerà anche di una risorsa preziosa come l'acqua, di tutela dell'olio d'oliva, di etichette e allergeni, di allarmi (e allarmismi) alimentari, di frodi, contraffazioni e agromafie. Mentre in Sala Mostra il pomeriggio si aprirà all'insegna della correttezza dell'informazione alimentare, tra critica enogastronomica e food blog: nel panel anche Antonella De Santis del Gambero Rosso. Venerdì 24 la giornata sarà dedicata alla ricerca alimentare, alle biotecnologie, alle paure alimentari e ai miti contemporanei, con focus sull'alimentazione infantile (dai servizi di refezione scolastica alla dieta vegana per bambini), le food policy urbane e la disciplina degli home restaurant, la tipicità dei prodotti alimentari e dei territori a vocazione gastronomica.

 

Deontologia. Come cambia la comunicazione alimentare

E poi una parentesi necessaria sul rapporto controverso dell'informazione con i canali social, come gestirlo ed evitare bufale e disinformazione. Ma anche sulla “marchetta in agguato”, titolo emblematico dell'incontro sull'informazione alimentare di fronte al rischio di pubblicità occulta che venerdì pomeriggio vedrà sul palco Valerio Massimo Visintin, Paolo Marchi Sara Bonamini, con la moderazione di Marco Trabucco. In parallelo si articolerà il programma di appuntamenti off, in collaborazione con Fiorfood di Coop, Palazzo Birago e la Città del gusto di Torino (che sabato pomeriggio ospiterà un incontro sulla cucina peruviana). Con la direzione di Massimiliano Borgia, il festival si avvia così verso la seconda edizione, con l'obiettivo di tenere alto il confronto sulla qualità dell'informazione, e stimolare quella coscienza alimentare su cui l'Italia poggia la sua identità e si presenta agli occhi del mondo.

La partecipazione è riservata agli accreditati, ma la manifestazione sarà disponibile in live twitting sulla pagina ufficiale del festival. E su Rai Radio 1, media partner dell'evento, che dedicherà all'evento la puntata della trasmissione Coltivando il futuro di sabato 25 febbraio.

 

Festival del Giornalismo Alimentare | Torino | Biblioteca Nazionale | dal 23 al 25 febbraio | www.festivalgiornalismoalimentare.it


Cucina Eliseo. A Roma la rinascita del ristorante del Teatro Eliseo

$
0
0

Da una grande famiglia allargata, nasce Cucina Eliseo. Un incontro di persone, sapori e conoscenze che fa rivivere lo spazio ristoro dello storico teatro romano lungo Via Nazionale gestito da Luca Barbareschi. Ma non è l'unica cosa da sapere in questa bella storia.

Tutto comincia da una grande villa ai Castelli Romani e da una famiglia allargata. Una di quelle che pensi esistano solo nelle serie tv. I capofamiglia, i medici Nino Giorgio Buonomini e Teresa Marcella Mennini, proprietari del grande casale, hanno pensato che uno spazio del genere andasse onorato e riempito di vita: sono arrivati così 8 figli naturali e altri 10 adottati, alcuni in affido temporaneo, alcuni con patologie che trovavano, in questa realtà, la versione (ancora più) domestica della casa famiglia, molti altri ragazzi hanno gravitato in casa, per pochi giorni o qualche anno, semplicemente attratti dalla forza centripeta di questo nucleo familiare così speciale. Senza che ci fosse alcuna motivazione se non quella tutta laica del dare. Ai due medici si deve, inoltre, anche un'associazione per l'assistenza domiciliare ai malati di cancro.

 

Panino porcinoPanino porcino

Il pub familiare

Certo, sono partiti da una condizione economica privilegiata che permetteva loro di sostenere una famiglia così grande” dice Filippo, l'ultimogenito (degli 8 naturali). Hanno garantito a ognuno uno spazio tutto per sé (per quanto possibile in una casa così affollata), di andare all'università e avere così gli strumenti per crearsi una professione, e un'automobile. Non è poco, naturalmente, ma in questa superfamiglia di 20 persone, gli extra non erano contemplati. E allora? “Un po' per forma mentis, un po' perché era necessario, a un certo punto hanno avviato un'attività”. E quella è stata l'origine di tutto, un pub aperto a Frascati nel 1988 “in cui siamo passati tutti noi figli: facevamo i turni, uno infrasettimanale e uno nel week end, ma ci erano sufficienti per gli extra”. Del resto anche in casa ognuno faceva la sua parte. Quel sistema ha funzionato alla perfezione per creare un reddito in più che andava ai ragazzi per le loro spese, ma che è servito anche per responsabilizzare e coinvolgere i membri di questa curiosa famiglia allargata, e renderli indipendenti. “Per gli altri è stato solo un mezzo di sostentamento fino a che non hanno intrapreso ognuno la propria professione” racconta ancora Filippo “solo io e Lorenzo ci siamo fermati nella ristorazione”. Lorenzo è oggi chef e segue le attività familiari.

 

Il ristorante Il Torchio

Con gli anni il pub è stato dato in gestione ed è stato preso un ristorante “prima gestito da mio fratello Antonio, poi da Lorenzo”. Il ristorante si chiama Il Torchio ed è tutt'ora attivo: un bel ristorante alle porte di Roma, che unisce una cucina di tradizione a spunti più creativi. E non mancano neanche piatti di memoria familiare: “nostra madre cucinava sempre, era un'ottima cuoca, molte ricette di Lorenzo sono le sue”. Il Torchio conta Antonio, in amministrazione, Lorenzo in cucina e Luigi Valente che si occupa della gestione e dell'approvvigionamento, cercando materie prime da produttori della zona che dimostrino un approccio il più possibile in armonia con la natura e le persone, “come nel caso dell'azienda Morani di Santa Severa, che alleva maremmane allo stato brado e fa agricoltura estensiva. Un posto dove andare per riconciliarsi con la natura, oltre che per motivi di lavoro”.

 

{gallery}cucina eliseo{/gallery}

Il catering Magnolia

Filippo, un passato nell'organizzazione di eventi culturali (qualcuno conosce forse la manifestazione Frammenti che anima le estati ai Castelli Romani) è passato alla parte gastronomica degli eventi: 10 anni fa è nato Magnolia, il catering voluto da Filippo: “e per i primi 6 mesi il laboratorio di Magnolia era proprio la cucina del Torchio”. Ma la collaborazione tra i due fratelli è sempre stata molto stretta: “quando arriva un nuovo cliente da Magnolia, lo invitiamo nel nostro ristorante, così conosce la nostra filosofia oltre che la nostra cucina”. Oggi, però, c'è anche un'insegna romana, e le possibilità di collaborazione aumentano. “Era un po' di tempo che cercavamo uno sfogo a Roma”, per avere una prospettiva diversa e per raggiungere un altro tipo di clientela: “chi viene ai Castelli Romani spesso cerca una cucina di tradizione” spiega, e aggiunge “volevamo soprattutto fare un progetto insieme, ormai non sono più al Torchio”.

 

Un angolo di Cucina ELiseo

Cucina Eliseo

Nasce – o meglio rinasce – così Cucina Eliseo, il ristorante dello storico Teatro Eliseo di Roma, che mette ancora di più in circolo risorse, collaborazioni e stimoli familiari: “Il Torchio e l'Eliseo sono il cuore pulsante della cucina del catering”, i fornitori sono gli stessi, quelli scelti da Luigi Valente anche in base a una loro conoscenza diretta, al fatto di condividere obiettivi e modi di fare, stagionalità, genuinità, vicinanza territoriale. Ora l'attività si amplia, con 15 persone fisse per il catering (ma possono diventare anche 50 o 60, secondo i momenti), 9 all'Eliseo, 7 al Torchio; Maurizio Lupo è il braccio destro di Lorenzo al Torchio ma è operativo nel catering e, ora, anche all'Eliseo.

 

Tonnno di manzo

Tonno di manzo

 

E se il Torchio è l'anima casual di questa realtà, l'Eliseo è quella più inserita in un contesto urbano fatto, anche, di socialità. È un luogo aperto tutto il giorno, che vive autonomamente rispetto al teatro, “ma ci piace l'idea di creare un gioco tra la cucina e lo spazio che ci ospita, per esempio con una serie di piatti studiati ad hoc per gli spettacoli”. Come nel caso del nido di tagliolini al ragù bianco di piccione e carciofi ispirato a Qualcuno volò sul nido del cuculo; o del finto uovo realizzato con fonduta di parmigiano e zucca e amaretti per Il giuoco delle parti. Inoltre l'orario di servizio serale che va dalle 19 alla mezzanotte (e oltre, secondo i casi) permette di mangiare prima o dopo gli spettacoli. Senza contare le serate con musica dal vivo (mercoledì alle 19 e il sabato dopo lo spettacolo) in collaborazione con il Saint Louis College of Music nell'area bar dell'ampio foyer al primo piano, dominata dalla suggestiva cascata di luci dietro al bancone, testimonianza della lunga storia di questo luogo. Mentre al piano superiore c'è il ristorante vero e proprio, con il bellissimo balconcino e l'ambiente arioso, gli autografi dei gradi nomi che hanno calcato le assi del palcoscenico replicati alle pareti e i poster storici degli spettacoli a decorare il pavimento.

La sala ristorante

 

Un lavoro con gli altri

Ma c'è di più: in questo gruppo coeso c'è un'impronta che va ben al di là dei legami familiari, ed è quella della continuità del progetto familiare. Quello della grande casa in campagna pronta ad accogliere tutti e a dispensare opportunità, anche ai ragazzi speciali, come dicono loro. Qualcuno con la sindrome di Down, qualche altro con altre patologie, più o meno gravi. E questo imprinting, fatto di porte (e braccia) aperte è quello da cui ha preso il via Ethicatering, spin off di Magnolia che gioca la carta di cooperative sociali e produttori etici, si tratti dei dolci della pasticceria Giotto (carcere di Padova) o di Banda Biscotti (carcere di Verbania e Saluzzo), delle mandorle di Dolci Evasioni (carcere di Siracusa), del caffè Le Lazzarelle (carcere di Napoli) o delle birre di Vale la pena (carcere di Rebibbia), o dei prodotti di Libera Terra, dai terreni confiscati alla mafia, o ancora i biscotti di Fattorie Migranti che si troveranno anche all'Cucina Eliseo, insieme alle confetture Fruttanuda, prodotta da Lella Buonomini (seconda degli 8 figli) insieme a Filippo sulla ricetta della mamma, una ricetta semplice, a tutta frutta (85 grammi su 100 di confettura).

Tortino di pane e cavolo neroTortino di pane e cavolo nero su crema di patate viola con guanciale croccante e bufala

 

Accanto al catering che dichiara già dal nome la sua attenzione verso le tematiche della sostenibilità, c'è un'attitudine che riguarda, a 360 gradi, un certo approccio al lavoro e alla vita. Collaborano con Borgo Ragazzi Don Bosco, che organizza corsi professionali nel settore della ristorazione. “Facciamo attività con i ragazzi, molti hanno fatto da noi uno stage remunerato, e alcuni sono stati assunti”. Ma le attività sono tante, incluse iniziative di raccolta fondi per realtà che operano nel sociale. “Sono occasioni utili per tutti, per le associazioni e per il nostro staff, che arricchisce il lavoro abituale di un contributo umano”. Poi c'è l'Aipd, l'Associazione Italiana Persone Down, con la quale c'è una collaborazione che si sviluppa nel tempo “c'è un tirocinio, prima, e poi un inserimento molto graduale, nei primi mesi accompagnato da un assistente dell'associazione”. È stata creata una procedura precisa: “dopo 6 mesi, nei quali l'Aipd ha sostenuto i costi, abbiamo assunto una ragazza. Ora fa il suo lavoro, 3 ore al giorno, e va a casa”. Non è una questione di generosità, ma di valore: “Diventiamo molto più efficienti, anche grazie al suo lavoro”. Ed è un valore che riguarda diversi aspetti: “perché anche se nei primi giorni non era produttiva, la sua presenza ha sempre portato qualcosa di positivo a tutto l'ambiente, migliorando il lavoro di tutti. Anche dal punto di vista meramente produttivo, ogni azienda dovrebbe avere una persona così” dice Filippo, e la sua testimonianza, spiega, è la stessa che darebbe chiunque abbia nella sua azienda una persona con la sindrome di Down “il contributo fattivo ed emotivo è enorme. Cambia il modo di lavorare”.

 

Il bar

 

Il Torchio | Frascati | via G. Mameli, 3 | tel. 06 9425520 | http://torchioristorante.com/

Magnolia Catering | http://www.magnoliaeventi.com/

Ethicatering | http://ethicatering.it/

Cucina Eliseo | Roma | via Nazionale, 183 | tel. 06 83548197 392 0913968 | http://www.teatroeliseo.com/extra/la-nostra-cucina/

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

All'Oro e The H'All Tailor Suite. La nuova sfida di Riccardo Di Giacinto e Ramona Anello

$
0
0

Dopo l'eroico start up in un piccolo locale di soli 59 metri quadri ai Parioli e il trasferimento al The First Hotel, Riccardo Di Giacinto e Ramona Anello aprono finalmente il loro ristorante. Ma c'è di più.

Li avevamo lasciati il 6 dicembre 2015 con il loro ultimo servizio nel 5 stelle di via del Vantaggio; nel frattempo è arrivata la piccola Eivissa, e la primavera scorsa l'apertura di Madre, mentre a breve giungeranno al termine i lavori per il completamento del nuovo progetto, che ha scontato i ritardi fisiologici del caso (burocrazia: vi dice qualcosa?). Il countdown è finalmente giunto al termine: apre a inizio marzo, con una doppia veste, la creatura romana di Riccardo Di Giacinto e Ramona Anello. Il nuovo All'Oro sarà anche hotel, o meglio tailor suite.

The H'All Tailor Suite

Cominciamo dall'insegna: The H'All Tailor Suite. “Abbiamo pensato a un nome coerente con il nostro ristorante (ndr. che prende il nome dalla pianta aromatica e dalla gioielleria, chiamata Oro Enzo, del padre dello chef) ricreando il gioco di parole (e di apostrofi) anche per l'albergo. Hall significa palazzetto, “All” ha lo stesso font optima del logo del ristorante, e H sta per Hotel”. Discorso a parte per la definizione di tailor suite, non un abito ma uno spazio creato su misura per il cliente.“L'intero progetto è stato partorito da noi, mettendoci nei panni dei clienti. Tant'è che il prospetto iniziale contemplava diciotto camere, in corso d'opera diventate quattordici”. 14 camere dotate di tutti i confort, dalla PlayStation nella family suite alla collezione di sigari nella suite con terrazza. “La camera più piccola è di 25 metri quadri, alcune stanze hanno la vasca da bagno matrimoniale e in tutte il letto è king size. L'ospite potrà anche scegliere il tipo di cuscino da una carta apposita”. I mobili sono tutti realizzati su misura dalla ditta Expo Mobili di Marcello Socievole, con materiali scelti in prima persona da Riccardo e Ramona, dal vetro satinato delle docce proveniente da Murano al marmo dei comodini. Prezzi? “Siamo nell'ordine di prezzo medio che varia dai 200 ai 250 euro”. Al di là dei costi dell'impresa, “dobbiamo ancora tirare le somme, ma una cosa è certa: rappresenta l'investimento della nostra vita”, i due non vedono l'ora di aprire i battenti. Anche per mostrare agli ospiti e amici di sempre il frutto dei sacrifici fatti in questi quindici mesi. “Saremo una delle poche strutture a Roma con la proprietà di un ristorante importante – effettivamente siamo abituati a sentire queste storie in luoghi meno turistici, pensiamo al Reale di Niko Romito o a L'Argine a Vencò di Antonia Klugmann – ma non vogliamo essere il classico albergo, sarà più semplicemente la casa di All'Oro”.

 

Il ristorante

Nel quartiere Flaminio, il bel palazzetto di 900 mq distrbuiti su tre piani (compreso il semi interrato, che ospita il ristorante), si trova fuori dalla zona a traffico limitato ma a 500 metri da Piazza del Popolo: “dopo aver visto moltissime location, ce ne siamo innamorati. E abbiamo condiviso la sfida con l'amico e socio Renzo Valeriani, proprietario della ditta di costruzioni responsabile dei lavori”. La coppia rimane però l'unica proprietaria del ristorante. Aperto di sera sette giorni su sette, compresi il sabato e la domenica a pranzo, il nuovo All'Oro ha due sale. Una con pareti dall'effetto cemento e lampade d'ottone, declinabili nel tavolo singolo o doppio, e con cantina a vista, “protetta da un cancelletto che richiama il gioco grafico della carta da parati dell'hotel”. L'altra, totalmente diversa, in stile boiserie, con soffitto a cassettoni di legno scuro, camino (il sogno di Riccardo) e vetrine, a ricreare l'intimità di una casa inglese. Compresa una porta “segreta” che porta direttamente al bagno senza dover passare per l'altra sala. Ideale per cene private. Il tutto è disegnato attorno alla cucina di 130 metri quadri, dove c'è addirittura un forno a legna (altro sogno dello chef di Monterotondo). “Per la prima volta dopo dieci anni mi sono disegnato e costruito una cucina secondo le esigenze di All'Oro di oggi. La marcia del ristorante è antioraria: lavaggio, pasticceria, primi, secondi, antipasti, magazzino, approvvigionamento merci, pass e filtro per la sala. Grazie al quale le persone in sala vedono ma non sentono”. A lavorarci 12 persone, i collaboratori di sempre, che nel frattempo sono stati da Madre, il poliedrico locale che Di Giacinto ha aperto a Monti in parallelo ai lavori del nuovo All’Oro. Ad aprile, poi, aprirà anche il dehors (attualmente in fase di progettazione), una sorta di serra dove verrà servita anche la colazione agli ospiti dell'hotel.

La proposta gastronomica

Per quel che riguarda la proposta gastronomica, la linea sarà quella di sempre, ovvero la tradizional-contemporanea di Riccardo. “Ci sarà anche qualche piatto completato in sala, come la T'Agliata o il Cacio e Shaker”. Il fil rouge segue la volontà di riportare la sala a essere protagonista, il che significa formare al meglio il personale di sala perché possa risultare determinante non solo nell'assistenza al cliente, ma anche per il naturale completamento del servizio di un piatto da terminare davanti al tavolo. “Per noi è fondamentale far partecipare anche la sala, altrimenti tra un po' di anni sarà difficile trovare dei professionisti. Ormai gli chef sfilettano, sporzionano, guarniscono, e in alcuni casi portano il piatto al tavolo... Poi non ci si può lamentare del fatto che non ci siano grandi personaggi di sala”. Da qui l'idea della T'Agliata, una tagliata "vestita" di aglio nero, alghe e capperi, sporzionata in tavola dal personale di sala. Ma anche l'utilizzo di uno shaker davanti ai commensali, che sarà elemento imprescindibile nell'esecuzione della Cacio e Shaker.

 

The H'All Tailor Suite – All'Oro | Roma | via Giuseppe Pisanelli, 25 | inizio marzo 2017

 

a cura di Annalisa Zordan

 

Fette biscottate con uova e burro: ecco le migliori

$
0
0

Le fette biscottate, in commercio, si trovano un po' di tutti i tipi: industriali, semi-industriali, artigianali. Di diverso prezzo e con diversi ingredienti. Dopo la degustazione di quelle in stile classico, stavolta proviamo la versione più ricca, con uova, latte e burro. Ne abbiamo assaggiate 8. Ecco le migliori.

Biscotti del Lagaccio, biscotti di Pontedassio, biscotti della salute, panbiscotto. Sono alcuni dei nomi delle fette biscottate “accessoriate”, ossia realizzate con prodotti di origine animale: uova, burro, latte. Non semplici supporti per delizie spalmabili ma dolci compiuti e a tutto tondo: bastano a sé stessi. Da mangiare assoluti o da accompagnare a vini da dessert.

 

Alcuni mesi fa abbiamo degustato le fette biscottate classiche da prima colazione, quelle base prive di prodotti di origine animale: per intenderci, quelle che trovano la loro destinazione ideale completate da un velo di burro e uno strato più o meno generoso di dolcezze spalmabili. Questa volta il focus è sulle omologhe esuberanti, che nell'impasto contengono uova, burro, latte. Ingredienti che conferiscono ricchezza di sapore, grasso, carattere, profumi pervasivi di pasticceria, dirottando le fette biscottate su un altro binario di esperienza e di consumo. Nulla vieta di gustarle insieme a cioccolato spalmabile, marmellate e confetture, da golosoni esagerati. Ma le fette biscottate “maggiorate” sono un dolce a tutti gli effetti: bastano a sé stesse. Immaginate di accompagnarle a un vino dolce amabile e discreto, per niente stucchevole: un Moscato d'Asti per esempio, o meglio un Colli Euganei Moscato Fior d'Arancio, con la fresca nota agrumata che dà la sensazione di pulire la bocca.

Fette bscottate

La degustazione

Anche per le fette biscottate “uova e burro” abbiamo preso in esame le due varianti classiche di farina bianca e le integrali. E abbiamo cercato sul mercato prodotti con caratteristiche simili, anche se portano nomi differenti: fette biscottate, biscotti del Lagaccio, biscotti di Pontedassio, biscotti della salute, panbiscotto. Accanto ai prodotti di industrie specializzate, figurano quelli di fior di pasticcieri che inviano le loro dorate dolcezze allineate e chiuse dentro scatole o buste cellophanate a bar e negozi gourmet, enoteche aperte alle specialità alimentari.

I prodotti migliori, sul podio nella nostra classifica? Quelli che esprimono la fragranza, la pulizia, la forza e insieme la delicatezza degli ingredienti (buona farina, uova fresche, burro di panna, in qualche caso lievito madre e bacca di vaniglia naturale), l'equilibrio del sapore, la ricetta ben calibrata, l'aspetto integro e seduttivo, la consistenza croccante e friabile.

 

L'outsider: le fette dei Fratelli Lunardi

Loro sembrano i due blues brothers del grande schermo: giovani e rock, sempre (o quasi) in nero, inseparabili, dinamici, estroversi e geniali… Così come le loro fette: artigianalissime, friabilissime, nella duplice versione classica e integrale (un po’ come il blues, insomma!) in vendita solo nella propria pasticceria. I fratelli Lunardi, Massimiliano e Riccardo, firmano unapiccola produzione confezionata in spartane buste di cellophane a sacchetto e vendono solo nel negozio annesso al laboratorio oltreché per corrispondenza. Lavorazione manuale, lenta lievitazione con pasta madre di famiglia conservata in acqua (“per ottenere unprodotto con un’acidità meno pungente”spiega Massimiliano) e lievito di birra,farina tipo 0 e integrale di grano italiano macinata dapiccoli mulini che non stressano i chicchi, latte intero, uova, zucchero, destrosio, malto, sale marino integrale, olio extravergine d'oliva toscano a parziale sostituzione del burro, per fette grandi e quadrangolari dall'aspetto vibrante, di consistenza molto delicata e alta croccantezza e friabilità, di tonalità beige, appena più chiara nelle classiche.Se le integrali esprimono sentori vintage con un finale leggermente amaro, le classiche hanno aromi e sapore equilibrati, puliti, veraci di burro e farina di buona qualità, a metà strada tra i prodotti di forno tostati e la pasticceria, con richiami soprattutto al panettone. Lascia in bocca una piacevole persistenza e il desiderio di fare il bis.

 

Lunardi | Quarrata (PT) | via Lucciano, 33/39 | tel. 0573 73077- 340 3402320| www.fratellilunardi.it| info@fratellilunardi.it| 200 g prezzo 3,50-4 euro

 

 

I prezzi indicati sono quelli medi al dettaglio. Tranne le prime classificate, le aziende sono in ordine alfabetico

 

 

{gallery}fette biscottate{/gallery}

 

1° Classificato

 

Pepe - Pan biscotto: le biscottate classiche e integrali

Se in lizza ci sono i prodotti di Alfonso Pepe è difficile che non conquistino quantomeno il podio. Con il suo Panbiscotto la pasticceria salernitana famosa per un panettone di alta gourmandise raggiunge il primo posto sia con le biscottate toutcourt bianche sia con le integrali, confezionate in scatole di cartone con la tipica livrea Pepe gialla e verde, in vendita nel proprio negozio, on line e a breve in negozi di cose buone. Sono a tutti gli effetti dei dolci, simili anche nell'aspetto ai biscotti del Lagaccio, di forma ovale – “ottenute da un filone con l'impasto simile a quello del panettone” precisa il Alfonso Pepe – fatto con farina (Dallagiovanna), lievito naturale, zucchero, burro, pasta di scorzone d'arancia candita, sale, bacca di vaniglia del Madagascar; cambia solo la farina (doppio zero nelle classiche, integrale nella versione scura) e il dolcificante (zucchero di canna e miele per le integrali). Le buone materie prime e l'arte pasticciera si esaltano in queste artigianali e luminose fette simili a quelle del pane ben tostate, con profumi delicati e insieme complessi e inebrianti di pasticceria, di ottimo burro, di dolcezze che stanno cuocendo in forno, di vaniglia naturale. Il sapore è pulitissimo ed equilibrato, con un soave sottofondo agrumato, la croccantezza superba. Se è ottimo il dorato panbiscotto classico, quello integrale è forse superiore: il colore cappuccino della fetta, i cristalli di zucchero sotto i denti, il gusto particolarmente armonioso e rotondo, dolce ma non troppo, l'intensità e la persistenza delle sensazioni, la croccantezza ancora più accentuata ci dicono che siamo nel mondo dell'integralità nella sua espressione più godibile.

Prezzo: 150 g; 3,60-4,40 euro

Pepe - Pan biscotto: le biscottate classiche e integrali | Sant’Egidio del Monte Albino (SA) | loc. Tuoro via Nazionale, 2 | tel. 081 5154151 - 081 5158331 | www.pasticceria-pepe.it

 

Antignano Prodotto Tipico - Fette biscottate con farina di mais Ottofile di Antignano®

Laboratorio artigianale di pasta prestato alla produzione di prodotti di forno, nasce per valorizzare il mais Ottofile di Antignano, marchio registrato. Con la farina del mais locale non produce solo tagliolini e fettuccine all'uovo, firma anche delle buone fette biscottate, realizzate da Agrival di Castellero (AT) e confezionate in vaschetta ricoperta da cellophan trasparente. Ingredienti: farina di frumento tipo 00, un 12% di farina di mais Ottofile, lievito madre, burro, uova, latte, lievito di birra, farina di frumento maltato, sale. La forma disomogenea delle fette quadrangolari, la faccia di un luminoso giallo uovo, l'aspetto rustico e artigianale, lo spessore piuttosto alto e carnoso le rendono particolarmente invitanti. Il profumo è austero ma opulento e complesso, ed evoca in modo preciso la pasticceria con le sue note di uova, latte e soprattutto burro, accompagnate da un tocco floreale. Al palato le impressioni olfattive si fanno più intense e persistenti e si arricchiscono di nuove sensazioni, quasi esagerate, con richiami netti al mais e ricordi di miele di castagno. Sapore pieno ed equilibrato con un leggero amarognolo che stempera la dolcezza importante. Sensazione sablé, un bel crock sotto i denti e un'eccellente friabilità.

Prezzo: 280 g; 4,60-5,30 euro

Antignano Prodotto Tipico - Fette biscottate con farina di mais Ottofile di Antignano® | Antignano (AT) | fraz. Perosini, 40 | tel. 0141 205232 - 338 3609145 | www.antignanoprodottotipico.it

 

Arimondo - Biscotto di Pontedassio

Il Biscotto di Pontedassio è un biscotto del Lagaccio artigianale, fatto a mano secondo la ricetta di Caterina e Sebastiano Semeria, che nel 1906 fondarono un biscottificio dedicato fin dal nome al piccolo dolce locale. Da qualche anno ne continua la produzione l'azienda Arimondo, che ha rilevato la fabbrica, il marchio e la ricetta originale, tramandata con grande segretezza, impastando farina di grano tenero 0 e 00, zucchero, uova, burro, olio extravergine d'oliva, lievito e sale, con lavorazione a mano e cottura nel forno a pietra. Una fetta-biscotto di ottimo livello, che per la fragranza fresca e pulita, l'equilibrio e la croccantezza seducente merita il podio della classifica. L'aspetto è quello della classica fetta biscottata verace, quadrangolare, spessa e tosta, di un espressivo colorito ambrato e dalla forma disomogenea: ogni pezzo è diverso dall'altro. I profumi e gli aromi sono di buona pasticceria, pervasivi, fini e puliti di burro, di panettone, di sentori dolci e tostati, senza forzature e incertezze. La dolcezza c'è ma non stucchevole, la consistenza giustamente croccante e friabile. Lascia in bocca ricordi di fresche e calde fragranze. Da gustare da solo o in compagnia di companatici dolci e vini da dessert. Si acquista on line, nei punti vendita aziendali sparsi in Liguria, e in alcuni negozi.

Prezzo: 250 g; 4-4,50 euro

Arimondo - Biscotto di Pontedassio | San Bartolomeo al Mare (IM) | via Ca’ de Calvi, 18 bis | tel. 0183 400903 | biscottodipontedassio.it

 

Corsini Biscotti  -Fette senza zucchero aggiunto e Briotost al miele

Corsini, una delle migliori industrie dolciarie italiane, ne propone di due tipi, confezionate in buste a sacchetto con l'immagine del prodotto in bell'evidenza: le Fette senza zucchero aggiunto e le Briotost al miele. Entrambe di buon livello, con qualche punto in più conquistato dalle prime: qui si entra nel magico mondo delle fette biscottate. L'aspetto è smagliante: le fette si presentano integre, rotonde e spesse, dalla bella faccia color oro acceso. Il profumo di burro che si sprigiona dalla busta appena aperta ritorna esplosivo e ruffiano in bocca e richiama le fette biscottate di una volta, tutt'altro che punitive, quando le contemporanee tendenze dietetiche erano lontane anni luce. Una sprintosa Lamborghini quanto aromaticità e grassezza, esageratamente burrosa rispetto alle fette concorrenti. Non ci sarà lo zucchero – come edulcorante è usato maltitolo ed estratto di malto, a fare compagnia a farina di frumento tipo 0 (da molini italiani), uova, burro, lievito madre, latte, sale e aromi naturali – ma la dolcezza c'è ed è ben equilibrata in questa biscottata caratteristica e old style, tosta ma friabile, dove tutte le percezioni, odore, sapore, aromi, persistenza, hanno toni medio-forti. Le Briotost al miele (farina di frumento tipo 0, zucchero, uova, burro, lievito madre, latte, miele, tuorlo d'uovo, sale, aromi naturali) sono le sorelle bronzé e vagamente âgédelle Fette Corsini, un po' più dolci e meno burrose, con note tostate e vintage, ma sempre intriganti, croccantissime sotto ai denti e abbastanza friabili.

Prezzo: 250 g; 3-3,20 euro

Corsini Biscotti - Fette senza zucchero aggiunto e Briotost al miele | Castel del Piano (GR) | via Cellane, 9 | tel. 0564 956787 | www.corsinibiscotti.com

 

{gallery}fette biscottate 2{/gallery}

 

Oscar qualità/prezzo

Biscotti Gentilini - Fette biscottate classiche, tostate e integrali

Gentilini, sinonimo di biscotti a Roma dal 1890, richiama alla memoria di una larga fetta di consumatori le colazioni e le merende dei bei tempi. Fette materne e comfort, grandi, quadrangolari e abbastanza spesse, integre e di colorito ambrato, proposte in tre varianti distinguibili dal colore della confezione: classiche (azzurro), tostate (verde) e integrali (rosso). Buone le classiche (farina di frumento, zucchero, burro, miele, destrosio, sale, latte in polvere, farina di frumento maltato, lievito e aromi non meglio identificati), con i tipici profumi di prodotto di forno cotto e tostato, di burro e pasticceria, molto spinti e quasi forzati, spiccata dolcezza, carnosa croccantezza e seducente friabilità. Un irresistibile tuffo nel passato! Un gradino sotto le fette tostate (stessi ingredienti ma con estratto di malto di frumento, di orzo e mais in polvere al posto dello zucchero, aggiunta di uova fresche e senza aromi), dove spiccano sentori vintage e un intrigante sapore dolce-sapido. In quelle integrali (con olio di girasole al posto del burro, 37% di farina di frumento integrale accanto a quella bianca, uova fresche, miele, destrosio ed estratto di malto in sostituzione dello zucchero, poi lievito, sale, latte in polvere, farina di frumento maltato), punteggiate da una diffusa occhiatura, i profumi delicati ma complessi e leggermente agé, gli aromi maltati e mielosi, la dolcezza controllata, la sensazione al palato di crusca e la consistenza molto friabile sottolineano il senso di integralità.

Prezzo: classiche 185 g; 1,60-2 euro. Tostate 175 g;1,60-2 euro. Integrali 175 g;1,70-2,20 euro

Biscotti Gentilini - Fette biscottate classiche, tostate e integrali | Roma | via Tiburtina, 1302 | tel. 06 4123571 | www.biscottigentilini.it

 

Grondona - Lagaccio Antica Genova

Quella di Grondona è una storia che nasce a inizio '800 come mulino e pastificio prima di entrare con tutti e due i piedi nei dolci tipici genovesi (una decina d'anni fa ha anche acquisito i marchi Duca d’Alba e Bonifanti). I biscotti del Lagaccio Antica Genova ricetta originale sono il suo prodotto di punta, delle fette biscottate prodottecon lievito madre, senza lievito di birra, oltre a farina di frumento, zucchero, burro, estratto di malto d'orzo e sale. Piccole, piuttosto rustiche, ben dorate e alveolate, emanano un odore di burro e pasticceria, più vaghi sentori vintage. In bocca tornano le sensazioni al naso e si uniscono a una dolcezza controllata (tra il biscotto e la fetta biscottata semplice) e a una consistenza sottile e di sensuale friabilità.

Prezzo: 250 g; 2,75/3,20 euro

Grondona - Lagaccio Antica Genova | Genova | via Campomorone, 48 | tel. 010 785901 - 010 7856518 | www.biscottificiogrondona.com

 

Biscottificio Antonio Mattei - Biscotti della Salute ricetta originale e integrali

Con i biscotti della salute di Mattei, storico e premiato biscottificio, fabbricante di cantucci e altre dolcezze dal 1858, torniamo nel fantastico mondo della pasticceria. Sono fette di pan brioche tostate, ovali e medio-piccole simili ai biscotti del Lagaccio, proposte sia nella ricetta originale (busta color ciclamino) sia integrali (busta verde chiaro; c'è anche una terza variante senza zucchero, con incarto azzurro). Ingredienti:farina di grano tenero, burro, uova, zucchero, lievito fresco per panificazione, sale marino, più un 28% di farina integrale di grano tenero nella versione scura. Entrambe le tipologie sono belle, smaglianti e invitanti, di aspetto irregolare e integro, piuttosto spesse e di un bel colore ambrato che in quelle integrali diventa oro antico scuro. Eccellenti, da podio, i biscotti ricetta originale, golosi e burrosi, da zuppa di latte e consumo compulsivo, ma equilibrati e fragranti, frutto di una ricetta bilanciata e ben collaudata; appena un po' chiusi al naso, in bocca si aprono in un ventaglio di sensazioni dolci e pulite, arricchite da una croccantezza spessa ma friabile e da una bella persistenza. Un gradino sotto i biscotti integrali: note olfattive e aromatiche esuberanti ma un po' vintage, note burrose importanti e un finale appena amaro, di contro una consistenza molto piacevole, una struttura di corposa croccantezza, con i cristalli di crusca che solleticano il palato.

Prezzo: 200 g; 4,50-4,70 euro

Biscottificio Antonio Mattei - Biscotti della Salute ricetta originale e integrali | Prato | via Ricasoli, 20 | tel. 0574 25756 | www.antoniomattei.it

 

 

a cura di Mara Nocilla

foto di Francesco Vignali

 

Per leggere Fette biscottate: ecco le migliori clicca qui 

Carnevale d'autore. I cassateddi ra cummari della Pasticceria Corsino

$
0
0

Sono tante le specialità che si preparano a Carnevale. Ci affacciamo a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, per raccontare la storia delle cassateddi ra cummari, un dolce goloso inventato dalla Pasticceria Corsino ed entrato a far parte delle usanze locali. Con la ricetta originale.

Le suore e l’arte della pasticceria

La storia della pasticceria siciliana si intreccia spesso a quella dei conventi di suore sparsi sul territorio. Nel Medioevo, oltre alle classiche mansioni come prendersi cura dell’orto, le suore si dedicavano spesso all’arte dolciaria, preparando le loro specialità nei monasteri e vendendole nei mercati rionali, fino ad ottenere quasi il monopolio di questi prodotti in Sicilia. L’esempio più famoso in questo senso sono ifacciuni di Santa Chiara, citati anche da Verga nella novella La vocazione di Sant’Agnese: si tratta di piccoli dolcetti semisferici fatti con la pasta di mandorle, creati dalle suore dell’omonimo monastero nella zona di Siracusa.

La storia della cassateddi ra cummari della Pasticceria Corsino, Due Torte nell’edizione 2017 della guida Pasticceri&Pasticcerie, segue proprio questa via, diventando un dolce simbolo del Carnevale a Palazzolo Acreide. Ve la raccontiamo, con la ricetta originale.

 

La pasticceria Corsino al centro del Carnevale

Anche a Palazzolo Acreide, splendida cittadina barocca dalle antiche tradizioni in provincia di Siracusa, l’apporto delle suore è stato fondamentale per la produzione delle specialità locali. Parte proprio da qui la storia della Pasticceria Corsino che, in oltre 150 anni di attività, è diventata un punto di riferimento per l’arte dolciaria siciliana. “Tutto inizia da Suor Chiara”, racconta Vincenzo Monaco, giovane pasticcere e quinto della sua famiglia a prendere in mano l’attività, “la zia del nostro trisavolo, Salvatore Corsino, che si dilettava a preparare i dolci nel laboratorio di famiglia”. È proprio lei che crea intorno al 1890, le cassateddi ra cummari, oggi diventato un dolce tradizionale di Palazzolo Acreide. “Sono dolci fritti, come tutti quelli di Carnevale, e questo per un semplice motivo: da noi il maiale si ammazzava fra fine gennaio e inizio febbraio e dunque il grasso non doveva andare sprecato”. Così i pasticceri si adoperavano nella creazione di specialità da friggere nello strutto.

Il nome del dolce, cassateddi ra cummari, prende spunto dalla giornata, detta “ra cummari” (della commare, in dialetto),“durante la quale le donne del paese si riunivano tutte insieme per cucinare i pasti comuni e i dolci che sarebbero stati consumati nel periodo di festa”. Era parte dei preparativi del Carnevale: i tre giovedì che precedono il Giovedì Grasso erano tutti dedicati alla preparazione di vari aspetti della festa: non solo pietanze da consumare durante i riti collettivi ma anche costumi e addobbi per il paese.

 

La condivisione dei dolci a Palazzolo Acreide

Le specialità dolciarie preparate per il Carnevale non erano destinate solo a famiglie altolocate, ma anche alla popolazione meno abbiente, che a Carnevale aveva la possibilità di liberarsi per un momento dalla propria condizione di indigenza. Per questo motivo dovevano essere “golosi e sostanziosi”, dovendo diventare “simboli di abbondanza e gioia di vivere”.

Un’altra tradizione importante per Palazzolo Acreide è la condivisione dei dolci. Durante la sfilata di Carnevale, i maestri della pasticceria locale sono soliti preparare cannoli ripieni di ricotta da distribuire in piazza. Ma era propria della pasticceria Corsino l’usanza di lanciare dai balconi, direttamente sulla folla festante, i morbidi torroncini locali a base di frutta secca. “Una tradizione abbandonata ormai da qualche anno” spiega Monaco, “che ricorda tempi di abbondanza e ottimismo e che oggi forse sarebbe anacronistica”.

 

 

La ricetta delle cassateddi ra cummari della pasticceria Corsino

 

Ingredienti:

Per la pasta

500 g di farina di grano duro

100 g di zucchero

100 g di strutto

300 g vino bianco

2 uova

succo di 1 limone

scorza di 1/2 arancia

1 pizzico di sale

 

Per il ripieno

500g di ricotta fresca

1 uovo

1 pizzico di cannella in polvere

 

Per guarnire

Zucchero semolato

cannella in polvere

 

Procedimento:

Impastare insieme la farina, le uova, lo zucchero, il pizzico di sale e lo strutto Aggiungere il succo del limone, la scorza della mezza arancia e amalgamare bene gli ingredienti. Fare legare l'impasto con il vino bianco aggiungendone 100 alla volta e continuando a manipolare la massa nel frattempo. Stendere l’impasto e punzecchiarlo con una forchetta. Nel frattempo mischiare la ricotta con l’uovo e la cannella, creando una crema soffice. Fare dei piccoli stantuffi di ricotta, chiudere a mezzaluna e coppare. Friggere i fagottini a 160 gradi e, ancora caldi, passarli nello zucchero semolato. Spolverarli con un velo di cannella e servire.

Pasticceria Corsino | Palazzolo Acreide (SR) | via Nazionale, 2 | tel 0931 875533 www.corsino.it

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

Per leggere Carnevale d'autore. Le frittelle di Iginio Massari clicca qui

Per leggere Carnevale d'autore. La Torta Coriandoli di Sal de Riso clicca qui

 

Il futuro di Peck. Nuovi punti vendita a Milano, sognando Londra e New York. La strategia di Leone Marzotto

$
0
0

Dopo il successo del bistrot Piccolo Peck, inaugurato lo scorso autunno, il 2017 della storica gastronomia meneghina si apre nel segno di progetti di espansione e diversificazione che fanno capo all’intraprendenza del giovane Leone Marzotto. Che ci racconta cosa bolle in pentola.

 

Peck secondo Leone Marzotto

Si è parlato di due, tre aperture in città. Niente a che vedere con una catena standardizzata: il blasone della casa, marchiato 1883, ne soffrirebbe. Piuttosto il desiderio di abbracciare la città e i milanesi con una rete di punti vendita strategici, che l'identità del marchio possano moltiplicarla senza fiaccarla, e anzi ribadendo a gran voce la milanesità di un progetto che si tramanda da oltre 100 anni. E certo è una strategia che mira all'attacco, o allo sviluppo, come direbbe Leone Marzotto guardando al futuro di Peck, gastronomia storica di via Spadari, che da un anno vede alla guida il rampollo della celebre dinastia tessile. Leone è giovane, ma le idee sono chiare: dal padre Pietro ha ereditato la passione per l'enogastronomia e il lifestyle made in Italy, gli studi alla Bocconi hanno plasmato la sua indole concreta. E può parlare di strategie, mercati potenziali, posizionamento del brand consapevole di avere tra le mani un “contenitore” prestigioso ramificato in tante linee di business diverse e complementari. La chiave del successo è saperle gestire tutte, secondo quanto richiede il caso.

{gallery}peck{/gallery}

Anche il negozio fondato nella seconda metà dell'Ottocento da un salumiere di Praga – fino al 2013, per oltre 40 anni, di proprietà della famiglia Stoppani - è andato incontro alla naturale evoluzione della gastronomia, la bottega di alimentari così come la conoscevamo un tempo che si reinventa per incontrare le esigenze della clientela moderna, e catturare l'attenzione di un pubblico più trasversale.

 

 

La gastronomia moderna. Ristorazione e bistrot

Il processo, in via Spadari - dove la ristorazione è oggi una voce importante e proficua del fatturato - è in atto da tempo, e Leone, in veste di ceo, ha contribuito a un'accelerazione evidente. Di numeri abbiamo già avuto modo di parlare in passato: 830 mq per la vendita, 400 per la somministrazione, 2400 di cucina e laboratori per la preparazione dei cibi, dai panettoni ai patè, dai formaggi ai salumi, ai piatti dei ristoranti. Con 120 dipendenti, di cui circa 30 in cucina sotto la guida di Matteo Vigotti, e una bella quota di fatturato, il 20%, che dipende dai ristoranti: Al Peck, il fine dining, l'Italian bar, separato rispetto al negozio, e l'ultimo arrivato, il Piccolo Peck, il bistrot nato lo scorso settembre nel cuore dell’attività storica. A qualche mese dall'esordio, il format già regala i risultati sperati: “La risposta è positiva, da un punto di vista economico e commerciale. Il bistrot attira molti clienti e soddisfa il nostro primo obiettivo, quello di avvicinare un pubblico diversificato. I giovani, per esempio, o gli stranieri con un altro approccio culturale al cibo. Come gli asiatici: per loro può essere ostico avvicinarsi al banco e scegliere, al bistrot li guidiamo all'assaggio”.

 

Nuove aperture in città?

Ecco perché, per tornare all'inizio, i prossimi locali milanesi - “per ora solo una prospettiva, non azzarderei scadenze concrete” - potrebbero recuperare proprio l'anima del Piccolo Peck, pur in spazi ridotti da riconfigurare in base al posizionamento geografico e all'articolazione dei locali, ma sempre, “nel rispetto del brand”. Insomma, una storia quella di Peck, che chiede di procedere con cautela: “Stiamo vagliando diversi locali, si tratterà di cogliere l'opportunità migliore, quando arriverà. Certo è che abbiamo intenzione di studiare nel dettaglio il progetto pilota, perché funzioni da modello per le aperture successive. Qualcosa che sia nelle nostre corde, perché sappiamo fare tante cose e dobbiamo dargli il giusto risalto”. Le zone in lizza? "Zone prestigiose, come si conviene al nostro brand. Penso a Gae Aulenti, City Life, Il Quadrilatero". E se da un lato Leone si preoccupa di preservare il legame con la città – “Ci teniamo a essere milanesi, Peck fa parte della storia della città e la nostra filosofia è rimasta invariata; per questo per ora non siamo interessati ad altre città italiane” – dall’altro i mercati esteri ingolosiscono una potenza da 20 milioni di fatturato ogni anno, che dell’opulenza e del lusso ha fatto il proprio biglietto da visita. “Siamo ancora una piccola attività di famiglia, per questo ci muoviamo agili, ma la strada internazionale deve essere intrapresa con strategie precise e diversificate”.

Peck, foto M BarroFoto di M.Barro

La strategia internazionale

Sì, perché ci sono le vetrine ambite per il posizionamento del brand e per motivi di business puro – “come New York e Londra, dove dovremmo puntare a realizzare dei flagship store che rappresentino il prestigio del marchio” - e città interessanti per motivi diversi, come gli Emirati Arabi, “che sono un mercato complesso, vantaggioso per la capacità di spesa della clientela, difficile per divergenze culturali che dobbiamo essere preparati ad affrontare”. Come? “Piccolo Peck, per esempio, è stato creato come modello di caffè gastronomico da esportare. A Milano coesiste con le altre realtà ristorative del gruppo, nel caso in cui dovessimo esportarlo a Dubai sommerebbe più anime, un’atmosfera informale dove assaggiare i nostri prodotti e i piatti della cucina italiana. In alcuni Paesi, negli Emirati Arabi, in Asia, credo meno nella vendita al dettaglio. Dobbiamo intuire quali sono gli ostacoli al consumo per avere successo”. E quindi spingersi oltre i prodotti “che si vendono da soli”, olio, aceto balsamico, prosciutto di Parma, Parmigiano Reggiano, per offrire un’esperienza guidata. Firmata Peck. Un marchio che a quanto pare è ancora in grado di “creare emozioni”. Anche dopo 134 anni.

 

Peck | Milano | via Spadari, 9 | www.peck.it

Viewing all 5335 articles
Browse latest View live